Manicomi criminali, si rischia di tornare al punto di partenza di Alessia Guerrieri Avvenire, 12 agosto 2016 Il rischio, adesso, è di proseguire a passo di gambero. Gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, infatti, dovevano essere sbarrati da tempo, tuttavia ora potrebbero non solo sopravvivere, ma tornare a riempirsi e ad essere utilizzati come prima. Cambiando solo di nome. La storia infinita dei manicomi criminali - dopo tre rinvii sulla chiusura definitiva - si allunga con un nuovo capitolo, quello di un emendamento al disegno di legge 2067 (su garanzie difensive, durata dei processi, finalità della pena) approvato la settimana scorsa in commissione Giustizia di Palazzo Madama che di fatto riapre l’intera stagione degli Opg, prevedendo l’invio nelle Rems (Residenze per le misure di sicurezza) di tutte quelle categorie di detenuti che in passato venivano trasferiti negli ospedali psichiatrici. In sostanza, cioè, si amplia la platea dei destinatari di questi luoghi di cura (non di detenzione), permettendo di accogliere non solo i soggetti con malattie mentali riscontrate al momento della commissione del reato, ma anche per esempio sopraggiunte durante la carcerazione o in osservazione psichiatrica. In "spregio" a tutti i faticosi passi avanti fatti finora, il nuovo provvedimento contraddice gli obiettivi che hanno spinto a operare sin dal 2011 per il superamento della vecchia logica manicomiale. Mettendo in discussione, di fatto, la tendenza di puntare su progetti individuali con misure non detentive, da attuare nelle Rems. A lanciare l’allarme è il Comitato nazionale StopOpg - il cartello di associazioni che si occupano di salute mentale in Italia - che con una lettera-appello si rivolgono al ministro della Giustizia Andrea Orlando, al sottosegretario alla Salute Vito De Filippo e al Commissario per il superamento Opg Franco Corleone per chiedere "un intervento deciso del governo" per porre rimedio. L’emendamento in questione "ripristina la vecchia normativa, disponendo il ricovero nelle Rems esattamente come se fossero i vecchi Opg", tuonano Stefano Cecconi, Giovanna Del Giudice, Patrizio Gonnella e Vito D’Anza. Invece di affrontare il problema della legittimità delle misure di sicurezza provvisorie decise dai Gip, e di quelle che rimangono non eseguite, "si ipotizza - proseguono - una violazione della legge 81, riproponendo le pratiche dei vecchi Opg. Un disastro cui bisogna porre riparo". Non solo perché si ritarda ulteriormente la chiusura degli Opg ancora aperti ma perché le Rems, "la cui funzione residuale si stravolge", diventano a tutti gli effetti nuovi manicomi criminali. Se il problema che l’emendamento vuol risolvere è quello di garantire le cure "troppo spesso ostacolate o negate" dalle drammatiche condizioni delle carceri, StopOpg ricorda che "il diritto alla salute dei detenuti non si risolve così". Occorre, al contrario, rafforzare "i programmi di tutela della salute mentale in carcere" e che il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria "istituisca senza colpevoli ritardi le sezioni di osservazione psichiatrica e le previste articolazioni psichiatriche". Ma l’autrice del testo, la vicepresidente del gruppo Misto al Senato Maria Mussini, si dice soddisfatta di aver sollevato il tema delle "difficoltà concrete nella piena realizzazione del superamento degli ospedali psichiatrici e la necessità di maggiori attenzione alla salute mentale". L’emendamento, si difende, "evita la destinazione automatica alle Rems di una parte soltanto dei soggetti bisognosi di cure psichiatriche", impegnando inoltre il governo "al potenziamento dell’assistenza psichiatrica ai detenuti" Lo psichiatra Mencacci: "Così si vanifica la riforma" di Alessia Guerrieri Avvenire, 12 agosto 2016 Qualche luce e molte ombre. Ancor più scure dopo "l’emendamento che rischia di annullare il grande sforzo fatto per chiudere gli ospedali psichiatrici giudiziari, perché ci rimanda indietro di anni in tema di terapia in carcere". È "un bilancio preoccupante" quello del presidente della Società italiana di psichiatria (Sip), Claudio Mencacci, a poco più di un anno dalla chiusura formale degli Opg. Perciò annuncia di schierarsi al fianco "di chi chiede una revisione di quel testo approvato in commissione". Che cosa non va nel percorso di superamento degli Opg? La legge 81/2014 rappresenta una conquista di civiltà per il nostro Paese, ma il passaggio alle Rems mostra una serie di criticità. Prima di tutto, la mancata modifica del codice di procedura penale sulle misure di sicurezza fa sì che i magistrati abbiano sostituito l’invio in opg - una struttura carceraria - con l’invio in Rems - una residenza invece sanitaria -, spesso senza che i periti nominati dal giudice abbiano effettivamente valutato adeguatamente le reali possibilità terapeutico-riabilitative di tale percorso per quel determinato caso. Così, non solo si saturano velocemente le Rems, ma aumentano in esse anche i pazienti psichiatrici che hanno commesso un crimine. Si stima, infatti, che almeno il 20% degli ospiti delle residenze sia autore di reato e che tale numero sia destinato a salire, trasformando di fatto quindi le strutture riabilitative in un contenitore indistinto di marginalità e delinquenza. E poi? L’ulteriore problema deriva dall’inclusione tra i soggetti con vizio di mente delle persone affette da disturbo di personalità. Anche se queste persone non possono venire adeguatamente trattate nei presidi sanitari, non è corretto tecnicamente farli convivere nelle strutture destinate ai pazienti con psicosi. Non differenziando adeguatamente, non solo non si cura bene, ma si rischia di far persino danni, visto che questi soggetti possono inficiare il percorso terapeutico degli altri ospiti presenti nelle strutture. Inoltre, loro possono utilizzare perfino strumentalmente la permanenza nelle residenze solo per evitare la detenzione in casa circondariale. Quali soluzioni suggerisce? Innanzitutto occorre migliorare l’utilizzo sanitario delle Rems, considerandole fase di un percorso di cura, condiviso con i servizi territoriali delle Asl già nella fase di cognizione della pena. Si potrebbe prevedere, ad esempio, che vengano nominati periti con un adeguato collegamento con il Sistema sanitario; oppure istituire dei servizi di Psichiatria forense presso i Dipartimenti di salute mentale delle Asl per interfacciarsi col sistema della giustizia. In più, va potenziata e differenziata l’offerta di cura e riabilitazione psichiatrica all’interno degli istituti di pena, prevedendo lì la permanenza dei soggetti che necessitano di un periodo di custodia e cura prima del percorso sanitario nelle Rems o sul territorio, con possibilità di ritorno in carcere in caso d’inosservanza delle regole da parte del paziente. O ancora, prevedere l’organizzazione di qualche residenza per le misure di sicurezza ad alta intensità terapeutico-riabilitativa per persone con elevato rischio di violenza che necessitano di programmi di trattamento specifici e di personale appositamente preparato. E al di là delle Rems? Non meno importante, sarebbe incrementare l’attività di monitoraggio dell’Osservatorio nazionale e di quelli regionali per verificare l’andamento dell’applicazione della riforma di chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari. Infine, vanno ristretti i criteri di non imputabilità per gli autori di reato affetti da patologia psichiatrica, attraverso una revisione del concetto di seminfermità mentale previsto dall’articolo 89 del codice penale e una ridefinizione del concetto di pericolosità sociale. Corleone: "A novembre gli Opg saranno chiusi e le Rems tutte pronte" di Alessia Guerrieri Avvenire, 12 agosto 2016 Fra tre mesi "chiuderanno gli ultimi due opg ancora aperti", Barcellona Pozzo di Gotto e Montelupo fiorentino, e "con l’inaugurazione delle ultime cinque Rems", in Calabria, Sicilia, Toscana, Liguria e Piemonte, verrà completato il quadro di regionalizzazione previsto dalla riforma. Insomma, "ce la possiamo fare". Ma non finiranno certo i problemi, come quello delle "liste d’attesa-dovuto anche alle persone sottoposte a misure di detenzione provvisoria inviate nelle Rems - il nodo della territorialità, delle donne e dei senza fissa dimora, come pure quello della disomogeneità dei regolamenti nelle nuove strutture". Ecco perché "un emendamento improvvisato" come quello appena approvato in commissione in Senato, è il parare del Commissario per il superamento degli Opg Franco Corleone, "non aiuta a risolvere i già tanti nodi. Anzi, rischia di riproporre dei mini manicomi". Ed è dunque "sbagliato", poiché nel tentativo di non far vivere dei malati in carcere, "non fa i conti con la realtà. La questione della salute mentale tra i detenuti, difatti, va affrontata alla radice - prosegue nel ragionamento - non con misure affrettate e, soprattutto, senza scorciatoie". Non si può difatti far convivere nella stessa struttura chi è stato prosciolto per incapacità di intendere e volere e chi è sta to condannato, finendo in carcere dove è sopraggiunta una patologia mentale. Altrimenti, aggiunge Corleone, "un posto che dovrebbe essere soluzione residuale e soprattutto di cura, diventa di nuovo luogo di detenzione per scontare una pena". Invece, è la proposta del commissario, "si deve fare in modo di arrivare ad una legge stralcio sulla natura delle Rems anche per superare la contraddizione in tema di misure di sicurezza". Per questo, "un’audizione in Parlamento del commissario non sarebbe una cattiva idea - ironizza - anche alla luce dell’emendamento appena approvato". Un "errore fatto in buonafede, sicuramente", che si spera adesso venga "corretto a settembre in Aula a Palazzo Madama o nel successivo passaggio a Montecitorio". Fresco di riconferma da parte del Consiglio dei ministri come commissario per la chiusura degli Opg (la notizia è di mercoledì), Corleone perciò traccia il bilancio di quanto fatto e il cronoprogramma per i prossimi mesi. Al 31 luglio, nelle Rems "sono presenti 597 persone, tra cui 65 donne, compreso Castiglione delle Stiviere in cui vivono 202 persone di cui 34 donne". Nell’ultimo anno sono entrate 491 persone e ne sono state dimesse 133, dimostrando che "il sistema funziona e che le Rems sono luoghi terapeutici da cui si può uscire". Nei due Opg ancora operativi, invece, restano 38 internati e le misure di sicurezza non eseguite (le liste d’attesa, insomma) sempre al mese scorso sono 203, in lieve ma costante aumento rispetto alle 116 persone dei primi di marzo, Un fenomeno su cui il ministero della Giustizia deve intervenire, dice, "perché insostenibile, magari attingendo dalla proposte fatte durante gli ultimi Stati Generali. "Con l’apertura delle nuove strutture entro novembre - continua Corleone - si risolvono le urgenze", anche se rimangono "problemi aperti". Il primo è appunto la territorialità, che con l’avvio delle Rems in Liguria e Piemonte (dove confluiranno 35 ex internati), permetterà a Castiglione, in cui resteranno solo pazienti lombardi, di "iniziare un ragionamento sulla struttura, in cui molto è rimasto simile all’Opg". L’altro sarà limitare le misure di sicurezza provvisoria nelle Rems; "un numero che oscilla dallo zero in Friuli, ai 10 della Lombardia alla ventina in Calabria ai 55 in Sicilia", magari definendo "come debba funzionare il rapporto tra gip e strutture psichiatriche territoriali. Non ci si può pulire la coscien za, insomma, mandando a prescindere le persone nelle Rems". Altro fronte, oltre alla gestione ad hoc delle donne, è la questione "dei senza fissa dimora - dice il commissario - ad oggi sono in totale 52, di cui 42 stranieri". Non da ultimo va affrontata "l’armonizzazione dei regolamenti nelle Rems e dei diritti fondamentali garantiti agli ospiti", visto che ad esempio si passa da camere quadruple alle singole, "la soluzione prevista dalla legge. Credo che - conclude Corleone, pronto a chiedere la creazione di un organismo di coordinamento stabile sulla salute mentale - non si debba mai andare oltre le doppie, pure a discapito della capienza". Furti, omicidi, rapine: il passo indietro della criminalità di Alberto Custodero La Repubblica, 12 agosto 2016 Il Viminale: numeri in calo nei primi sei mesi dell’anno. I sindacati: ma con i tagli scende anche il contrasto. Calano i delitti in Italia: diminuiscono gli omicidi, le rapine (con l’eccezione di quelle negli uffici postali), le violenze sessuali, le estorsioni, le truffe. Diminuiscono anche i furti in abitazione e di autovetture. A pochi giorni da Ferragosto, giorno tradizionalmente dedicato dal ministro dell’Interno alla sicurezza nazionale, Repubblica anticipa i dati del Viminale (aggiornati alla fine di giugno) sulla situazione della criminalità del Paese. A sorpresa, le statistiche fotografano una diminuzione generalizzata del numero dei reati. Confrontando i dati dei primi sei mesi di quest’anno rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, il totale dei delitti commessi passa da un milione e 347mila, a un milione e 129mila (-16,2%). Nel dettaglio, gli omicidi volontari, che erano 249 nel primo semestre del 2015, scendono a 196 (-21,3%), le violenze sessuali, 1982 nei primi sei mesi dell’anno precedente, calano a 1579 ( - 20,3%). Anche le rapine in abitazione sono in discesa: da 1563 a 1200 (-23,2%), così come le rapine "in pubblica via", passate da 9291 a 8353 (-10,1%). In calo anche le estorsioni, 4401 nel 2016 contro le 4937 di un anno prima (-10,9%), l’usura (167 contro 212, - 21,2%), i furti (636mila contro 730mila, - 12,9%). I furti in abitazione, in particolare, scendono da 109mila a 90mila (-15,1%), i furti di autovetture da 59mila a 56mila (-6,1%), i furti di rame da 8500 a 4500 ( - 46,3%). Calano anche i reati di ricettazione, da 11600 a 9200 (-20,8%), truffe e frodi informatiche, da 70700 a 61600 (-12,8%), poi gli incendi, il contrabbando, lo sfruttamento della prostituzione e la pornografia minorile. Tra i pochi dati in controtendenza, le rapine in uffici postali (+6,4%), e i reati per stupefacenti (+4,6%). Da sottolineare però che anche per quanto riguarda l’attività di contrasto al crimine da parte delle forze dell’ordine, si registra un generale calo. Meno 15% nei primi sei mesi del 2016 il totale dei "delitti scoperti" rispetto all’anno precedente: 268mila contro 315mila. E diminuisce anche il numero delle persone arrestate o denunciate, da 501mila a 420mila (-15,4%). In controtendenza rispetto al dato nazionale aumentano gli omicidi a Napoli: da 33 a 38 (+15,2%) nel primo semestre. Roma, invece, conferma il trend in calo dei furti, scesi da 86mila a 68mila. E Milano conferma il calo degli omicidi, passati da 17 a 9. Secondo il sociologo Marzio Barbagli, che da anni studia il fenomeno della percezione della sicurezza in Italia, non c’è da cantar vittoria. "Se vogliamo capire qualcosa - spiega il docente - dobbiamo guardare non a 3 anni, ma a un trend piu lungo. Purtroppo bisogna constatare che continuano ad aumentare i reati "predatori" e anche le rapine in abitazione da quando è iniziata la crisi economica del 2007". "Sono stranieri più della metà dei denunciati per furti in appartamento - aggiunge Barbagli - il 65% dei denunciati per borseggio, il 50% dei denunciati per rapine in abitazioni, il 50% dei denunciati per rapine in pubblica via". Stando ai dati del Viminale, cala anche il contrasto al crimine, fatto, questo, che i sindacati dei Funzionari di Polizia imputano al taglio delle risorse da parte degli ultimi governi, e alla cronica carenza di personale. "Il calo del contrasto al crimine - denuncia Enzo Letizia, leader dell’Anfp, l’organizzazione sindacale che rappresenta la classe dirigente della Polizia - è dovuto alla riduzione degli organi delle forze di polizia. Si è iniziato con il blocco del turn over al 20% nel 2008 e dal 2014 al 55%. Siamo diminuiti in tutte le forze di polizia di oltre 40mila unità. Ciò ha determinato un innalzamento dell’età media dei poliziotti che raggiunge oramai i 44 anni". Il Viminale, intanto, per un presunto errore contabile, proprio in questi giorni sta valutando se chiedere ai dirigenti delle 4 forze di polizia la restituzione di somme, dal 2015 a oggi, da un minimo di 3 a un massimo di 8 mila euro. "Nel momento in cui ci viene richiesto un impegno straordinario per fronteggiare l’emergenza del terrorismo internazionale e dell’immigrazione clandestina - protesta la segretaria dei Funzionari (Anfp), Lorena La Spina - la motivazione nello svolgimento del lavoro quotidiano verrebbe contaminata da un virale malessere". Terrorismo. Il Capo della Polizia Gabrielli "nessuna necessità di un carcere speciale" Askanews, 12 agosto 2016 "Numeri che escludono particolari concentrazioni". Non è c’è nessuna ipotesi né necessità di creare un carcere speciale per i terroristi in Italia. Lo ha affermato il capo della polizia, Franco Gabrielli, intervistato a "La Versiliana". "I numeri non sono tali da rappresentare chissà quali concentrazioni", ha risposto Gabrielli. "Le cose vanno seguite e monitorate come stiamo facendo, e lo si sta facendo da tempo". Parlando delle carceri come luogo della "marginalità", Gabrielli ha detto che sono da seguire e da monitorare, lo stiamo facendo, c’è un ottimo scambio di informazioni con la polizia penitenziaria. Le persone che arrivano in carcere possono essere attratti dalla radicalizzazione, ma intra moenia è anche la situazione più semplice da monitorare". Terrorismo. Pugno duro sui fiancheggiatori, rischiano il carcere fino a 15 anni di Antonio Ciccia Messina Italia Oggi, 12 agosto 2016 Tagliare i viveri al terrorismo internazionale. La legge 153/2016, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 185 del 9 agosto 2016 (vigente dal 24 agosto 2016), mentre ratifica alcune convenzioni internazionali, si propone di fare terra bruciata attorno alle organizzazioni del terrore, prosciugando le fonti di finanziamento. L’operazione di cutting off riguarda qualunque disponibilità economica rientri nella pianificazione di atti destabilizzanti e di intimidazione della popolazione. La presa di posizione normativa segna uno stacco rispetto al tradizionale contrasto del riciclaggio di denaro. Ciò nasce dalla constatazione che il terrorismo si finanzia anche attraverso attività lecite. In questo quadro si inseriscono i nuovi reati relativi al terrorismo internazionale. Il legislatore italiano usa la leva del codice penale e introduce alcuni nuovi reati, la cui condotta consiste nel finanziamento di condotte con finalità di terrorismo, nella sottrazione di beni o denaro sottoposti a sequestro e negli atti di terrorismo nucleare. Nel dettaglio la legge 153/2016 inserisce nel codice penale due delitti relativi a condotte di fi ancheggiamento o sostegno del terrorismo internazionale. Il primo (articolo 270-quinquies.1, codice penale) punisce con la reclusione da 7 a 15 anni chiunque raccoglie, eroga o mette a disposizione beni o denaro, in qualunque modo realizzati, destinati, in tutto o in parte, al compimento di atti con finalità terroristica. Il reato di finanziamento di condotte con finalità di terrorismo si consuma indipendentemente dall’effettivo utilizzo dei fondi per la commissione di atti terroristici. È punito, poi, sempre nel medesimo articolo 270-quinquies.1, con la reclusione da cinque a dieci anni, anche chiunque deposita o custodisce i beni o il denaro per scopi di terrorismo. Le ipotesi descritte si caratterizzano per il fatto di incriminare condotte pericolose preparatorie e di organizzazione di reati. Peraltro non siamo sul piano della mera ideazione di reati, ma di condotte effettive prodromiche alla commissione di gravi attentati. Su questa stessa linea si colloca l’altro nuovo delitto di sottrazione di beni o denaro sottoposti a sequestro (articolo 270-quinquies. 2, codice penale), che punisce con la reclusione da 2 a 6 anni e con la multa da 3 mila a 15 mila euro, chiunque sottrae, distrugge, disperde, sopprime o deteriora beni o denaro sottoposti a sequestro per prevenire il finanziamento del terrorismo internazionale. Il taglio dei fondi si completa con la confisca obbligatoria, anche per equivalente, di denaro o beni collegati a reti di terrorismo (nuovo articolo 270-septies del codice penale), che scatta sempre in caso di patteggiamento o di condanna per i gravi reati commessi da terroristi. La legge si occupa anche della cooperazione internazionale tra le autorità impegnate contro le organizzazioni e i fenomeni terroristici. Viene, a tale proposito, individuato nel Ministero della giustizia il punto di contatto ai fi ni della Convenzione di New York per la soppressione di atti di terrorismo del 2005 e designa l’Uif, Unità di informazione finanziaria sul riciclaggio, come autorità di intelligence finanziaria in base alla Convenzione del Consiglio d’Europa sul riciclaggio (Varsavia,2005). L’autorità centrale prevista dalla medesima convenzione è individuata invece nel Ministero dell’economia e delle finanze. La legge individua nel Dipartimento della pubblica sicurezza del Ministero dell’interno il punto di contatto previsto dal Protocollo addizionale alla Convenzione del Consiglio d’Europa. Rilievo autonomo ha, poi, il nuovo reato di atti di terrorismo nucleare (articolo 280-ter del codice penale). Viene punito con la reclusione non inferiore a 15 anni, chiunque con finalità di terrorismo procura materia radioattiva o crea un ordigno nucleare o ne viene altrimenti in possesso. Viene, poi, punito con la reclusione non inferiore a 20 anni chiunque, sempre per finalità di terrorismo, utilizza materia radioattiva o un ordigno nucleare o utilizza o danneggia un impianto nucleare, così da rilasciare o con il concreto pericolo che rilasci materia radioattiva. Terrorismo, aumentato livello di allerta dei porti di Alberto Custodero La Repubblica, 12 agosto 2016 La decisione presa dalla Guardia Costiera. Intensificati i controlli effettuati su persone e veicoli che si imbarcano. Nei giorni scorsi l’allarme dell’intelligence e il piano sicurezza del Viminale. Ad Ancona sarà utilizzata una app per avvisare i passeggeri dell’aumento dell’emergenza. Crociere sorvegliate speciali. Innalzata l’allerta terrorismo nei porti italiani destinati al traffico crocieristico e passeggeri. È l’effetto della nota con la quale il comandante generale della Guardia costiera, ammiraglio Vincenzo Melone, ha trasmesso a tutte le Capitanerie di porto l’ordine di elevare a 2 (su una scala di 3) il "livello di security". La disposizione si traduce immediatamente in un’ulteriore intensificazione dei controlli che già oggi vengono effettuati su persone e veicoli in fase di imbarco, secondo modalità che saranno definite in base ai piani di sicurezza già previsti nelle diverse realtà portuali. Le nuove disposizioni prevedono maggiori controlli ai varchi portuali, una percentuale più alta di veicoli e passeggeri controllati, un monitoraggio più accurato di tutte le aree degli scali. Ogni porto dovrà ora adeguare i propri piani di sicurezza, già adottati da tempo e diversi per ogni scalo, alle nuove disposizioni. Ancona usa una app per avvisare i passeggeri. Tra i primi a rispondere all’aumento di allerta, il porto di Ancora. Oltre al raddoppio delle guardie ai varchi di accesso all’imbarco per il controllo dei passeggeri e dei mezzi in partenza, l’Autorità portuale utilizzerà la app Welcome to Ancona come canale di informazione ai passeggeri con messaggistica dedicata per avvisare dell’aumentato livello di controllo. L’allarme dei servizi. L’intelligence nelle settimane scorse aveva avvisato che in agosto sarebbe aumentato il rischio di attentati in Italia. E puntuale è scattato, ai primi del mese, il piano Sicurezza del Viminale che già dai tempi di Charlie Hebdo aveva elevato l’emergenza al secondo livello, quello immediatamente precedente un attacco in corso. I punti principali disposti dal ministero dell’Interno - annunciati alcuni giorni fa da Repubblica - prevedevano il rafforzamento delle misure di controllo sui traghetti, nei porti e nelle aree degli aeroporti, affollatissime in agosto di turisti di tutto il mondo. Dando seguito a queste indicazioni del "piano" del ministero dell’Interno, la Guardia Costiera ha deciso di alzare il livello di security. L’aumento del rischio. In molti sostengono che la possibilità che il nostro Paese sia preso di mira dall’Is potrebbe crescere ora come possibile ritorsione alla decisione del Governo di mettere a disposizione le basi militari italiane agli americani impegnati nei raid aerei anti Daesh in Libia, nella provincia di Sirte. E all’invio annunciato nei giorni scorsi al Copasir di una cinquantina di militari delle forze speciali dell’esercito (ingaggiati con le regole degli 007), e degli addestratori allo sminamento richiesti dal premier al Sarraj. I soft target. A preoccupare i servizi segreti non sono tanto i cosiddetti "obiettivi sensibili" già noti, ma quelli che vengono chiamati soft target. E d’altronde risulta impossibile presidiare tutti gli eventi culturali, i punti di ritrovo, le chiese, le sinagoghe, porti e aeroporti periferici. Impossibile impedire, osservano ancora gli 007, l’effetto emulazione da parte di persone fragili di mente suggestionate dalle notizie degli attentati jihadisti rilanciate in modo martellante sui media e attraverso i social network. La sicurezza aeroportuale. Negli aeroporti sono state potenziate le difese tecnologiche, con l’installazione di telecamere agli infrarossi per proteggere le recinzioni. E il potenziamento del sistema di video sorveglianza: a Fiumicino sono in funzione 2.100 telecamere, a Malpensa 2.400. È stato potenziato l’utilizzo dei varchi automatici ( e-gates), degli speciali microscopi per individuare passaporti falsi. Le unità di pronto intervento antiterrorismo aeroportuali, infine, hanno ricevuto in dotazione nuovi armamenti come la Ump Heckler Koch, una pistola mitragliatrice universale. Il senatore Caridi al Tribunale del Riesame di Roberto Galullo Il Sole 24 Ore, 12 agosto 2016 Caponera. Gran parte della difesa in Senato di Antonio Stefano Caridi - detenuto nel carcere di Rebibbia dopo il via libera all’arresto con l’accusa di associazione mafiosa nell’ambito dell’indagine della Dda di Reggio Calabria Mammasantissima - ha fatto perno su questo cognome, Caponera. Lui, il senatore Caridi, tra i 2006 e il 2007 quel Caponera non lo aveva mai incontrato perché, in quel periodo, era detenuto. La difesa di Caridi in Senato è stata netta: "Il pentito Aiello, tanto poco credibile che indica in un tal Caponera colui che avrebbe gestito per conto dei mafiosi De Stefano i rapporti in relazione alla società Fata Morgana, e addirittura avrebbe partecipato a un mio supposto incontro con costoro, solo che nel periodo in cui questo sarebbe avvenuto il Caponera era detenuto, essendo stato arrestato nel 2005 e rimasto in stato di privazione della libertà fino al 2009, come inequivocabilmente testimoniato dalle sentenze che lo riguardano, che solo nelle ultime ore la mia difesa è riuscita a reperire. Quindi, Aiello è smentito clamorosamente sull’unica circostanza specifica che un collaboratore riferisce sul mio conto. Non solo non ho incontrato Caponera, ma non lo potevo incontrare perché proprio negli anni indicati dal collaboratore il Caponera era detenuto". Caridi fa riferimento a Paolo Caponera - detto "Paolone" per la sua imponenza fisica - che secondo quanto acclarato dai suoi legali si trovava in carcere nel periodo 2006-2007, quando avrebbe avuto luogo un incontro presso il ristorante Royal Garden tra quel Caponera, tal Andrea Giunco e lo stesso senatore Caridi. Quel cognome, oggi, di fronte al Tribunale del Riesame di Reggio Calabria, al quale il senatore del Gal ha fatto ricorso, rischia di aprire un nuovo delicatissimo fronte con la Procura. "Caponera", infatti, per la Procura, è anche Paolo Rosario De Stefano, nato Caponera, che nel 2002, su espressa volontà dello zio Orazio Maria Carmelo De Stefano, aveva assunto il cognome dell’onnipotente casato di ‘ndrangheta, essendo stato riconosciuto come figlio legittimo del defunto boss Giorgio De Stefano, assassinato in località Acqua del Gallo di Santo Stefano in Aspromonte nel novembre del 1997. Solo che il giovane rampollo fu arrestato nel Messinese dalla Squadra Mobile di Reggio il 19 agosto 2009 su ordine del pm Giuseppe Lombardo, lo stesso che ha condotto l’indagine Mammasantissima. E il bello - si fa per dire - è che Caponera/De Stefano era latitante dal 2005. Del Caponera/De Stefano avevano parlato alcuni pentiti. In particolare Giovambattista Fragapane, il quale disse che "Paolo (Rosario) è Orazio che cammina". Ad indicare che il rampollo era il braccio destro di Orazio De Stefano, il quale, durante la sua latitanza aveva scelto il nipote come suo referente esterno. Se c’era anche quel Caponera, il rampollo dell’onnipotente casato di ‘ndrangheta, a quell’incontro conviviale - dunque da latitante nel 2006 e 2007 - lo sapremo con gli sviluppi investigativi che la Procura di Reggio Calabria non mancherà di proporre anche di fronte al Tribunale del Riesame. Anche perché il Gip Domenico Santoro, nel raccogliere l’impostazione della Dda, nell’ordinanza di custodia cautelare scrive che Caridi "beneficiava di rapporti privilegiati con Francesco Chirico, referente politico della cosca De Stefano, ed altri esponenti della medesima articolazione territoriale identificati in Paolo Rosario De Stefano, Paolo Caponera (e così i due soggetti sono ben distinti, ndr), Andrea Giungo, Vincenzino Zappia, Guido Carmelo Cotugno e Paolo Lucio De Meo". E a proposito dell’incontro presso il ristorante di Reggio Calabria, scrive che quella fu l’unica circostanza in cui il collaboratore Aiello incontrò congiuntamente Caridi ed esponenti dei De Stefano "anche se gli interventi dei De Stefano finalizzati a risolvere le problematiche del Caridi avvenivano spesso "… che c’eravamo tutti, solo questa volta. Però che fossero intervenuti per Caridi o senza Caridi … spesso". E anche quel "…c’eravamo tutti solo quella volta…" infiammerà difesa e accusa. Un nuovo caso Shalabayeva? "Salvate il dissidente iraniano" di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 12 agosto 2016 In Italia c’è il rischio di ripetersi un caso simile a quello di Shalabayeva, la moglie del dissidente kazako rispedita dall’Italia nel suo Paese ben sapendo quali fossero le reali intenzioni del regime asiatico. Il 7 Agosto la questura di Lecco pubblica il seguente comunicato: "Nella nottata odierna, in Dorio, presso una struttura ricettiva della zona, personale della Questura cittadina procedeva all’arresto di Khosravi Mehdi, nato il 15.06.1979 a Darab (Iran), poiché colpito da provvedimento di cattura internazionale emesso dal Tribunale di Teheran (Iran) per il reato di corruzione ai fini dell’estradizione". È successo che il 6 agosto, Mehdi Khosravi - in arte Yashar Parsa, blogger iraniano e attivista dei diritti umani e per la democrazia - dopo essersi registrato in un albergo del Lago di Como, la reception ha inoltrato i suoi dati anagrafici alla questura di Lecco, seguendo la prassi prevista per via dell’allarme terrorismo. A quel punto, dal database dell’Interpol è emerso che Khosravi era un ricercato. Sulla sua testa, infatti, pendeva un mandato di cattura internazionale emesso nel 2009 dalla Repubblica islamica dell’Iran, Paese d’origine del blogger. Dopo un breve ricovero in ospedale a causa di un suo malore improvviso durante l’arresto, è stato rinchiuso nel carcere di Lecco. La situazione non è semplice. Il governo Renzi coltiva buone relazioni con l’Iran, soprattutto nel campo economico. Il rischio che si presti alla repressione del regime, pur di mantenere buone le relazioni, è concreto. L’attivista, se estradato, rischia di fatto la pena di morte in qualità di oppositore al regime. A denunciarlo è Reza Ciro Pahlavi, figlio dell’ex Scià di Persia, costretto ad abdicare dopo della rivoluzione khomeinista del 1979. Pahlavi si è rivolto direttamente al premier Renzi tramite una lettera: "Sua eccellenza, vorrei rivolgesse la sua attenzione a una urgente questione che riguarda il rifugiato e richiedente asilo, il Signor Mehdi Khosravi, che è stato arrestato dalle autorità italiane nella notte del 6 agosto 2016. Chiediamo con urgenza un intervento a favore del Signor Khosravi, egli è un attivista per la democrazia e la tutela dei diritti umani, nato in Iran, ma residente nel regno Unito in qualità di rifugiato politico, perché costretto ad abbandonare l’Iran dopo le dimostrazioni del 2009. Inoltre, il Signor Khosravi è stato negli ultimi tre anni Amministratore esecutivo del Consiglio nazionale iraniano per le libere elezioni". L’appello nasce dalla consapevolezza che molto probabilmente verrà estradato e in Iran sarà incarcerato, torturato e condannato a morte, in qualità di oppositore del regime. Sulla questione è intervenuta anche Amnesty International tramite una nota: "In attesa di approfondire ulteriormente il caso, - sottolinea Antonio Marchesi, presidente di Amnesty International Italia - chiediamo che l’Italia si astenga dall’attivare procedure, come ad esempio quella legata alla richiesta iraniana di estradare Mehdi Khosravi. Ciò soprattutto alla luce del fatto che la persona arrestata in Italia sarebbe un blogger e attivista per i diritti umani costretto a lasciare l’Iran nel 2009 e titolare dello status di rifugiato politico nel Regno Unito". Amnesty International Italia quindi sollecita le autorità italiane "a non compiere alcun atto che possa mettere a rischio i diritti umani fondamentali di Khosravi", inoltre sottolinea che "la gestione dei mandati Interpol da parte dell’Italia risulta da tempo problematica; nel 2015, grazie all’immediato intervento di Amnesty International e alla sensibilità dei giudici della Corte d’appello di Torino, si è riusciti a evitare che un noto difensore dei diritti umani algerino venisse estradato nel paese di origine, dove avrebbe rischiato la pena di morte". L’attuale gestione dell’Interpol, infatti, fa comodo al regime iraniano. A denunciare questa pratica fu il consorzio di giornalisti investigativi, spiegando che l’Iran abusa dell’Interpol per dare la caccia a oppositori politici: nel 2006 l’attivista Rasoul Mazrae, fuggito attraverso la Siria, fu riconsegnato a Teheran malgrado l’Onu lo riconoscesse come rifugiato; fu torturato e condannato a morte. L’attivista Mehdi Khosravi ora è in carcere ed è in attesa della decisione relativa all’estradizione. Quello che sappiamo è che era finito in carcere in Iran dopo i moti studenteschi del 2009 e che ha continuato all’estero, come rifugiato, la sua attività contro il regime. Formalmente l’accusa è di corruzione, ma secondo il suo stesso avvocato difensore sono accuse inventate, anche perché non ha mai ricoperto ruoli pubblici né è mai stato dipendente dello Stato. L’avvocato sostiene inoltre un ipotesi inquietante: accusa direttamente il governo italiano di voler ingraziarsi gli iraniani dopo l’accordo sul nucleare della scorsa estate. Si spera che questa grave accusa venga smentita nelle prossime ore con i fatti, ovvero nell’evitare che venga estradato nel suo paese di origine dove rischierebbe la pena di morte. Partita a scacchi con la Turchia per due colonnelli fuggiti in Italia di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 12 agosto 2016 Ufficialmente "si stanno facendo controlli". Ma, per ora, nessuno cerca i due colonnelli turchi in fuga dalla repressione post-golpe del governo Erdogan. E se chiederanno asilo al nostro Paese la loro richiesta "sarà valutata, esattamente come le altre". Più che un braccio di ferro diplomatico è una partita a scacchi quella che, da ieri, il governo italiano e quello di Ankara stanno conducendo sul destino di due colonnelli turchi: Ilhan Yasitli, dell’esercito, e Halis Tunc, della Marina. La Turchia ce li ha già chiesti. Ieri. "Per noi sono disertori. Hanno lasciato l’ambasciata in Grecia dopo il colpo di Stato e quando gli è stato chiesto di ripresentarsi non hanno obbedito. Noi abbiamo informazioni sul fatto che abbiano preso un traghetto e siano arrivati in Italia il 6 agosto. Non c’è alcuna accusa specifica formalizzata nei loro confronti ma sono sotto indagine per aver fatto parte della organizzazione criminale di Fethullah Gülen che ha organizzato il colpo di Stato nel nostro Paese", spiega al Corriere l’ambasciatore di Ankara a Roma, Aydin Adnan Sezgin, a margine di un’intervista a Radio Radicale. Lui stesso ha tenuto i "contatti" con la Farnesina, per tentare di riportarli in Turchia. Con quali prove? "Devono essere ancora esaminate, ma si tratta di due attachés dell’ambasciata, non di due militari qualsiasi. Tutte le procedure legali saranno comunque applicate", dice l’ambasciatore Sezgin, contestando l’accusa mossa dall’Unione europea alla Turchia di perseguirne un po’ troppi con il pretesto del sospetto di aver fatto parte del golpe. Proprio di ieri è la notizia di un nuovo ordine di arresto per 648 giudici accusati di aver avuto un ruolo nel golpe. "La rete di Fethullah Gülen era molto pervasiva", assicura il diplomatico. Per ora, però, per i due colonnelli in fuga non è arrivata all’Italia alcuna richiesta ufficiale. Né tantomeno una rogatoria. Ma, si precisa dalla Farnesina, solo una "nota vocale" che chiede che i "traditori" possano essere "riportati in Turchia". E noi? "Nessuna ricerca può essere attivata sulla base di una nota vocale" trapela dal ministero degli Esteri. E dal Viminale si fa sapere che "da alcune verifiche non è emerso nulla di certo". Una cosa è certa. Per ora non c’è alcuna richiesta d’asilo già presentata al Dipartimento Libertà civili e diritti umani. Ma se arrivasse? Prevarrebbe la ragione diplomatica o umanitaria? Dal Dipartimento spiegano che la commissione che concede l’asilo è un organo indipendente dal governo, che valuterà il caso dei due militari turchi, come quelli di qualsiasi altro richiedente asilo. Valutando entrambe le versioni e decidendo sulla base di ciò che hanno davvero commesso e i rischi che corrono tornando nel loro Paese. Non si nasconde che ampi spazi alla protezione del richiedente asilo scattano quando non c’è sufficiente rispetto dei diritti della persona. Primo fra tutti quello di avere le garanzie necessarie a far valutare correttamente la propria posizione giuridica. L’estensione del rito abbreviato vale per i giudizi in corso solo se già richiesta di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 12 agosto 2016 Corte di cassazione, Prima sezione penale, sentenza 28 luglio 2016, n. 33080. Rito abbreviato esteso solo se già chiesto. Gli effetti della decisione della Corte costituzionale n. 139 del 2015, che ha dichiarato l’illegittimità dell’articolo 517 del Codice di procedura penale, nella parte in cui non consentiva l’ammissione dell’imputato al giudizio abbreviato nei casi di contestazione di una circostanza aggravante, si producono nei processi in corso soltanto se l’imputato, dopo la modifica dell’imputazione, ha tempestivamente richiesto di accedere al rito alternativo. Lo chiarisce la Corte di cassazione con la sentenza n. 33080 della Prima sezione penale. La Corte, per arrivare a questa conclusione, distingue gli effetti di una sentenza della Consulta rispetto a una modifica legislativa nel settore della procedura penale. La pronuncia della Consulta ha una incisività maggiore ed è applicabile anche ai giudizi in corso perché, naturalmente in caso di illegittimità, l’intervento è indirizzato al riconoscimento di una contrarietà a principi costituzionali del precedente assetto normativo. La forza espansiva trova però un limite, sottolinea la Cassazione, nelle "situazioni esaurite", come, del resto, ha ricordato la stessa Corte costituzionale (per esempio nella sentenza n. 139 del 1984 nella quale si precisò che devono essere considerati esauriti anche i rapporti rispetto ai quali è decorso il termine di prescrizione o decadenza previsto dalla legge per l’esercizio dei relativi diritti). Il tema, così, è quello dell’identificazione di una situazione esaurita in campo processuale anche prima della formazione del giudicato. Nel caso approdato all’esame della Cassazione l’imputazione originaria era stata modificata in corso di dibattimento con la contestazione di un’aggravante. Cambiamento che, comunque, non aveva indotto la difesa a chiedere di accedere al rito abbreviato. La Corte d’appello messa di fronte alla formulazione espressa della richiesta di accesso al rito speciale in secondo grado, l’aveva respinta come inammissibile perché tardiva. Ora la Cassazione interviene per chiarire che la mancata proposizione dell’istanza di accesso al rito alternativo è stata determinante. La conseguenza è infatti l’acquiescenza della parte alla prosecuzione del giudizio nella forma del dibattimento, "con decadenza della facoltà di critica e correlato "esaurimento" dei profili di ammissibilità dei riti alternativi previsti dal sistema processuale". In questa situazione, di fatto, si produce un’integrazione del quadro normativo, anche se conseguenza di un verdetto della Corte costituzionale, che non è diversa nei suoi effetti da quanto si sarebbe verificato con una modifica di natura legislativa. Scatta, infatti, il paletto della "situazione esaurita". Diverso sarebbe, invece, stato il caso di una richiesta di rito abbreviato tempestivamente formulata in presenza di modifica dell’imputazione, ma negata dall’autorità giudiziaria. La forza del giudizio di incostituzionalità, sommata alla contrarietà alla Costituzione del diniego e alla natura del giudizio abbreviato, avrebbe permesso il riequilibrio almeno della pena già inflitta. Violenza sessuale per costrizione: non c’è concorso con l’induzione di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 12 agosto 2016 Corte di cassazione, Terza sezione penale, sentenza 28 luglio 2016, n. 33049. Non c’è concorso di reati tra violenza sessuale per costrizione e induzione indebita. Lo sottolinea la Corte di cassazione con la sentenza n. 33049 della Terza sezione penale. La pronuncia ha così parzialmente accolto il ricorso della difesa di un incaricato di pubblico servizio condannato per atti sessuali ai danni di 8 detenuti. La Corte ha ricordato che la Legge Severino, nel 2012, ha previsto una nuova figura di reato, l’induzione indebita, che sanziona il pubblico ufficiale o l’incaricato di servizio pubblico che, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, induce altri a dare o promettere a sè o anche a terzi utilità, che possono consistere anche in una prestazione sessuale. Il nuovo articolo 319 quater del Codice penale viene così a delinearsi come una fattispecie intermedia tra la concussione e la corruzione e, quanto a condotta, tra la sopraffazione e lo scambio corruttivo. Tuttavia il soggetto che dà o promette utilità perché indotto dal pubblico ufficiale, chiarisce la Corte, non subisce una costrizione ma, appunto, un’induzione, rilevante al punto da essere anch’esso punito. Una differenza, alla base dello "spacchettamento" normativo, di trattamento rispetto alla vera e propria concussione, la cui vittima subisce una vera e propria costrizione e che infatti non viene in alcun modo sanzionato. La Corte d’appello non aveva invece tenuto conto di questo quadro normativo e aveva condannato sia per violenza sessuale con abuso di autorità sia per induzione indebita. Per la Cassazione invece va messa in evidenza l’incompatibilità tra i due reati, visto che l’induzione porta con sè un grado assai minore di coartazione, lasciando invece lo spazio per la volontà della persona offesa. Che, nel caso esaminato, avrebbe potuto sottrarsi alle pressioni, quando invece, contestando l’induzione, la conseguenza è un grado di volontà di compiere, sia pure sotto gli effetti dell’abuso di autorità, gli atti sessuali accertati. Viceversa, più correttamente, un concorso (al di là delle vicende che hanno portato prima a escludere e poi a fare rientrare nella fattispecie anche l’incaricato di pubblico servizio) si sarebbe potuto configurare tra la concussione, che non lascia margini di volontà, e la violenza sessuale per costrizione. Irregolarità con il Fisco, la denuncia anonima avvia l’indagine di Laura Ambrosi e Antonio Iorio Il Sole 24 Ore, 12 agosto 2016 La denuncia anonima legittima l’avvio delle indagini, ma non può essere posta a fondamento di perquisizioni, sequestri e intercettazioni, né può rappresentare i gravi indizi di evasioneche consentono all’amministrazione finanziaria di richiedere all’autorità giudiziaria l’accesso al domicilio fiscale del contribuente, per sottoporlo a verifica fiscale. È questo l’orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità, confermato anche recentemente, in sede penale, con la sentenza 34450, depositata il 4 agosto. Non di rado gli organi investigativi e la stessa magistratura ricevono segnalazioni anonime su presunte irregolarità, sia di tipo penale, sia tributario. Talvolta tali esposti, soprattutto se abbastanza circostanziati, sono posti a base di successive attività di controllo. In materia penale, a norma dell’articolo 333 del Codice di procedura penale, non può essere fatto alcun uso delle denunce anonime. Non costituiscono una notizia di reato e, differentemente dalle altre notizie di reato, sono iscritte in uno specifico modello della Procura della Repubblica (cosiddetto modello 46). La Suprema Corte in più occasioni ha rilevato che la verifica della fondatezza della denuncia anonima finalizzata alla ricerca della notizia di reato può essere svolta dalla Pg o dal Pm, mediante atti non invasivi. La recente sentenza 34450/2016 prende spunto da una denuncia anonima nei confronti di un soggetto accusato di aver pubblicato diffamazioni sui social network. Tale denuncia aveva dato il via a una serie di indagini, in conseguenza delle quali il Pm aveva disposto la perquisizione ed il sequestro probatorio di un cellulare, una pen drive e due hard disk. L’indagato proponeva appello al Tribunale del riesame, il quale tuttavia confermava la legittimità del provvedimento, sul presupposto che una denuncia anonima è volta a stimolare l’attività di indagine. La Suprema Corte ha poi confermato la legittimità dei provvedimenti, fornendo interessanti chiarimenti. Innanzitutto una "denuncia anonima" non può essere posta a fondamento di atti tipici di indagine e quindi non consente di procedere a perquisizioni, sequestri e intercettazioni telefoniche. Si tratta, infatti, di atti che implicano e presuppongono l’esistenza di indizi della commissione di un reato. Gli elementi contenuti in queste denunce possono stimolare l’attività del Pm e della Pg, al fine di assumere dati conoscitivi diretti a verificare se dall’anonimo possano ricavarsi estremi utili per individuare un delitto. Il decreto di sequestro probatorio era stato emesso all’esito di una perquisizione disposta dopo indagini effettuate dalla polizia giudiziaria, su delega del Pm. Tali indagini, sebbene fossero state avviate su impulso della predetta denuncia anonima, erano state sviluppate sull’analisi di numerosi altri fatti (post diffamatori), dai quali risultava legittimo il successivo sequestro probatorio. La decisione, sebbene riferita al reato di diffamazione, appare interessante anche in ambito tributario. Non di rado, infatti, giungono all’amministrazione finanziaria denunce di possibili evasioni fiscali commesse da terzi soggetti anche costituenti reato. Dopo una sommaria valutazione, i verificatori possono decidere di approfondire le indagini. La Corte ha avallato la validità di queste denunce, ma con la precisazione che non possono giustificare perquisizioni o sequestri ma, al più, stimolare l’avvio di riscontri. Si ricorda, poi, che gli elementi contenuti nella missiva non possono in alcun modo legittimare l’accesso domiciliare a fini fiscali per il reperimento di prove dell’evasione, in quanto essi non rappresentano i gravi indizi di violazioni previsti necessariamente dalla normativa perché si possa ottenere l’autorizzazione della Procura della Repubblica a questi fini. Applicabilità al convivente more uxorio della causa di non punibilità Il Sole 24 Ore, 12 agosto 2016 Reati contro l’amministrazione della giustizia - Casi di non punibilità - Esimente della necessità di salvare sé o un prossimo congiunto da un danno grave alla persona - Convivente more uxorio - Presupposti di applicabilità della scriminante. In tema di reati contro l’amministrazione della giustizia, l’esimente prevista dall’articolo 384 del codice penale, comma 1, non può essere invocata sulla base del mero timore, anche solo presunto o ipotetico, di un danno alla libertà o all’onore, implicando essa un rapporto di derivazione del fatto commesso dalla esigenza di tutela di detti beni che va rilevato sulla base di un criterio di immediata ed inderogabile consequenzialità e non di semplice supposizione. • Corte cassazione, sezione VI, sentenza 5 luglio 2016 n. 27604. Reati e pene - Causa di non punibilità dell’aver agito per la necessità di salvare sé o un prossimo congiunto da un grave e inevitabile nocumento nella libertà o nell’onore - Applicazione dell’esimente ai prossimi congiunti - Mancata estensione al convivente more uxorio - Discrimen tra convivenza more uxorio e vincolo coniugale - Orientamento ordinamento interno - Giurisprudenza della Corte Costituzionale - Impostazione della Corte Edu. La Corte costituzionale (Corte costituzionale, sentenza n. 140 del 2009), con riferimento all’istituto di cui all’articolo 384 del codice penale, comma 1, ha ribadito che la convivenza more uxorio è fenomeno diverso dal vincolo coniugale. Il secondo ha aggancio costituzionale nella specifica previsione di cui all’articolo 29 della Costituzionale, mentre il primo ha rilevanza nell’ambito della protezione dei diritti inviolabili dell’uomo ex articolo 2 della Costituzione. Tale diversità giustifica che la legge possa riservare ai due istituti trattamenti giuridici non omogenei. Si tratta di impostazioni, tuttavia, non sempre in perfetta linea con quanto ha affermato la giurisprudenza della Corte Edu. Ai rapporti di fatto si ritiene, invero, che l’articolo 8 della Convenzione Edu cit. assicuri tutela piena (sentenza 13 giugno 1979, Marckx contro Belgio, ove si annota che la nozione di famiglia accolta dalla citata disposizione non si basa necessariamente sul vincolo del matrimonio, ma anche su ulteriori legami di fatto particolarmente stretti e fondati su una stabile convivenza). Il principio è stato ribadito (sentenza 13 dicembre 2007, Emonet ed altri contro Svizzera) anche affermando che possano essere indici rivelatori della stabilità del nucleo la durata della convivenza e l’eventuale nascita di figli. • Corte cassazione, sezione I, sentenza 29 marzo 2016 n. 12742. Reati contro l’amministrazione della giustizia - Casi di non punibilità - Necessità di salvare sé o un prossimo congiunto da un danno grave alla persona - Convivente more uxorio - Applicabilità della scriminante - Sussistenza. La causa di non punibilità prevista dall’articolo 384, comma primo, del codice penale in favore del coniuge opera anche in favore del convivente more uxorio. • Corte cassazione, sezione II, sentenza 4 agosto 2015 n. 34147. Reati contro l’amministrazione della giustizia - Casi di non punibilità - Applicabilità della scriminante al convivente more uxorio - Esclusione. Non può essere applicata al convivente "more uxorio", resosi responsabile di favoreggiamento personale nei confronti dell’altro convivente, la causa di non punibilità operante per il coniuge, ai sensi del combinato disposto degli articoli 384, comma primo, e 307, comma quarto, del codice penale, i quali non includono nella nozione di prossimi congiunti il convivente "more uxorio". • Corte cassazione, sezione V, sentenza 22 novembre 2010 n. 41139. Reati contro l’amministrazione della giustizia - Casi di non punibilità - Convivente "more uxorio" - Applicabilità della causa di non punibilità - Esclusione. Al convivente "more uxorio", che abbia commesso il reato di favoreggiamento personale in favore del convivente, non si applica la causa di non punibilità di cui all’articolo 384, comma primo, del codice penale operante per il coniuge. • Corte cassazione, sezione II, sentenza 18 maggio 2009 n. 20827. Reati contro l’amministrazione della giustizia - Casi di non punibilità Convivente "more uxorio" - Applicabilità della scriminante - Esclusione - Prospettata questione di costituzionalità - Manifesta infondatezza. Non può essere applicata al convivente more uxorio resosi responsabile di favoreggiamento personale nei confronti dell’altro convivente la causa di non punibilità operante per il coniuge, ai sensi del combinato disposto degli articoli 384, primo comma, e 307, ultimo comma, del codice penale; il che non si pone in contrasto con i principi di cui all’articolo 3 della Costituzione, avuto anche riguardo a quanto già affermato dalla Corte costituzionale con le pronunce nn. 124 del 1980, 39 del 1981, 352 del 1989, 8 del 1996, 121 del 2004. • Corte cassazione, sezione VI, sentenza 26 ottobre 2006 n. 35967. Nessuno tocchi Abele di Antonella Tuoni Ristretti Orizzonti, 12 agosto 2016 Storie piccole, che fanno cronaca al massimo per uno o due giorni, quelle dei suicidi di chi lavora in carcere, due negli ultimi giorni. Un po’ di polvere e poi di nuovo l’afrore del carcere ed il clangore delle chiavi che girano meccanicamente nei cancelli. Un buio che inizia a serpeggiare subdolo e lento e finisce per oscurarti l’anima fino a desiderare di non esistere più. Un’eclissi di luna, un nero quasi totale che occupava per intero lo screen saver del computer: questa l’immagine che mi torna alla mente quando penso ad uno degli uomini della polizia penitenziaria che ho incontrato e che si è tolto la vita, qualche anno fa, nel carcere in cui lavoravo. L’immagine era inquietante, un piccolo segnale che forse poteva essere colto. Lo dissi a quell’ispettore piccoletto e di parole centellinate che, a dispetto del suo fisico, passava per essere un duro, uno di quelli che erano sempre in prima linea. Dopo qualche tempo si sparò. Un male di vivere che certo alligna tra le pieghe della coscienza di chi è costituzionalmente più fragile o comunque più sensibile, alimentato forse più dalle traversie della vita personale che non di quella professionale ma di certo non attenuato da un ambiente di lavoro accogliente: il carcere. Un male di vivere che quando esplode è dilaniante e azzera ogni parola ma che dovrebbe imporci una pausa lunga di riflessione. Probabilmente queste due morti faranno tornare alla ribalta il problema del benessere organizzativo in un ambiente di lavoro così particolare come il carcere e di come affrontarlo. Un problema enorme, direttamente connesso a tutte le principali criticità delle prigioni partendo dalla criticità per eccellenza, quella genetica: la delimitazione, imposta, degli spazi di vita di una persona, sia essa detenuta o lavoratore, giù giù fino alla inadeguatezza delle strutture, inadeguatezza degli organici, fino alla forse più sottile questione, ma non per questo meno importante, scarsa valutazione sociale e quindi politica e quindi economica di chi lavora in carcere. Un grumo di pulsioni etico sociali la cui fluidificazione richiederebbe un impegno prioritario in termini di programmazione e pianificazione delle ‘performancè, come si usa dire ora, dipartimentali, non solo perché è moralmente inaccettabile che in una pubblica amministrazione il tasso dei suicidi sia di gran lunga superiore a quello della società libera ma anche perché in termini di efficienza un’organizzazione che sta bene è un’organizzazione che lavora meglio. Prima ancora degli interventi di sistema, alludo ad esempio alla creazione di un counseling tramite una convenzione tra il Ministero della Giustizia ed il Ministero della Salute, bisognerebbe però partire dalla pratica quotidiana, alludo al rispetto delle persone. In uno dei carceri dove sono entrata negli ultimi 23 anni della mia vita, c’era una scritta, mi pare dell’allora Capo del Dipartimento Amato che recitava più o meno così: "dietro ad ogni delitto c’è un uomo". Giustissimo, anche dietro ad ogni divisa ed ad ogni scrivania ci sono un uomo o una donna e averne consapevolezza vuol dire avere rispetto dei sentimenti di quell’uomo e quella donna. Rispetto, allora, non può significare paternalismo, dare del lei e stendere la mano al sottoposto, come recitava una vecchia circolare, deve significare altro: applicare le regole, perseguire il bene comune anteponendolo all’interesse personale, premiare il merito e la competenza; rispetto deve significare trasparenza, rispetto, quando si è chiamati ad assumere decisioni interferenti con la vita dei destinatari, deve significare tenerne in debita considerazione il punto di vista, non trattare le persone come pacchi postali in attesa di essere spediti chissà dove quando si decide di chiudere un carcere o di trasformarlo, rispetto deve significare dare un orizzonte alla vita professionale di ciascuno. È una pratica minima anche se tutt’altro che banale e sicuramente marginale per contrastare i demoni che sonnecchiano dentro di noi ma che può contribuire a renderli meno aggressivi, contribuire a dare a chi lavora in carcere ciò che basta, ciò che è sufficiente per compensare in maniera adeguata un lavoro ingrato. Prima lo sbattono in carcere poi si scusano con la "paghetta" di Tiziana Maiolo Il Dubbio, 12 agosto 2016 Quanto vale la vita di un uomo arrestato ingiustamente e quanto sono valutati il danno alla sua reputazione e "il discredito sociale e professionale"? Cento euro al giorno, stabilisce la Corte di cassazione. a non per tutti né in tutti i casi. Solo se - come è capitato per Manolo Morlacchi - si ha una coda di paglia talmente lunga per aver arrestato un innocente da esser costretti al risarcimento per ingiusta detenzione, pur obtorto collo e risparmiando al massimo sul quantum. Manolo Morlacchi non è uno qualunque e probabilmente non aveva neanche voglia di esserlo, quando ha scritto e pubblicato un libro in cui racconta e rivendica con orgoglio la storia di una famiglia di partigiani e comunisti. Uno di loro, (dieci fratelli) è suo padre, ed è stato un leader delle Brigate rosse. Così, un po’ per il libro (come lui stesso racconta in una lettera pubblicata dal manifesto) un po’ perché il cognome Morlacchi "fa titolo" sulle prime pagine, il 13 gennaio 2010 Manolo viene arrestato perché sospettato di far parte di un gruppo che voleva resuscitare le Brigate Rosse. I reati contestati? Associazione sovversiva e partecipazione a banda armata. Nessun reato specifico, nessun fatto, secondo una prassi inaugurata da certa magistratura nelle indagini per terrorismo e travasata ormai dagli anni settanta fino a oggi ogni giorno in ogni processo di mafia, corruzione o abigeato che sia. Se pensiamo al fatto che una settimana fa negli Stati Uniti una retata dell’Fbi ha sgominato il gotha delle famiglie mafiose di origine italiana (Genovese Gambino Lucchese Bonanno) arrestando 46 persone e contestando "solo" fatti specifici, si capisce bene la differenza tra un sistema giudiziario che funziona e uno traballante come quello italiano. Nel sistema anglosassone (come nella gran parte degli ordinamenti giudiziari occidentali) non esistono i reati associativi autonomi. Del resto che bisogno c’è? Se un reato è commesso da più persone, dovrebbe bastare un’aggravante. Ai 46 arrestati negli Stati Uniti sono stati contestati i reati di estorsione, incendio doloso, usura, gioco d’azzardo illegale, frode, traffico di armi, aggressione, eccetera. Il che significa che il rappresentante della pubblica accusa ha ritenuto di avere sufficienti prove per portare questi signori a processo su fatti specifici. Manolo Morlacchi però viveva in Italia, in quel 2010, con un lavoro e una famiglia con due bambini piccoli. Ha perso lavoro e reputazione in un battibaleno. Rimane in carcere senza prove né fatti specifici da gennaio a giugno e gli è anche andata bene (si fa per dire) perché il suo processo arriva a sentenza definitiva in soli quattro anni. È assolto nei tre gradi di giudizio "perché il fatto non sussiste", cioè con la formula più ampia. La prima cosa che vorremmo sapere, a questo punto, è che brillante carriera (come i magistrati di Tortora) stanno facendo a Roma un certo Pm e un certo Gip, e anche i giudici del tribunale del riesame che hanno confermato (come spessissimo accade) la custodia cautelare in carcere per cinque mesi di un innocente. Poiché il governo Renzi giustamente vanta il fatto di aver indotto il Parlamento a votare la legge (modestissima) sulla responsabilità civile dei magistrati, ci pare che in questo caso qualcuno dovrebbe pagare per quei 156 giorni di ingiusta detenzione subita dal signor Manolo Morlacchi. Invece che cosa succede? Che avendo il legale dell’ex imputato presentato la richiesta di risarcimento del danno, chi si mette di traverso? Proprio il governo, nelle vesti del Ministro dell’economia, il quale presenta in Cassazione un ricorso opposto, sostenendo che Morlacchi non ha diritto a niente, che gli è andata anche troppo bene. Gli argomenti sono all’apparenza solo tecnico-giuridici, e riguardano l’interpretazione dell’art. 314 del codice di procedura penale. Il quale disciplina i casi in cui l’ex imputato poi assolto ha diritto ".. a un’equa riparazione per la custodia cautelare subita, qualora non vi abbia dato o concorso a darvi causa per dolo o colpa grave". Che cosa significa? Che l’innocente deve stare ben attento a non indurre, con il suo comportamento, lo sprovveduto e ingenuo Pm a crederlo colpevole. L’interpretazione si gioca tutta sul dolo e la colpa grave. Fu cattivello Giulio Petrilli (vedi l’articolo del direttore Piero Sansonetti dello scorso 19 maggio), cui fu negato il risarcimento: non apparteneva a Prima Linea (ma intanto girava le carceri speciali), era innocente, ma forse frequentava "cattive compagnie" e pertanto ha indotto il magistrato a ritenerlo colpevole. Sulla stessa scia l’ultima sentenza della quarta sezione di cassazione del 4 luglio scorso e pubblicata dal Sole 24 ore l’8 agosto. Nel caso di Morlacchi pare sia prevalso il senso di colpa, tanto era stato clamorosamente assurdo quell’arresto. Così la cassazione ha deciso di dargli una paghetta: 15.600 euro, cento al giorno. Vigevano (Pv): "mio marito consumato in cella da un tumore, ora voglio giustizia" di Fabio Abati Il Fatto Quotidiano, 12 agosto 2016 Il 2 agosto è morto all’ospedale di Vigevano il detenuto all’ergastolo Giuseppe D’Oca, condannato nel 2016 per omicidio. Fu ricoverato urgentemente un mese prima, in arrivo dal carcere di massima sicurezza della medesima cittadina, perché il suo deperimento era talmente clamoroso da destare le preoccupazioni del medico di turno. La famiglia di D’Oca, però, era da tempo - almeno dal 2013 - che segnalava le condizioni preoccupanti in cui versava il proprio caro. Lo stesso, in meno di 12 mesi, aveva perso quasi 40 chili. Ma la Corte d’Assise d’Appello di Milano già nel 2015 aveva negato il trasferimento dell’ergastolano ad altro regime di detenzione, suggerendo l’acquisto a favore del D’Oca di una dentiera, perché, nel frattempo, a causa di una piorrea il detenuto aveva perso l’intera dentatura. "Avevano spiegato in questo modo il dimagrimento di mio padre" dice Andrea D’Oca figlio di Giuseppe, che di seguito aggiunge: "Mia madre, quindi, ha subito provveduto, ma anche con la dentiera tutto quello che mio padre mangiava, poi rigettava". "Me lo portavano ai colloqui - dice Rosa Ruggiero, moglie del D’Oca - sempre sorretto da qualcuno; per tre volte gli avevano concesso l’uso di una sedia a rotelle poi ritirata, perché questo, sostenevano, era il regolamento. E poi l’ostinarsi a non volerlo mandare in ospedale - continua la signora Ruggero - anche quando ad insistere era stato un nostro medico di fiducia. "Troppo complicato muovere un ergastolano", era stata la risposta. "Alla fine mio padre in ospedale c’è andato - continua il figlio Andrea - ma quando oramai non c’era più niente da fare. Il tumore, maligno, s’era diffuso in maniera incurabile e non abbiamo potuto far altro che stargli vicino nel momento della sua morte". "Almeno - aggiunge la madre di Andrea - non è morto in cella, e ha potuto godere almeno dell’umana dignità di spegnersi in un letto di ospedale con accanto i suoi cari". "Nessuno vuole cancellare le colpe che mio marito ha commesso quando era in vita - termina Rosa Ruggiero - ma voglio sapere se qualcuno ha sbagliato nel non riscontrare in tempo l’insorgere della malattia e farò di tutto, assieme al mio legale, per avere giustizia". "Stiamo attendendo che dall’ospedale di Vigevano - spiega l’avvocato della famiglia D’Oca, Andrea Dondé - ci trasmettano la cartella clinica di Giuseppe, dopo di che procederemo se sarà il caso depositando una querela contro ignori per omicidio colposo; a quel sarà il Magistrato a stabilire se l’amministrazione penitenziaria abbia o meno delle colpe" Roma: la sicurezza sul lavoro insegnata ai detenuti di Rebibbia ediltecnico.it, 12 agosto 2016 Il sindacato degli Architetti e degli Ingegneri romani e l’Organismo paritetico romano delle imprese edili e dei Sindacati dei lavoratori hanno condiviso un progetto pilota per la formazione gratuita di detenuti a fine pena in tema di sicurezza sul lavoro. Il progetto, che si è svolto nel carcere di Rebibbia il 26, 27 e 29 luglio scorsi, ha visto alternarsi professionisti di varia estrazione, tra i quali anche uno psicologo, che hanno tenuto un corso gratuito di "formazione prima" sulla sicurezza nei luoghi di lavoro, ex art. 37 del Dlgs 81/08. L’arch. Giancarlo Maussier, presidente di Federarchitetti Roma, afferma: "insieme al direttore del Cefme Ctp abbiamo sempre pensato che la finalità di questo corso e dell’attestato di formazione che abbiamo consegnato ai detenuti potesse essere quella di favorirne il reinserimento nel mercato del lavoro, soprattutto se si considera che tale tipo di formazione dovrebbe essere svolta a cura e spese del datore di lavoro". I detenuti hanno mostrato interesse e attenzione, in particolare quando sono stati coinvolti in attività di gruppo per brevi dibattiti o per l’individuazione di rischi o criticità, ma altrettanto interesse è stato mostrato dai docenti e dagli organizzatori, particolarmente colpiti sul piano umano, oltre che professionale, per questa significativa esperienza in un ambiente così particolare. "Non avremmo comunque potuto portare a compimento questa iniziativa" continua il presidente di Federarchitetti Roma "se essa non fosse stata accolta con entusiasmo e disponibilità immediata dal direttore della struttura carceraria, dott. Stefano Ricca, che si è attivato immediatamente per l’ottenimento delle necessarie autorizzazioni auspicando altresì successive repliche per estendere questa opportunità a tutti i detenuti ospiti di Rebibbia". Novara: l’appello del Garante regionale dei detenuti "svuotate il Reparto del 41 bis" di Barbara Cottavoz La Stampa, 12 agosto 2016 "Venga svuotato al più presto il Reparto del 41 bis nel carcere di Novara: è l’appello più pressante lanciato dal Garante delle carceri del Piemonte, Bruno Mellano, nella sua relazione annuale appena pubblicata. Il documento scatta un’immagine dettagliata delle prigioni piemontesi alla mezzanotte del 13 marzo e identifica i problemi più rilevanti. Tutti i numeri - In quella data Novara aveva 161 detenuti di cui 92 comuni, un internato (cioè sottoposto a misura di sicurezza in carcere) e 68 ristretti con il regime del cosiddetto carcere duro, il 41 bis che si applica in caso di condanne per mafia, terrorismo, riduzione in schiavitù. Gli ergastolani sono 27 di cui 25 sempre del reparto 41 bis. Ventinove persone, invece, sono detenute in attesa di giudizio, 11 aspettano la sentenza d’appello e 8 hanno presentato ricorso in Cassazione mentre 81 hanno sentenza definitiva. Solo 3 sono in semilibertà e 18 lavorano all’esterno. Oltre ai detenuti in carcere, 90 persone sono agli arresti domiciliari e 117 in affidamento. Dieci minuti per stare con i bambini - Nella sua relazione Mellano rileva la situazione del reparto del 41 bis. Il Garante aveva ricevuto segnalazioni da alcuni detenuti di Novara e altri di Cuneo, sempre del 41 bis: "In modo particolare - si legge nella relazione - lamentano le modalità dei colloqui con i famigliari sia per il luogo in cui i colloqui si svolgono sia per come sono previsti nei confronti dei minori. È concessa la possibilità di un contatto diretto con i figli minori di 12 anni solo negli ultimi 10 minuti dell’ora concessa: i minori sono prelevati dagli agenti e portati dal genitore. Il Garante ha più volte segnalato le situazioni di forte disagio: pur nella rigidità della pena inflitta vanno rispettati i principi base di umanità come più volte la Corte di Strasburgo ha ricordato". Trasferimento in ritardo - Il Capo dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Santi Consolo, già un anno fa aveva previsto il trasferimento dei detenuti in situazioni logisticamente migliori: il provvedimento è stato attuato a Cuneo ma non a Novara per la mancata apertura di un padiglione nel nuovo carcere di Cagliari. "Torna quindi l’ipotesi di un adeguamento strutturale del carcere di Novara - continua la relazione del Garante - con particolare riferimento all’area-colloqui, ma non pare una soluzione adeguata, anche perché la presenza della sezione 41 bis in un istituto finisce per incidere sul clima generale del carcere stesso. Una nuova vita al carcere di Novara potrà giungere solo con la chiusura del reparto speciale". Novara: jeans in cambio di pesche, questo prescrive il regolamento del carcere di Susanna Marietti Il Fatto Quotidiano, 12 agosto 2016 Nelle carceri italiane di vezzi e di stranezze se ne vedono tante. Ma questa è certo tra le più bizzarre che mi sia capitato di incontrare. Ben si addirebbe a una simpatica lettura da ombrellone, se non fosse che donne e uomini in carne e ossa devono quotidianamente sobbarcarsi inutili e vessatorie fatiche da aggiungere a una condizione già di per sé difficile. Nel carcere di Novara per poter portare a un famigliare detenuto uno spicchio di parmigiano, un po’ di frutta di stagione, un barattolo di miele - secondo l’elenco dei generi alimentari consentiti e all’interno dei pacchi mensilmente permessi dal regolamento penitenziario - è obbligatorio fargli avere anche pantaloni, camicie, maglioni secondo il principio della parità di peso. Per due chili di pesche serviranno quattro o cinque paia di jeans (sarebbe sciocco usare pantaloni di flanella, di peso senz’altro più modesto). Per qualche mozzarella potrebbero bastare un paio di felpe. E via dicendo. Ciò anche se questi indumenti non servono al parente recluso, perché ne ha già a sufficienza e certamente non sente il bisogno di prodursi in grandi sfilate per il corridoio della sezione. "Ho tre cambi treno", ci scrive una signora che purtroppo si trova nella situazione di dover far visita a un parente detenuto a Novara, "e sono obbligata a trascinarmi 20 kg di peso quando potrei portare solo 10 kg di alimenti in quanto porto il vestiario solo nei cambi stagione. Finito il colloquio mi viene restituito dal mio familiare lo stesso vestiario utilizzato solo per far passare il cibo". Abbiamo chiesto spiegazioni alla direzione del carcere. Ci è stato detto che la norma trova fondamento in un articolo del Regolamento Penitenziario che afferma quanto segue: "I detenuti e gli internati possono ricevere quattro pacchi al mese complessivamente di peso non superiore a venti chili, contenente esclusivamente generi di abbigliamento, ovvero, nei casi e con le modalità stabiliti dal regolamento interno, anche generi alimentari di consumo comune che non richiedono manomissioni in sede di controllo". Siccome il cibo è, in questo articolo di legge, subordinato al vestiario, è conseguenza logica - sostiene la direzione - che non possa avere un peso superiore a esso. La legge rinvia i casi e le modalità di consegna dei generi alimentari al regolamento di Istituto, cioè a un atto scritto a più mani da tanti operatori e avallato dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Non è chiaro se a Novara ci sia un regolamento di Istituto oppure se la decisione sia esito di un ordine di servizio del direttore. Sta di fatto che la decisione di prevedere che ogni pacco portato da un familiare a un detenuto debba presentare un peso equivalente di cibo e vestiti non trova alcun fondamento obbligato nella legge e dovrebbe indurre a una diversa interpretazione della stessa. È una decisione illogica, irrazionale e vessatoria nei confronti dei poveri familiari i quali, va ricordato, sono persone innocenti troppo spesso trattate come criminali. Il buon senso è sempre un’ottima misura di governo per chi dirige un carcere, così come per chi dirige un ospedale, una scuola, un ufficio e via dicendo. Non bisogna complicare inutilmente esistenze già complicate di loro. Purtroppo di stravaganze come questa ne abbiamo incrociate tante nel nostro sistema penitenziario. E spesso facevano ben più danno di dieci chili su tre cambi di treno. Novara: Banca dati del Dna, primi prelievi per arrestati e detenuti novaratoday.it, 12 agosto 2016 Dal 10 giugno il Comando provinciale dei carabinieri ha regolarmente proceduto all’esecuzione del campionamento salivare nelle forme e nelle modalità previste dalla legge entrata recentemente in vigore. Anche a Novara i recenti arresti eseguiti dai carabinieri hanno consentito di procedere al prelievo dei campioni biologici necessari alla tipizzazione del Dna come previsto dalla normativa vigente. Con l’entrata in vigore della Legge 85 del giugno 2009, infatti, è stata istituita presso il Servizio per il sistema informativo interforze (Ssii) della Direzione centrale della polizia criminale (Dcpc), la banca dati nazionale del Dna (Bdn-Dna), che raccoglie e cataloga i profili genetici delle persone arrestate o già detenute, nelle ipotesi previste dalla legge. Il prelievo può essere effettuato esclusivamente se si procede per un delitto non colposo, per il quale è consentito l’arresto facoltativo in flagranza di reato, con alcune specifiche esclusioni (reati non violenti - ad esempio illeciti societari, reati tributari - rispetto ai quali l’esame del Dna non è di ausilio alle indagini). Dal 10 giugno di quest’anno il Comando provinciale dei carabinieri di Novara ha regolarmente proceduto all’esecuzione del campionamento salivare nelle forme e nelle modalità previste dalla legge, attraverso l’impiego specializzato del personale addetto ai rilievi del Nucleo investigativo. Il personale del nucleo specializzato opera, come è noto, in stretta collaborazione con la sezione del Ris di Parma che coordina per tutto il Nord Italia le attività di investigazione scientifica dell’Arma dei carabinieri. Nella banca dati del Dna confluiranno anche i profili genetici relativi alle tracce biologiche raccolte sulla scena del crimine (analizzate, per le attività condotte dai carabinieri, dai Ris) nel corso di indagini di polizia giudiziaria, su disposizione dell’autorità giudiziaria, per il raffronto con eventuali profili già inseriti. La Banca dati del Dna può inoltre essere utile anche nei casi di denuncia di scomparsa di una persona: il profilo del Dna viene infatti estratto dagli oggetti personali dello scomparso o, se consenzienti, dai suoi consanguinei (con conservazione del loro profilo in un sottoinsieme della banca dati nazionale). In caso di cadaveri non identificati o di reperti biologici rinvenuti nell’ambito di indagini penali, la tipizzazione può essere effettuata dai laboratori delle forze di polizia e dai laboratori di alta specializzazione, che trasmettono i dati alla banca dati nazionale del Dna. L’alimentazione della Banca Dati è particolarmente importante anche a livello internazionale perché consente lo scambio di informazioni sui profili del Dna con le autorità straniere nell’ambito dalla cooperazione transfrontaliera. Asti: ergastolano aggredisce un agente. I Sindacati "intervengano ministro e prefetto" di Selma Chiosso La Stampa, 12 agosto 2016 Chi sono? Lui è un giovane agente della Polizia penitenziaria del carcere di Asti, grande professionalità e sangue freddo. Non ha reagito alla scarica di pugni sul volto e ai calci nella schiena che lo colpivano mentre si allontanava. Martedì in tarda mattinata stava lavorando e la sua unica "colpa" è stata quella di non esaudire subito la richiesta di un ergastolano. L’aggressore, 48 anni, è nativo di Casal di Principe. "Fine pena mai" perché coinvolto nella faida dei Casalesi e nella strage di San Michele. È la quinta aggressione in un anno, tra i feriti, non solo poliziotti ma anche un medico che aveva osato dire "no" ad un trasferimento in infermeria. Il carcere di Asti da poco più di un anno non è più Casa circondariale (detenuti comuni, con pene brevi) ma Casa di reclusione ad alta sicurezza (detenuti mafiosi di alto calibro, omicidi, con pene lunghe o ergastoli). Al cambiamento non si è accompagnata una revisione della pianta organica. La "piaga" è la carenza di personale incancrenita dalla mancanza di ispettori e sovrintendenti: figure autorevoli perché in grado di trattare con gli alta sicurezza. Nei giorni scorsi il direttore del carcere Elena Lombardi Vallauri, ha fatto presente a tutti gli uffici competenti, fino al ministero della giustizia, la carenza di organico evidenziando difficoltà operative e le giuste richieste del personale. Una situazione da sanare ripetuta da mesi come un mantra dai sindacalisti dell’Osapp che snocciolano i numeri: "Ci sono agenti giovani e professionali, ma che non hanno gli strumenti e l’esperienza per trattare con gli alta sicurezza. Gli ispettori sono 4 e dovrebbero essere 21, i sovrintendenti sono 3 (ma uno è negli uffici) e dovrebbero essere 25, e mancano una quarantina di agenti. Leo Beneduci, segretario generale e Gerardo Romano, vicesegretario generale dicono: "Servono interventi urgenti sul sistema delle carceri italiane e piemontesi, connotate da profonda disorganizzazione. Siamo nel caos più totale. L’aggressione è la conseguenza della carenza di personale presente in tutti gli istituti, in particolare ad Asti, dove per garantire "sicurezza" si è costretti ad accorpare più posti di servizio, rinunciare ai riposi (il numero dei riposi revocati in tre mesi è raddoppiato), accavallare i turni. Le conclusioni sui rischi a cui sono esposti i poliziotti le lasciamo all’opinione pubblica e ai politici". È quasi un grido di dolore quello di Angelo De Feo, della segreteria Cgil F. P. "Adesso intervenga il prefetto di Asti, intervengano gli organi responsabili, il ministro, i parlamentari le istituzioni, qualcuno aiuti i poliziotti penitenziari, tuteli gli agenti o sarà la fine. I detenuti sono cambiati, arrivano da istituti dove la detenzione era organizzata in modo diverso e pretendono in modo spesso arrogante quello che avevano prima e che qui non hanno". La consigliera regionale Angela Motta, interpellata da Angelo De Feo scriverà al ministro della Giustizia. Insieme al senatore Michelino Davico commenta: "Esprimiamo massima solidarietà all’agente ferito e a tutto il corpo di Polizia penitenziaria per l’aggressione. Siamo pienamente consapevoli delle condizioni nelle quali ogni giorno le donne e gli uomini della Penitenziaria astigiana svolgono il loro difficile e importante lavoro, condizioni peggiorate soprattutto dopo il passaggio dell’Istituto astigiano a Casa di Reclusione. Ci siamo mossi presso il Ministero affinché si possa arrivare al più presto ad una soluzione delle problematiche del carcere, dovute a un ristretto numero di personale. Speriamo di avere a breve risposte concrete. Intanto un miglioramento delle condizioni di lavoro degli agenti, seppur non risolutivo del problema, arriverà con l’apertura della nuova area del carcere di Saluzzo che alleggerirà il sovraffollamento della struttura astigiana". Angela Quaglia, consigliera comunale e provinciale, qualche giorno fa aveva commentato la situazione del carcere astigiano. "La consigliera Motta annuncia il trasferimento di detenuti a Saluzzo. Ero rimasta ai tempi in cui i trasferimenti venivano decisi dal Dap con il Provveditorato Regionale e non dai consiglieri regionali. Che cosa ne dice il garante dei detenuti di Asti? Nell’ipotesi che un certo numero di detenuti venga trasferito, si pensa forse di fare a meno di un aumento del numero delle guardie carcerarie? Mi si dice che il personale faccia bene il proprio lavoro e che anche i nuovi assunti siano competenti così come mi giungono giudizi molto positivi sulla direttrice della struttura. Non sarebbe il caso di pensare a una relazione tra il carcere e la città? In passato erano stati costruiti interessanti progetti in ambito artigianale, agricolo. È tutto tramontato? A proposito, del collegamento mediante i mezzi pubblici tra il carcere e il centro cittadino so che è in corso una raccolta firme per l’estensione della linea del bus fino all’incrocio con la strada che conduce al carcere. Sarebbe una soluzione utile a tutti, ma, perché non pensare, nel frattempo, ad una convenzione con i taxisti per trasportare a prezzo concordato i parenti dei detenuti dalla stazione al carcere? Si potrebbe chiedere, ad esempio, la collaborazione dell’associazione di volontariato carcerario Effatà per rendere il carcere un luogo di rieducazione e non di esclusione. La convenzione per il trasporto sarebbe un modo per dare lavoro ai nostri taxisti e un servizio per chi, provenendo da lontano con il treno, non dispone di un mezzo proprio per raggiungere la struttura. O la pena detentiva deve essere applicata anche a mogli e figli dei detenuti? Lucca: Marcucci (Pd) visita il carcere di San Giorgio "situazione migliorata" noitv.it, 12 agosto 2016 Tradizionale visita estiva al carcere di San Giorgio del senatore del Pd Andrea Marcucci che come parlamentare periodicamente visita la struttura circondariale per accertare la situazione. Dopo quasi un’ora di sopralluogo in cui ha incontrato la direzione, la polizia penitenziaria e i detenuti, Marcucci ha parlato di una situazione migliorata. "Ad oggi sono reclusi in carcere 115 detenuti, un leggero aumento tipico della stagione estiva, ma per fortuna siamo lontani dalle punte di sovraffollamento del passato anche recente. Le buone notizie arrivano dalla prossima consegna (entro Natale) della vecchia sezione 8, che sarà adibita interamente a spazi ricreativi. La sala colloqui, uno degli storici punti deboli della struttura, è stata finalmente ristrutturata". Roma: il Garante dei detenuti del Lazio in visita al C.I.E. di Ponte Galeria Ristretti Orizzonti, 12 agosto 2016 43 donne, tra cui 24 richiedenti asilo. 22 nigeriane, 5 cinesi e poi sudamericane ed est europee, alcune trattenute da più di cinque mesi. Queste le presenze al Cie di Ponte Galeria oggi, giovedì 11 agosto 2016, in occasione della prima visita del Garante delle persone private della libertà della Regione Lazio, Stefano Anastasia. "I numeri sono accettabili, ma la struttura è assolutamente inadeguata a ospitare in condizioni dignitose per mesi persone che non hanno alcuna colpa e spesso sono in attesa di una decisione sulla loro richiesta di asilo. Particolarmente pesante la minima offerta di attività e finanche la mancanza di televisori. Una situazione molto difficile, su cui occorre intervenire al più presto". Livorno: la Cisl "sull’isola carcere di Gorgona troppi detenuti e caos in mensa" Il Tirreno, 12 agosto 2016 Agenti penitenziari in lotta per migliori condizioni di lavoro sull’isola carcere. "Le nostre richieste cadute nel vuoto". Dal carcere delle Sughere arrivano 20 detenuti in Gorgona e sull’isola scoppia la protesta degli agenti penitenziari, aggravata dal un malcontento già strisciante a causa di una richiesta del personale sull’uso di alcuni locali, domanda a cui però l’amministrazione non ha dato risposta. A sollevare il problema è la segreteria territoriale Federazione nazionale sicurezza della Cisl di Livorno. Per dare maggiore corpo alla protesta, dal primo agosto gli agenti hanno deciso di astenersi dal consumare i pasti della mensa. Già dalla fine di luglio il sindacato aveva drizzato le antenne, annunciando che in Gorgona si sarebbero verificati problemi per via dell’arrivo di nuovi detenuti dalle Sughere. Nel carcere livornese infatti, a causa di lavori di ristrutturazione, è stato sgomberato il padiglione verde (ex femminile). E i detenuti sono stati trasferiti in vari penitenziari, tra cui Gorgona, con tutti i problemi connessi. Inoltre, scrive la Cisl, agli agenti non va giù che l’amministrazione abbia inibito l’uso di locali che precedentemente - la stessa amministrazione - ha realizzato "per un minimo benessere del personale". Il sindacato chiede quindi "un urgente riscontro che mostri attenzione al concreto disagio dei colleghi in servizio su Gorgona". Femminicidio, altro che emergenza di Giovanni De Plato Il Manifesto, 12 agosto 2016 I numeri delle donne uccise nel 2016 dai loro mariti, fidanzati, amici, conoscenti o altri sono davvero drammatici. Nei primi otto mesi si contano circa 80 vittime. E nella prima settimana di agosto, le donne trucidate sono state tre, Vania a Lucca, Rosaria a Caserta e Barbara a Bologna. Barbara era una donna che si riteneva libera, così libera da decidere di vendere il suo corpo. A solo 47 anni ha trovato un cliente aguzzino e spietato. Un uomo che ha comprato il suo corpo e ha ritenuto di poterne disporre a suo piacimento, come già aveva fatto altre volte, sfigurandolo e colpendolo mortalmente con 30 coltellate. Barbara non era una donna né di alta né di bassa quota, le prostitute non sono donne in quota, e come tali non sono tutelate come avrebbero diritto. Nella civile Emilia Romagna in questo anno si sono avuti 5 femminicidi (parola orribile) e 4 tentati omicidi. Se il fenomeno viene allargato ai tanti episodi di minaccia e di violenza contro le donne, registrati come denunce alla polizia e come medicazioni al Pronto soccorso degli ospedali, si ha un quadro che porta a parlare di emergenza sociale. Di fronte a questa inarrestabile tragedia, chi governa si limita a esprimere la propria indignazione e a convocare l’ennesima commissione ministeriale o regionale. Come se si trattasse di uno dei tanti problemi che occasionalmente esplode e che bisogna tamponare. Governo, regioni e comuni dovrebbero, invece, prendere atto della evidenza dei fatti, cioè dovrebbero riconoscere che la violenza, la persecuzione, la tortura e l’omicidio contro le donne sono un fenomeno persistente nella società italiana e diffuso sull’intero territorio nazionale. Sarebbe corretto se ammettessero che si tratta di una endemia sociale e se di dotassero di una strategia politica capace di estirpare il male alla radice. I Centri anti violenza, giustamente, denunciano la loro impotenza per l’assenza di azioni da parte delle istituzioni pubbliche, che con la riduzione del già esiguo finanziamento stanno condannando alla chiusura gli stessi Centri, unici presidi a livello territoriale d’intervento, di aiuto e di sostegno alle donne violentate. Questi Centri dovrebbero estendere il loro intervento agli uomini violentatori, con un percorso di rieducazione e riabilitazione, attivando gruppi di auto aiuto. Intanto sarebbe apprezzabile se il governo assumesse prioritariamente l’impegno a finanziare con più risorse i progetti dei Centri anti violenza, e se le regioni e i comuni mettessero in atto programmi di prevenzione e di lotta alla persecuzione di genere. È chiaro che i fondi, le leggi, i processi, le condanne e il carcere contro gli uomini la cui prepotenza non ha limiti, sono importanti ma non sufficienti. Il problema vero è quello di dare vita a una sana cultura della relazione uomo-donna, una qualità che dovrebbe coinvolgere la famiglia, scuola, coppia e comunità. È a questi diversi livelli che il rapporto fin dalla prima età prende forma e si sviluppa o come dominio del più forte o come incontro di reciproca valorizzazione. Il percorso di una formazione culturale di riconoscimento e rispetto delle diversità di genere dovrebbe permettere all’uomo e alla donna di vivere una comune esperienza di libertà e di uguaglianza. Purtroppo siamo costretti a fare i conti con un mondo globale fatto a livello locale di spietate diseguaglianze, quelle di genere sono persistenti, e di un generale analfabetismo emotivo, quello relazionale è preoccupante. Nonostante le leggi sulla parità di genere, alla uguaglianza formale si contrappone quella reale. In Italia nel 2016 a parità di contratto e di lavoro le donne continuano a guadagnare in meno circa l’11% rispetto ai loro colleghi maschi. Nel paese che vorrebbe esportare la sua civiltà e democrazia nel mondo, il più premiato attore-regista Clint Eastwood parla dei giovani americani di oggi con l’epiteto di "fighette", precisando "parlo delle fighette, non delle fighe, queste sono un’altra cosa". Le diseguaglianze di genere e la cultura maschilista della violenza, ci fanno capire che il percorso formativo che permetta all’uomo e alla donna di ritrovarsi soggetti con pari dignità e diritti in un incontro dialogante, è ancora lungo e difficile. Ma è sicuramente possibile. Migranti nel campo Expo? "no" del prefetto al sindaco di Milano di Simone Gorla e Francesco Moscatelli La Stampa, 12 agosto 2016 Sala: "Ma per l’accoglienza avremo la caserma". L’assessore Majorino al governo: "Grave sottovalutazione". Una risposta al problema degli oltre 3000 migranti presenti in questi giorni a Milano è stata trovata: ieri mattina, dopo il faccia a faccia con il prefetto Marangoni, il sindaco Sala ha confermato che nel giro di un paio di mesi il governo consegnerà al Comune la caserma Montello di via Caracciolo. Si tratta di un’area di 71 mila metri quadri che permetterà di evitare il caos se dovessero aumentare le presenze e di spostare, in vista dell’inverno, le centinaia di persone che oggi stanno nei centri temporanei. Il sindaco l’ha definita una "soluzione sostenibile e strutturale". La giunta della città che più di ogni altra subisce la pressione dovuta al blocco delle frontiere, però, sperava di ottenere di più. Aveva chiesto di poter utilizzare l’ex campo base dei lavoratori di Expo e un ripensamento della strategia nazionale nella gestione dei flussi interni. È arrivato un no sulla prima richiesta, pesante anche perché in linea con la posizione del governatore leghista Maroni che ieri sera scriveva su Facebook: "Sul campo base chi la dura la vince". Non c’è stato alcun riscontro sulla seconda: il Consiglio dei ministri di due giorni fa, da cui era attesa una presa di posizione sulle crisi di Milano, Como e Ventimiglia, non ha neanche discusso la questione. La linea di Renzi e di Alfano è chiara: nessuno stato di emergenza ma solo un supporto logistico alle singole città - a Como i prefabbricati, a Milano la caserma - affidato alle prefetture. "C’è una grave sottovalutazione strategica generale della questione migranti e il fatto che non ne abbiano parlato al Consiglio dei ministri è un grave errore - riflette l’assessore milanese alle Politiche sociali Piefrancesco Majorino. È finito il tempo dei piccoli passi, degli accordi sulle quote e del volontariato chiamato a tamponare. Ora servirebbe piuttosto una struttura nazionale che coordini l’accoglienza. Penso a qualcosa come una Protezione civile umanitaria". Majorino comunque guarda anche al bicchiere mezzo pieno e non rinuncia all’idea di usare il campo base di Expo per fronteggiare le emergenze sociali di Milano: "Stiamo rispondendo con i fatti all’immobilità del centrodestra. La caserma Montello non è una sconfitta per noi. Certo, sarebbe stato meglio uno spazio nell’area metropolitana per non pesare sempre sulla città". Il sindaco Sala, invece, sta alla larga dalle polemiche politiche e bada alla sostanza: "La caserma Montello è una soluzione che permette di dare accoglienza degna e di avere davanti un lasso di tempo sufficiente per non dover ragionare settimana per settimana. Possiamo dire ai milanesi che non lasceremo i migranti in giro per la città". Espulsioni facili, la stretta tedesca di Sebastiano Canetta Il Manifesto, 12 agosto 2016 Il ministro dell’interno de Maizière presenta, in tv, il suo pacchetto anti-terrorismo. Più controlli e sorveglianza, dalle strade al web, arresti ed espulsioni più facili: "Voglio inasprire il diritto di soggiorno per gli stranieri che hanno commesso reati o che rappresentano una minaccia per la sicurezza pubblica". Il ministro dell’interno tedesco, il cristiano-democratico Thomas de Maizière promette tolleranza zero. Nella conferenza stampa di ieri a Berlino, trasmessa in diretta tv, ha illustrato le sue proposte contro il radicalismo islamico contenute nel pacchetto-sicurezza che porterà davanti all’esecutivo (il 18 agosto) e ai colleghi degli altri stati Ue alla fine del mese, sull’onda degli attacchi del 18 e del 24 luglio, sul treno per Wuerzburg e ad Ansbach. Più controlli e sorveglianza, dalle strade al web, arresti ed espulsioni più facili: "Voglio inasprire il diritto di soggiorno per gli stranieri che hanno commesso reati o che rappresentano una minaccia per la sicurezza pubblica - ha detto il ministro - Per legge vogliamo introdurre anche un nuovo motivo di arresto: la minaccia per la sicurezza pubblica", con la possibilità di "applicare l’obbligo di espulsione anche in questi casi". Per gli immigrati le cui richieste di soggiorno siano state negate, se per esempio hanno fornito dati falsi sulla propria identità, il periodo di permanenza nel paese dovrà essere abbreviato, ha aggiunto, "nessuna tolleranza come finora". Sull’introduzione del divieto di burqa è reticente: il caso è "problematico a livello di diritto costituzionale", ma su questo punto i ministri dell’interno regionali del suo partito, (Cdu-Csu), potrebbero invece insistere. Dal 2012 un rapporto dell’Ufficio scientifico del Bundestag chiarisce che il divieto di indossare burqa o niqab è anticostituzionale in quanto "contrario al principio di neutralità della Legge fondamentale". Le eccezioni sono rare e misurate: non si può entrare velati allo stadio - come prevedono peraltro le norme sul travisamento - e in Baviera è proibito l’ingresso a scuola per chi si presenta in modo irriconoscibile, dopo la sentenza del tribunale amministrativo di Monaco. In pratica si può vietare il burqa solo per "proteggere altri articoli costituzionali". Ancora; la Corte europea dei diritti dell’Uomo in una decisione del 2014 "convalida" il divieto al velo integrale ma solo se diretto a "garantire la convivenza della società". Significa che se l’abbigliamento religioso non crea problemi o disagi ai cittadini la messa al bando non si può applicare. Fin qui la teoria. Nella pratica in Germania le dinamiche fanno storia a sé. Sintomatico il recente caso di una cliente musulmana "molto coperta" entrata in una cassa di risparmio del Nord Reno-Vestfalia. I dipendenti l’avrebbero anche ricevuta ma la guarda giurata "non per motivi religiosi ma di sicurezza" le ha imposto di uscire. La questione della revoca della doppia cittadinanza spaventa i partner socialdemocratici della grande coalizione. L’Spd non vorrebbe mettere mano alla legge, de Maizière ha annunciato che si tratta della revoca di quella tedesca per gli stranieri con due passaporti che combattono coi jihadisti all’estero. Il provvedimento più contestato riguarda però l’abolizione del segreto professionale dei medici per i pazienti a rischio terrorismo. "Una misura avventata", ha commentato il presidente della Bundesärztekammer (l’Associazione dei medici). Mercoledì il ministro del governo Merkel aveva annunciato la schedatura dei "casi clinici" sensibili, a partire dai profughi che manifestano inclinazioni al suicidio o l’intenzione di compiere un attentato. Di fatto, è la fine dei dati riservati negli ospedali e l’inizio dell’assistenza sanitaria sorvegliata dalla polizia. "Faremo in modo che i medici possano segnalare alle autorità i casi sospetti" spiegava 48 ore fa de Maizière, scontando l’opposizione dell’Spd ma molto meno la rivolta dell’(influente) Associazione dei medici. "La tensione sulla sicurezza interna non giustifica in alcun modo l’inserimento di provvedimenti politici e legali avventati" è la risposta secca di Frank Ulrich Montgomery, presidente della Bundesärztekammer, alla proposta del governo. Radiologo, classe 1952, figlio di un militare britannico, è a capo di un organo che conta oltre 470 mila iscritti: un dettaglio che a Berlino non si scorda facilmente. Ma lo stop di Montgomery è in linea con il Diritto. Come in Italia anche in Germania il "portatore del segreto professionale" (geheimnisträger) è tutelato dalla legge e tenuto alla riservatezza dei dati confidenziali. In più nella Bundesrepublik la divulgazione di dati privati è un reato penale particolarmente rilevante. Da qui l’effettiva impossibilità della misura annunciata da de Maizière. Anche perché entro la fine della legislatura (2017) sarà impossibile far approvare dal Bundestag una norma che risulta già indigesta all’Spd, ovvero a metà della Grande coalizione. Siria: Aleppo come Sarajevo? L’accusa delle Ong: "Un altro fallimento dell’Onu" di Davide Frattini Corriere della Sera, 12 agosto 2016 Settantacinque associazioni che operano nella disastrata città siriana denunciano: "Inaccettabile negoziare la strategia di aiuti con il regime". Nessuno, civili o ribelli armati, si fida dei corridoi "protetti" offerti dal clan degli Assad e dai suoi alleati russi: sono strade senza uscita che portano nelle aree dominate dal regime. Così la parte orientale di Aleppo resta sotto assedio e le organizzazioni umanitarie non riescono a far passare i convogli. I primi aiuti da un mese (frutta e verdura, un po’ di pane) sono arrivati dai contadini delle campagne nella provincia di Idlib, controllata dagli insorti. La battaglia per la città sulla Via della seta va avanti dal luglio del 2012. Che questa estate 300 mila persone rischiassero di rimanere accerchiate era prevedibile, il regime aveva spostato i rinforzi: i miliziani sciiti dall’Iraq e dall’Iran, i libanesi dell’Hezbollah. Prevedibile e previsto: a fine maggio Stephen ÒBrien, coordinatore degli interventi d’emergenza delle Nazioni Unite, incontra ad Antiochia i rappresentanti dei gruppi internazionali che dal confine con la Turchia cercano di raggiungere le aree isolate. Insieme vogliono pianificare come rispondere alla catastrofe. Un mese dopo le 75 organizzazioni non governative che hanno partecipato scrivono a ÒBrien per criticare quello che considerano il "trattamento privilegiato" garantito dalle Nazioni Unite al governo di Damasco. È un atto d’accusa. Ricordano che lo Humanitarian Response Plan pubblicato agli inizi di quest’anno - per raccogliere i fondi dai Paesi donatori - è stato rimaneggiato dopo le pressioni del regime: nelle 64 pagine (che pure elencano numeri da apocalisse: 13,6 milioni di siriani necessitano di aiuto, 50 famiglie all’ora devono lasciare le loro case) è stata omessa le parola "assedio". "Le Nazioni Unite - continua la lettera - sembrano aver accettato la visione del governo fino al punto da considerare "umanitarie" solo le organizzazioni che Damasco designa come tali. Questo significa che noi e i nostri operatori non siamo protetti dal diritto internazionale. È inaccettabile". Essere considerati "illegali" dalle truppe di Assad - queste Ong si muovono nelle aree dell’opposizione - vuol dire diventare un bersaglio dei bombardamenti. Sono i ricatti politici attuati da Damasco che Ben Parker, fino al febbraio del 2013 alla guida della squadra di soccorso dell’Onu in Siria, ha denunciato in un articolo per la rivista Humanitarian Exchange: "La posizione ufficiale è che le organizzazioni sono libere di andare ovunque. In realtà cosa, dove e a chi distribuire l’assistenza è oggetto di trattativa e qualche volta viene semplicemente imposto dal regime". I gruppi di volontari chiedono che il dossier per il 2017 - in preparazione - non venga "discusso" con il governo dai funzionari dell’Office for the Coordination of Humanitarian Affairs: "Negoziare la strategia di aiuti con l’entità che da sola commette la maggior parte delle violenze contro i civili e li affama per raggiungere i suoi obiettivi militari rende una buffonata l’intero processo di revisione". La diffidenza verso l’OCHA delle Nazioni Unite - commenta sempre Ben Parker sul sito Irin News, che ha pubblicato un estratto della lettera - è rincarata dall’aver scoperto lo stanziamento di 751.129 dollari autorizzato a gennaio per l’ente benefico presieduto da Asma Assad, la moglie del presidente Bashar. Neil Durkin di Amnesty International si chiede sull’Huffington Post se Aleppo e la Siria saranno ricordate come un altro fallimento dell’Onu dopo il Ruanda o Srebrenica: "L’orrendo massacro nella cittadina bosniaca si distingue per la portata e la rapidità. Ottomila musulmani eliminati in pochi vergognosi giorni nella metà di luglio del 1995. In questo senso Aleppo non è la nuova Srebrenica. È la vecchia Aleppo. Ed è già abbastanza terribile". Anche durante il conflitto nell’ex Jugoslavia la fame e la carestia - indotte dagli uomini, non create dai disastri della natura - sono state usate come arma di guerra. Il regime di Damasco non ha mai dato il via libera al ponte aereo proposto dall’Onu per rifornire le aree accerchiate dal suo esercito (la maggior parte del milione di siriani sotto assedio). Voli come quelli dell’Aereonautica militare italiana, che nei quattro anni del blocco imposto dai serbi trasportarono a Sarajevo 34.600 tonnellate di aiuti. Chi sono in Libia gli alleati e i nemici? di Alberto Negri Il Sole 24 Ore, 12 agosto 2016 Le notizie dal mondo arabo-musulmano, e non solo da quello, sono preoccupanti: il pessimismo appare il criterio più affidabile per anticiparne gli sviluppi politici. La Libia non sfugge alla regola anche se la sconfitta dell’Isis a Sirte e la prossima riapertura dell’ambasciata italiana a Tripoli sembrano far propendere all’ottimismo. Senza farsi troppe illusioni: la Libia resterà per anni un Paese ad alta instabilità. In realtà spesso giudichiamo con criteri occidentali o ci affidiamo a chi dice le cose che vogliamo sentire. Gli esempi sono innumerevoli. L’opposizione irachena nel 2003 sembrava in grado di prendere in mano la situazione. Alla caduta di Saddam, il "Time" dedicò una copertina ad Ahmed Chalabi definito dal dipartimento di Stato il "Washington iracheno": oggi pochi si ricordano di lui se non per una bancarotta in Giordania. In Siria la Turchia ma anche gli Usa e la Francia insistono che Assad deve fare le valigie: non risulta che la pensino allo stesso modo a Damasco, Mosca o a Teheran. Non solo, la guerra siriana, una sonora sconfitta per Erdogan, ha innescato insieme al fallito golpe la crisi tra Ankara e l’Occidente. La Libia del dopo Gheddafi nel 2011 fu abbandonata al suo destino credendo che la democrazia fosse cosa fatta: il Paese si è disgregato, le frontiere sono crollate e si sono insediati i jihadisti. Questo non significa avere nostalgia di un dittatore o di un’età dell’oro mai esistita ma capire come evitare altri errori dopo questo intervento iniziato con i raid Usa e proseguito con la presenza sul terreno di truppe occidentali, tra cui quelle italiane. C’è un piano per la Libia o si tratta di interventi di corto respiro? È stato il governo di Al Sarraj, che non è certo il "Washington libico", a chiamare gli Stati Uniti, così come hanno gradito la presenza di forze speciali americane e britanniche le milizie che combattono contro l’Isis. Non sono dello stesso parere però fazioni islamiche come i Fratelli Musulmani. a l’obiettivo di questa guerra, che intende rafforzare il debole governo di unità nazionale di Tripoli, non sono soltanto i jihadisti: il bersaglio è anche il contenimento del generale Khalifa Haftar e del governo di Tobruk, sostenuto da francesi, egiziani, emiratini e russi. La Francia pratica la politica del doppio binario: ufficialmente approva gli accordi a favore di Tripoli poi manda truppe al fianco di Haftar per difendere i suoi interessi strategici in Cirenaica. Come la Siria anche la Libia è una guerra per procura, soltanto che gli schieramenti sono diversi. Qui ci sono due coalizioni: una - con la Russia, l’Iran e gli Hezbollah libanesi - appoggia Assad, mentre gli americani guidano un fronte eterogeneo cui partecipano anche la Francia come pure Arabia Saudita e Turchia, che fino all’incontro tra Erdogan e Putin ha avuto per cinque anni come obiettivo supremo abbattere Assad ed eliminare i curdi, non far fuori i jihadisti che ha fatto affluire dalle sue frontiere. Anche Erdogan viaggia sul doppio binario: ha concesso di malavoglia agli Usa la base Nato di Incirlik contro l’Isis e ora tratta con Putin per salvare la faccia ed evitare che i curdi abbiano un embrione di stato ai suoi confini. In Siria sta vincendo la coalizione guidata dai russi mentre quella degli americani non ha chiaro quale sarà il suo obiettivo oltre all’Isis. L’unico piano occidentale è stato appoggiare i curdi e riciclare i jihadisti di Al Qaeda tra l’opposizione "rispettabile" per accontentare turchi e sauditi, cioè il fronte sunnita opposto a quello sciita. È la vecchia politica del "doppio contenimento" inaugurata dagli Usa durante la guerra Iran-Iraq degli anni 80: a volte funziona ma non dura troppo a lungo. In Libia non è chiaro a chi si debba salvare la faccia. Forse ci si fermerà alla Sirte, dove per altro sono numerose le tribù gheddafiane, lasciando che Tripolitania e Cirenaica restino separate. Gli americani hanno dichiarato che i raid non dureranno più di un mese, un tempo largamente insufficiente per sanare le divisioni tra i libici che hanno alla base un problema chiave: la spartizione della torta petrolifera, un bottino che insieme agli investimenti all’estero ammonta a circa 130-150 miliardi di dollari. Fette di torta cui aspiriamo anche noi qui in Occidente. Gli Stati Uniti possono essere soddisfatti di eliminare le roccaforti del Califfato e dare una spinta alla campagna della signora Clinton ma per l’Italia il problema fondamentale è stabilizzare le coste da dove affluiscono migliaia di rifugiati. La sconfitta dell’Isis può essere un inizio promettente ma non basta: oggi il 40% del Pil della Tripolitania è generato dal traffico di essere umani che alimenta le stesse fazioni del governo Sarraj. Aumentare l’export di oro nero e di gas è essenziale per sganciare fazioni e tribù dai proventi dei traffici clandestini. In questo l’Italia può dare una mano interessata, non meno di quella dei "pompieri incendiari" che hanno contribuito al caos del Paese. La Libia, come la Siria, è una lezione sui tempi che corrono: concetti come "alleato" e "nemico" non spiegano più la realtà internazionale. Anche l’Italia nel caso libico ha avuto la prova di quanto gli alleati siano più spesso concorrenti che amici. Speriamo di avere imparato la lezione. Brasile: dal ring al carcere di Patrizio Gonnella Il Manifesto, 12 agosto 2016 E due! Sono infatti già due i pugili arrestati da quando sono iniziate le Olimpiadi. E tutti e due per molestie sessuali. Dopo il marocchino Hassan Saada, è toccato al namibiano Junias Jonas. Aveva sfilato al Maracanà sventolando la bandiera della Namibia: dunque, era il loro atleta più rappresentativo. Non è proprio raro per un pugile rischiare la prigione. E quando ci finisce in qualche modo c’entra il rapporto con le donne. Tra i casi più noti vi sono quelli di Carlos Monzon, condannato per avere ucciso la ballerina Alicia Muniz (Monzon morirà in uno schianto di auto durante un permesso premio), e di Mike Tyson, condannato a dieci anni per la violenza sessuale nei confronti di Desirée Washington. Un triste legame che non ha risparmiato nessuno, neanche i grandi del ring. Junias Jonas avrebbe dovuto combattere martedì contro il boxeur francese Hassan Anzille. Invece, si trova a trascorrere il mese di agosto, e chissà quanto altro tempo ancora, nella prigione di Bangu. Non è una prigione qualsiasi. È il carcere dove Josè Padilla ha girato il sequel del film "Tropa de Elite": gli squadroni della morte, vincitore a Berlino nel 2008 dell’Orso d’oro per il migliore film. A Rio e San Paolo lo hanno visto praticamente tutti. Droga, corruzione e polizia sono parte di un unico plot. A Bangu, Padilla ha ambientato una delle tante rivolte avvenute nelle carceri brasiliane e finite in un massacro. Il film evoca la strage di prigionieri avvenuta nella galera di Carandiru a San Paolo, quando la polizia arrivò ad ammazzare a freddo 111 detenuti, a rivolta oramai conclusa. Il carcere di Carandiru dieci anni dopo fu chiuso. Di quel massacro restano solo un film di Hector Babenco e una canzone dei Sepultura. Non c’è traccia, infatti, di condanne eseguite nei confronti di chi lo aveva ordinato o eseguito. Junias Jonas non è stato trattato con i guanti bianchi. Bangu è qualcosa di più di una prigione. È un mega-penitenziario, composto da ben 17 diverse sezioni. È il carcere dove venne recluso il miliardario Andre Esteves, accusato di un grande scandalo economico. Ventidue giorni trascorsi nella prigione di Bangu, affollata, pare, oltre che da detenuti anche da topi e insetti vari. Junias Jonas anche se dovesse leggere un libro al giorno non potrebbe usufruire degli sconti di pena per chi si dedica allo studio. Non dovrebbe vigere infatti nel carcere di Bangu quanto previsto negli Stati del Paranà e del Cearà. In base al programma Reembolso atraves da leitura il detenuto può scegliersi un libro tra quelli presenti in biblioteca. Ha 28 giorni per leggerlo. Dovrà poi sostenere un esame scritto e orale a testimonianza di averlo fatto e di averne capito il senso, nonché di essere capace di sintetizzarlo rispettando le regole grammaticali. Per ogni libro letto e relativo esame superato vi sono quattro giorni di carcere in meno da espiare. Non c’è dubbio che l’educazione, la letteratura, lo studio costituiscono un tassello decisivo nella scelta di emanciparsi de scelte o carriere devianti. Ed è altresì certo che la lettura di qualità è una grande risorsa per la crescita individuale. Detto questo, l’ideale sarebbe costruire un sistema penitenziario mite, rispettoso della dignità umana, ispirato al principio della responsabilità e dell’integrazione sociale, dove non tutto però viene negoziato entrando all’interno dello scambio trattamentale. Non è giusto trasformare tutto in una punizione oppure in un premio. Barattandola con la libertà, anche la lettura non sarà una scelta spontanea ma sarà una decisione opportunisticamente calcolata. Nelle contraddizioni del Brasile di oggi c’è anche questo. Filippine: 10 morti durante un tentativo di evasione dal carcere di Paranaque City Internazionale, 12 agosto 2016 Un’esplosione nel carcere di Paranaque City, nelle Filippine, ha provocato la morte di dieci detenuti. Secondo le autorità, i detenuti stavano preparando un’evasione con una presa di ostaggi quando è esplosa una granata e c’è stata una sparatoria. Le carceri filippine sono sovraffollate dopo che il presidente Rodrigo Duterte ha ordinato migliaia di arresti nel corso della sua campagna contro la criminalità e il narcotraffico. Yemen prigioniero dei fallimenti: senza intese diplomatiche, domina la guerra di Eleonora Ardemagni Avvenire, 12 agosto 2016 La diplomazia fallisce ancora e la guerra rialza la testa: la soluzione politica del conflitto in Yemen è più che mai lontana, mentre la coalizione militare guidata dall’Arabia Saudita ha sferrato trenta attacchi aerei contro i miliziani sciiti nella sola giornata di domenica scorsa. "Solo due settimane per negoziare", aveva d’altronde scandito l’emiro del Kuwait, Paese che ha ospitato i negoziati fra il governo legittimo yemenita e gli insorti sciiti (gli huthi del movimento Ansarullah e i fedeli dell’ex presidente Ali Abdullah Saleh), interrottisi sabato scorso dopo l’ennesimo nulla di fatto. Invece, il fatto nuovo va nella direzione esattamente opposta: Ansarullah e il blocco di Saleh hanno dato vita a un ‘comitato politicò per il governo del Paese in aperta sfida alle richieste Onu, sostituendo quel "comitato rivoluzionario" proclamato dagli huthi all’indomani del golpe, datato gennaio 2015. Il fallimento di questa tornata di colloqui, la terza dall’inizio del conflitto nel 2015, sta spingendo lo Yemen, già il Paese più povero del Medio Oriente e del Nord Africa, verso il punto di non ritorno, anche umanitario: le vittime sono almeno 6.400 e quasi 3 milioni gli sfollati interni. E le rituali affermazioni dell’inviato delle Nazioni Unite, secondo il quale le parti in conflitto torneranno a riunirsi entro un mese "in un luogo da decidere", suonano quanto mai vuote. Infatti, le fazioni sono da tempo arroccate su posizioni distanti: il governo legittimo chiede il ritiro degli insorti dalle aree occupate e la restituzione delle armi sottratte alle Forze armate (come recita la risoluzione 2216 dell’Onu), mentre i miliziani sciiti esigono prima la formazione di un governo di unità nazionale. Al di là delle incertezze diplomatiche, quattro dinamiche politiche sono invece chiare. Innanzitutto, l’intervento militare dell’Arabia Saudita ha sigillato l’alleanza strumentale, non ideologica, fra gli huthi e Saleh: l’opposizione a Riad è infatti il collante di questo patto fra antichi nemici, accomunati dalla difesa delle originarie terre del nord e soprattutto dalla volontà di (ri)conquista del potere. La chiave di volta del conflitto yemenita è ormai lo scontro fra i sauditi e gli huthi: non è casuale che colloqui informali tra le parti (al di fuori della cornice Onu) avessero temporaneamente ridotto la violenza lungo il confine, mentre i raid sauditi si concentrano ora proprio tra la capitale e Saada, roccaforte huthi. Da una prospettiva geopolitica, la Russia appoggia, anche in Yemen, il fronte sciita sostenuto dall’Iran, come già in Siria e in Iraq, nel quadro della sua rinnovata politica d’influenza in Medio Oriente. Mosca ha appena posto il veto alla risoluzione Onu che intendeva condannare il ‘comitato politicò istituito dai miliziani sciiti. L’interesse nazionale degli Stati Uniti in Yemen è la lotta alle formazioni jihadiste, ovvero al-Qaeda nella Penisola Arabica (Aqap) e la provincia locale del cosiddetto Stato Islamico: ma lasciando il ‘dossier Yemen’ nelle sole mani dell’alleato saudita, Washington ha indirettamente contribuito all’indebolimento del governo legittimo e dunque all’espansione territoriale jihadista, con Aqap che è arrivata a controllare alcune città strategiche nel Sud. È sintomatico che Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti abbiano iniziato da qualche mese a bombardare, in maniera inedita, postazioni e campi d’addestramento jihadisti lungo le coste meridionali. Le linee del fronte sono tante. L’esercito regolare e le tribù che si oppongono all’alleanza huthi-Saleh intensificano le operazioni militari a est della capitale occupata Sanàa, avvicinando la battaglia per la sua riconquista, più volte rinviata. Gli scontri lungo il confine tra Arabia Saudita e Yemen sono tornati frequenti, così come il lancio di missili in territorio saudita: negli ultimi giorni, almeno una quindicina di militari sauditi di frontiera hanno perso la vita. Taiz, terzo cento urbano e culla dell’islamismo yemenita, è una città ancora contesa. Proprio a Taiz, la recente distruzione dell’antica moschea sufi di Shaykh Abdulhadi al-Sudi (il sufismo è la corrente più mistica e tollerante dell’islam) rappresenta l’ennesimo sfregio al pluralismo culturale dello Yemen. Il prossimo ritorno delle fazioni in lotta al tavolo negoziale, pertanto, non è affatto scontato. E ancor meno lo sarà la prospettiva di un accordo durevole.