L’uso del carcere (ripensando a Manzoni) di Piero Sansonetti Il Dubbio, 11 agosto 2016 "Bisogna alzar la voce (clamandum est) contro quei giudici severi e crudeli che, per acquistare una gloria vana, e per salire, con questo mezzo, a più alti posti, impongono ai miseri rei nuove specie di tormenti". Queste parole sono state scritte da un giurista del ‘500, di nome Antonio Gomez, citato da Alessandro Manzoni nel secondo capitolo di Storia della Colonna infame, che pubblichiamo oggi, e che racconta, come sapete, un episodio di clamorosa ingiustizia nella Milano del ‘600. La frase di Gomez non può non colpire. Sembra una fotografia di tante situazioni attualissime. L’idea che mezzo millennio fa - in Spagna, in piena epoca di Inquisizione - già i giuristi si interrogassero sull’eccesso di potere e di spettacolarità di alcuni magistrati, è sorprendente. E ci dice che la questione dell’intreccio, talvolta perverso, tra giustizia e potere, è una questione connaturata con il potere, e che può essere sciolta solo mettendo in discussione e disarticolando il potere, e contrapponendogli il diritto. Questo secondo capitolo della "Colonna Infame" è interamente dedicato alla tortura. Ed esamina in modo molto approfondito tutti gli aspetti del problema. In particolare - mi è sembrato - tre aspetti. 1). L’uso di una pena - perché la tortura è una pena - come strumento di indagine. È evidentemente questa commistione la negazione di ogni principio del diritto. E Manzoni spiega bene come il problema già se lo fossero posti i romani. La discussione allora non riguardava neppure il tema della "crudeltà" e della legittimità o no della "crudeltà" nella applicazione della legge, ma riguardava l’uso improprio di una pena come strumento di pressione verso un cittadino considerato ancora innocente. E fu esattamente per questa ragione che - tra la fine del 700 e i primo dell’800 - la tortura - "il supplizio" - fu cancellata dai codici e ai giudici fu sottratto uno strumento molto consistente del proprio potere. Naturalmente non è così automatico sostituire la parola tortura con la parola carcere preventivo. È chiaro che c’è una bella differenza tra tormentare con il fuoco una persona, o imporle la "ruota" che slogava e fratturava ossa e muscoli, con atroce dolore, e sbatterla in una cella e lasciarla lì, isolata, per sei mesi, o un anno, o due. Però dal punto di vista dei principi la differenza non è enorme. Così come la tortura la carcerazione preventiva è una pena e viene non di rado usata come strumento di indagine. Manzoni metteva in discussione il diritto dei giudici ad usare la pressione fisica per indurre alla confessione, o all’accusa verso complici reali o immaginari. E su questo piano le cose non sono cambiate. Non nel senso che oggi la legge consenta l’uso a scopo di tortura del carcere preventivo: non lo consente. Però la cosa avviene, è frequentissima, anzi è la norma. In modo del tutto illegale, molti Pm ordinano l’arresto delle persone, anche violando il codice di procedura, con lo scopo - talvolta persino dichiarato - di indurre gli imputati ad "arrendersi". Questo potere non gli è riconosciuto dalla legge. E però nessuno glielo nega. Anzi, la politica glielo riconosce. talvolta sottovoce, talvolta in modo esplicito, quando per esempio autorizza l’arresto di deputati senza rispettare le norme del codice. 2) la spettacolarità della giustizia che si realizza sempre attraverso la condanna di un colpevole. La giustizia non è mai spettacolare, né gradita al popolo, quando assolve. Lo è quando condanna. E questo rende la "giustizia spettacolare", comunque, una giustizia "forcaiola". Antonio Gomez se ne accorgeva a metà del 500, quando non c’era la Tv, non c’era Facebook, non c’erano i giornali giustizialisti. Oggi invece, nella modernità, moltissimi pensano che la giustizia spettacolare non sia un abominio ma un portato della libertà di stampa. 3). La critica del potere. Tutto lo scritto di Manzoni torna continuamente su questo punto. L’eccesso del potere, la discrezionalità, la possibilità per una persona di decidere il dolore, il terrore, la vita o la morte di un’altra persona, al di fuori da ogni controllo, di ogni verifica, e persino, molto spesso, di ogni ricerca della verità. Questo forse è il tema più moderno che Manzoni mette sul tavolo. Nessuna critica del potere è possibile se esclude la critica del potere giudiziario. Perché il potere giudiziario è il potere dei poteri. E invece il dibattito politico, da circa quarant’anni, in Italia, ci ha offerto una conoscenza del potere del tutto "deviata", passata per il prisma di rifrazione del giustizialismo. Che ha sedotto e sottomesso l’intera intellettualità. Per cui l’immagine che si afferma è quella di una lotta aperta condotta da una magistratura libera, indipendente ed eroica, che si oppone al potere politico e alle sopraffazioni, in nome del popolo e dei suoi interessi. È una immagine rovesciata rispetto alla realtà. La magistratura è il potere, vive nel potere, esprime il potere, controlla il potere rifiutando di essere controllata. È l’unico potere incontrollato esistente, nella società contemporanea, cioè l’unico potere puro, essenziale, assoluto. In che nodo si concilia una magistratura espressione del potere incontrollato e una magistratura custode del diritto? Non sono conciliabili. Eppure dentro la magistratura italiana coesistono queste due aspirazioni. E continuamente si manifestano, talvolta nelle inchieste, talvolta nello spettacolo, talvolta nelle sentenze e nelle indagini serie. Possiamo affidarci alla speranza che la magistratura del diritto prevalga sulla magistratura del potere? O invece bisogna pensare a riforme che limitino il potere, aumentino i controlli, i contrappesi, ed esaltino i diritti del diritto? Sicuramente il professor Antonio Gomez opterebbe per questa seconda scelta. E anche Manzoni. Le macerie di Mafia Capitale di Massimo Bordin Il Foglio, 11 agosto 2016 È esistita a Roma un’organizzazione di tipo mafioso capace di condizionare con la sua forza di intimidazione l’amministrazione della città? Cosa non torna dopo venti mesi di processo. Lo scorso 21 luglio il processo Mafia capitale è andato in ferie e riaprirà i battenti il 12 settembre. Poi ancora una manciata di mesi e si arriverà a sentenza. I personaggi che hanno popolato le udienze nel ruolo di imputati e testimoni troveranno la loro collocazione nel dispositivo stilato dal tribunale, ma non è questa la questione più importante. Il problema da risolvere, la domanda principale cui dovrà rispondere il collegio giudicante è di carattere generale: è esistita a Roma una organizzazione di tipo mafioso capace di condizionare con la sua forza di intimidazione l’amministrazione della città? Non si parla di una infiltrazione di cosa nostra, della ‘ndrangheta o della camorra negli affari dell’amministrazione comunale. L’ipotesi della procura riguarda una specifica e sostanzialmente autoctona organizzazione criminale, composta da politici, imprenditori e malavitosi locali, che occasionalmente entra in contatto con le enclave mafiose, camorriste o ‘ndranghetiste pur presenti nella capitale ma vive una propria vita autonoma. Una sorta di quarta, o quinta considerando la "sacra corona" pugliese, organizzazione mafiosa presente nel nostro paese. Una mafia che parla romanesco e vede partecipi politici di diversi e opposti schieramenti, fino al massimo rappresentante della città dal 2008 al 2013, l’ex sindaco Gianni Alemanno. Questa almeno l’ipotesi di partenza quando il 2 dicembre 2014 vengono eseguiti i primi 37 arresti. L’operazione era stata battezzata dai carabinieri del Ros "Mondo di mezzo", prendendo spunto da una intercettazione, ma la stampa e i Tg la chiameranno subito "Mafia Capitale" e c’è un motivo che riguarda un singolare prologo svoltosi 48 ore prima degli arresti. Al teatro Quirino si svolge un convegno del Pd romano con un ospite d’eccezione, il procuratore capo Giuseppe Pignatone. Il suo intervento è una requisitoria contro il mondo politico della capitale, Pd compreso, e stupisce i giornalisti che conoscono la riservatezza del magistrato e la sua contrarietà alle intemerate dai palchi di partito care a molti suoi colleghi che infatti non lo amano. Il procuratore delinea un quadro effettivamente desolante della legalità e della correttezza amministrativa nella capitale, ma non si ferma a questo. "Le regole sono importanti ma sono le persone che fanno la differenza", dice a una platea di rappresentanti e amministratori del partito che governa città e regione. E poi aggiunge: "Le indagini hanno dimostrato la presenza della criminalità organizzata di tipo mafioso di almeno due organizzazioni a Ostia, una delle quali collegata a cosa nostra, pronte a far ricorso alla violenza" mentre "a Roma ci sono altri mezzi, c’è la corruzione" e "esiste il rischio di un accordo fra mafia e altro, di un patto che non si basa sulla paura ma sulla reciproca convenienza": un patto in cui "il politico è in una posizione di forza rispetto al mafioso". È praticamente l’esposizione dell’ipotesi accusatoria alla base della imminente retata fatta di fronte a chi sta per restarci impigliato. Cosa è preso al solitamente riservato e alieno dalle ribalte dottore Pignatone? Il Corriere della Sera riporta queste frasi del procuratore e quando due giorni dopo scattano le manette il collegamento col discorso del Quirino appare scontato. Esiste una mafia-capitale. È l’ultimo anello di una preparazione mediatica a base di inchieste giornalistiche, libri di docu-fiction e perfino film. Dunque l’impatto del processo nell’opinione pubblica è altissimo, le attese sono adeguate e il discorso del Quirino ha finito per trasferire sull’inchiesta una sfumatura politica. Una piovra domina Roma come ha dominato Palermo, ma la testa della piovra romanesca è fatta direttamente di politici che sono "in una posizione di forza rispetto ai mafiosi". Tutto questo però si regge su un articolo del codice penale, quello che punisce le associazioni di stampo mafioso. Se gli imputati che ne sono gravati se lo vedranno confermare in sentenza sarà non solo un problema di pene aumentate per loro ma di conseguenze politiche per la città, che del resto già ci sono state con la caduta della giunta e le elezioni vinte dal M5s. A questo punto del processo è possibile già fare un primo bilancio e capire qualcosa degli sviluppi futuri. Con l’estate siamo arrivati a un giro di boa del dibattimento con il passaggio ai testi citati dalla difesa degli imputati. Quelli dell’accusa sono già stati sentiti tutti. Restano da sentire ancora gli imputati, certo, ma è difficile pensare che dai loro interrogatori possa venir fuori qualche elemento decisivo per l’accusa. Succede nei film ma nei processi veri quasi mai. Dunque si può dire che l’accusa le sue carte le ha giocate tutte con i suoi testimoni. Come spesso capita, l’attenzione dei media, massima nel momento istruttorio, quando tonnellate di intercettazioni vengono abitualmente riversate sui giornali, quando i protagonisti compaiono in carne ed ossa in un’aula giudiziaria comincia a spostarsi dalle prime pagine alle proverbiali tre colonne in cronaca. In questo caso c’era anche una giustificazione. Passate le prime udienze, dense di questioni procedurali ma anche di aspetti di colore come per esempio la richiesta di costituzione di oltre sessanta parti civili due terzi delle quali respinte dal tribunale, per il resto, a parte qualche fuoco d’artificio degli avvocati difensori, le udienze dibattimentali non hanno offerto molto di più di quanto già non si fosse letto sui giornali. È difficile dire se sia un bene o un male ma questo processo ha una caratteristica quasi unica che lo distingue da tutti gli altri processi di mafia degli ultimi trentacinque anni: praticamente non c’è un pentito. O meglio, uno c’è stato ma assolutamente marginale nella architettura dell’ipotesi accusatoria e portato in aula dai pm più a far numero che come colonna portante dell’accusa. Peraltro la sua deposizione è stata molto zoppicante e rimane impressa nella memoria solo perché si è sentito uno strano pentito di mafia che parlava in perfetto romanesco. L’architrave della inchiesta sta piuttosto nelle intercettazioni, telefoniche e ambientali. Dunque, la lunga sequenza dei testi d’accusa ha visto sfilare numerosi ufficiali e sottufficiali del Ros dei carabinieri che hanno condotto l’indagine sul campo. Sono stati loro, sollecitati dalle domande dei pm, a spiegare al tribunale su cosa si fonda l’accusa di mafia. Nella sua deposizione è in particolare il capitano Giorgio Mazzoli a precisare anche la scansione temporale con la quale si arriva a ipotizzare il reato di associazione mafiosa. Si tratta di una serie di intercettazioni ambientali di cui è oggetto Massimo Carminati nel dicembre 2012 nell’ambito di una indagine per sospetto riciclaggio. Viene fuori che Carminati è in contatto con alcune sue vecchie conoscenze dell’estremismo di destra che ora sono, con la giunta Alemanno, in posti di responsabilità in alcune aziende partecipate dal comune. Parlano di affari su telefoni che usano solo per quelle conversazioni fra loro e che cambiano frequentemente. Poi c’è una intercettazione ambientale che i carabinieri definiscono "programmatica" in cui Carminati spiega a un piccolo imprenditore edile, che vorrebbe forse essere suo complice ma in realtà appare una sua vittima, la famosa teoria del "mondo di mezzo". Infine, c’è una terza intercettazione nel gennaio 2013 dove Carminati nella sua auto, dove hanno piazzato una microspia, parla a un altro piccolo imprenditore edile, col quale è in affari e ora si trova anche lui sul banco degli imputati, dei suoi contatti con quelli che lavorano nelle partecipate comunali e pronuncia la frase "Semo proprio ‘na bella squadra". Su queste basi la procura decide di procedere per il reato di associazione mafiosa. Non hanno Buscetta, ma Carminati che parafrasa Tolkien. E soprattutto non hanno cosa nostra o qualcosa che le somigli. Nel dicembre 2012 era uscita la copertina dell’Espresso che lanciava l’inchiesta di Lirio Abbate sui "quattro re di Roma", divisa in quattro zone dominate dalla criminalità: Carminati, Casamonica, Fasciani, Senese. Nel processo mafia capitale si ritrova uno solo del poker di re. Di uno dei Casamonica il tribunale ha respinto la testimonianza. Fasciani, condannato per mafia in un altro processo dallo stesso tribunale che ora giudica Carminati, si è visto derubricare in appello il reato di mafia a semplice associazione a delinquere. Senese, un capo camorra stanziale a Roma, entra negli atti processuali per la registrazione di un diverbio con Carminati ma non è fra gli imputati. Se il processo fosse davvero "Mafia capitale" queste presenze dovrebbero documentare l’unicità dell’organizzazione mafiosa o almeno le interrelazioni fra le varie cosche. È quello che nel dibattimento è mancato. Nessuno pretende coppole e lupare ma un livello di intimidazione utilizzato per obiettivi adeguati agli standard mafiosi sì. Come vittime della violenza e delle minacce del gruppo, in dibattimento i pm hanno portato un imprenditore edile di Roma Nord, un gioielliere dei Parioli per una storia relativa al pagamento di tre Rolex, un autotrasportatore, il proprietario di un autosalone, un venditore ambulante, un pensionato vessato per tremila euro di interessi usurari, un orafo che doveva fare un affare in Africa finanziato da Carminati e poi sfumato. Quanto al "gruppo di fuoco", capace di intimidire, oltre a Carminati c’è un più giovane ex estremista nero, poi divenuto rapinatore, una sorta di suo attendente, Riccardo Brugia. Talvolta, per esempio per terrorizzare il pensionato, si fa ricorso a un giovanotto che protesta con la stampa perché sostiene di non essere mai stato soprannominato "spezza pollici" e di cui Carminati parla nelle intercettazioni in termini non lusinghieri. Certo nel dibattimento finora sono venuti fuori diversi reati contro le persone e contro l’amministrazione. Uno spaccato verosimile e inquietante di come vengano gestiti i campi Rom e l’accoglienza ai migranti. Il lobbismo molto spregiudicato di Salvatore Buzzi, uno dei Casamonica, che non verrà sentito nemmeno come teste, utilizzato in un campo Rom come mediatore sociale. E poi la gestione dei rifiuti, tema peraltro ancora di strettissima attualità. Insomma non si può dire che il processo sia costruito sul nulla e infatti nessuno lo sostiene. Il problema sta nel confezionamento tutto politico, in quella suggestione di una città conquistata dalla mafia e divenuta irredimibile. Tutto ciò, fin qui, dal dibattimento non è emerso e nemmeno nelle sentenze di altri processi collegati a questo che possiamo definire principale e "programmatico", rubando l’aggettivo al capitano del Ros che abbiamo citato più sopra. Proprio quel processo alle famiglie Fasciani e Triassi di Ostia che il procuratore Pignatone cita nel suo discorso al teatro Quirino è stato, come già detto, riformato in appello. Ora il tribunale che giudica Carminati, Buzzi e compagni sa che dovrà usare, per condannarli per mafia, argomenti giuridici diversi da quelli usati per Fasciani e cassati in appello. Del resto un segnale significativo era già arrivato a proposito della posizione processuale dell’ex sindaco Alemanno, la cui richiesta di rinvio a giudizio, anche per associazione mafiosa, era stata presentata dalla procura romana lo stesso giorno della prima udienza del grande processo, con il massimo favore di telecamere e Tg. Solo che circa un mese dopo il gip, pur rinviando a giudizio l’ex sindaco per altri reati, fece cadere l’imputazione di mafia. Si può dire in conclusione che l’estate consegna alla cronaca un processo iniziato di fatto da un palco di un convegno di partito con pretese che il suo svolgimento dibattimentale e altre vicende giudiziarie parallele stanno seriamente ridimensionando. Il percorso appare simile ad altri processi monstre nei confronti dei quali, come abbiamo scritto più sopra, proprio l’attuale procuratore capo di Roma aveva mostrato tutta la sua distanza, pagando anche dei prezzi non lievi. Pochi ricordano forse che il dottor Antonio Ingroia arrivò ad aprire un fascicolo presso la procura di Palermo per indagare sui modi della cattura di Bernardo Provenzano all’epoca coordinata proprio dal dottor Pignatone. Ingroia così riuscì a coniugare un processo, da lui perso in primo grado e in appello, contro chi, secondo lui, aveva evitato di catturare Provenzano a una indagine nei confronti di chi l’aveva assicurato alla giustizia. Pignatone non fece una piega e l’indagine, si fa per dire, finì nel nulla. Qualcosa però deve aver forse sedimentato. O forse esiste una sorta di maledizione palermitana. Un’altra vittima, per così dire, di un certo modo di gestire l’azione penale fu Pietro Grasso quando rifiutò di seguire i consigli di Ingroia e Leoluca Orlando, e naturalmente Marco Travaglio su come perseguire l’allora governatore siciliano Totò Cuffaro. Accusarono Grasso di essere accomodante coi potenti. Grasso non gli dette retta e Cuffaro fu condannato e ha espiato la sua pena in carcere. Solo che poi Grasso non resistette alla tentazione di candidarsi alle elezioni in concorrenza con Ingroia e ora abbiamo un presidente del Senato discutibile mentre rimpiangiamo un magistrato bravo come pochi. Speriamo solo che anche a Roma non succeda qualcosa di simile. Strage di piazza Loggia, è stata la destra eversiva di Maggi e Tramonte Corriere della Sera, 11 agosto 2016 Ecco perché sono stati condannati l’ispettore di Ordine Nuovo, Carlo Maria Maggi e l’allora collaboratore dei servizi segreti, Maurizio Tramonte ritenuti colpevoli della strage che il 28 maggio del 1974 costò la vita a 8 persone e il ferimento di 102. La strage di piazza della Loggia a Brescia (28 maggio 1974) è "sicuramente riconducibile" alla destra eversiva e "tutti gli elementi evidenziati convergono inequivocabilmente nel senso della colpevolezza di Carlo Maria Maggi" e del collaboratore dei servizi segreti Maurizio Tramonte. Sta scritto nelle motivazioni della sentenza con cui i giudici della seconda corte d’assise d’appello di Milano il 22 luglio 2015 hanno condannato i due neofascisti veneti all’ergastolo per l’eccidio costato vita a otto persone (102 i feriti). Motivazioni molto attese da famigliari delle vittime ed istituzioni, e rese pubbliche solo il 10 agosto 2016. Maggi, si legge ancora nelle motivazioni, aveva "la consapevolezza" di poter contare "a livello locale e non solo, sulle simpatie e sulle coperture - se non addirittura sull’appoggio diretto - di appartenenti di apparati dello Stato e ai servizi di sicurezza nazionale ed esteri". I giudici puntano anche il dito sui "troppi intrecci che hanno connotato la mal-vita, anche istituzionale, dell’epoca delle bombe". Il presidente Anna Conforti parla di "opera sotterranea", di un "coacervo di forze" che di fatto hanno resto "impossibile la ricostruzione dell’intera rete di responsabilità". Il ruolo dei due neofascisti - I due neofascisti veneti Maggi e Tramonte erano stati condannati all’ergastolo nel processo bis per la strage di piazza della Loggia. Non era mai arrivata nessuna condanna nei 12 processi precedenti, mentre il 22 luglio 2015 la corte d’appello ha inflitto loro l’ergastolo. I giudici milanesi sottolineano che Maggi "era l’unica figura che, all’epoca dei fatti, coniugava a un tempo l’ideologia stragista, il parvente instancabile attivismo per riorganizzare in ordine nero gli orfani del dissolto Ordine nuovo" e "i cani sciolti" dell’estremismo neo fascista. Aveva, inoltre, il carisma per svolgere un ruolo assolutamente centrale in tale opere di costituzione, e poteva disporre di più canali di approvvigionamento di armi ed esplosivi e "la disponibilità di gelignite, esplosivo utilizzato per il confezionamento dell’ordigno fatto esplodere in piazza della Loggia. La corte sottolinea inoltre che Maggi poteva disporre "di un armiere con le capacità tecniche di Digilio (Carlo ritenuto l’armiere di Ordine Nuovo ndr) per confezionare l’ordigno o per intervenire alla bisogna". Maggi avrebbe infine, avuto "la rete di collegamenti necessari per completare la fase esecutiva dell’attentato senza "sporcarsi le mani". Secondo i giudici della seconda sezione della corte d’assise d’appello di Milano, incaricati del processo d’appello bis, dopo l’annullamento, da parte della cassazione, dell’assoluzione di Maggi e Tramonte, l’ex ispettore di Ordine Nuovo per il Triveneto aveva maturato la consapevolezza di poter contare sull’appoggio di appartenenti ai servizi di sicurezza, "attraverso le molteplici riunioni preparatorie anche con militari italiani e americani". I giudici, presieduti da Anna Conforti, sottolineano che Maggi "era l’unica figura che, all’epoca dei fatti, coniugava a un tempo: l’ideologia stragista, il parvente instancabile attivismo per riorganizzare in ordine nero gli orfani del dissolto Ordine nuovo", e `i cani sciolti´ dell’estremismo neo fascista. Aveva, inoltre, il carisma per svolgere un ruolo assolutamente centrale in tale opere di costituzione, e poteva disporre di più canali di approvvigionamento di armi ed esplosivi" e "la disponibilità di gelignite, esplosivo utilizzato per il confezionamento dell’ordigno fatto esplodere in piazza della Loggia "che causò 8 morti e oltre 100 feriti, nel corso di una manifestazione antifascista". La corte sottolinea inoltre che Maggi poteva disporre "di un armiere con le capacità tecniche di Digilio (Carlo ritenuto l’armiere di O.N. ndr) per confezionare l’ordigno o per intervenire alla bisogna". Maggi avrebbe infine, avuto "la rete di collegamenti necessari per completare la fase esecutiva dell’attentato senza "sporcarsi le mani". L’epopea giudiziaria - Erano le 10.12 del 28 maggio 1974 quando in Piazza della Loggia, cuore del dibattito politico della città, durante una manifestazione antifascista organizzata dai sindacati, scoppiò la bomba posizionata in un cestino dell’immondizia, sotto il porticato dove la gente si era radunata per evitare la pioggia. Da quel giorno sono si sono susseguite 12 sentenze. La prima il 2 giugno 1979: condannato all’ergastolo Ermanno Buzzi e a dieci anni Angelino Papa ma due anni più tardi Buzzi è strangolato nel supercarcere di Novara da altri due neofascisti, che motivarono il gesto dicendo che Buzzi era "pederasta" e confidente dei carabinieri, ma il sospetto è che temessero fosse intenzionato a fare dichiarazioni nell’imminente processo d’appello. Il 2 marzo 1982 i giudici della Corte d’assise d’appello di Brescia assolvono tutti gli imputati. La Cassazione annulla la sentenza e dispone un nuovo processo per Nando Ferrari, Angelino e Raffaele Papa e Marco De Amici. Il 23 marzo 1984 il pm Michele Besson e il giudice istruttore Gian Paolo Zorzi aprono la cosiddetta "inchiesta bis". Imputati i neofascisti Cesare Ferri, il fotomodello Alessandro Stepanoff e Sergio Latini, che verranno poi assolti (assoluzione confermata dalla Cassazione). Nel 1993 vengono prosciolti gli ultimi imputati dell’inchiesta bis. Il 16 novembre 2010 i giudici della Corte d’assise di Brescia assolvono anche Delfo Zorzi, Carlo Maria Maggi, Maurizio Tramonte, Francesco Delfino e Pino Rauti per insufficienza di prove. Viene revocata anche la misura cautelare nei confronti dell’ex ordinovista Delfo Zorzi, che vive in Giappone. Due anni dopo arriva la conferma della corte d’appello. Il 21 febbraio 2014 la Cassazione annulla le assoluzioni e stabilisce però la necessità di un nuovo processo per accertare le responsabilità di Maggi e Tramonte (assolto definitivamente Delfo Zorzi). Il 22 luglio 2015 la corte d’appello d’assise di Milano emette la condanna all’ergastolo. Oggi la pubblicazione delle tanto attese motivazioni. Il legale di Tramonte: "Sentenza ingiusta" - "Non ho bisogno di leggere le motivazioni della sentenza per dire che è una sentenza ingiusta che condanna un uomo innocente". Questo il commento dell’avvocato Marco Agosti, legale di Maurizio Tramonte, uno dei due condannati all’ergastolo per la strage di Piazza Loggia. Il legale bresciano entro il 15 ottobre depositerà il ricorso in Cassazione contro la sentenza della Corte d’assise d’appello di Milano. "Tutte le sentenze devono essere rispettate perché si rispetta l’istituzione. Questo non vuol dire che si debba condividerne le decisioni: io sono certo in base agli atti, per quello che è possibile sapere, che Maurizio Tramonte non può essere colpevole". Guerra dei boss, vince la ‘ndrangheta di Giuliano Foschini, Marco Mensurati e Fabio Tonacci La Repubblica, 11 agosto 2016 Da New York all’Australia, le inchieste delle polizie di mezzo mondo ci dicono che i clan calabresi hanno sconfitto Cosa Nostra nella lotta per il controllo delle rotte mondiali del narcotraffico. Ecco come i nuovi padroni del crimine hanno messo fuori gioco i vecchi padrini. Laval, sobborgo a nord di Montreal, Canada. Primo marzo. Lorenzo Giordano ferma il Suv Kia blu sull’asfalto innevato del parcheggio del Carrefour Multisport, vicino alla highway 440. Spegne il motore, il crocifisso legato allo specchietto retrovisore sta dondolando. Sono le 8.45, la mattinata è gelida. Un killer sbuca a lato della macchina e gli spara alla testa e alla gola, frantumando il vetro del finestrino. Lorenzo "Skunk" Giordano, 52 anni, muore poco dopo, in ospedale. Carlton, quartiere italiano di Melbourne, Australia. 15 marzo. Un signore abbronzato con i capelli ben pettinati esce dal Gelobar, la sua gelateria. Sta camminando, è da poco passata la mezzanotte. È solo, e la strada è buia. Lo freddano alle spalle sparandogli da un’auto in corsa, senza neanche fermarsi. Tre ore dopo un netturbino scende dal camioncino e si avvicina al cassonetto. Accanto c’è il cadavere di Joseph "Pino" Acquaro, 50 anni, famoso avvocato. Ancora Laval, 27 maggio. Alla fermata dell’autobus su boulevard St. Elzéar è seduto un uomo, sui trent’anni, vestito completamente di nero. Scarpe nere, pantaloni neri, giacca nera, occhiali neri. Sono le 8.30. La Bmw bianca di Rocco Sollecito, come previsto, passa sul boulevard. Il semaforo è rosso, si ferma. L’uomo nero si alza, e punta la pistola contro il finestrino della macchina. Rocco "Sauce" Sollecito, 62 anni, scivola sul sedile imbrattato del suo sangue, colpito a morte. Italiani che parlano inglese e sparano. Altri italiani che parlano inglese e muoiono. Canada, Australia, Stati Uniti. Reggio Calabria. Il terremoto di sangue ha un epicentro silente, New York. E nuovi clan emergenti che hanno preso troppo potere, come gli Ursino, ‘ndranghetisti di Gioiosa Ionica. L’onda d’urto si è propagata su tutto il pianeta. Le vite affogate nel piombo di "Skunk", "Pino" e "Sauce" sono scosse di assestamento. La chiamano la "guerra mondiale della mafia". La sesta famiglia. New York, quindi. Niente è come prima. Le cinque grandi famiglie di Cosa Nostra, Gambino, Bonanno, Lucchese, Genovese e Colombo non sono più quelle che erano. Lo documentano le ultime inchieste del Federal bureau of investigation (Fbi), condotte insieme agli investigatori del Servizio centrale operativo (Sco) della polizia italiana. Giovedì scorso l’Fbi ne ha catturati altri 46, tra la Florida, il Massachusetts, il New Jersey, New York e il Connecticut: capi, mezzi capi e paranza dei Gambino, dei Genovese, dei Bonanno. È finito dentro anche il 23enne John Gotti jr, nipote dell’ultimo grande boss di Cosa Nostra americana. Assediati dalle indagini e indebolite da un ricambio generazionale difficoltoso, i siciliani stanno cedendo spazio, in maniera apparentemente quasi del tutto incruenta, alla mafia calabrese. Nella Grande Mela i clan dei Commisso e degli Aquino-Coluccio si sono insediati da anni, ma chi sta rivendicando per sé il ruolo di "sesta famiglia" sono gli Ursino di Gioiosa Ionica. E questo è un problema, per tutti. Una sesta famiglia, infatti, c’è già. Pur non ammessa nel gotha criminale di New York, i Rizzuto di Montreal, in Canada, hanno storicamente un legame stretto con i Bonanno. Se c’è da mettere in piedi un affare di un certo peso - partite di cocaina, armi clandestine, riciclaggio - i referenti sono loro. Un rapporto che da un po’ di tempo non è più così solido. Tra il 2012 e il 2013 una fonte confidenziale dell’Fbi rivela che Francesco Ursino, il boss della omonima cosca storica alleata dei Cataldo di Locri, ha chiesto ai Gambino di poter lavorare sulla piazza di New York "proprio come una sesta famiglia". Chiesto per modo di dire. A questo giro sono i siciliani di Cosa Nostra a trovarsi di fronte a un’offerta che non si può rifiutare, perché quando ha bussato alla porta dei Gambino, Francesco Ursino in realtà si era già preso tutto: le rotte del narcotraffico, i contatti con i cartelli messicani e colombiani, il controllo dei porti e dei cargo. Il boss parlava a nome non di una famiglia sola, ma di quello che gli investigatori nell’indagine New Bridge (che porterà alla cattura del capoclan) definiscono "un consorzio" di clan della Locride. Rifiutare avrebbe voluto dire per i Gambino ingaggiare una guerra senza senso, e dall’esito incerto. Meglio mettersi d’accordo e accettare il dato di fatto. Sul mercato mondiale della cocaina, ‘ndrangheta rules, comanda. I broker e i cartelli sudamericani. Da anni i calabresi lavorano nell’ombra a New York, negli scantinati delle loro pizzerie e nei retrobottega dei loro "italian restaurant". Volano a Bogotà e San José nel weekend, fingendosi turisti. "Se volete sapere cosa succede a New York, cercate in Centro America; se volete sapere cosa succede tra i Cartelli del Golfo guardate chi comanda a New York", spiega Anna Sergi, criminologa dell’Università dell’Essex, studiosa delle proiezioni della ‘ndrangheta all’estero. E in Centro-Sud America succede che i calabresi comandano. Marcano il territorio. Agganciano intermediari. Sparano il meno possibile. Più finanza meno casini. La gola profonda che ha spiegato alla Dea e all’Fbi cosa si stava muovendo nel ventre criminale della Grande Mela si chiama Cristopher Castellano. È proprietario di una discoteca nel Queens, il Kristal’s, che usa per nascondere quello che in realtà è: un broker dei Los Zetas, il pericolosissimo cartello messicano paramilitare dei disertori dell’esercito che si avvale di lui per commerciare stupefacenti negli States e in Europa. Con i narcotrafficanti, Cristopher ha fatto una montagna di soldi. La festa dura poco, però. Lo arrestano nel 2008, e lui, pur di uscire dalla galera, canta. Si vende ai poliziotti due calabresi: Giulio Schirripa e tale "Greg". Racconta di questi due italiani che, usando le pizzerie come copertura e i soldi della ‘ndrangheta come garanzia, stanno muovendo tonnellate di cocaina nascosta nei barattoli di frutta trasportati dalle navi portacontainer. "Hanno una pipeline attraverso gli oceani", sostiene Castellano. Se girano grosse partite di polvere bianca che dal Costarica raggiungono gli Usa, il Canada, il Vecchio Continente e l’Australia, è roba loro. Distribuiscono, smistano, organizzano i viaggi delle navi, aprono società fittizie di import-export, corrompono doganieri. A New York vanno a cena con i Genovese. A San José si incontrano con gli uomini di Arnoldo de Jesus Guzman Rojas, il capo del cartello di Alajuela. A Reggio Calabria riferiscono al clan Alvaro. Sono dei "facilitatori", insospettabili perché incensurati: creano le condizioni per portare la polvere bianca dai laboratori nella giungla del Costarica al naso dei consumatori. Schirripa, arrestato insieme a Castellano, è l’archetipo dell’emigrato calabrese alla conquista di New York. Gregorio "Greg" Gigliotti, l’epigono. Cristopher Castellano è diventato carne morta nel momento stesso in cui ha aperto bocca con gli agenti federali. Quattro luglio del 2010, negli Stati Uniti si festeggia il giorno dell’Indipendenza. Ad Howard Beach, nel Queens, lo spettacolo di fuochi d’artificio è iniziato poco prima di mezzanotte. Castellano però non ha gli occhi al cielo, sta frugandosi le tasche per cercare le chiavi della macchina. Un colpo solo, alla nuca. Nessuno si accorge di niente. Castellano non soffierà più all’orecchio dell’Fbi. L’uomo che mangiava il cuore. Intanto, però, gli investigatori hanno messo sotto controllo i telefonini e riempito di cimici i ristoranti di Gigliotti nel Queens, tra cui il famoso "Cucino a modo mio" citato nelle riviste specializzate di tendenza. "Non c’è un grammo di cocaina in Europa che non sia passata tra le mani di Gregorio", ripetono spesso i complici dell’italiano, terrorizzati dalle escandescenze di Gigliotti. Quando si arrabbia, col suo dialetto calabrese impastato di slang americano può dire cose terribili: "Una volta mi sono mangiato un pezzo di rene e un pezzo di cuore", sbraita con la moglie, irritato da un altro calabrese che sta provando a inserirsi nel suo business. Il centro dei suoi affari è il Costa Rica, dove ha contatti diretti con i narcotrafficanti grazie a una fitta rete di broker e fiduciari. "E digli che non facciano troppo i furbi…", ripete loro, quando li spedisce a trattare in Sudamerica. Lui accumula denaro, i poliziotti dello Sco e dell’Fbi ascoltano e anticipano qualcuna delle sue mosse. Porto di Anversa, 16 chili di cocaina sequestrati. Porto di Valencia 40 chili, Wilmington 44 chili. Porto di Rotterdam 3 tonnellate. Poi l’8 maggio scorso lo arrestano. Finisce dentro anche suo figlio, Angelo. Ma poche settimane dopo torna in libertà grazie a una cauzione da cinque milioni di dollari. Pagata in contanti. La mattanza canadese. Fuori gioco i referenti degli Alvaro, New York se la sono presa gli Ursino. Compresi i contatti con i sudamericani. Le scosse del terremoto si riverberano in Canada, dove le gerarchie si sgretolano. E con esse la pax mafiosa. Dagli anni Ottanta i criminali italiani emigrati lì si erano divisi gli affari, tra Toronto e Montreal. Ai siciliani del clan Rizzuto la droga, ai calabresi arrivati da Siderno il gambling, il gioco d’azzardo, e l’usura. La mappa l’hanno disegnata nel 2010 gli investigatori italiani che hanno lavorato alla maxi inchiesta "Crimine" (che per la prima volta individuò i vertici della ‘ndrangheta) ed è ancora valida. Tre anni fa Vito Rizzuto, il capo, muore di tumore. Nei mesi successivi, in coincidenza con l’ascesa degli Ursino nel quadrante nordamericano, quattro dei sei membri del "Consiglio" dei Rizzuto vengono uccisi. Gli altri due si salvano soltanto perché sono in galera. L’ultimo a cadere è stato Rocco "Sauce" Sollecito. Poche settimane fa a Montreal stava per finire in una bara Marco Pizzi, 46 anni, importatore di cocaina per il clan secondo la polizia, sfuggito per un soffio ai suoi sicari che lo avevano tamponato con una macchina rubata. Erano mascherati e armati. "I calabresi hanno attaccato i vecchi poteri", ragiona un investigatore. "È ‘ndrangheta contro mafia". La guerra mondiale, quindi. La faida australiana. La scia di sangue si allunga fino all’Australia, dove il golpe calabrese sulle rotte della cocaina ha destabilizzato equilibri che si reggevano dalla fine degli anni Settanta. La famiglia Barbaro sembra aver perso il passo, e i contatti con i nuovi importatori sarebbero passati nelle mani di Tony e Frank Madafferi. A Melbourne i calabresi combattono contro i calabresi. Frank Madafferi e Pasquale "Pat" Barbaro furono indagati nel 2008 nel processo per il più grande carico di metanfetamine mai intercettato nella storia della lotta al narcotraffico: 4,4 tonnellate di ecstasy, per un controvalore di 500 milioni di dollari australiani (340 milioni di euro) in pasticche stivate in una nave che trasportava lattine di pomodori pelati. Ma quel processo non è l’unica cosa che Tony Madafferi e Pat Barbaro, poi condannato all’ergastolo, hanno in comune. A unirli, come spesso accade, anche la scelta dell’avvocato: il professionista italo- americano Joseph Acquaro. L’uomo trovato morto dal netturbino davanti alla gelateria, lo scorso marzo. Le indagini sono ferme al palo anche se un paio di elementi hanno attirato l’attenzione su Madafferi: in particolare alcune intercettazioni in cui si dichiara proprietario di Melbourne ("È mia, non di Pasquale") e si dice pronto ad uccidere il rivale ("gli mangio la gola"). Ma soprattutto il racconto di un pentito che ha spiegato alla polizia come nel sottobosco malavitoso di Melbourne tutti sapessero della taglia che Tony aveva da poco messo sulla testa dell’avvocato, colpevole a quanto pare di aver cominciato a parlare un po’ troppo con giornalisti e investigatori: 200mila dollari australiani. Un arresto a Fiumicino. Chi li abbia incassati non si sa. Quello che si sa è che pochi giorni prima di quell’omicidio, all’aeroporto di Fiumicino i carabinieri di Locri avevano arrestato Antonio Vottari, 31 anni, accusato di gestire i traffici di droga tra il Sudamerica e l’Europa per conto delle cosche di San Luca. Rientrava da Melbourne, dove da anni trascorreva la sua latitanza, con un visto da studente. Le sorti della guerra mondiale della mafia le decidono in Calabria. Tutto parte da là. E tutto, prima o poi, là ritorna. Fondi per il terrorismo, money transfer sotto tiro di Marco Mobili Il Sole 24 Ore, 11 agosto 2016 Il contrasto al finanziamento del terrorismo si fa sempre più spazio tra le priorità del piano di azione della Guardia di Finanza 2016. Scambio di informazioni a livello internazionale e livello nazionale con una cabina di regia affidata al secondo reparto del Comando generale, controllo mirato sui money transfer e l’istituzione, dal 1° agosto scorso, del Gruppo investigativo finanziamento terrorismo all’interno del Nucleo speciale di polizia tributaria. Sono le direttrici indicate dal nuovo comandante generale della Guardia di Finanza, Giorgio Toschi, che in prima persona ha disposto l’arrivo del nuovo Gruppo investigativo per "riaffermare l’impegno delle Fiamme gialle su questo delicato fronte, che riguarda le primarie esigenze di sicurezza dei cittadini". I dati lo dimostrano: tra il 2010 e i primi sette mesi del 2016 sono arrivate al nucleo di Polizia valutaria 1.660 segnalazioni di operazioni sospette per finanziamento del terrorismo. Se poi si guarda all’intera platea delle segnalazioni inviate all’Uif, il sospetto di terrorismo si allarga a 428.657, ossia lo 0,39% del totale. La segnalazione sospetta resta dunque un ottimo "indicatore" per contrastare il finanziamento del terrorismo. Nel 2015 le segnalazioni sospette sulla materia erano state 348 e continuano a crescere dato che in questo primo periodo del 2016 le segnalazioni sono già oltre quota 463. Quelle analizzate sono complessivamente 758 (nel 2015 erano 579) e si presentano di qualità superiore visto che solo 62 non hanno interesse investigativo (nel 205 erano 150) e ben 669 sono state delegate alla Gdf per le indagini investigative. Delle 502 segnalazioni (2015-2016) su cui si sono conclusi gli approfondimenti investigativi in 39 casi sono stati contestati reati per fatti di terrorismo. A migliorare l’attività di contrasto al finanziamento dei terroristi contribuirà il nuovo Gruppo Investigativo che, oltre che ad approfondire le richieste di informazioni giunte dall’Uif, raccordarsi con il II reparto e rispondere alle richieste della Dia e dell’antiterrorismo, dovrà concentrarsi sulle analisi di rischio con particolare attenzione anche alle tendenze e alle dinamiche di finanziamento del terrorismo, così come dovrà approfondire le segnalazioni di operazioni sospette più complesse od operazioni che si sviluppano in più aree geografiche o, ancora, da cui emergano richieste da organismi collaterali esteri. Sul campo la Guardia di Finanza punta rilanciare le attività di controllo sui money transfer, peraltro assoggettati alla vigilanza esclusiva delle Fiamme Gialle. Dai dati della Banca d’Italia 2015 le rimesse finanziarie di questo particolare circuito hanno oltrepassato i 5,2 miliardi di euro mentre le regioni maggiormente interessate sono la Lombardia, il Lazio e la Toscana. Multinazionali, istituti di pagamento e agenti sono i tre canali su cui opera il circuito dei money transfert. Sugli agenti, secondo il Comando generale si concentrano le principali criticità, anche perché si tratta di una platea consistente che secondo gli organi di vigilanza ha già oltrepassato le 22mila unità. Da giugno al 2 agosto le attività si sono concentrate su alcuni agenti che operano in Trentino, Friuli, Campania, Veneto, Puglia e Calabria. E nella verifica di potenziali operazioni di finanziamento al terrorismo sono state identificate 282 persone di cui 53 con precedenti e 189 cittadini extracomunitari. Essere avvocato: era questa la colpa di Pagliuso? di Simona Musco Il Dubbio, 11 agosto 2016 Il penalista ucciso mentre rientrava in casa a Lamezia Terme. Un agguato dalle modalità tipicamente mafiose, un colpo alla testa e uno al collo, che non gli hanno lasciato scampo. È finita così, alle 22.30 di martedì, la vita di Francesco Pagliuso, noto penalista di Lamezia Terme, freddato nel cortile di casa mentre stava scendendo dalla sua auto. Un delitto ripreso dalle telecamere di sorveglianza, installate da poco tempo, che hanno immortalato un uomo uscire da un cespuglio, avvicinarsi alla sua auto e sparare non più di tre colpi in direzione dell’avvocato, morto sul colpo. Il killer si è introdotto nella proprietà di Pagliuso praticando un foro sulla recinzione che circonda il casale restaurato in via Marconi, dove viveva da solo da poco tempo, dopo essersi trasferito a Lamezia Terme dal suo paese di nascita, Soveria Mannelli. Chi ha sparato, probabilmente, conosceva le sue abitudini e sapeva come colpire. Le modalità fanno pensare ad un killer professionista, capace di compiere una vera e propria esecuzione. E forse sapeva anche che l’avvocato girava armato di 44 Magnum, arma che, però, martedì non è riuscito a tirare fuori in tempo. Pagliuso, 43 anni, una carriera brillante, segretario della Camera penale, aveva difeso molti imputati dei più importanti processi di ?ndrangheta della provincia di Catanzaro e non solo, da "Andromeda" passando per "Black Money" e "Perseo". A giugno era riuscito a far annullare con rinvio dalla Cassazione l’ergastolo per Domenico e Giovanni Mezzatesta, condannati per un duplice omicidio immortalato dalle telecamere di un bar, e aveva difeso in passato Ida D’Ippolito, ex senatrice di Forza Italia. Separato, padre di un bambino di sei anni, Pagliuso aveva recentemente aperto un ristorante, particolare che porta gli inquirenti ad indagare anche al di là della vita da legale. Le indagini, ha dichiarato il procuratore Luigi Maffia, titolare del caso assieme al sostituto Marta Agostini, procedono a 360 gradi. "Non escludiamo nulla - ha sottolineato Maffia, non si può restringere il campo a una sola ipotesi". Potrebbe, dunque, trattarsi di una vendetta legata alla sua attività professionale, ma nemmeno la pista personale può dirsi esclusa al momento. Le indagini si stanno sviluppando attorno alle immagini riprese dalle telecamere di sorveglianza, che riprendono la Volkswagen di Pagliuso e il suo killer al momento dell’agguato. Una sagoma non riconoscibile, quella dell’assassino, armato di revolver e appostato nel buio, in attesa della sua preda. A contattare i carabinieri è stata la compagna dell’avvocato, con la quale la vittima aveva un appuntamento: allertata dalle molte telefonate a vuoto e da ore di silenzi, ha composto il 112 chiedendo aiuto all’Arma. I militari lo hanno trovato riverso sul sedile di guida, col suo cane a fianco, attorno alle 3.30. Lo sportello ancora aperto, il finestrino del lato passeggero frantumato dai colpi di pistola. E attorno il silenzio. Carabinieri e scientifica hanno lavorato tutta la notte, abbandonando la scena del crimine solo alle 8, quando l’auto è stata portata via. L’autopsia è attesa per oggi. L’efferato omicidio fa ripiombare la città nel terrore: si tratta del secondo avvocato vittima di agguato. Era già successo alle 23 del primo marzo 2002, quando l’auto di Torquato Ciriaco venne affiancata da quella dei killer sulla strada che da Lamezia porta a Maida. L’avvocato venne ferito da diversi colpi di arma da fuoco e finito con due colpi alla testa. Per quell’omicidio, che secondo alcuni pentiti fu ordinato dalla cosca Anello di Filadelfia (VV), è ancora in corso il processo che vede imputati il boss Tommaso Anello, il pentito Francesco Michienzi, le cui parole hanno fatto partire le indagini, e Santo Panzarella, scomparso nel luglio 2002. L’ipotesi è che alla base dell’omicidio ci fosse il suo interessamento all’acquisto dei beni di una grossa azienda edile fallita, in concorrenza con gli interessi degli Anello. "Nella vita non bisogna fare l’avvocato, ma essere un avvocato", aveva dichiarato Francesco Pagliuso in un’intervista al Lametino lo scorso anno, citando le parole di Fulvio Croce, presidente dell’ordine degli avvocati di Torino "che venne ucciso dalle Brigate Rosse per aver fatto fino in fondo il suo dovere professionale", aveva ricordato. Una tragica coincidenza, un destino comune avvolto nel mistero. L’appello di Amnesty: "l’Italia neghi l’estradizione di Khosravi a Teheran" La Stampa, 11 agosto 2016 Fermare l’estradizione di Mehdi Khosravi. Sull’arresto del cittadino iraniano fermato a Lecco il 6 agosto in esecuzione di un mandato di cattura internazionale emesso dai magistrati di Teheran, scende in campo Amnesty International. "In attesa di approfondire il caso, chiediamo che l’Italia si astenga dall’attivare procedure, come ad esempio quella legata alla richiesta iraniana di estradare Mehdi Khosravi - chiede Antonio Marchesi, presidente dell’organizzazione non governativa per il rispetto dei diritti umani. Ciò soprattutto alla luce del fatto, riportato dalla stampa, che la persona arrestata in Italia sarebbe un blogger e attivista per i diritti umani costretto a lasciare l’Iran nel 2009 e titolare dello status di rifugiato politico nel Regno Unito". Una richiesta che Amnesty sollecita ricordando che "la gestione dei mandati Interpol da parte dell’Italia risulta da tempo problematica". Come dimostrano i precedenti dell’estradizione scampata nel 2015 di un "noto difensore dei diritti umani algerino" grazie "alla sensibilità dei giudici" di Torino e il caso, nel 2013, dell’espulsione di Alma Shalabayeva e Alua Ablyazov, moglie e figlia di Mukhtar Ablyazov, oppositore politico del Kazakhstan. Legittima la perquisizione personale anche se l’importo ricercato è irrisorio di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 11 agosto 2016 Corte di cassazione, Quinta sezione penale, sentenza 10 agosto 2016 n. 34807. Si può procedere a una perquisizione personale alla caccia di una refurtiva di 20 euro? Si può, afferma la Cassazione, che non considera giuridicamente abnorme il decreto con il quale il pubblico ministero di Lucca ha convalidato la perquisizione personale effettuata su una donna accusata di avere sottratto una banconota di 20 euro dalla cassa di una farmacia. Per la Corte, sentenza n. 34807 della Quinta sezione penale depositata ieri, la polizia giudiziaria non si è "macchiata" di una condotta che l’ordinamento qualifica come abnorme. Le specifiche modalità di esecuzione potranno, magari e in via astratta, configurare una forma di responsabilità in altra sede, ma intanto la Corte boccia il ricorso presentato dalla difesa (che sottolineava l’arbitrarietà e e l’assenza di motivazioni nelle scelte della polizia giudiziaria) e condanna la donna al pagamento di mille euro alla cassa delle ammende. La sentenza ha infatti ritenuto che la categoria giuridica dell’abnormità non sia stata neppure sfiorata nel caso esaminato. È vero però che avere sollevato questo profilo è servito a portare il caso sino al giudizio di legittimità. Cosa che non sarebbe stata possibile in linea generale, perché, ricorda la sentenza, il decreto del Pm che convalida la perquisizione eseguita d’urgenza dalla polizia giudiziaria non è di norma soggetto a ricorso in Cassazione. Nel caso in questione però l’asserita (dalla difesa) illegittimità del provvedimento del pubblico ministero poteva incidere su diritti costituzionalmente garantiti "poiché l’ordinamento non potrebbe giustificare che rimanga senza alcuna tutela il diritto di libertà del singolo che dovesse risultare compresso da una iniziativa procedimentale adottata in assenza di alcun potere o in totale difformità dai canoni di legge". Tuttavia, anche sotto questo profilo, a giudizio della Cassazione, la condotta della pubblica accusa è indenne da critiche. L’abnormità infatti si configura quando il provvedimento ha avuto come conseguenza una paralisi del procedimento con impossibilità di proseguirlo, oppure se il provvedimento è stato emesso in assenza di un potere riconosciuto dall’ordinamento o deviando dal modello legale previsto, fuori cioè dai casi ammessi. Nessuno di questi aspetti si è però verificato nella convalida del Pm e quindi la perquisizione, malgrado la cifra limitata in discussione, è stata ritenuta legittima. Violenza privata sulla fidanzata? tenuità del fatto di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 11 agosto 2016 Corte di cassazione - Sezione V - Sentenza 10 agosto 2016 n. 34803. La violenza privata nei confronti della propria compagna rientra nella particolare tenuità del fatto. E sull’aggravante della minaccia, messa in atto con il coltello, è considerata prevalente l’attenuante dell’occasionalità della condotta. La Cassazione (sentenza 34803) annulla la decisione della Corte d’Appello che aveva condannato a due mesi di reclusione l’imputato per violenza privata, con l’uso di un coltello, nei confronti dell’allora fidanzata. Per la Suprema corte hanno sbagliato i giudici di seconda istanza a escludere l’applicabilità dell’articolo 131-bis del codice penale, introdotto dal Dlgs 28/2015. La norma che consente la dichiarazione di non punibilità è più favorevole all’imputato e riguarda i reati non abituali - con pena inferiore ai 5 anni - che sebbene non inoffensivi risultino di modesto rilievo. Secondo la Cassazione il ricorrente aveva le carte in regola per accedere al "trattamento" di favore. La violenza privata (articolo 610 del codice penale) è punita con la reclusione fino a 4 anni: pena destinata a lievitare in caso di aggravanti. Nel caso esaminato però l’aggravante dell’uso del coltello non doveva essere considerata perché su questa avevano prevalso le attenuanti generiche. L’episodio era rimasto isolato i due avevano fatto pace e si erano anche sposati. Sostituzione di persona per chi si finge divorziato ma è sposato di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 11 agosto 2016 Corte di cassazione - Sezione V penale - Sentenza 10 agosto 2016 n. 34800. Fingersi divorziato pur essendo regolarmente sposato e convivente con la moglie costa una condanna per sostituzione di persona. La Cassazione (sentenza 34800) non dimostra nessuna indulgenza nei confronti degli impenitenti "dongiovanni" che mettono in atto il classico trucco di far sparire la fede e arrivano, come nel caso esaminato, a mostrare alla nuova "fidanzata" un finto atto di annullamento del matrimonio certificato dalla Sacra Rota. Non del tutto inedita la storia finita sul tavolo dei giudici. Il ricorrente assicura alla sua nuova fiamma di essere libero e subito scattano le pressioni di lei per non farsi scappare l’occasione di portarlo all’altare. L’uomo non si scoraggia e fa anche il corso prematrimoniale. Un comportamento che nel giudizio di primo grado gli costa l’accusa di tentata bigamia. Il reato è però escluso in appello per assenza dell’elemento psicologico: il finto single non aveva in realtà nessuna intenzione di pronunciare un secondo sì, voleva solo prolungare la sua liason amorosa e scongiurare inevitabili scenate. L’imputato si salva dal reato di falso per la grossolanità della contraffazione dell’atto del tribunale ecclesiastico, con il quale aveva ingannato solo la fidanzata, perché l’amore è cieco, ma non il parroco. Il falso in atto amministrativo c’è invece per il certificato di battesimo. In questo caso neppure i giudici si spiegano perché il ricorrente, che evidentemente si era fatto prendere la mano, ne avesse presentato uno finto, visto che il battesimo c’era stato. Senza successo la difesa dell’uomo indifendibile tenta di negare l’esistenza dei presupposti per il reato di sostituzione di persona (articolo 494 del Codice penale): per il legale mancava il vantaggio previsto dalla norma. Ma è un obiezione che i giudici superano con facilità. L’evoluzione della giurisprudenza di legittimità è andata oltre il concetto di utilità economica. I vantaggi possono essere di varia natura: per esempio chi crea un falso profilo sui social network usando l’identità di un’altra persona lo fa per avere più contatti. In base alla nuova nozione basta che la sostituzione implichi un vantaggio anche lecito e non economico. Per chi mente sullo stato di uomo libero l’utilità è quella di intrecciare delle storie parallele ritenute altrimenti impossibili. Secondo i giudici il dolo specifico, nel caso esaminato, stava nell’intenzione di mantenere la relazione affettiva. Obiettivo non centrato perché, malgrado gli sforzi, l’aspirante moglie che nel frattempo era in attesa di un figlio al pari della moglie effettiva, scopre tutto. Le carte per le nozze che non arrivano e la presentazione dei suoceri sempre solo annunciata la mettono in sospetto. Da lì al pedinamento il passo è breve: il bugiardo seriale viene scoperto mentre usciva dalla casa dove abitava con la sua signora e con i figli. L’amministratore di diritto non risponde in automatico per il falso documentale di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 11 agosto 2016 Corte di cassazione, Quinta sezione penale, sentenza 27 luglio 2016, n. 32793. Non basta la carica di amministratore per essere condannati per falso documentale. Se l’illecito è stato commesso da un altro soggetto delegato alla gestione della compagine sociale, deve essere verificata in concreto la partecipazione dell’amministratore formale. Lo stabilisce la Corte di cassazione con la sentenza n. 32793 della Quinta sezione penale. Accolto pertanto il ricorso presentato dalla difesa e annullata (con rinvio) la pronuncia di condanna emessa dalla Corte d’appello di Milano a carico della rappresentante legale di una società a responsabilità limitata. Alla manager veniva contestata la contraffazione del documento di regolarità contributiva (Durc) allegato alla denuncia di inizio attività di lavori edili. I giudici di merito avevano disatteso la tesi difensiva indirizzata a fare valere il carattere solo formale della carica rivestita dall’imputata all’interno della società. A pesare, nella lettura della Corte d’appello, erano stati gli obblighi di amministrazione, a tal punto che, anche se la falsificazione fosse stata realizzata dal fratello dell’imputata (come sostenuto dalla difesa), la responsabilità non sarebbe venuta meno. La difesa, tra i motivi di impugnazione, aveva sostenuto che non si può ipotizzare il concorso morale dell’amministratore della società nei reati commessi dal delegato. La Cassazione ha richiamato innanzitutto i criteri di imputazione della responsabilità penale, che prevedono, nel caso del falso documentale, la partecipazione, vuoi sotto il profilo morale vuoi sotto quello materiale, alla falsificazione. Richiamo che vale anche quando l’ipotesi di falso è riferibile a un ente collettivo che agisce attraverso i suoi rappresentanti. Si pone così il problema della corretta imputazione del reato. Un problema la cui complessità è accresciuta dalla delega di fatto dei poteri collegati alla gestione societaria: le condotte di falsificazione, cioè, possono provenire da uno o più dei soggetti impegnati nell’amministrazione della società e non devono invece essere imputate, in automatico, a colui che riveste la carica formale di amministratore. Non è corretto pertanto, sottolinea la Cassazione, affermare, come aveva fatto la Corte d’appello, che la posizione ricoperta dalla manager nell’organizzazione aziendale la rendeva automaticamente responsabile degli illeciti commessi dai suoi collaboratori o da coloro che di fatto gestivano la srl. A fare la differenza e a rendere necessario un accertamento puntuale del profilo di responsabilità del manager da parte dell’autorità giudiziaria è proprio la natura del reato. Se infatti, distingue la Cassazione, per il mancato rispetto di alcuni obblighi, per esempio la tenuta della contabilità, si può individuare una responsabilità morale dell’amministratore di diritto a causa della posizione di garanzia rivestita, per altri, come il falso documentale, anche per le modalità di realizzazione, una verifica va fatta. Può essere infatti che, soprattutto quando la gestione della società è delegata ad altri, la condotta illecita possa sfuggire alla conoscenza dell’amministratore formale. "Il che - osserva la Cassazione - se non esime l’amministratore di diritto da tutte le responsabilità di carattere civile connesse alla carica, non comporta, altresì, l’automatica responsabilità per gli illeciti penali, essendo il diritto penale dominato dal principio di responsabilità". Non è diffamazione affiggere manifesti in piazza contro rappresentanti pubblici locali di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 11 agosto 2016 Corte d’appello di Roma - Sezione I penale - Sentenza 10 maggio 2016 n. 3180. Denunciare una situazione di mala amministrazione criticando le modalità di gestione degli interessi pubblici da parte di alcuni rappresentanti locali attraverso l’affissione di manifesti nella piazza principale del comune non integra il reato di diffamazione. In tal caso, prevale il diritto di critica reso legittimo dalla funzione pubblica esercitata dai soggetti criticati e dall’interesse pubblico alla conoscenza della notizia. Questo è quanto emerge dalla sentenza della Corte d’appello di Roma 3180/2016. Il caso - La curiosa vicenda trae origine dall’affissione nella bacheca della piazza centrale di un comune laziale di due manifesti con i quali un esponente politico locale accusava il Comandante dei vigili urbani e l’Amministrazione locale di connivenza. In particolare, l’accusa riguardava la costruzione di un immobile da parte della famiglia del Comandante in violazione della normativa urbanistica - con l’indicazione di dati catastali e planimetria del terreno - favorita dall’inerzia dell’Amministrazione locale e dai contatti esistenti tra il Comandante e diversi partiti politici presenti in Comune. La persona che aveva affisso i manifesti veniva però processata per diffamazione, e condannata dal Tribunale, in quanto le espressioni utilizzate, anche mediante l’attribuzione di fatti determinati, erano offensive della reputazione dei soggetti interessati. Per il giudice di primo grado, in sostanza, si era andati ben oltre il diritto di critica. La questione passa così in grado d’appello dove l’imputato cerca di far valere le proprie ragioni sostenendo che il contenuto dei manifesti non sarebbe stato "denigratorio per le persone interessate ma costituirebbe una critica politica all’attività dell’amministrazione", anche considerando che l’affissione era avvenuta un uno spazio destinato alla comunicazione politica cittadina. La decisione - La Corte d’appello ritiene fondato l’appello e assolve l’imputato poiché il fatto contestato è scriminato dall’esercizio legittimo del diritto di critica. Per i giudici, il fatto di aver denunciato una situazione intollerabile di cattiva amministrazione, ovvero "la consumazione di alcune irregolarità urbanistiche da parte di operatori della polizia municipale in favore di interessi privati", non appare esorbitare i limiti della continenza sostanziale e formale che limitano il diritto di critica. Nella specie, tale diritto è legittimato dalla funzione pubblica esercitata dai soggetti criticati e dall’interesse pubblico della notizia, mentre le espressioni utilizzate non appaiono offensive, ma si risolvono in una critica al modo di gestire l’attività edilizia locale. Patrocinio infedele solo se il cliente subisce un danno di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 11 agosto 2016 Corte d’appello di Napoli - Sezione III penale - Sentenza 23 marzo 2016 n. 3051. In caso di astensione del difensore dall’attività processuale per la quale il legale aveva ricevuto il mandato, non è configurabile il reato di patrocinio infedele se non vi è la prova del nocumento per gli interessi del cliente, che sia derivato da tale condotta inadempiente. Questo è quanto si desume dalla sentenza 3051/2016 della Corte d’appello di Napoli. I fatti - Protagonista della vicenda è un avvocato che aveva ricevuto l’incarico di difendere gli interessi dei debitori nell’ambito di un procedimento per espropriazione forzata immobiliare. In particolare, il legale avrebbe dovuto bloccare o sospendere la procedura esecutiva che vedeva aggredito un loro immobile da parte di alcuni creditori. Tuttavia, l’avvocato, nonostante avesse ricevuto la somma di 20 mila euro, necessaria a suo dire per evitare la vendita all’asta, solamente 2 anni più tardi proponeva opposizione all’esecuzione con richiesta di sospensione del processo esecutivo, che veniva però respinta dal Giudice dell’Esecuzione. In seguito, i debitori revocavano l’incarico e la vicenda si chiudeva con un accordo stragiudiziale intervenuto con il creditore cessionario. Il giudizio di primo grado - L’avvocato veniva successivamente imputato del reato di cui all’articolo 380 del Cp, e condannato in primo grado, perché rendendosi infedele ai suoi doveri aveva arrecato un danno agli interessi dei sui clienti, consistente nell’impossibilità di chiedere la conversione del pignoramento, di conoscere tempestivamente le possibili strategie difensive o di conoscere l’avviso della fissazione della data dell’asta. In appello il legale chiedeva però nuovamente di essere assolto in quanto, anche se con ritardo, l’opposizione era stata proposta e il cattivo esito della stessa non poteva essere addebitato all’avvocato perché respinto per infondatezza. E, inoltre, non era chiaro quali fossero i danni sofferti dai clienti, posto che il giudizio di colpevolezza del Tribunale era fondato sulle sole dichiarazioni delle persone offese, che avevano un interesse economico antagonista a quello dell’imputato. La decisione della Corte d’appello - Tali argomenti risultano decisivi per la Corte d’appello che cambia il verdetto ed assolve l’avvocato. Per i giudici, non c’è dubbio che la condotta del legale sia stata gravemente inadempiente rispetto ai doveri professionali, avendo costui presentato il ricorso dopo due anni ed essendosi fatto comunque consegnare una ingente somma di danaro. Tuttavia, l’inadempimento ai propri obblighi professionali ha valore in sede civilistica, ma per assumere rilevanza in sede penale deve essere accompagnato da un concreto danno arrecato al proprio cliente. E nella fattispecie non è emerso che il rigetto dell’opposizione sia dovuto alla tempistica con la quale il ricorso era stato presentato e, soprattutto, "non si comprende quale danno concreto le parti avrebbero subito" dall’impossibilità di conoscere le strategie difensive o la data di fissazione dell’asta "non essendo d’altronde questi gli inadempimenti che il capo di imputazione". Reati contro l’incolumità pubblica: l’elemento soggettivo del delitto di strage Il Sole 24 Ore, 11 agosto 2016 Reati contro l’incolumità pubblica - Strage - Elemento soggettivo - Dolo - Oggetto - Prova. Nel reato di strage il dolo consiste nella coscienza e volontà di porre in essere atti idonei a determinare pericolo per la vita e l’integrità fisica della collettività mediante violenza, con la possibilità che dal fatto derivi la morte di una o più persone, al fine di cagionare la morte di un numero indeterminato di persone, e deve essere desunto dalla natura del mezzo usato e da tutte le modalità dell’azione. • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 29 ottobre 2015 n. 43681. Reati contro l’incolumità pubblica - Strage - Differenza con il delitto d’omicidio plurimo. Nel reato di strage il dolo consiste nella coscienza e volontà di porre in essere atti idonei a determinare pericolo per la vita e l’integrità fisica della collettività mediante violenza, con la possibilità che dal fatto derivi la morte di una o più persone, al fine di cagionare la morte di un numero indeterminato di persone, e va desunto dalla natura del mezzo usato e da tutte le modalità dell’azione. Ne deriva che, al fine di stabilire se l’uccisione di più soggetti integri il delitto di strage ovvero quello d’omicidio volontario plurimo, l’indagine deve essere globale, con particolare riguardo ai mezzi usati, alle modalità esecutive del reato e alle circostanze ambientali che lo caratterizzano. • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 18 novembre 2008 n. 42990. Reati contro l’incolumità pubblica - Strage - Dolo specifico - Necessità - Dolo eventuale - Inammissibilità. Ai fini della configurabilità del delitto di strage, il fine di uccidere - integrante il dolo specifico del reato - non può mai essere surrogato da forme degradate come quella del dolo eventuale. Ne consegue che la morte di una o più persone deve sempre rappresentare lo scopo specificamente perseguito dall’agente e non un evento che il soggetto, nel volerne un altro meno grave, si sia rappresentato come probabile o possibile conseguenza della propria determinazione, agendo anche a costo di provocarlo. • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 23 aprile 1990 n. 5914. Reati contro l’incolumità pubblica - Strage - Dolo specifico - Necessità - Sufficienza del dolo eventuale - Esclusione. Affinché si configuri il delitto di strage ex articolo 422 del codice penale, il fine di uccidere, proprio perché integra il dolo specifico del reato, non può essere mai surrogabile con forme gradate quali il dolo eventuale. • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 15 novembre 1988 n. 11074. La violenza jihadista che minaccia l’Europa, i numeri e un certo senso della misura di Adriano Sofri Il Foglio, 11 agosto 2016 Vengono pubblicate scrupolose statistiche che mostrano come le vittime di atti di terrorismo si siano decisamente ridotte nel corso dei decenni ultimi. Lo stesso numero di vittime di attentati islamisti in Europa è incomparabilmente più basso di quello di altre matrici passate: terroristi politici di destra e di sinistra, indipendentisti, palestinesi… (Rispetto all’Italia, il confronto è smisurato, e se è giusto ricordare che il terrorismo di sinistra aveva la pretesa di selezionare i suoi obiettivi secondo una logica riconoscibile anche nella sua assurdità, il terrorismo delle stragi di massa sui treni o alle stazioni o nei luoghi pubblici voleva colpire ciecamente). Altrettanto eloquenti sono i confronti fra vittime del terrorismo in occidente e nel resto del mondo. Tutto questo è senz’altro utile a suggerire una misura più equilibrata per la violenza che minaccia e colpisce l’Europa. Il punto però sta nella differenza di dimensione fra il retroterra cui si ispiravano quei terrorismi (Raf e brigatisti e irlandesi e baschi e palestinesi eccetera) e il retroterra dell’islam mondiale che il fanatismo jihadista pretende di egemonizzare. Di dimensione e di qualità, perché l’avidità di morte propria del terrore islamista è altra cosa dalla accettazione della morte propria di altre categorie passate di combattenti. Senza questa differenza le reazioni europee alla costellazione di attentati sarebbero una mera manifestazione di panico insensato. Tuttavia, anche a tener bene a mente la differenza, occorrerebbe considerare lucidamente la contraddizione fra le dichiarazioni - "non rinunceremo al nostro stile di vita, è proprio questo che vogliono ottenere" - e la pratica. Per un verso, c’è da congratularsi che le Olimpiadi si stiano svolgendo e tutto considerato in un modo perfino emozionante, nonostante la minaccia terroristica fosse e resti fino alla fine seria, e preoccupasse a maggior ragione per la crisi in cui versa il Brasile. Per un altro verso ci sono esperienze, come la risposta di Monaco di Baviera alla strage compiuta da un ragazzo, e decisioni preventive, come la cancellazione di eventi radicati nella tradizione, dopo la strage di Nizza. Le cancellazioni sono state soprattutto numerose in Francia: impressionante quella della plurisecolare Fiera annuale di Lille, il più grande mercato delle pulci europeo, cui prendono parte per due giorni milioni di visitatori. Decidendo pressoché in extremis la cancellazione, il sindaco Martine Aubry e il prefetto hanno offerto motivazioni che nessuno può sentirsi di rifiutare: "Se ci fossero dei morti non potrei mai perdonarmelo", ha detto Aubry. Inoltre si è detto che la conformazione della città e della fiera rendono particolarmente arduo un efficace dispositivo di sicurezza. Tuttavia, appunto, molte altre sono state le disdette, compresi i cinema all’aperto estivi di Parigi. Penso, senza alcuna iattanza per conto terzi, che bisogni presto ripensare complessivamente al rapporto fra rischio, cioè al costo eventuale di un’esposizione di folle agli aspiranti attentatori, e costo sicuro della rinuncia a modi di convivenza. E tanto più sarà possibile ripensarci e affrontare consapevolmente il rischio, quanto più si opererà perché sia recisa la fonte prima delle minaccia, là dove ha potuto mettere lunghe radici. Lecce: telemedicina per i detenuti di Borgo San Nicola, accordo tra Asl e direzione lecceprima.it, 11 agosto 2016 Firmato un protocollo per rendere più efficiente la rete telematica nella struttura penitenziaria: sarà possibile anche la diagnostica per immagini. Asl e direzione del carcere di Borgo San Nicola hanno firmato un protocollo d’intesa per migliorare la rete telematica utile alle applicazioni di telemedicina. La struttura penitenziaria beneficia di un servizio di continuità assistenziale medica e infermieristica ed è stata attivata anche una sezione di Psichiatrica con 20 posti letto. È l’unica in tutta la Regione Puglia e le sono stati già assegnati, ha dichiarato la direttrice generale Asl, Silvana Melli, "dodici infermieri professionali, cinque operatori socio sanitari, un tecnico per la riabilitazione psichiatrica e sono in corso le procedure per l’assegnazione di quattro psichiatri e uno psicologo". L’azienda sanitaria ha impegnato una prima tranche di 192mila euro per il settore sanitario di Borgo San Nicola. Nel 2016 sono state incrementate le ore di specialistica ambulatoriale all’interno della casa circondariale. Si è stabilito che le visite specialistiche che non rivestono carattere di urgenza debbano essere svolte presso l’istituto penitenziario dal personale medico del distretto socio sanitario di Lecce o del presidio ospedaliero Vito Fazzi per le specialità non ricomprese. Non si può dimenticare che il 6 novembre scorso un pericoloso detenuto, portato in ospedale per un esame endoscopico, ha eluso la sorveglianza fino a impossessarsi di una pistola e a fuggire con un’auto rubata seminando il panico in corsia. È stato completato anche l’organico di infermieri e medici, attivata la sezione speciale presso il "Vito Fazzi" con ulteriori sei infermieri che restano in forza al pronto soccorso quando non ci sono detenuti ricoverati. "Il nuovo intervento consentirà l’ampliamento della rete telematica per collegare i plessi del blocco interno della Casa Circondariale - ha spiegato Silvana Melli - al fine di erogare in regime di telemedicina i servizi sanitari Asl e fra questi la diagnostica per immagini (sistema RIS-PACS). È previsto l’acquisto di ulteriore attrezzatura per gestione e monitoraggio a distanza dello scompenso cardiaco e broncoscopia cronica ostruttiva" La direttrice del penitenziario, Rita Russo, ha lodato il "lavoro di squadra" sottolineando che "risultati così importanti si raggiungono solo con un lavoro di sinergia tra le varie istituzioni, perseguendo un unico obiettivo comune: tutelare la salute della popolazione detenuta. Da soli non si va da nessuna parte, solo lavorando insieme si raggiungono traguardi. Per questo devo ringraziare oggi per la loro continua disponibilità gli operatori della Asl e Silvana Melli, che ha mostrato fin da subito di conoscere le problematiche del mondo penitenziario. Un grazie a sua eccellenza il prefetto e alle forze sindacali di polizia penitenziaria che hanno da sempre sollecitato e sostenuto le iniziative di miglioramento della sanità penitenziaria". Torino: il compagno russa, detenuto chiede di cambiare cella e protesta salendo sul tetto di Carlotta Rocci La Repubblica, 11 agosto 2016 Un marocchino di 30 anni sfascia i faretti di illuminazione della casa circondariale delle Vallette. Il compagno di detenzione russa troppo e Mohamed, 30 anni, marocchino ha chiesto più volte di farsi cambiare di cella. Ma senza esito. Ieri pomeriggio alle 13.30 è salito sul tetto del carcere delle Vallette. L’uomo, in carcere per reati legati alla droga, ha distrutto tutti i faretti di illuminazione del tetto usando un’antenna che ha usato come una spranga. Con l’intervento dei vigili del fuoco e della polizia penitenziaria il detenuto è sceso ed è stato denunciato per minacce, danneggiamento e procurato allarme, un fatto che potrebbe allungare la sua permanenza al Lorusso Cutugno ben oltre il 9 settembre quando il marocchino avrebbe terminato di scontare la sua condanna. Il fatto è stato denunciato dall’Osapp: "Siamo nel caos più totale, tra aggressioni, detenuti che salgono sui tetti e che compiono atti inconsulti e mancanza di vestiario per il personale e pessime condizioni della mensa di servizio", commenta il segretario generale del sindacato di polizia penitenziaria Leo Beneduci. Avezzano (Aq): "Fede e arte", un premio per i detenuti modello Avvenire, 11 agosto 2016 Al concorso letterario "Fede e Arte" i vincitori sono stati due detenuti del carcere di Avezzano, Osvaldo e Angelo. Al centro della kermesse letteraria, promossa dal comune di Pozzaglia Sabino, in provincia di Rieti, e dalle Suore della Carità di San Giovanna Antida Thouret, in collaborazione con l’associazione Fedeli di Santa Agostina, il tema del perdono di santa Agostina Pietrantoni. In altre parole, il perdono sociale che è il fine ultimo del lavoro rieducativo che viene portato avanti con i detenuti della casa circondariale di Avezzano. Alla premiazione hanno partecipato anche altri detenuti che hanno operato con responsabilità e dedizione in lavori di manutenzione e miglioramento del carcere: nel ringraziarli per l’impegno il direttore dell’istituto penitenziario Mario Giuseppe Silla ha evidenziato come "ogni detenuto con azioni costruttive e impegnate possa rappresentare un esempio per gli altri e stimolare gli altri detenuti a un cammino di recupero all’interno della società e di rispetto delle regole di civile convivenza". Sempre lo scorso 2 agosto alla premiazione del concorso "Fede e Arte" il sindaco di Pozzaglia Sabino assieme a suor Fernanda Falcone delle Suore della Carità di Pozzaglia hanno ricordato l’importanza del perdono attraverso la testimonianza di sant’Agostina Pietrantoni che morì per mano di un detenuto e perdonò il suo aggressore. "Non guardare nell’abisso". Misteri degli anni di piombo, la realtà storica diventa fiction di Ranieri Polese Corriere della Sera, 11 agosto 2016 Il romanzo di Massimo Polidoro "Non guardare nell’abisso", secondo capitolo della serie con Bruno Jordan, riapre un capitolo traumatico del recente passato italiano. Bruno Jordan, capitolo secondo. È lui il detective molto poco istituzionale che avevamo conosciuto nel libro di Massimo Polidoro Il passato è una bestia feroce (Piemme, 2015) impegnato nella ricerca di una ragazzina sequestrata molti anni prima. Con "Non guardare nell’abisso" (Piemme), torna ora a investigare con i suoi metodi non proprio canonici. Lui del resto è un giornalista, inviato di "Krimen", periodico specializzato in cronaca nera. È figlio di un cantante pop inglese degli anni Sessanta, Peter Jordan, il cui successo in Italia durò troppo poco e che, malato di Alzheimer, continua a pensare di essere alla finale del Cantagiro 1964. Bruno Jordan ha una Audi TT Roadster nera, una Moto Guzzi Bellagio, una collezione di audiocassette di Shakespeare ma soprattutto ha il raro talento di cacciarsi nei guai. Questa volta, per esempio, accetta - o meglio, è costretto ad accettare - un incarico pressoché impossibile. L’ex senatore Strazzi gli chiede di rintracciare una ragazza: dovrebbe avere circa 35 anni, è la figlia di una brigatista uccisa, sembra, dai compagni che l’accusavano di tradimento. Alida, la brigatista, era la figlia di Strazzi che ora vuole ritrovare la nipote. Ma la storia è più complessa: forse il vecchio Strazzi, che potrebbe venir candidato all’elezione del Presidente della Repubblica, non è il nonno affettuoso che cerca la nipotina. E intanto qualcuno sta organizzando una serie di attentati da attribuire alle rinate Br... Anni di piombo - Con la libertà che lo scrittore di genere può prendersi, Polidoro riapre un capitolo traumatico della recente storia italiana. Quello del terrorismo anni Settanta-Ottanta, della strategia della tensione, dei servizi deviati. E va diritto al bersaglio grosso, il famigerato Grande Vecchio, misterioso cervello che teneva le fila di quella stagione di terrore. Creatura la cui esistenza non è mai stata accertata, il Grande Vecchio è stato il protagonista indiscusso di tutte le teorie del complotto. Che del resto prosperavano grazie anche a reticenze e depistaggi. Ecco, questo libro riesuma il Grande Vecchio e ci racconta come l’occulto burattinaio, dopo aver manovrato negli anni di piombo la strategia della paura, sia oggi ancora in grado di minacciare il sistema democratico. Una mossa audace questa di Polidoro, che appunto si giustifica con lo statuto della fiction, libera dall’obbligo della prova documentale. Anche se proprio la fiction si può permettere di alludere e seminare sospetti sulle verità accettate ufficialmente. Certo, a Polidoro non sfugge l’opportunità di disporre di un materiale vastissimo, finora quasi mai divenuto oggetto di romanzi. Come se i narratori italiani, per tacito accordo, si fossero tenuti lontani dalle storie tragiche che per anni hanno insanguinato l’Italia. Lasciando a magistrati, giornalisti, storici e uomini della tv il compito di indagare, di porre domande, di cercare risposte. Non solo fiction - Intanto, in questi anni, sono apparsi noir, romanzi a pieno titolo, sugli anni di piombo. Come Romanzo criminale (Einaudi Stile libero, 2002) di Giancarlo de Cataldo che, nel ricostruire le imprese della Banda della Magliana, incontrava i movimenti del terrorismo nero. Il vincitore del Campiello 2014, Morte di un uomo felice di Giorgio Fontana (Sellerio), più romanzo che noir, raccontava l’uccisione di un magistrato milanese a opera di una banda armata, ultima scheggia del terrorismo rosso. In questo 2016, infine, è uscito La provvidenza rossa di Ludovico Festa (Sellerio), che se anche non tratta un caso di terrorismo è un eccellente affresco delle tensioni politiche e sociali della Milano del 1977, pochi mesi prima del rapimento Moro. Ultimo in ordine di tempo, il libro (Tea) di Leonardo Gori, scrittore che ama ambientare i suoi racconti in momenti cruciali della storia italiana del Novecento, come il fascismo e la guerra di liberazione. Non è tempo di morire ci riporta al dicembre 1969, alla strage di Piazza Fontana. È un romanzo, ma nel seguito annunciato Gori e il suo colonnello Arcieri promettono di far luce sui troppi misteri (ancora oggi irrisolti) di quell’attentato. Migranti, Milano prepara una caserma e Como i container di Andrea Cegna Il Manifesto, 11 agosto 2016 La gestione dei flussi diventa una priorità. La gestione dei migranti è una partita fra ministero della difesa, comune e regione. Dopo le tende e il "campo base Expo", si profila la caserma Montello come soluzione. Tutt’altro che scontata, di nuovo. Si tratta di una struttura militare che risale al 1913, in fase di dismissione. Una "cittadella" in via Cenisio all’interno della zona residenziale non lontana da Corso Sempione. È però l’oggetto di un’intesa a più soggetti che comporta la permuta con un’altra caserma della polizia in piazza sant’Ambrogio. Nell’arco di due anni l’Università Cattolica dovrebbe ristrutturare la caserma Montello, destinata poi ad ospitare gli agenti che liberano l’altro spazio. Ieri Carmela Rozza, assessora alla sicurezza, spiegava: "C’è un problema enorme per gli spazi di accoglienza, ma non troviamo collaborazione reale per aiutare Milano in Regione e in altri Comuni. Capisco che cercare di non far arrivare i migranti sia un tema serio da discutere con il governo, ma se poi li abbiamo in stazione Centrale la Regione dovrebbe intervenire. Non si fa campagna elettorale sulla pelle dei cittadini". Il sindaco Giuseppe Sala ha confermato la sostanza della telefonata con la ministra Roberta Pinotti: "Probabilmente verrà attivata una caserma, che è quello che desideriamo. Può essere una soluzione dignitosa, ho detto che Milano ormai fa fatica, non drammatizzo mai ma serviva un intervento". Sulla caserma Montello, si è già aperto il dibattito generato: secondo l’Associazione Nazionale delle Voloire, "non si tratta di un’ex caserma ma è quotidianamente utilizzata dai militari. Oltre 350 militari con le loro famiglie stanno facendo di corsa le valigie per lasciare Milano". Intanto se le frontiere con la Francia e l’Austria restano chiuse, quella svizzera continua ad essere meno ermetica. Chi viene fermato in territorio elvetico può ricevere un braccialetto giallo e fermarsi, oppure un braccialetto blu ed essere riportato in Italia. Così anche Como resta in prima linea con centinaia di migranti in transito. Mentre a Milano si cercano di liberare spazi già esistenti per evitare che le persone restino in strada, a Como un vertice tra prefetto, il sindaco Mario Lucini e l’assessore ai servizi sociali ha stabilito la messa a disposizione di diversi container, per cui il ministero dell’interno ha avviato le procedure. I prefabbricati serviranno ad ospitare - almeno per la notte - le oltre 500 persone bloccate a Como. Sempre ieri si è svolta una riunione con tutti i consiglieri comunali per coordinare le decisioni raggiunte nel vertice in prefettura, volte a "liberare" la stazione San Giovanni. Caritas e Acli in particolare hanno rilanciato il loro grido d’allarme: in un comunicato stampa si legge che "la solidarietà della città, le molte associazioni coinvolte, i tanti volontari che con grande disponibilità si prodigano nel distribuire cibo, sorrisi e vestiario non sono sufficienti. È bene che il Comune abbia il coordinamento delle iniziative, ma questo va rafforzato con una progettualità capace di operare in una dimensione raccordata, mirata a coinvolgere il maggior numero di associazioni e gruppi disponibili a supportare le azioni istituzionali. Occorrono soprattutto azioni politiche forti e incisive". Le iniziative solidali, comunque, a si moltiplicano dietro e dentro la rete "Como senza frontiere". Nella notte sono anche comparse sui muri cittadini diverse scritte in solidarietà a chi è costretto a vivere all’addiaccio in attesa di proseguire il loro viaggio. Intanto i migranti continuano ad arrivare a Milano come a Como. In Germania un "pacchetto" anti-terrorismo anche per medici di Sebastiano Canetta Il Manifesto, 11 agosto 2016 Oltre 15 mila nuovi poliziotti entro 5 anni, abolizione della doppia-cittadinanza per gli jihadisti e fine del segreto professionale per i medici di pazienti "orientati" a compiere attentati. Sono i tre cardini del nuovo pacchetto-sicurezza annunciato dal ministro dell’interno Thomas De Maizière (Cdu) ben prima dei blitz anti-terrorismo. Un capitolo aggiuntivo al giro di vite annunciato dal governo Merkel dopo gli attacchi in Baviera. Verrà discusso dall’esecutivo giovedì prossimo, insieme alla deportazione-lampo dei sospetti e alla moltiplicazione delle telecamere in stazioni e aeroporti. E soprattutto, sarà la base della "Dichiarazione di Berlino" che De Maizière discuterà con i colleghi degli Stati Ue a fine mese. Intanto ieri è cominciato il "contrattacco" al terrorismo delle forze di sicurezza. Dalla mattina in cinque città del Nordreno-Vestfalia oltre 150 poliziotti hanno condotto una maxi-operazione contro le cellule Isis incistate nella Bundesrepublik. Nel mirino: reclutatori e predicatori di Daesh, ma soprattutto i fiancheggiatori della rete dell’estremismo sunnita radicata nei Land dell’Ovest. Gli agenti federali e locali hanno passato al setaccio i centri di aggregazione già tenuti sott’occhio. Su tutti l’agenzia di viaggi gestita da Hasan C. a Duisburg dove era attiva una sala di preghiera "parallela" al tour operator. Secondo gli investigatori, qui si sarebbero radicalizzati i due 16 enni autori dell’attentato al tempio Sikh Gudawara di Essen del 16 aprile. Salafiti-ragazzini, comunque in grado di far esplodere una bomba e ferire tre membri (tra cui un "prete") della congregazione Nanaksar. Altre perquisizioni sono state effettuate a Düsseldorf e Dortmund e forse a Karlsruhe (la procura smentisce), mentre procede l’interrogatorio dell’"alto esponente dell’Isis" arrestato a Mutterstadt (Mannheim) lunedì dalle teste di cuoio. Si tratta di un siriano di Damasco, 24 anni, arrivato in Germania a gennaio e sospettato di essere un "quadro" del Califfato. Secondo gli investigatori, sarebbe stato nella fase iniziale della progettazione di un attentato durante la partita di calcio (Kaiserslautern-Hannover) della Zweite Bundesliga, la serie B tedesca. "Un testimone ha riferito di un possibile piano di attacco di matrice islamista. Abbiamo agito in via preventiva. Per fortuna non c’è una concreta situazione di pericolo" riassume il ministero dell’interno del Nord Reno-Vestfalia. Come riporta l’agenza Dpa, si tratta di un’operazione straordinaria che ha portato a individuare "un miliziano di alto livello" con link che contano in Siria e Iraq. La controffensiva delle forze dell’ordine segue il "pacchetto De Maizière" (che non richiederà il consenso del Bundesrat) destinato a fare scuola in Europa come in Italia. Nella prossima riunione dei ministri degli interni Ue, De Maizière comunicherà anche ad Angelino Alfano i due pilastri della "Dichiarazione di Berlino" sulla sicurezza comune: abolizione della doppia cittadinanza per chi si macchia di reati connessi al terrorismo ed espulsioni in tempo reale per chi frequenta circoli religiosi "radicalizzanti". In Germania De Maizière ha già fatto sapere ai medici che verrà rettificata la clausola di riservatezza sulle condizioni cliniche dei pazienti. Per quelli a rischio terrorismo è allo studio una legge che "permetterà" ai dottori di rivelare alla polizia le informazioni personali sensibili. La Libia brucia ma non è vero che l’Italia è in guerra di Victor Castaldi Il Dubbio, 11 agosto 2016 Sono 10 i nostri militari e non partecipano a missioni. A scorrere i titoli di giornale sembrerebbe proprio che l’Italia stia partecipando in prima linea alla guerra in Libia contro le milizie dello Stato Islamico (Isis) a fianco delle forze del governo di al Serraji e delle Brigate di Misurata. Su tutti spicca il Fatto Quotidiano che riprendendo un suo "scoop" dello scorso 30 luglio spiega che "l’Italia partecipa insieme alle forze speciali britanniche all’operazione "Banyoun Al Marsoos" (Struttura Solida) per riconquistare la roccaforte Isis di Sirte". Citando fonti riservate la notizia è stata rilanciata da Repubblica a titoli cubitali e ugualmente ansiogeni e poi ripresa dall’agenzia Adnkronos. Ma basta addentarsi un po’ negli articoli per capire che le cose non stanno proprio così e che essere o non essere in guerra non è affatto "è una questione di sottigliezze terminologiche", come invece suggerisce il giornale diretto da Marco Travaglio. In realtà sarebbero appena una decina gli uomini dei corpi speciali italiani, probabilmente dell’esercito, che si trovano attualmente nel paese nordafricano. E cosa più importante i militari non sono coinvolti in nessuna missione specifica sul territorio e assolutamente non stanno prendendo parte ad alcun tipo di combattimento contro i miliziani jihadisti. I loro compiti sul territorio sono unicamente di addestramento, come ad esempio i corsi per neutralizzare le mine antiuomo presenti a migliaia nel grande campo di battaglia libico e responsabili della morte di decine di soldati dell’esercito regolare o l’insegnamento di tecniche di difesa in strutture lontane decine di chilometri dalla prima linea. D’altra parte lo stesso premier libico ha ribadito l’importanza della cooperazione italiana, ma esclusivamente nel campo degli aiuti umanitari e dell’equipaggiamento: "All’Italia noi chiediamo di trattare e curare nei suoi ospedali i nostri feriti di guerra. Gli aiuti medici e i visti per il trasferimento dei nostri feriti sul vostro territorio dovrebbero essere più rapidi. Abbiamo anche richiesto alcuni ospedali da campo che sarebbero molto utili per trattare in tempo utile i nostri feriti gravi sulle prime linee. Inoltre, abbiamo già ottenuto dall’Italia partite di visori notturni e giubbotti anti-proiettili che servono per salvare la vita ai nostri uomini". Istruttori e missioni d’intelligence, la prima guerra segreta di Renzi di Francesca Schianchi La Stampa, 11 agosto 2016 Le nostre forze speciali addestrano i miliziani anti-Isis e cercano i terroristi. L’intervento richiesto da Sarraj. E Roma si prepara a riaprire l’ambasciata. Senza clamori e grazie ai nuovi poteri approvati dal Parlamento, il premier Matteo Renzi ha autorizzato per la prima volta una missione di forze speciali in zona di guerra. Lo ha fatto in Libia, come conferma un documento rivelato dall’Huffington Post e ricevuto di recente dal Copasir, il Comitato parlamentare di controllo sui servizi segreti. I protagonisti della missione sono uomini del Reggimento "Col Moschin", del gruppo operativo incursori del Comsubin, del gruppo intervento speciale dei carabinieri e incursori dell’aeronautica militare. Sono arrivati sul terreno per affiancare forze speciali americane di stanza a Tripoli e Misurata in missioni di addestramento di milizie locali impegnate a combattere i jihadisti dello Stato Islamico (Isis) di Abu Bakr al-Baghdadi. L’intervento è stato autorizzato da Renzi su esplicita richiesta del governo libico di Fayez Al Sarraj e a confermare il consolidamento dei rapporti bilaterali è arrivata, ieri sera, la decisione del Consiglio dei ministri di compiere un passo importante verso la riapertura della nostra ambasciata a Tripoli nominando alla sua guida Giuseppe Perrone, attuale vicedirettore degli Affari Politici alla Farnesina. Sono alcune decine i militari italiani partiti con il compito di fare da istruttori alle milizie libiche di Sarraj e delle tribù di Misurata, addestrandole alle operazioni di sminamento e a difendersi dai cecchini dell’Isis, attraverso l’uso di strumenti di precisione come i binocoli termici infrarossi. Perché sono queste - gli ordigni celati nel terreno come la mira dei tiratori - le armi più efficaci nelle mani dei jihadisti dello Stato islamico arroccati nell’area di Sirte: sono ancora 500 rispetto ai 4500 iniziali, e siccome non tutti sono stati uccisi, alle nostre truppe speciali è richiesta anche un’azione di intelligence per monitorarne gli spostamenti e scovarli sul teatro di operazioni libico. In tutto, la pattuglia di italiani è per ora di almeno quaranta unità, con gli istruttori scortati e protetti da altri soldati. La missione italiana avviene sulla base dei nuovi poteri assegnati al presidente del Consiglio dal decreto sulle missioni all’estero approvato dalle Camere alla fine dell’anno scorso, e più precisamente all’articolo 7 bis votato tanto dalla maggioranza quanto da Forza Italia, M5S, Lega Nord e Fdi (si distinse Si), pensato per consentire al governo velocità di reazione nella risposta alle minacce dei terroristi dopo gli attentati di Parigi. Si tratta di una norma che, per ventiquattro mesi, permette al presidente del Consiglio di autorizzare missioni all’estero di forze speciali - in situazioni di crisi o di emergenza, con pericolo per la nostra sicurezza nazionale o di nostri connazionali all’estero - inserendole sotto la catena di comando dei servizi segreti. Dando quindi loro, per il tempo necessario alla missione, tutte le immunità previste per gli agenti dell’intelligence. E di farlo dunque informando il Copasir senza dove passare attraverso un voto di Camera e Senato come invece avviene nel caso delle missioni militari sotto l’egida del ministero della Difesa. Il 10 febbraio scorso un decreto della presidenza del Consiglio in cinque articoli è stato approvato, e subito secretato, per definire le modalità di attuazione dei nuovi poteri del premier. È per questo che il governo non parla di "missione di guerra" né di "operazioni di combattimento" in Libia in maniera analoga a quanto fanno i governi alleati di Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia che hanno truppe speciali all’opera sotto il comando dei rispettivi servizi di intelligence in più Paesi, in Nord Africa e Medio Oriente. La presenza di nostre truppe speciali in Libia apre comunque nuove scenari al possibile intervento dell’Italia in zone di crisi al fine di tutelare i propri interessi nazionali, a cominciare dalla sicurezza dei connazionali. Per comprendere l’entità della svolta bisogna tornare al 2012 quando un italiano ed un britannico vennero sequestrati da un gruppo di terroristi islamici in Nigeria e l’Italia, non avendo allora le norme necessarie per inviare truppe speciali all’estero, lasciò l’iniziativa alla Gran Bretagna, le cui teste di cuoio misero a segno un blitz fallimentare che portò alla morte dei entrambi gli ostaggi. Russia: quei 900mila detenuti negli ex gulag di Stalin di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 11 agosto 2016 Gelide oasi in cui sono costretti migliaia di alienati, obbligati ai lavori coatti con orari massacranti, paghe da fame e senza il permesso di coprirsi, a 30-40 gradi sotto zero, con indumenti caldi che non siano il cappotto poco imbottito fornito dai carcerieri. Parliamo delle famigerate colonie penali sparse in Siberia. Nella Russia di Putin, formalmente esistono solo sette carceri ordinarie, il resto dei detenuti - che sono oltre 900 mila - vengono dislocati in queste strutture ereditate dai Gulag staliniani. La condizione delle detenute - Sono circa 750 le colonie penali e le donne, secondo i dati dell’autorità penitenziaria di Mosca, rappresentano una minoranza di oltre 47 mila detenute, spedite in 46 colonie femminili. E le donne subiscono delle torture che ricordano descrizioni non molto diverse dai quadri dei gulag tratteggiati dal grande romanziere Aleksandr Solgenicyn, rinchiuso nel 1950. Una delle testimoni è Nadezda Andreevna Tolokonnikova, anche nota come "Nadja Tolokno", un’attivista e cantante russa, nonché membro del gruppo punk rock Pussy Riot, finita in galera per aver cantato per mezzo minuto un inno contro Putin sull’altare della cattedrale di Cristo Salvatore a Mosca. Quando è uscita dalla colonia ha deciso di intraprendere una battaglia di mobilitazione per il sistema carcerario russo. Con altre attiviste ha creato la piattaforma "Justice Zone": la base per l’azione collettiva di persone accomunate dall’interesse per il destino di quelle detenute le cui vite si stanno sgretolando sotto il sistema penale russo. Molte sono le testimonianze. Una è di Kira Sagaydarova, attivista di Justice Zone che nel passato aveva vissuto il dramma dei gulag "moderni". Questi sono solo alcuni degli episodi che Kira ha vissuto: "Per i primi sei mesi ti uccidono lentamente. Rizhov, direttore della zona industriale, vuole che i supervisori dei laboratori di cucito raggiungano una certa quota di produzione, ma i supervisori non raggiungono la quota finché le nuove ragazze non imparano a cucire. Perciò i supervisori le picchiano. Una volta ti picchiano, poi magari ti strappano i capelli, ti sbattono la testa contro la macchina per cucire o ti portano in una cella punitiva, dove ti prendono a botte e calci usando mani e piedi, oppure tolgono la cinghia dalla macchina per cucire e ti colpiscono con quella". Dice, ancora: "I supervisori sono i responsabili della maggior parte delle violenze che avvengono nella colonia penale. Fanno quello che vogliono e dispongono a loro piacimento della vita delle persone. Mi hanno colpito sulla schiena con tutta la loro forza, o sulla testa, non fa differenza. Più volte sono crollata e ho pianto, e non riesco nemmeno a elencare tutte le cose che succedevano lì. A loro non importa nulla. C’è stato un periodo in cui ci versavano addosso acqua gelida in una cella punitiva ghiacciata in pieno inverno!". Le condizioni maschili e la famigerata "Aquila nera" - Ma per gli uomini è ancora peggio. Una delle peggiori colonie penali, la numero 56, viene chiamata anche Aquila Nera: è una delle carceri di massima sicurezza per i condannati all’ergastolo. Per un quarto di secolo i detenuti non hanno mai messo piede fuori da questo luogo. Per il rifornimento d’acqua, il carcere è collegato con tubature ad un lago, mentre l’energia nelle celle e nei recinti elettrificati è garantita da una serie di generatori. Non esistendo il sistema fognario, gli ergastolani devono svuotare il loro secchio nell’ora d’aria giornaliera in un fosso su cui si affacciano tutti i cortili. I reclusi trascorrono 23 ore al giorno dentro la cella, e hanno diritto a trascorrere solo un’ora fuori ma all’interno di una sala scoperta, senza tetto. Sono costretti a dormire con la luce accesa e durante il giorno è proibito restare a letto. Nel resto delle colonie, formalmente, l’obiettivo della reclusione nei campi è quello di abbinare la rieducazione allo sconto della pena, secondo il principio - travisato dai nazisti - per cui il "lavoro rende liberi". La realtà è che i detenuti sono costretti a turni asfissianti di lavoro e pulizie, in strutture che sono le stesse dai tempi di Stalin. E con salari miseri di 20 rubli al giorno, non più di 70 euro al mese. Il compenso serve a coprire i costi delle uniformi e del rancio quotidiano. Il sistema giudiziario senza alcuna garanzia per l’imputato - E se il sistema penitenziario russo è devastante, non è da meno nemmeno quello giudiziario. Secondo la denuncia di Amnesty International, diversi processi di alto profilo hanno messo in luce le profonde e diffuse carenze del sistema giudiziario penale della Russia, tra cui la mancanza di parità tra le parti, l’uso della tortura e altri maltrattamenti nel corso delle indagini, nonché l’incapacità di escludere in aula le prove inquinate dalla tortura, l’uso di testimoni segreti e di altre prove segrete, che la difesa non può contestare, oltre alla negazione del diritto a essere rappresentati da un avvocato di propria scelta. Il dato parla chiaro: meno dello 0,5 per cento dei processi si è concluso con l’assoluzione. Il caso di Svetlana Davydova è stato uno dei sempre più diffusi casi di presunto alto tradimento e spionaggio, categorie di reato definite in modo vago, introdotte da Putin nel 2012. Svetlana Davydova era stata arrestata il 21 gennaio dell’anno scorso per una telefonata fatta otto mesi prima all’ambasciata ucraina, in cui aveva avanzato il sospetto che alcuni soldati della sua città, Vjaz’ma, nella regione di Smolensk, fossero stati inviati a combattere in Ucraina orientale. L’avvocato nominato d’ufficio aveva dichiarato ai mezzi d’informazione che la donna aveva "confessato tutto" e si era rifiutata di ricorrere in appello contro la sua detenzione perché "tutte queste udienze e il clamore sui media [creavano] un inutile trauma psicologico ai suoi figli". Il 1° febbraio 2015, due nuovi avvocati hanno preso il caso. Svetlana Davydova ha denunciato che il primo avvocato l’aveva convinta a dichiararsi colpevole per ridurre la sua probabile condanna da 20 a 12 anni. Il 3 febbraio è stata rilasciata; il 13 marzo, in contrasto con tutti gli altri casi di tradimento, il procedimento penale nei suoi confronti è stato archiviato. A settembre dell’anno scorso è iniziato il processo contro Nade?da Savcenko, cittadina ucraina e appartenente al battaglione volontario Aidar. È stata accusata di aver deliberatamente diretto il fuoco dell’artiglieria per uccidere due giornalisti russi durante il conflitto in Ucraina, nel giugno 2014. La donna ha insistito sul fatto che il caso era stato inventato e che le testimonianze contro di lei, tra cui quelle di diversi testimoni segreti, erano false. Il suo processo è stato caratterizzato da moltissimi vizi procedurali. Il 15 dicembre del 2016, il presidente Putin ha approvato una nuova legge in base alla quale la Corte costituzionale poteva dichiarare "inattuabili" le decisioni della Corte europea dei diritti umani e di altri tribunali internazionali, qualora "violassero" la "supremazia" della costituzione russa. Filippine: crampi, infezioni e corpi accatastati, l’inferno dantesco del carcere di Manila di Raimondo Bultrini La Repubblica, 11 agosto 2016 A rendere il reportage particolarmente attuale è il contesto politico di questa prova a colori forti della crisi di compassione di una collettività che - a grande maggioranza - ha eletto come nuovo presidente esattamente tre mesi fa un uomo soprannominato "Il Giustiziere". Quando le agenzie hanno diffuso le immagini del fotografo Noel Celis i giornali non hanno dovuto lavorare troppo di fantasia per definire il più affollato penitenziario di Manila e del mondo un inferno dantesco vivente. Migliaia di corpi umani semi-accatastati nel carcere di Quezon City compaiono in panoramiche di stanze e cortili che sembrano luridi e di certo lo sono, tra detenuti che soffrono di crampi e infezioni trasmesse in promiscuità. La loro intricata e penosa geometria di braccia, teste e gambe intrecciate lascia l’impressione che la decenza abbia da tempo abbandonato questi luoghi "di pena e rieducazione", come recita la carta costituzionale del grande arcipelago cattolico da 100 milioni di anime. A rendere il reportage particolarmente attuale è il contesto politico di questa prova a colori forti della crisi di compassione di una collettività che - a grande maggioranza - ha eletto come nuovo presidente esattamente tre mesi fa un uomo soprannominato "Il Giustiziere", al secolo Rodrigo Duterte da Davao nel sud. Certo non è lui il responsabile del disumano sovraffollamento, con 3800 detenuti contro gli 800 previsti all’origine. Ma l’effetto della sua recentissima campagna di giustizia fai da te si sta già facendo sentire e non solo a Quezon central jail. Secondo le statistiche ufficiali della polizia più di 125.000 sospetti trafficanti di droga e loro clienti si sono arresi alle autorità dal 10 maggio, data della vittoria del neo presidente che aveva chiesto e continua a chiedere a ogni "cittadino onesto" di uccidere trafficanti e criminali, se ne conoscono qualcuno. Lui stesso, disse, avrebbe fatto fuori suo figlio se lo scopriva a drogarsi. In un solo giorno di luglio, il 21, nella provincia di Pampanga si sono presentati nelle caserme per farsi ammanettare ben 10.000 presunti spacciatori e consumatori terrorizzati da questa "guerra alla droga" senza processi e sentenze scritte che ha fatto già 408 vittime in tre mesi. Gente trovata uccisa e spesso "marchiata" dalle squadre di vigilante anti spaccio con nastro adesivo avvolto sul viso e le mani legate. Alla denuncia quasi quotidiana di media, esperti dei diritti umani e perfino organismi delle Nazioni Unite, il paese reagisce con una certa indifferenza e Duterte non manca occasione di ripetere i suoi appelli alla libera caccia dei malviventi con tanto di premi per gli agenti che li uccidono negli "scontri a fuoco", non sempre condotti contro soggetti armati, anzi. Del resto gli elettori lo hanno votato perché la città di Davao da lui amministrata per 20 anni è diventata nelle statistiche una delle cinque più sicure del mondo usando gli stessi metodi: 1000 vittime giustiziate in strada e a casa da vigilantes armati pagati e volontari. Boss e gregari che emigrarono altrove in massa, oggi si ritrovano il vecchio nemico al potere non solo nella laboriosa città meridionale, ma nell’"imperiale" e corrotta Manila, dove ha promesso di fare piazza pulita anche nella pubblica amministrazione e negli appalti. Un lavoro immane che potrebbe portare altre masse di ospiti dentro l’inferno con le sbarre di Quezon, la più popolata area metropolitana di Manila dove la vita degli slum non ha nulla da invidiare al carcere. Vista dal lato positivo, almeno in cella si mangia gratis e si sta lontani dai giustizieri del presidente. Stati Uniti: razzismo, il rapporto che inchioda la polizia (bianca) di Baltimora di Massimo Gaggi Corriere della Sera, 11 agosto 2016 Un calvario. La lettura del rapporto del ministero della Giustizia sui comportamenti razzisti della polizia di Baltimora è stata come salire sul Golgota per il presidente Barack Obama, per il nuovo capo della polizia della città, Kevin Davis, e per il sindaco, l’afroamericana Stephanie RawlingsBlake. La quale ieri, presentando l’indagine ai suoi concittadini, ha confessato di aver sofferto e di aver provato vergogna nel leggere dei comportamenti inammissibili dei suoi agenti. Neri fermati con frequenza molto superiore ai cittadini delle altre etnie anche quando non ci sono sospetti, mancato rispetto dei diritti civili trattamento brutale anche dei testimoni col risultato che molti di quelli che all’inizio si erano rivolti alla polizia per denunciare un reato, alla fine si tirano indietro. Non solo brutalità come quelle costate un anno e mezzo fa la vita a Freddie Gray, uscito morente da un viaggio "movimentato" su un cellulare della polizia, ma anche storie di ordinario sopruso come quella del professionista cinquantacinquenne, un nero incensurato, fermato più di 30 volte dalla polizia senza motivo. Non è la prima volta che gli ispettori federali intervengono in situazioni in cui la polizia ha usato metodi repressivi violenti. Il governo ha già denunciato eccessi degli agenti, da Ferguson a Newark. Ma queste 163 pagine di analisi capillare - una vera radiografia completata in appena 14 mesi - è un salto di qualità che mette le autorità locali con le spalle al muro: l’atto rischioso ma coraggioso di politici che cercano di riconquistare la fiducia della comunità usando il metodo della trasparenza. Alla fine lo riconosce lo stesso sindaco di Baltimora che rivendica di aver cominciato a fare pulizia ben prima della redazione del rapporto. E il "commissioner" Kevin Davis, arrivato a ottobre, rivendica di aver già licenziato sei agenti e parla di poche mele marce. Ma il rapporto dice altro: "Problemi sistemici, addestramento carente", "tolleranza zero" come carta bianca agli agenti. Ora si prova a voltare pagina guardando i problemi in faccia. Difficile e rischioso: può montare il risentimento dei neri ma anche degli agenti che operano in ambienti totalmente degradati. Ma è l’unica strada praticabile. Stati Uniti: Alcatraz, il carcere infernale da cui era (quasi) impossibile fuggire di Paolo Rastelli e Silvia Morosi Corriere della Sera, 11 agosto 2016 "The Rock", "The Bastion", la Fortezza, la Prigione. Tanti nomi per un unico luogo che, ancora oggi, incute paura e rispetto. L’11 agosto del 1934 apre, come carcere federale di massima sicurezza, l’isola di Alcatraz (che in spagnolo significa "pellicano"). Situata nella baia di San Francisco, diviene una prigione dopo aver ospitato un faro e dopo essere stata adibita a scopi militari. Noto per l’estrema rigidità con cui sono trattati i detenuti, tra verità storiche e misteri ancora irrisolti, con gli anni, nell’immaginario collettivo, è stato associato a un luogo infernale, sia per i rigidi trattamenti riservati ai detenuti, d’altronde nel penitenziario finivano solo i peggiori criminali, sia per il mito secondo il quale era impossibile fuggire oltre le mura (anche perché attraversare le acque gelide e turbolente della baia portava praticamente a morte certa). La vita ad Alcatraz era tutto fuorché facile: celle singole con dimensioni ridotte, isolamenti lunghi e durissimi, visite parentali rare. Le mancanze disciplinari venivano punite con la reclusione al buio e al freddo nelle celle d’isolamento: chi disobbediva alle regole finiva nel "buco" per oltre 19 giorni; una cella posta sottoterra in regime di isolamento. Nella storia ci sono stati 26 tentativi di evasione, ma soltanto di pochi uomini (si dice 5) si sono perse le tracce e si suppone che ce l’abbiano fatta. Alcatraz chiude i battenti nel 1963 e dal ‘69 al ‘71 è occupata da un gruppo di indiani d’America con l’intento di costruire sull’isola un centro culturale. Aperta per 29 anni, la prigione ha ospitato 1576 prigionieri. Da George Kelly Burns, uno dei banditi più famosi del proibizionismo, meglio noto come "Mitragliatrice" a Alvin Karpis, "Il raccapricciante Karpis", fino a Al Capone. Quest’ultimo si mostrò così collaborativo ad Alcatraz, tanto che si meritò l’accesso alla banda della prigione, gli Rock Ilanders, dove era solito suonare il banjo nei concerti della domenica. Uno dei tentativi di fuga da Alcatraz, che entrò nella storia, riguarda la famosa Battaglia di Alcatraz, del 2 maggio 1946, terminata due giorni dopo con la morte di tre prigionieri (autori della rivolta) e di due guardie. Gli autori di questa rivolta, armati, non vedendo possibilità di fuga intrapresero una sanguinosa lotta contro le guardie carcerarie, le quali furono assistite da alcune unità della Polizia di San Francisco, della Guardia costiera, dell’Aeronautica militare e dei Marines. L’uccisione di due guardie prese in ostaggio provocò la reazione di tutta la prigione che si scatenò sulle forze dell’ordine per avere la meglio. Tra le altre storie, c’è quella dei fratelli Anglin e Frank Morris, che, nel giugno del 1962, tramite alcuni buchi scavati e visibili ancor oggi nelle loro celle, riescono a fuggire (la loro storia è raccontata in Fuga da Alcatraz di Don Siegel, che vede tra i protagonisti anche Clint Eastwood). Si dice che Morris stesse studiando lo spagnolo da qualche mese, per raggiungere, dopo l’evasione, il sud America. Oggi, la fuga da Alcatraz è una gara di triathlon che si tiene la prima domenica di maggio e prevede 2.4 chilometri a nuoto, 29 in bicicletta e 12.9 a piedi. Quello che resta della fortezza è comunque visitabile: attualmente Alcatraz è parte della Golden Gate National Recreation Area, gestita dal National Park Service.