"Gettate le chiavi", ma ricordate che i diritti valgono anche per i detenuti peggiori di Maurizio Tortorella Tempi, 10 agosto 2016 Al regime detentivo speciale ci sono anche carcerati malati e semi-agonizzanti, perché? Ad alcuni gli agenti non possono nemmeno rivolgere la parola, perché?. I cronisti di giudiziaria lo chiamano "41 bis", dando per scontato che i lettori sappiano che quel numero descrive un articolo della legge sull’ordinamento penitenziario: la norma che regola la detenzione all’interno delle strutture carcerarie italiane. Il 41 bis è in realtà il "regime detentivo speciale", istituito nel 1992 a cavallo delle due stragi mafiose di quell’anno (Capaci e via D’Amelio), ed erede a sua volta delle "carceri speciali" create negli anni Settanta contro il terrorismo e poi abolite nel 1986 con la legge Gozzini. La legge, modificata nel 2002, prevede restrizioni gravi per i detenuti più pericolosi, cioè mafiosi o terroristi, cui giustamente si vogliono evitare contatti con l’esterno. Così viene ammesso un solo colloquio telefonico mensile con i familiari e con i conviventi "della durata massima di dieci minuti e sottoposto a registrazione"; le ore d’aria non possono essere più di quattro al giorno, e devono svolgersi in gruppi inferiori a cinque persone; i colloqui possono avvenire al massimo una volta al mese, e devono svolgersi "in locali muniti di vetri o altre separazioni a tutta altezza, che non consentano il passaggio di oggetti di qualsiasi natura, tipo o dimensione". Chi è sottoposto al 41 bis (erano 721 uomini e sette donne al 31 dicembre 2015, prevalentemente mafiosi, soprattutto camorristi) non può ricevere dall’esterno generi alimentari "che secondo l’uso richiedono cottura", la sua corrispondenza è sottoposta a visto di censura, non può scambiare nulla con altri detenuti, gli è vietato cucinare, non può tenere del detersivo, la cella può essere perquisita anche più volte alla settimana. Fin qui, diranno i lettori, nulla di sconvolgente. Certo, nel paese in cui la frase più pronunciata nei confronti del detenuto medio è "buttate la chiave della sua cella", la scarsa sensibilità al tema non stupisce. Ma la Commissione diritti umani del Senato, presieduta da Luigi Manconi, ha svolto un accurato esame sull’applicazione concreta del 41 bis. E i risultati della ricerca dovrebbero far pensare anche i "gettatori di chiavi". Al regime detentivo speciale ci sono prigionieri malati, se non addirittura semi-agonizzanti come era l’ultraottuagenario Bernardo Provenzano, che, prima di morire lo scorso 13 luglio, era incapace d’intendere e di volere ma rimaneva nel regime duro. E uno si domanda: perché? Ci sono detenuti in isolamento, nelle cosiddette "aree riservate", ai quali nemmeno gli agenti possono rivolgere parola: perché? La Commissione critica i criteri inutilmente afflittivi della sorveglianza, che nelle aree destinate al 41 bis avviene 24 ore su 24 attraverso telecamere in cella e a volte anche nei bagni, che gli agenti possono sorvegliare in qualsiasi momento da uno spioncino. Anche qui: perché? A che cosa serve? "Quanto da noi descritto è spesso orribile, incompatibile col dettato costituzionale e umiliante per lo Stato e per il nostro ordinamento", dice Manconi, una vita spesa per il garantismo coniugato da sinistra. "Il 41 bis ha l’unico ed esclusivo scopo d’interrompere le relazioni tra il detenuto e la criminalità esterna. Tutto il resto, in quanto non previsto, quando si riveli afflittivo è illegale". I "gettatori di chiavi" saranno certamente infastiditi da questo esercizio di garantismo. Penseranno probabilmente che queste sono soltanto ubbie, quisquilie, inutili fanfaluche. Diceva un tizio, invece, che un paese si misura dalla civiltà delle sue carceri. Continuare a pensare che i diritti debbano valere anche per i condannati e per i detenuti, e perfino per i peggiori tra loro, è il più alto esercizio di libertà. Manicomi criminali, ci risiamo di Stefano Cecconi (Comitato StopOpg) Il Manifesto, 10 agosto 2016 Un emendamento approvato pochi giorni fa al senato rischia di riaprire la stagione degli ospedali psichiatrici giudiziari. È successo che la commissione giustizia, trattando il disegno di legge su "garanzie difensive, durata dei processi, finalità della pena", ha ripristinato - in poche righe - la vecchia normativa sui manicomi giudiziari. Dunque si dispone che nelle rems (le strutture regionali per l’esecuzione delle misure di sicurezza detentiva) siano ricoverati, com’era negli opg, i detenuti con sopravvenuta infermità mentale e quelli in osservazione psichiatrica. E, come se non bastasse, si prevede di continuare l’invio di persone in misure di sicurezza provvisoria, anziché fermare un fenomeno che è cresciuto in modo preoccupante fino a provocare una saturazione dei posti nelle rems, a causa della non assimilazione della riforma da parte dei gip. Se la norma fosse confermata dall’aula e dalla camera dei deputati, le conseguenze sarebbero disastrose, le rems non avrebbero più una funzione "residuale": cioè destinata ai pochi casi in cui le misure di sicurezza alternative alla detenzione non sono assolutamente praticabili. Assumerebbero il ruolo di contenitore speciale per tutti i "folli rei", secondo la logica manicomiale del cosiddetto "binario parallelo" (c’è un binario per i sani e un binario speciale per i matti). Il rientro di queste persone (con sopravvenuta malattia mentale, in osservazione psichiatrica, ma anche in misura provvisoria per i reati più gravi) nel carcere, o comunque nel "normale" circuito delle misure alternative alla detenzione, era stato deciso proprio per ridimensionare il ruolo del "binario parallelo". Così invece, aumenteranno le persone inviate nelle rems: si moltiplicano i posti in strutture speciali solo per i malati di mente, riproducendo all’infinito la logica manicomiale. La legge 81/2014, che ha disposto la chiusura degli Opg e avviato il loro superamento, ha stabilito un obbiettivo chiaro: far prevalere misure non detentive per la cura e la riabilitazione delle persone malate di mente, con progetti individuali, potenziando i servizi nel territorio, a partire dai Dipartimenti di salute mentale. Rispondendo a due sentenze della Corte Costituzionale, la n. 253 del 2003 e la n. 367 del 2004, che si ispirano esplicitamente alla Riforma Basaglia. Ora tutto diventa più difficile. Intendiamoci, l’emendamento ha intenzioni condivisibili e nasce da giuste preoccupazioni: garantire ai detenuti il diritto alla salute e alle cure, troppo spesso ostacolati o negati dalle condizioni vergognose di molte carceri. Ma la soluzione trovata è sbagliata. Non ci sono scorciatoie, bisogna potenziare le misure alternative alla detenzione e organizzare i programmi per la tutela della salute mentale in carcere, con le sezioni di Osservazione psichiatrica e le previste articolazioni psichiatriche. Qui il ritardo del Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria è grave. Il caso più clamoroso è quello dei reclusi ex art. 148 cp a Reggio Emilia. Ora ci aspettiamo un intervento deciso del governo per rimuovere quanto l’emendamento ha disposto, e riprendere il già difficile percorso di superamento degli opg, a partire dalla chiusura di quelli rimasti aperti: Montelupo Fiorentino e Barcellona Pozzo di Gotto. Questa vicenda svela ancora una volta che la questione del "binario parallelo", all’origine degli opg e delle stesse rems, deve essere affrontata e risolta. Per noi bisogna abolirlo, modificando il codice penale. Immediatamente il ministro Orlando deve prendere in considerazione le proposte degli stati generali sulle misure di sicurezza. Ancora una volta torna in gioco l’attualità della nostra Costituzione, l’equilibrio fra responsabilità e diritti. Terrorismo: finanziatori in carcere fino a 15 anni di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 10 agosto 2016 Saranno operative dal 24 agosto le nuove norme per il contrasto al terrorismo. Dopo gli interventi messi in atto nel 2005 e nel 2015, è approdata nella Gazzetta ufficiale di ieri la legge (153/2016) che, recepisce una serie di Convenzioni europee e internazionali. La norma interviene sul codice penale introducendo una figura autonoma di reato (carcere da 7 a 15 anni) per punire il finanziamento al terrorismo, attraverso beni o denaro "in qualunque modo realizzati": una pena che scatta a prescindere dall’effettivo utilizzo dei fondi raccolti. Reclusione da 5 a 10 anni anche per chi il denaro lo custodisce e da 2 a 6 anni per chi sottrae somme o beni sottoposti a sequestro a scopo preventivo. Via libera alla confisca obbligatoria, anche per equivalente, delle cose "che servirono o furono destinate a commettere il reato" o che ne costituirono il prezzo, il prodotto e il profitto. Entra nel codice anche il reato terrorismo nucleare e batteriologico punito con la detenzione da 15 a 20 anni. Il punto di contatto per la soppressione del terrorismo nucleare sarà il ministero della Giustizia con obblighi di comunicazione per consentire la cooperazione fra stati parte. Dettate le disposizioni in materia di sequestro e confisca del materiale radioattivo e nucleare. L’articolo 9, in attuazione di quanto previsto dalla Convenzione sul riciclaggio, la confisca e la prevenzione, individua nella Banca d’Italia l’Autorità di intelligence finanziaria contro il terrorismo e nel ministero dell’Economia e delle finanze l’autorità centrale. Sempre nella Gazzetta di ieri anche la ratifica dell’accordo con il Marocco per l’esecuzione delle sentenze, l’estradizione e il trasferimento delle persone condannate (in vigore dal 10 agosto). Cyberbullismo, non c’è accordo. M5S: così regole ammazza web di Daria Gorodisky Corriere della Sera, 10 agosto 2016 Si allungano ancora i tempi per l’approvazione di una legge per tutelare i minori dal fenomeno, che colpisce almeno il 6% degli adolescenti e preadolescenti. Intervenire sarebbe urgente. Invece si allungano ancora i tempi per l’approvazione di una legge contro il cyberbullismo. Nel maggio 2015 il Senato aveva approvato all’unanimità una norma (prima firmataria Elena Ferrara, Pd) per tutelare i minori dal fenomeno che colpisce almeno il 6% degli adolescenti e preadolescenti. Ma il 27 luglio scorso le commissioni congiunte Giustizia e Affari sociali della Camera hanno ribaltato il testo su impulso di un altro pd, il relatore Paolo Beni. In particolare, la legge dovrebbe difendere anche gli adulti e introdurre un’aggravante al reato di stalking con una pena da 1 a 6 anni di carcere. Ora tutto è rinviato all’aula di Montecitorio: alla riapertura, il 12 settembre. Però già piovono polemiche: politiche, per le divisioni del Pd; e giuridiche. Ferrara è sconfortata: "Per gli adulti esistono già i reati di diffamazione, minaccia, stalking… Per i minori eravamo finalmente riusciti a mettere d’accordo tutti, compresi ministeri, Polizia postale, Tribunali minorili, Garanti e persino le aziende di social media che garantivano la possibilità di oscuramento". Mentre Beni smorza: "Esiste un problema di bullismo in generale, non solo informatico; e sappiamo che non vengono presi di mira soltanto gli adolescenti. Serve un intervento contro chi ferisce deliberatamente qualcuno con parole e immagini". Però il Movimento 5 Stelle parla di "norma ammazza web". "Si potrà andare in carcere se magari si insiste su un possibile conflitto di interessi del padre di Renzi. Invece di pensare al dramma dei giovani…", commenta Massimo Baroni, portavoce del M5S alla Camera. E Antonio Palmieri, deputato di Forza Italia, non vuole credere a "volontà di limitare la libertà di espressione", però promette: "Vigileremo. Porteremo emendamenti migliorativi". Storia di un politico in cella che non ha mai visto il figlio di Errico Novi Il Dubbio, 10 agosto 2016 Da 14 mesi Luca Gramazio è al carcere duro. Tutti sanno che non è mafioso. L’appello del leader della Destra Francesco Storace. È l’unico politico coinvolto in Mafia Capitale a cui sia stata contestata l’accusa di associazione mafiosa: Luca Gramazio, sostengono i pm di Roma, era il terminale nelle istituzioni della rete di Buzzi e Carminati. Certo è che l’ex capogruppo di Forza Italia alla Regione Lazio è in carcere, senza che contro di lui sia mai stata pronunciata una sentenza di condanna, dal 4 giugno 2015. Pochi giorni dopo l’arresto, Gramazio è diventato padre. Ma da più di un anno ormai si rifiuta di vedere il figlio: "Lo terrò in braccio quando sarò fuori di qui", ha detto alla moglie e al padre - l’ex senatore Domenico - fin dal primo colloquio a Rebibbia. Francesco Storace rilancia dal Dubbio il proprio appello ai magistrati: "Scarceratelo, non è un delinquente abituale, e non c’è motivo che resti in galera in attesa che si concluda il processo". Sul Giornale d’Italia, organo politico del suo partito, Francesco Storace parla di Luca Gramazio come del "dimenticato" di Mafia Capitale. Unico politico del maxiprocesso a vedersi contestata l’accusa di associazione mafiosa, l’ex capogruppo forzista alla Regione Lazio è in carcere dal 4 giugno dell’anno scorso, in regime di alta sicurezza. A suo carico ci sono anche le accuse di aver preso 90mila euro di tangenti dalla rete di Salvatore Buzzi e di aver condizionato uno degli affari più grossi, l’appalto per il servizio Cup: ma un altro imputato per quest’ultima vicenda, l’ex capo di gabinetto di Zingaretti Maurizio Venafro, è stato assolto di recente in un procedimento parallelo, e sul resto Gramazio si è difeso con puntiglio nelle dichiarazioni spontanee del 1° febbraio. "E comunque è un politico, non un delinquente abituale: i magistrati, tutti di assoluto valore", dice il leader de La Destra, "dovrebbero riconsiderare la misura cautelare nei confronti di Luca". Il quale vive un ulteriore dramma personale all’interno di una vicenda già molto pesante: non ha mai visto il figlio, nato pochi giorni dopo il suo arresto. Luca Gramazio è a Rebibbia dal 4 giugno 2015: esattamente tre settimane dopo, il 25 giugno, la moglie diede alla luce il primogenito. "So che Luca non vuole vederlo da detenuto", conferma Storace. È così: Gramazio respinge l’umiliazione di dover conoscere il piccolo da uomo privato della libertà. Non ne vuole sapere. "E mi risulta che il padre, Domenico, sia d’accordo", aggiunge Storace. Tutto vero: Domenico Gramazio, parlamentare di lungo corso, e la moglie di Luca hanno assecondato con convinzione la scelta dell’ex capogruppo di Forza Italia: non si sono mai presentati ai colloqui con il neonato. Luca ha visto il figlioletto solo in fotografia: quelle vuole che gliele portino sempre. Utilizza la possibilità a cui - pur nel regime detentivo più rigido impostogli per il 416 bis - ha diritto: può telefonare più o meno regolarmente a casa, parlare con la moglie e informarsi sul bambino. Ma non vuole prenderlo in braccio finché non sarà uscito di galera. Un dramma nel dramma, Storace. Luca ha scelto di non voler conoscere il figlio da dietro le sbarre per una questione di orgoglio, evidentemente. Io forse sono condizionato dal rapporto lunghissimo di amicizia che mi lega a suo padre, e quindi anche a lui, ma davvero vorrei chiedere ai magistrati, assolutamente di valore, ai quali spetta decidere sulle misure cautelari, che senso abbia tenere questa persona in galera. Non parliamo di un delinquente abituale ma di un esponente politico alla sua seconda estate in carcere, con un figlio nato dopo l’arresto. C’è un principio, consolidato dalla Cassazione, per cui in questo tipo di processi i termini delle misure cautelari sono sospesi per tutto il dibattimento. Ma non c’è un obbligo formale a tenere Gramazio o altri imputati in galera. Nulla impedirebbe di concedere almeno i domiciliari, come chiesto per esempio, proprio sul mio giornale, da Francesco Giro. E comunque sul peso dell’imputazione per 416 bis ci sono vari aspetti da considerare: l’evaporare dell’accusa in processi paralleli a Mafia Capitale, come quello su Ostia, l’assoluzione di Venafro da un’accusa che è anche la più pesante, per l’importo della gara, tra quelle di cui deve tuttora rispondere lo stesso Gramazio. E soprattutto non vedo il ricorrere delle motivazioni classiche che giustificherebbero il carcere preventivo: rischio di inquinamento delle prove, fuga o reiterazione del reato. Non è che scarcerare Gramazio e altri imputati significherebbe, per Tribunale e Procura, destrutturare l’accusa di mafia? Se il motivo per cui si insiste nella durezza delle misure cautelari fosse questo ci si troverebbe di fronte alla negazione della civiltà giuridica. Non voglio crederci. Lei è stato anche consigliere comunale a Roma: ci crede alla capitale impregnata di mafia? Guardi, io tra il 2008 e il 2013 ho fatto opposizione ad Alemanno assai più di quanta non ne sia venuta dal Pd e dalle altre minoranze dell’assemblea capitolina: se davvero a Roma ci fosse stata la mafia qualche sganassone l’avrei beccato. E adesso che idea si è fatta dell’amministrazione a cinque stelle? Non mi esprimo per pregiudizi ma certo loro te ne fanno venire la voglia. Anche se mi fa un pò spavento il discorso sull’assessore Paola Muraro a cui potrebbero inviare un avviso di garanzia per consentirle di difendersi: speriamo che non la sbattano in galera per consentirle di riposarsi. Dissidente iraniano arrestato a Lecco per ingraziarsi Teheran di Riccardo Pelliccetti Il Giornale, 10 agosto 2016 La polizia ha fermato il blogger Khosravi. Così si rischia un nuovo caso Shalabayeva. Perché il dissidente iraniano Mehdi Khosravi è stato arrestato dalla polizia italiana? Ufficialmente la questura di Lecco parla di provvedimento cautelare in seguito a un mandato di cattura internazionale per corruzione emesso dal Tribunale di Teheran, che ne chiede l’estradizione. Khorsravi, in arte Yashar Parsa, è un blogger attivista per la democrazia che evidentemente con la sua attività infastidisce il regime iraniano. Ma fin qui nulla di strano. Quello che invece comincia a preoccupare è che il governo italiano non si presti ai giochetti repressivi per mantenere le sue buone relazioni con Teheran. È già accaduto una volta, tutti ricorderanno il caso Shalabayeva, la moglie del dissidente kazako rispedita dall’Italia nel suo Paese ben sapendo quali fossero le reali intenzioni del regime asiatico, e sarebbe meglio non collezionare ulteriori figuracce internazionali senza aver verificato a fondo quali siano le responsabilità del dissidente iraniano arrestato domenica a Dorio, nel Lecchese. Anche perché il suo avvocato Sahand Saber sostiene che non esistono accuse per corruzione nei suoi confronti, anche perché non ha mai ricoperto ruoli pubblici né è mai stato dipendente dello Stato. Quello che si sa è che Khosravi era finito in carcere in Iran dopo i moti studenteschi del 2009 e che ha continuato all’estero, come rifugiato, la sua attività contro il regime. Perciò tutto sembra ridursi a una chiara caccia al dissidente scomodo. "Mehdi oggi scrive articoli e blog sulla democrazia e la necessità di una separazione dei poteri in Iran ha affermato il suo legale. Saber ha aggiunto che l’arresto "può rappresentare un tentativo da parte di alcuni funzionari del governo italiano di ingraziarsi gli iraniani dopo l’accordo sul nucleare della scorsa estate. Il governo italiano accusa l’avvocato del blogger - vuole lavorare economicamente con il regime. Può darsi che al governo italiano sia stato chiesto di fare ciò". La vicenda di Khosravi ha suscitato l’intervento di Reza Ciro Pahlavi, figlio dell’ex Scià di Persia, costretto ad abdicare dopo della rivoluzione khomenista del 1979. Pahlavi, presidente del Consiglio nazionale iraniano per libere elezioni, ha scritto al premier Matteo Renzi, chiedendogli di porre attenzione al caso del "rifugiato e richiedente asilo" Mehdi Khosravi. "Chiediamo con urgenza il suo intervento, in favore del signor Khosravi scrive il figlio dello Scià - Khosravi è un attivista per la democrazia e la tutela dei diritti umani, nato in Iran, ma residente nel Regno Unito in qualità di rifugiato politico, perché costretto ad abbandonare l’Iran dopo le dimostrazioni del 2009. Inoltre, il signor Khosravi è stato negli ultimi tre anni amministratore esecutivo del Consiglio nazionale iraniano per le libere elezioni". Insomma, anche un cieco capirebbe che le accuse dei giudici iraniani nascondono un’altra verità. Massa Carrara: muore suicida agente di Polizia penitenziaria 47enne Corriere Fiorentino, 10 agosto 2016 Era stato gentile e cordiale con tutti, come sempre, fino a poche ore prima di impugnare la sua mitraglietta di ordinanza e spararsi un colpo alla testa: è morto così, sul posto di lavoro, un agente di Polizia Penitenziaria di 47 anni, originario di Santa Maria Capua Vetere, in servizio al carcere di Massa, in provincia di Massa Carrara. Il gesto - L’uomo si è suicidato all’interno del penitenziario lunedì pomeriggio, intorno alle 14 e il corpo è stato ritrovato subito dai colleghi che hanno chiamato il 118 senza però che ci fosse più alcuna speranza. Il secondino è morto in carcere e la salma si trova ancora dentro il penitenziario, in attesa di essere trasferita all’obitorio cittadino; ancora non è stato richiesto neanche l’intervento del medico legale della Procura apuana. Difficile penetrare le mura carcerarie; al momento non trapelano notizie né sui motivi del gesto, né si sa se abbia lasciato un messaggio per la famiglia, la moglie e i due figli. Il ricordo dell’amica - Su Facebook il ricordo di una amica, la responsabile del Telefono Azzurro di Massa Carrara, che lo aveva conosciuto in questi anni in cui l’associazione aveva messo in piedi il progetto di ludoteca per i figli dei detenuti, all’interno del carcere apuano. "L’ho visto a lungo sabato mattina perché era in portineria e gli ho offerto un caffè; l’ho salutato di sfuggita anche stamattina con un ciao, in pratica prima di morire". Napoli: agente di Polizia penitenziaria in servizio a Poggioreale si uccide Ansa, 10 agosto 2016 Si è tolto la vita impiccandosi nella casa dove viveva. Protagonista un poliziotto penitenziario ultracinquantenne, in servizio nel carcere di Poggioreale, sposato e con due figli. A darne la notizia è Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe che ricorda come appena ieri "si era ucciso un altro poliziotto penitenziario, originario di S. Maria Capua Vetere e in servizio nella Casa di Reclusione di Massa". "Sono davvero sgomento - aggiunge Capece - Certo è che è luogo comune pensare che lo stress lavorativo sia appannaggio solamente delle persone fragili e indifese, mentre il fenomeno colpisce inevitabilmente anche quelle categorie di lavoratori che almeno nell’immaginario collettivo ne sarebbero esenti, ci riferiamo in modo particolare alle cosiddette "professioni di aiuto", dove gli operatori sono costantemente esposti a situazioni stressogene". "L’Amministrazione Penitenziaria non può continuare a tergiversare su questa drammatica realtà - conclude Capece. Non si può pensare di lavarsi la coscienza istituendo un numero di telefono che può essere contattato da chi si viene a trovare in una situazione personale di particolare disagio. Servono soluzioni concrete per il contrasto del disagio lavorativo del Personale di Polizia Penitenziaria. È necessario strutturare un’apposita direzione medica della Polizia Penitenziaria, composta da medici e da psicologi impegnati a tutelare e promuovere la salute di tutti i dipendenti dell’Amministrazione Penitenziaria" Lamezia Terme: agguato ad avvocato, ucciso mentre era in macchina di Carlo Macrì Corriere della Sera, 10 agosto 2016 Era segretario della Camera penale. La vittima è il penalista Francesco Pagliuso: è il secondo legale ammazzato nella zona. L’hanno atteso nel giardino di casa e l’hanno ucciso con diversi colpi d’arma da fuoco che l’hanno centrato al collo e alla testa. L’avvocato Francesco Pagliuso, 43 anni, una figura molto nota a Lamezia, segretario della camera penale non ha avuto scampo. Il suo corpo è stato trovato intorno alle 3 di mercoledì mattina, riverso sul sedile della sua auto. Il killer conosceva le sue abitudini. Il penalista quando è stato colpito stava per uscire di casa, un casale restaurato, ubicato in una zona centrale di Sambiase. Separato, il professionista viveva da solo nella villetta: martedì sera, aveva un appuntamento con la fidanzata. Il killer, che evidentemente conosceva bene le sue abitudini, ha atteso che Pagliuso entrasse in macchina, prima di colpirlo a morte. Pagliuso è stato il legale di molti ndranghetisti lametini. I Giampà, prima del loro pentimento, ma ancor prima i Torcasio. Era anche l’avvocato di Franco Perri l’imprenditore lametino a capo del più grande centro commerciale della Calabria. La Guardia di Finanza nei mesi scorsi aveva sequestrato all’imprenditore tutti i beni, qualcosa come 500 milioni di euro, in parte poi restituiti. Tra i suoi assistititi anche gli autori del duplice omicidio di Decollatura Domenico e Giovanni Mezzatesta, padre e figlio, responsabili del duplice omicidio di Francesco Iannazzo e Giovanni Vescio, avvenuto a marzo del 2013. Dopo l’agguato Domenico Mezzatesta si era dato alla latitanza e la sua fuga sarebbe stata gestita proprio dall’avvocato Pagliuso. Girava con una 44 Magnum - Non difendeva comunque solamente i mafiosi l’avvocato Pagliuso: il penalista è stato anche l’avvocato di Ida D’Ippolito, ex senatrice di Forza Italia. Un personaggio molto noto Francesco Pagliuso, un professionista rampante capace di bruciare le tappe di una carriera che si presentava molto brillante. Per gli inquirenti si tratta di un omicidio di mafia. Anche se non si escludono altre piste. Pagliuso girava armato, tenendo sempre la sua 44 Magnum cromata, che mostrava sempre agli amici, con il colpo in canna. Martedì sera non ha però fatto in tempo ad estrarla. Anche questo, probabilmente sapeva il suo assassino. Francesco Pagliuso è il secondo avvocato assassinato a Lamezia negli ultimi dieci anni. Prima di lui era stato Torquato Ciriaco, a marzo del 2002 a morire sotto i colpi di pistola sparati da killer ancora sconosciuti. L’avvocato Ciriaco aveva interessi anche nel campo immobiliare, come sembra li avesse anche l’avvocato Pagliuso. Cagliari: Pili (Unidos) "arrivano a Uta 40 boss di mafia e camorra" Ansa, 10 agosto 2016 Lo denuncia il deputato di Unidos Mauro Pili che ha annunciato una visita ispettiva nel carcere e una interrogazione parlamentare. "Con un blitz di ferragosto il ministro della Giustizia ha trasformato il carcere circondariale di Cagliari-Uta in una sezione per mafiosi, camorristi ed esponenti di primo piano della ‘ndrangheta. La disposizione datata 3 agosto è arrivata in queste ore al Provveditorato regionale e al Gruppo Torreggiani che si occupa delle norme in materia carceraria. L’intero Reparto Arborea deve essere evacuato dai detenuti ordinari e destinato esclusivamente ai detenuti di alta sicurezza che arriveranno a Uta". Lo denuncia il deputato di Unidos Mauro Pili che ha annunciato una visita ispettiva nel carcere e una interrogazione parlamentare. "In pochi giorni il carcere sarà trasformato in una vera e propria cayenna mafiosa. Almeno 40 detenuti in regime di alta sicurezza legati a mafia, camorra e ‘ndrangheta. In silenzio - ha sottolineato il parlamentare - il blitz del governo che ha deciso di trasformare Uta in uno degli istituti destinati ai più pericolosi criminali delle organizzazioni mafiose. Allarme tra gli agenti penitenziari e tra i cittadini. Tutto questo sposterà nel cagliaritano la presenza dei familiari dei detenuti mafiosi e non solo. Ora più che mai il rischio infiltrazioni è gravissimo. È una decisione inaudita che stravolge la stessa natura del carcere destinato a detenuti ordinari". "Un contingente di 40 detenuti - ha spiegato Pili - che arriveranno direttamente da Napoli e che occuperanno un’ala intera del carcere di Uta". Empoli: il carcere femminile di Pozzale non può diventare una Rems di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 10 agosto 2016 Aumentano i cori del no per la chiusura del carcere femminile di Pozzale per trasformarlo in una Rems. Come già denunciato da Il Dubbio, per trasferire definitivamente tutti i pazienti detenuti illegalmente nell’ex Opg di Montelupo Fiorentino, il carcere di Empoli ? un istituto virtuoso e molto legato al tessuto della città - verrà trasformato in una Rems. Le ultime detenute rimaste, ad inizio agosto, sono state già tutte trasferite al carcere di Sollicciano. Numerosi addetti ai lavori, volontari, la sindaca stessa della città, avevano dimostrato sconcerto per questa iniziativa. Al coro dei no si è aggiunto anche il sindacato Fns Cisl che ha inviato una lettera al ministro della Giustizia, Andrea Orlando. "A parte l’incomprensibile scelta di chiudere una esperienza positiva nel panorama nazionale penitenziario, che ha lasciato sconcertati anche enti locali e le molte associazioni di volontariato che da anni portano avanti progetti utili al reinserimento sociale delle giovani donne detenute assegnate ad Empoli - ha scritto al ministro - preme al sindacato chiarire le tutele che serve realizzare non solo per i circa 40 appartenenti al corpo in servizio ad Empoli, ma anche alle altre decine di colleghi che a Montelupo, con provvedimenti urgenti conseguenti a quelli di Empoli, vedranno de localizzato il lavoro in nuove sedi penitenziarie della Repubblica". Ad esprimere rammarico per la chiusura del carcere di Empoli sono anche i componenti dell’associazione La Costruenda. "La nostra associazione è entrata per la prima volta nel settembre del 2015 all’interno del carcere. Appena siamo venuti a conoscenza dell’intenzione della direzione della casa circondariale di rimettere in funzione l’azienda agricola esistente all’interno, ma abbandonata da tempo, ci siamo subito dati da fare - spiegano. All’inizio abbiamo ripulito tutto il perimetro dell’istituto da rampicanti, poi abbiamo riattivato la serra, il pollaio e tutte le piante di olivi e da frutta. Il tutto sempre a fianco delle detenute che hanno lavorato con noi in ogni fase. Insieme abbiamo riportato l’ambiente a essere un giardino e un orto, e da mesi sia in serra che all’aperto si è prodotto frutta, ortaggi, uova. In tutti questi mesi abbiamo potuto constatare che sono state sempre pronte a imparare, impegnarsi e lavorare insieme a noi. Ora noi ci chiediamo: se questo istituto era una eccellenza a livello nazionale perché chiuderlo? ". Si sono aggiunti i radicali fiorentini dell’associazione "Andrea Tamburi" ad esprimersi contro la realizzazione della Rems, definendola una mini Opg. I radicali spiegano di non conoscere i costi economici di questa scelta ma sanno però quali sono i costi umani che si stanno pagando: "Diciassette mesi di attesa già trascorsi dagli internati dell’Opg e dal personale di polizia penitenziaria di Montelupo senza aver la benché minima idea di dove e quale sarà la loro nuova destinazione; il trasferimento coatto delle detenute del Pozzale in altri istituti penitenziari con conseguente interruzione delle attività riabilitative cui avevano accesso; la perdurante inadeguatezza delle strutture territoriali che dovrebbero farsi carico dei pazienti dimessi dall’Opg". Massimo Lenzi, presidente dell’associazione radicale, spiega che la legge 81/2014 configura le Rems come strutture sanitarie con finalità di cura, riabilitazione e reinserimento sociale, strutturate allo scopo di aiutare il paziente nel recupero della capacità relazionali e dei rapporti affettivi con la propria famiglia e l’ambiente sociale; per questo denuncia che "un carcere, seppur riadattato, non si può oggettivamente considerare idoneo in alcun modo a questo scopo! Il rischio che sembra sempre più concretizzarsi così facendo è quello di dar vita a un vero e proprio mini-Opg ". Sempre Massimo Lenzi chiosa: "A fronte di ciò ci appare necessario ribadire con chiarezza che il dettato della legge 81/2014 non prevede, come sembra si voglia far intendere, la sostituzione degli Opg con le Rems, ma la presa in carico dei pazienti psichiatrici destinatari di misure di sicurezza da parte dell’insieme dei servizi sociali e sanitari della comunità". Per tutti questi motivi l’associazione radicale "Andrea Tamburi" chiede alla Regione Toscana di ripensare la scelta di aprire una Rems nel carcere del Pozzale e definire, in tempi brevi, nuove soluzioni, rispettose però dello spirito della riforma contenuta nella legge 81 per coadiuvare l’auspicata e definitiva dismissione dell’Opg di Montelupo. Sabato scorso hanno manifestato davanti alla sede della Regione Toscana per far valere tutte queste ragioni. Napoli: rifugiati e detenuti riconquistano insieme le terre della camorra di Andrea de Georgio Internazionale, 10 agosto 2016 Chiaiano, quartiere nord di Napoli. La strada s’inerpica stretta addentrandosi nella sconfinata campagna battuta dal sole. Ripidi vicoli costeggiati da campi, senza indicazioni né cartelli. Solo sporadici segnali dipinti a mano con una scritta seminascosta dalla vegetazione che dice: "Selva Lacandona, bene confiscato". Ancora qualche curva e il paesaggio si apre su dolci colline pettinate da vigne e frutteti. Qui la periferia urbana confina direttamente con i campi e le aziende agricole. A pochi passi dalla fermata della metropolitana di Chiaiano e dai mostri architettonici strabordanti d’umanità di Scampia e Secondigliano, il cemento s’innesta nel verde del Parco metropolitano delle colline di Napoli, un’area protetta a circa trecento metri di altitudine sul mare. Su questa terra sorge il Fondo rustico Amato Lamberti, il primo bene agricolo requisito alla criminalità organizzata e riqualificato da una cooperativa sociale nel comune di Napoli. Un terreno di 14 ettari posto sotto sequestro nel 1997, confiscato nel 2001 e "dimenticato" dallo stato per undici anni. Nel nome della comunità agricola che offre inserimento lavorativo a detenuti e rifugiati riecheggiano le lotte zapatiste del subcomandante Marcos nella Selva Lacandona, in Chiapas, e la figura di un grande sociologo napoletano, Amato Lamberti. "Qui regnava la famiglia Simeoli, il braccio imprenditoriale dei Nuvoletta e Polverino, fra i clan che dagli anni settanta hanno cominciato a muovere cemento in tutta Italia. Il ramo di Cosa Nostra impiantato in Campania voleva costruire nel parco un quartiere residenziale di lusso, il cosiddetto ‘Vomero 2’. Ma mentre bonificavano il terreno hanno trinciato il metanodotto sotterraneo ed è saltato tutto per aria. Per questo è scattato il sequestro". Ciro Corona cammina a fatica nei campi. È un figlio di Scampia, laureato in filosofia, che ha deciso di restare e non piegarsi alla logica del "o ti associ alla mafia o te ne vai". Nel 2008 ha creato l’associazione (R)esistenza che, fra le varie attività, dal 2012 gestisce il bene confiscato di Chiaiano. Ciro racconta che, secondo le indagini, su queste colline fino a una decina d’anni fa venivano sciolte persone nell’acido. A una manciata di chilometri dal limitare di questi campi, a Marano, è stato nascosto per mesi Totò Riina durante la sua latitanza. Oggi, invece, qui si producono quattordicimila bottiglie di Falanghina doc dei Campi Flegrei vendute in tutta Italia, birre artigianali, frutta fresca e marmellate. "La camorra non se n’è andata, ha solo cambiato forma. Quando ha capito che su questo terreno ci stava perdendo la faccia sono cominciate le minacce. Prima è venuto il nipote del boss a dire che questa è proprietà loro, hanno sradicato cinquanta ciliegi, poi ci hanno rubato materiale del valore di circa cinquantamila euro. Una notte hanno perfino scavato due tombe nel campo con tanto di croci conficcate nella terra". Ma Ciro e compagni non si lasciano intimidire, si fanno ritrarre di spalle mentre orinano nelle fosse e mettono la foto in rete. "Queste terre sono nostre, non della camorra. Ce lo insegna la storia di questi luoghi, ce l’hanno insegnato i briganti prima e i partigiani poi: quello che ci appartiene va difeso, anche con la vita". Da giugno tira un’aria nuova alla Selva Lacandona: ogni mattina Victor, Akwasy e Godspower, tre ragazzi nigeriani, e Mohamed, giovane sudanese originario del Darfur, risalgono a piedi la strada asfaltata da don Angelo Simeoli per aiutare nei campi Dario e gli altri otto detenuti destinati ai lavori sociali. Nel prendersi cura del vigneto, del pescheto, del pruneto e dei trecento limoni appena piantati "per il limoncello", i ragazzi di Poggioreale e i richiedenti asilo sono coordinati da Carmine, fattore napoletano socio della cooperativa. "Abito a cinquanta metri dal bene confiscato e in quarant’anni non avevo mai visto tanta gente arrivare fin quassù. Durante i campi estivi vengono ragazzi da tutta Italia, montano le tende, mangiano con noi e ci danno una mano. Durante l’anno lavorano ex detenuti della zona agli arresti domiciliari e rifugiati africani. L’essenza di questo posto è stare insieme e non lasciarsi mai soli, guardandosi le spalle l’un l’altro". Il fattore tatuato - Carmine ha studiato da tecnico di laboratorio senza mai smettere di lavorare nei campi del padre, un produttore di ciliegie della zona. La sua vita, racconta, è cambiata con le lotte cittadine contro la discarica di Chiaiano, a meno di un chilometro da casa. Facendo su e giù dal trattore, Carmine osserva Mohamed e gli altri zappare il nuovo limoneto. "Sudiamo tutti alla stessa maniera, è questo il bello del lavoro in campagna. Quassù, nei campi, siamo tutti uguali. Giochiamo e scherziamo, ma sempre lavorando. Quello che mi piace di loro è che hanno un rapporto con la terra e la natura molto più stretto del nostro. Lavorare con i ragazzi africani è stupendo, perché imparano in fretta e hanno molto da insegnare. La zappa, per esempio, la usano come se fosse una penna". Dario, sudato fradicio, richiama il figlio che non riesce a chiudere la pompa dell’acqua mentre Mohamed guarda perplesso l’orto. "Non riusciamo a spiegargli che è ancora spoglio perché lo stiamo preparando per l’inverno. Lui parla solo arabo, i nigeriani uno strano inglese". Accendendosi l’ennesima sigaretta della giornata, il fattore tatuato si allontana fra i filari. Quando il sole è ormai alto nel cielo, Carmine spegne il trattore e chiama i ragazzi per il pranzo. Allineati al magazzino degli attrezzi - dove altri 150 alberelli di limone aspettano di essere trapiantati - dei prefabbricati offrono un pò d’ombra ai lavoratori. Sul fianco di una casupola adibita a cucina campeggia la scritta "Qui camorra e mala-politica hanno perso". Dario scola la pasta e serve i tranci di pizza comprati in paese, mentre moglie e figlio apparecchiano la lunga tavolata di legno. Mohamed e i tre rifugiati nigeriani, dopo essersi sciacquati sotto le docce esterne, si avvicinano timidamente al gruppo. Sono in Italia da fine aprile e non conoscono ancora la pasta. Sono tutti richiedenti asilo ospitati nella casa-comunità The bridg’s house gestita dalla cooperativa sociale Il tulipano, a pochi passi dalla metropolitana di Chiaiano e a qualche chilometro dal Fondo Lamberti. Durante il pranzo Dario racconta di essere appena diventato, insieme a un altro ex detenuto, socio-lavoratore della cooperativa con un contratto a tempo indeterminato. "La prigione è un inferno. Ci si entra per qualche cazzata, rapine, furti, spaccio di droga, e non se ne esce più. Quello che ti ammazza là dentro è la noia, non avere niente da fare. Poter uscire e lavorare a progetti d’utilità sociale è un privilegio per pochi, anche perché la maggior parte dei detenuti non sa nemmeno che esistono queste possibilità. Secondo me dovrebbero farlo tutti". Mentre parla, Mohamed e gli altri rifugiati assaporano in silenzio il gusto semplice del sugo, litigando con la mozzarella filante della pizza. A fine pranzo si riordina la tavola tutti insieme con la musica nigeriana sparata alta dai cellulari. "Sembrano i neomelodici napoletani!", scherza Dario. Mohamed e i suoi tre compagni di zappa ringraziano, si congedano masticando le poche parole d’italiano imparate e s’incamminano verso la casa-comunità. Un giorno l’orto a cui stanno lavorando da settimane darà i suoi frutti, che potranno consumare o rivendere per un minimo guadagno. Mohamed, che è del mestiere venendo da una famiglia di agricoltori, ha fretta di tornare a casa per prendersi cura di un altro orto, ben più rigoglioso. Da quando è arrivato alla The bridg’s house, la villa su due piani dove vive con altri undici rifugiati africani, Mohamed ha rianimato l’orto abbandonato nel cortile. Dopo mesi di lavoro chiama ogni pomodoro e zucchina con il proprio nome in inglese, arabo e italiano. "Non conosco nessuno in Italia. Ma in Darfur c’era la guerra e dove c’è la guerra non si può coltivare la terra". Dopo la formazione sull’orto invernale, i quattro agricoltori richiedenti asilo saranno impiegati nel nuovo campo di pomodori del Fondo Lamberti che da quest’anno partecipa al progetto Funky Tomato, una rete di contadini e associazioni del sud Italia per una filiera di produzione e trasformazione partecipativa del pomodoro, contro le logiche di sfruttamento della manodopera migrante. Per adesso ai pomodori anti-caporalato della Selva Lacandona lavorano Tommaso, operaio attivista napoletano, e Lamin, rifugiato del Ghana arrivato in Italia nel 1987 e diventato punto di riferimento della comunità subsahariana di Castel Volturno. Altre persone, altre lotte e altre storie che irrigano queste terre. Alessandria: urla e proteste nel carcere sotto organico, estate "calda" al Don Soria di Giordano Panaro alessandrianews.it, 10 agosto 2016 I detenuti protestano al Don Soria urlando e sbattendo contro porte e finestre. Dalle guardie agli educatori, fino agli amministrativi il personale è sotto organico, ed evidentemente in estate questa mancanza si fa più "sentire". Urlavano "libertà" e sbattevano su porte e inferriate per far più baccano possibile. Sono andati avanti per un’ora circa i detenuti della Casa Circondariale di piazza Don Soria, l’altra sera, tra le 22 e le 23, nella protesta rumorosa che peraltro avevano promesso di non mettere in pratica. Conferma il Sappe, il Sindacato Autonomo della Polizia Penitenziaria, che alla "Cantiello e Gaeta" tirava aria di malcontento tra i detenuti, a loro dire, per la troppa rigidità del magistrato di sorveglianza. Ad aggiungere malumore ci sarebbe la poca disponibilità estiva degli educatori, in numero ridottissimo. Secondo i dati del Ministero di Giustizia Al "Don Soria" sono previsti 196 addetti della polizia penitenziaria, ma effettivi sono 166. Così come gli educatori: previsti 6, in servizio sono la metà. Di amministrativi (esclusi gli educatori) sarebbero necessari 21, ma di fatto operano in 14. Evidentemente alcuni episodi hanno acuito la situazione a tal punto da sfociare nella decisione di fare sentire la propria voce. Protesta che pareva rientrata, sempre secondo le informazioni del Sappe, ma che poi è stata ugualmente messa in atto. A parte il rumore e il disagio non si segnalano comunque altre particolari manifestazioni di insofferenza. Scuola, teatro e cinema. All’interno del carcere si sono svolte nell’ultimo anno "scolastico" corsi di alfabetizzazione di scuola primaria (4 iscritti) e secondaria (9 iscritti). 15 detenuti hanno partecipato al laboratorio comico teatrale - organizzato dall’associazione Bailò. Il cineforum - organizzato da don Pietro Sacchi - ha riscosso più successo: 50 vi hanno partecipato. 9 detenuti sono coinvolti contemporaneamente in più attività non lavorative. I "posti letto" sono 236, in 74 stanze. I dati del Ministero ("aggiornati" un anno fa) assicurano che sono solo 223 i detenuti presenti. Caserta: i detenuti di Carinola puliranno il Parco Reale della Reggia diariopartenopeo.it, 10 agosto 2016 Protocollo di intesa tra la Reggia di Caserta e il carcere di Carinola, nel Casertano, per un progetto di pubblica utilità che prevede l’utilizzo di otto detenuti che - a titolo volontario e gratuito - saranno impegnati in attività di pulizia e bonifica delle aree del Parco Reale. Alla base dell’accodo c’è l’intenzione di di coniugare il miglioramento delle condizioni di vita dei detenuti con l’ interesse ad una più agevole fruizione del patrimonio culturale dello Stato. L’iniziativa è necessaria per garantire la manutenzione del Parco della Reggia, dove solo da qualche settimana è stata aggiudicata la gara per la cura del "verde reale". Il progetto parte oggi e avrà una durata di sei mesi rinnovabili. Il protocollo è stato siglato dal direttore della Reggia Mauro Felicori e dalla direttrice del carcere di Carinola Carmela Campi. Melfi (Pz): per i detenuti esistono due mondi, quello interno e quello esterno di Marcello Pittella restoalsud.it, 10 agosto 2016 Martedì 26 luglio sono stato in visita all’istituto carcerario di alta sicurezza di Melfi per conoscere il programma di reinserimento lavorativo "Vale la pena lavorare" realizzato dall’Apofil, ma soprattutto per un confronto cordiale e sincero con i detenuti, per capire le loro esigenze e programmare eventuali attività di sostegno da parte dell’amministrazione regionale. La presenza dell’Apofil nella struttura carceraria è davvero preziosa. Grazie ad attività di formazione professionale e culturale e a laboratori artigianali si sta lavorando per una inclusione sociale e lavorativa di adulti e minori sottoposti a provvedimento dell’Autorità Giudiziaria. Ho ascoltato alcuni di loro, raccolto inviti e sollecitazioni, soprattutto per incrementare la presenza di educatori in una struttura che ospita 146 persone. Per le persone detenute esistono due mondi: quello del carcere dove sono ospitati, e quello esterno. Il compito delle Istituzioni deve essere quello di avvicinare questi due mondi e di dotarli di strumenti utili per riappropriarsi di una nuova vita. Per questo, insieme all’amministrazione penitenziaria creeremo un tavolo per discutere di una serie di opportunità che potremmo immaginare e per consegnare una speranza di futuro a tanti cittadini. Cagliari: Caligaris (Sdr); la nonna delle carceri torna in ospedale sardegnaoggi.it, 10 agosto 2016 Stefanina Malu torna in ospedale. Dopo la denuncia dell’associazione Socialismo Diritti e Riforme sulle precarie condizioni di salute della detenuta più anziana d’Italia, è arrivata la decisione per un immediato ricovero. "Le precarie condizioni di salute di Stefanina Malu, 83 anni, non hanno lasciato indifferenti gli Infermieri e i Medici della Casa Circondariale di Cagliari-Uta che hanno segnalato la circostanza al Magistrato di Sorveglianza ottenendo l’immediato ricovero dell’anziana donna nell’Ospedale San Giovanni di Dio. Un gesto umanitario verso una persona non più autosufficiente che non può stare in un letto del carcere". Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme", che ha appreso dalla figlia del nuovo ricovero della "nonnina" dei Penitenziari italiani. "Stefanina Malu - ha precisato Antonio Piras responsabile dell’area sanitaria della Casa Circondariale - presentava un quadro clinico tutt’altro che stabile. Era stata sistemata in una cella dove era stato trasportato un letto medicale dal Centro Clinico. Il Medico che l’ha visitata ha riscontrato una condizione non compatibile con la detenzione fornendo in una relazione lo stato di precarietà. Si tratta di una donna con problemi cardiocircolatori, non autosufficiente, con una semiparesi. Il ricovero è stato indispensabile". "Stefanina Malu - ricorda la presidente di Sdr - era tornata dietro le sbarre lo scorso 1 agosto, dopo un lungo ricovero ospedaliero dapprima in due nosocomi pubblici e ultimamente in una Clinica privata. Inspiegabili le sue dimissioni dalla Casa di Cura. Le sue condizioni avevano destato viva preoccupazione giacché nella sezione femminile del carcere non ci sono stabilmente né un medico né un’infermiera. In stato di semi incoscienza veniva accudita costantemente da una compagna di cella e dalle Agenti della Polizia Penitenziaria sensibili e preparate. Il Tribunale di Sorveglianza in programma il 18 agosto dovrà esaminare il caso". "Da quando è in ospedale - ha detto la figlia Angela Floris - ha ripreso a nutrirsi in modo regolare. Me ne occupo io quotidianamente. Mia madre potrebbe vivere nella mia casa. La speranza è che in considerazione dello stato di salute possano concederle i domiciliari affinché possa essere accudita costantemente". Cosenza: una parrocchia dona 60 bibbie alla Casa circondariale di Paola agensir.it, 10 agosto 2016 Un’occasione per incontrare Dio nella sua Parola. Sono state 60 le bibbie consegnate questa mattina dalla parrocchia San Nicola di Bari di Mendicino (Cs) ai detenuti della Casa circondariale di Paola. Promossa dalla Caritas parrocchiale, l’iniziativa si inserisce nel percorso giubilare parrocchiale. Dopo il passaggio della Porta della misericordia della cappella, già aperta negli scorsi mesi dall’arcivescovo, monsignor Francesco Nolè, il parroco di Mendicino, don Enzo Gabrieli, ha presieduto l’Eucaristia, concelebrata anche dal cappellano, don Aurelio Marino. "Dio ci aspetta, accoglie, perdona e giustifica", ha detto don Gabrieli nell’omelia, invitando i 50 detenuti presenti a confidare nella misericordia di Dio, "perché non c’è un peccato che il Signore non perdona". "Ricordate che anche Gesù è stato carcerato una sola notte, lui conosce questa condizione", ha chiosato. "La visita della parrocchia di Mendicino avvicina ancora di più questo luogo alla diocesi. Negli ultimi tempi sono diverse le comunità diocesane che vengono qui, e questo ci aiuta a non farci sentire separati e periferia", ha detto don Marino. "Non ci sono muri invalicabili", ha aggiunto don Gabrieli. "Le bibbie che ci vengono donate verranno poste nelle sale lettura delle diverse sezioni e potrete utilizzarle quando volete", ha spiegato il cappellano. Nel corso di questo Anno Santo, ha proseguito don Marino, "abbiamo compiuto un percorso sulle opere di misericordia corporali e spirituali cercando di comprendere cosa significa la giustizia di Dio. Abbiamo scoperto che è l’applicazione della misericordia", ha concluso, evidenziando anche la buona partecipazione ai sacramenti da parte dei detenuti nel corso dell’anno. Insieme alle bibbie sono state distribuite anche le copie del settimanale diocesano Parola di Vita, "con il quale - ha ricordato il cappellano - negli scorsi anni anche alcuni detenuti hanno collaborato nella stesura di poesie che hanno partecipato a un concorso" proposto dalla testata stessa. A "Estate in diretta" la storia di un ex detenuto in AS: "perdere la libertà è perdere tutto" ottopagine.it, 10 agosto 2016 Ugo De Santis, 50enne, si è lasciato alle spalle quei sedici anni di carcere di Alta Sicurezza. Ed ha votato la sua vita al volontariato ed all’inclusione sociale. Questo pomeriggio ha raccontato il suo percorso di rinascita nel salotto della trasmissione televisiva Rai "Estate in diretta". Ad accompagnarlo l’avvocato montorese Rosaria Vietri. Tra il 1992 ed il 2008, De Santis ha scontato 16 anni di carcere, pena a cui era stato condannato per reati di tipo associativo. Ha scontato la pena in vari penitenziari italiani, tra cui quelli di Torino e Bologna. Durante la reclusione, mantenne rapporti epistolari con Parlamentari e rappresentanti istituzionali. De Santis è ora un cittadino che ha saldato il suo debito con la giustizia. È dedito all’impegno civile ed oggi, grazie al volontariato, è una persona che aiuta, con estrema concretezza, gli altri detenuti nel loro percorso di recupero e reinserimento sociale. "Perdere la libertà, ha raccontato ad Arianna Ciampoli, è perdere tutto. Spesso quando incontro nelle scuole gli studenti quello che ricordo loro è di stare attenti, non devono commettere imprudenze che potrebbero far perdere loro i diritti civili. Ed esporli, insieme ai genitori, a conseguenze gravi". Ugo, che ha raccontato il suo percorso in "Stagioni di passioni", pone l’accento sull’importanza della cultura. "La cultura è importantissima. Leggere ha permesso a tanti detenuti di aprire la propria mente a prospettive nuove". Ed ancora. "La cultura ci ha aiutato. I detenuti conoscevano solo la realtà del loro quartiere, la realtà della violenza. La cultura gli ha fatto schiudere davanti un mondo nuovo". Partendo dalla storia di Ugo De Santis la trasmissione Rai ha operato una riflessione sulle carceri e sull’efficacia del percorso di riabilitazione dei detenuti. In molte carceri italiane ai detenuti viene insegnato un lavoro. Ed i numeri sulla recidiva dimostrano l’efficacia di questo percorso formativo. I dati ufficiali dicono che il 68,5% degli ex-detenuti commettono reati dopo essere usciti di prigione, numeri più realistici parlano dell’80% e oltre. Al contrario i detenuti che durante il periodo in carcere hanno la possibilità di lavorare, hanno una percentuale di recidiva inferiore al 10%. Con il lavoro si aprono importanti opportunità di socializzazione e reinserimento ma si apre anche un percorso individuale della scoperta di sé, della propria identità, e della relazione con l’altro. "In Italia si fa tanto ma manca la rete a supporto dei detenuti che devono essere accompagnati nel loro percorso di riabilitazione". Ed ancora "Per non commettere più reati è necessario aggrapparsi con tutte le forze alla libertà ed al rispetto che ci si guadagna giorno dopo giorno attraverso l’amicizia, la lealtà. Il rispetto va conquistato con la normalità". Ad Ugo De Santis è arrivato il "grazie" per l’impegno che quotidianamente svolge da Alfonso Sessa, presidente de La Solidarietà di Fisciano, e dal sindaco Vincenzo Sessa. Migranti. Milano, l’emergenza non c’è di Andrea Cegna Il Manifesto, 10 agosto 2016 Sono 3.300 in città. Il sindaco non esclude "che si usino tende per la prima accoglienza", ma assicura: "Non è prevista alcuna tendopoli in altri luoghi. "È stato sufficiente che gli svizzeri dessero una stretta agli ingressi, che sono contingentati, e c’è stato un reflusso su Milano. Mi ha detto il prefetto che qui e in un paio di paesi della Città metropolitana sarà pronto altro spazio", così Giuseppe Sala aggiorna sulla situazione nel capoluogo lombardo che attualmente ospita almeno 3.300 migranti. Secondo il sindaco la chiusura delle frontiere, da Ventimiglia a Chiasso arrivando fino al Brennero, è la causa dell’attuale situazione migratoria. Ma le associazioni impegnate nell’accoglienza ricordano "che ciò che non è stato risolto negli scorsi anni torna oggi alla luce". La quasi totale chiusura del confine svizzero-italiano ha certamente fatto aumentare i numeri, ma il dibattito sul come e dove allocare le migliaia di migranti in transito nella città del post Expo è vecchio di alcuni mesi. Eppure giorno dopo giorno si ferma e si concentra sullo sola dimensione emergenziale. I centri d’accoglienza di Milano sono pieni già da inizio luglio, quando si parlava di circa 2.800 presenze in città. Giuseppe Sala da tempo vorrebbe trasformare l’ex campo base di Expo in spazio adibito all’accoglienza dei migranti. L’idea del sindaco ha però aperto un contrasto molto accesso con il governatore della regione Lombardia Roberto Maroni che ieri ha scritto sul suo profilo twitter "Clandestini a casa loro, subito". I posti letto disponibili a Milano scarseggiano, il problema è immediato e il sindaco non esclude "la possibilità che si usino tende perché di spazi in tempi molto rapidi non ce ne sono in questo momento". Si tratterebbe di strutture per la prima accoglienza, che si aggiungeranno a quelle già sistemate all’interno dell’ex Centro di via Corelli e della caserma Mancini. Ma assicura il sindaco: "Non è prevista alcuna tendopoli in altri luoghi della città. Preciso questo a beneficio dei campioni del comunicato stampa ‘un tanto al chilò che vogliono descrivere una città allo sbando che non esiste". La Regione da parte sua risponde che "non metterà a disposizione alcuna struttura della Protezione civile lombarda". È passeggiando attorno alla stazione centrale che s’incontrano alcune risposte e visioni differenti, sono le voci e le parole dell’attivismo solidale di tante associazioni che da anni affrontano le questione legate ai flussi migratori. Difficile trovare chi dica una cosa diversa da "basta parlare d’emergenza e di crisi, è la quarta estate consecutiva che Milano si riempie di migranti in transito. È una questione strutturale. Così andrebbe affrontata". Con attiviste e attivisti non sembra funzionare nemmeno la giustificazione delle frontiere chiuse, "Certo è un questione in più, ma non è il primo anno che viviamo questo fenomeno, anche prima della chiusura delle frontiere era così. Un dei problemi è che non si riesce a rispondere alle esigenze e alle domande dei richiedenti asilo, problema che si somma al flusso in transito". L’indagine sul sistema d’accoglienza dei richiedenti asilo, svolta dall’associazione di volontariato Naga, ammonisce "per ragionare compiutamente sull’accoglienza appare necessario non soffermarsi sull’immediato ma domandarsi quale sia il senso di questo processo". Rachela, cofondatrice di Cambio Passo ci dice "queste sono soluzioni che non tengono conto della necessità dei migranti ovvero di potersi muovere liberamente avendo come destinazione il luogo dove risiedono i cari. Le persone continuano ad arrivare dalle zone di crisi, attraversando la Libia o l’Egitto. Non si può nemmeno pensare di delegare ad altri stati il controllo o la gestione dei flussi. Le amministrazioni si trovano così ad affrontare problemi di politica estera". Migranti. Il Viminale punta sui Comuni, che però ignorano la richiesta di Leo Lancari Il Manifesto, 10 agosto 2016 E la Lega soffia sul fuoco: "Noi non li accoglieremo mai". La partita dell’accoglienza si gioca sui Comuni. Da molti mesi il Viminale spinge perché tutte le amministrazioni accettino di farsi carico di una quantità relativamente piccola di migranti evitando così si creino grandi concentrazioni nei pochi centri in cui i profughi vengono invece accolti, con le possibili conseguenze che conosciamo. L’idea è quella di distribuire tre profughi ogni mille abitanti, numero che garantirebbe anche una migliore e più facile integrazione nel territorio di cui sono ospiti. Facile a dirsi ma difficile, se non addirittura impossibile a farsi per l’ostilità dimostrata finora da molti sindaci. L’ultimo esempio di questo muro contro muro è il proclama lanciato ieri dal deputato leghista Paolo Grimoldi: "Tutti i comuni dell’area metropolitana di Milano in cui la Lega esprime un sindaco - ha detto l’esponente del Carroccio riferendosi alla cosiddetta emergenza nel capoluogo lombardo - si rifiuteranno di accogliere su base volontaria i profughi che il sindaco di Milano si è fatto spedire dai suoi amici al governo e che ora non riesce a gestire". Un atteggiamento che purtroppo è possibile riscontrare anche in molti sindaci del centrosinistra. Secondo gli ultimi dati forniti dal Viminale dal 1 gennaio all’8 agosto sono sbarcati in Italia 100.244 migranti, appena lo 0,06% in più rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso, quando gli arrivi furono 100.179. Il sistema di accoglienza ne ospita oggi complessivamente 143.761, dei quali 109.228 hanno trovato posto in strutture temporanee reperite dalla prefetture, 13.357 nei centri di prima accoglienza, 805 negli hotspot e 13.357 si trovano invece nel circuito Sprar, il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati. Il Dipartimento per l’Immigrazione, che per il Viminale gestisce l’intero sistema di accoglienza, punta ad aumentare il più possibile il numero dei comuni che aderiscono al sistema Sprar (nel 2015 sono stati 800, in crescita rispetto al passato ma ancora troppo pochi), incentivando l’adesione volontaria con la possibilità di andare in deroga al divieto di assunzioni, ma anche con un decreto, che presto verrà presentato alla Conferenza unificata, che semplificherà l’avvio dei progetti Sprar. Dei quasi 260 mila servizi offerti nel 2015 dai 430 progetti censiti nell’ultimo Rapporto elaborato dall’Anci con il ministero dell’Interno, il 20,7% ha riguardato l’assistenza sanitaria, il 16,6% la formazione, il 15% attività multiculturali, il 14,9% l’alloggio, il 10,9% l’istruzione e la formazione e il 9,5% l’inserimento scolastico dei minori. Ma il problema più grande rimane la concentrazione di migranti in alcuni territori, con evidenti squilibri e diseguaglianze tra le varie aree del paese. E qui torniamo all’origine del problema. "Noi ci muoviamo secondo una linea pratica, che è quella di no caricare nessun comune e nessuna regione di un peso insostenibile", ha ribadito qualche giorno fa il ministro dell’Interno Angelino Alfano. "Per fare questo abbiamo bisogno della collaborazione dei comuni che stanno lavorando all’elaborazione di un piano, per un’equa distribuzione dei migranti sul territorio e io spero che in tempi rapidi si possa dare il via a tutto questo". Qualche risultato in più lo si è ottenuto intanto con le regioni. Il rifiuto categorico di Lombardia e Veneto di accettare migranti alla fine è stato superato, al punto che oggi la regione guidata da Roberto Maroni è quella con il maggior numero di stranieri ospitati (19.363, pari al 13% del totale). Seguono la Sicilia con 13.780 (10%), la Campania con 10.666 (7%), il Veneto con 11.305 (8%), il Lazio con 11.490 (8%) e il Piemonte con 10.740 (7%). Chiudono la classifica la Provincia di Bolzano con 1.379 stranieri (1%), quella di Trento con 1.262 (1%) e la Valle d’Aosta con 304 (0,2%). Armi e cortei, ecco l’internazionale No Borders di Grazia Longo La Stampa, 10 agosto 2016 Una rete anarco-insurrezionalista europea a Ventimiglia a favore degli immigrati. Rischi dalle tecniche di guerriglia apprese da alcuni antagonisti in Siria a fianco dei curdi. Potrebbe esserci una regia dei No Borders, che hanno sposato lo slogan "nessun confine", negli spostamenti dei flussi dei migranti dal Sud d’Italia a Ventimiglia. Ma soprattutto il sospetto che dietro ai metodi violenti di questi antagonisti e anarco-insurrezionalisti si possano nascondere le tecniche di guerra importate da un paio di loro dalla Siria dove hanno combattuto contro l’Isis accanto agli estremisti curdi di sinistra. Un dossier del Viminale contiene le linee guida per monitorare e arginare il fenomeno No Borders che in questi giorni domina alla frontiera di Ventimiglia. Intensificata l’attività di prevenzione e controllo non solo dell’Antiterrorismo e dell’Intelligence, ma anche dell’Interpol per la rete internazionale a cui appartengono i No Borders. Alla frontiera francese militano elementi di spicco piemontesi del centro sociale Askatasuna e del Comitato di Lotta Popolare di Bussoleno noti per le battaglie No Tav, insieme a giovani antagonisti lombardi e liguri e a quelli provenienti dalla Francia e dalla Spagna. Ma la galassia No Borders all’attenzione del Viminale annovera anche giovani di Austria, Germania e Grecia, in riferimento alle altre frontiere sotto controllo. Perché se è vero che oggi l’emergenza migranti è concentrata a Ventimiglia, è altrettanto assodato il rischio che essa si sposti ai confini con i Balcani e con il Brennero. Prezioso quindi anche il lavoro di chi è coinvolto in prima linea come i Centri di cooperazione di polizia e dogana, oltre che a Ventimiglia, a Modane e Thorl-Maglem al confine austriaco. Il dossier del Viminale mette sotto la lente di ingrandimento il problema di chi, inseguendo ideali contro le politiche migratorie, finisce per fomentare immigrati e profughi costretti a stazionare a Ventimiglia per inseguire il sogno di raggiungere Francia, Inghilterra, Svezia. Dietro questa solidarietà, secondo la nostra intelligence, si nasconde in realtà il tentativo di ricerca di visibilità. Non a caso i Servizi lo hanno scritto nella relazione consegnata al Parlamento: "La questione immigrazione può essere suscettibile di un progressivo incremento in termini mobilitativi". Nel senso che questi movimenti, come i No Borders, possono farne una bandiera. Ricorrendo peraltro ad armi come coltelli, mazze e anche un guanto con tre lame affilate tipo "artigli di Wolverine" sequestratati l’altro ieri dalla polizia. Ma non solo. Il dato più preoccupante è che a Ventimiglia si nasconda qualcuno dei No Borders italiani andato a combattere in Siria contro l’Isis. Si tratta di un numero assai contenuto, non dovrebbero essere neppure cinque, ma comunque allarmante perché pur essendosi schierati contro Daesh c’è il timore per gli eventuali sviluppi del loro ruolo di foreign fighters anche se contro il Califfo. Dal 2015 il movimento No Borders, influenzato dalla sinistra antagonista, si è mobilitato da Ventimiglia a Calais, dove sono state arrestate e poi rilasciate tre attiviste italiane che studiano a Parigi. Con l’inasprirsi di un conflitto progressivamente esteso ai temi più generali della protesta (armamenti, politica estera Ue, ruolo dell’Italia, posizioni anti-Israele) esponenti dell’area autonoma genovese e torinese avevano saldamente preso in mano la situazione che ha avuto un alternarsi di tensione con momenti di indifferenza o di silenzio, anche per mesi. Nell’estate 2015 un numero rilevante di attivisti autonomi (tra 100 e 200) aveva abbandonato gli scenari della Valsusa, dove lo scontro con lo Stato, per tutta una serie di ragioni, andava ridimensionandosi in modo sensibile, per sostenere il fronte aperto a Ventimiglia. In un corteo No Borders venne fotografato l’attentatore di Nizza, il franco-tunisino Mohamed Lahouaiej Bouhlel, estraneo al movimento. Molti i contatti con le frange che si sono ritrovate al Brennero, primavera 2016, dove compare anche una mobilitazione degli anarchici della Fai Informale. Tra i fermati, anche due noti esponenti di Torino, Arturo Fazio e Anna Beniamino, coinvolta nel ferimento dell’a.d. di Ansaldo Adinolfi, a Genova nel maggio 2012, e una notevole partecipazione degli autonomi. Ieri, intanto, il gip Massimiliano Rainieri ha scarcerato i due No Borders arrestati sabato scorso a Ventimiglia, durante la manifestazione per la quale si stava preparando per un servizio di contenimento l’assistente capo della Polizia di Stato, Diego Turra, 53 anni, di Albenga (Savona), morto per un malore. Alessia Di Gennaro, 27 anni e Giuseppe Borri, 29 anni, entrambi di Milano, assistiti dall’avvocato Ersilia Ferrante e accusati di resistenza aggravata a pubblico ufficiale e lesioni, hanno soltanto ricevuto la misura del divieto di dimora. Turchia: arrivano a 16.000 il numero di detenuti per il colpo di Stato ibtimes.com, 10 agosto 2016 Martedì 9 agosto il ministro della Giustizia turco Bekir Bozdag ha dichiarato che 16.000 persone sono state formalmente arrestate e detenute in relazione al tentativo fallito di colpo di Stato messo a segno il mese scorso e che altre 6.000 persone sono detenute in fase di valutazione. Stando a quanto da lui riferito nel corso di un intervista televisiva all’agenzia statale Anadolu altre 7.668 persone sarebbero sotto inchiesta ma attualmente non detenute. La Turchia ha arrestato, rimosso o sospeso decine di persone all’interno della magistratura, dell’esercito, della polizia di diversi servizi pubblici perché sospettate di essere collegate al golpe del 15 luglio, quando una frangia di militari ha cercato di spodestare il Presidente Recep Tayyp Erdogan ed il governo. Oltre 240 persone sono rimaste uccise e 2.200 ferite quando una fazione dell’esercito ha requisito alcuni caccia, elicotteri militari e carri armati aprendo il fuoco sui civili nel tentativo di rovesciare il governo. Militari, poliziotti, giudici, giornalisti, medici e funzionari pubblici sono tra coloro che sono stati rimossi dal loro incarico o arrestati, cosa che ha provocato una forte preoccupazione tra gli alleati occidentali, che temono che Erdogan stia approfittando di questi eventi per stringere ulteriormente la presa sul potere. La Turchia accusa i seguaci del religioso musulmano Fethullah Gülen, che vive esiliato negli Stati Uniti, di essere artefici del tentato colpo di Stato. Gülen, i cui seguaci fanno parte delle forze di sicurezza, giudiziarie e civili, ha negato ogni addebito. Le autorità turche sostengono che i gulenisti abbiano utilizzato diverse applicazioni di messaggistica su smartphone per comunicare tra loro nel periodo precedente al tentato colpo di Stato che l’agenzia di intelligence nazionale della Turchia è stata in grado di tracciare, scoprendo decine di migliaia di persone nel gruppo. Un alto funzionario turco ha riferito che l’intelligence turca ha identificato almeno 56.000 agenti nel network di Gülen, i quali comunicavano tra loro con un’applicazione di messaggistica poco conosciuta chiamata ByLock, cominciata ad essere utilizzata nel 2014. Solo quest’anno l’intelligence sarebbe stata in grado di mappare tale rete. "Secondo la nostra valutazione sono almeno 150.000 gli agenti che hanno usato ByLocks per comunicare tra loro" ha detto un alto funzionario turco, aggiungendo che il gruppo cospiratore utilizza anche un’altra applicazione chiamata Eagle che potrebbe essere "mascherata" da applicazioni di messaggistica come WhatsApp e Tango. "Pensiamo che Eagle sia stata utilizzata da diversi agenti per condividere i dettagli operativi nonché durante le fasi di progettazione del colpo di Stato del 15 luglio" ha dichiarato il funzionario, concludendo che tale network continua ad utilizzare Eagle. Il quotidiano turco Haberturk ha riferito che il Consiglio superiore dei giudici e dei pubblici ministeri (HSYK) è in questo momento oggetto di un altro giro di purghe che colpiranno 1.500 persone tra pubblici ministeri e giudici, dopo che altri 3.000 sono stati sospesi nei giorni dopo il golpe. Turchia: due italiani detenuti 7 giorni. "In un Cie con oppositori di Erdogan" bcrmagazine.it, 10 agosto 2016 Sono stati trattenuti nelle carceri turche una settimana "con pesantissime accuse di terrorismo e spionaggio internazionale" e rinchiusi in un centro di detenzione ed espulsione dove si trovavano anche alcuni oppositori del presidente Erdogan. Rifondazione Comunista in una nota parla di quanto accaduto a due cittadini italiani, Pietro Pasculli (nella foto) e Claudio Tamagnini, fermati in Turchia il 29 luglio scorso per avere "visitato le aree curde che il governo di Ankara bombarda quotidianamente con l’obiettivo di impedire alle popolazioni curde di poter continuare a vivere sui propri territori". I due, sostenitori della causa curda e rientrati in Italia qualche giorno fa, hanno tentato di documentare i bombardamenti ordinati dal governo turco sui villaggi ribelli. Pasculli, nel corso di una conferenza stampa, ha spiegato che sono stati arrestati dalla polizia e successivamente tenuti "4 giorni in isolamento in celle sotterranee con l’unica colpa di essere stati testimoni dei bombardamenti che l’esercito turco compie quotidianamente sui villaggi curdi del sud della Turchia, incendiando villaggi, boschi e raccolti". L’ambasciata italiana si è interessata alla vicenda quindi i due sono stati "processati e assolti dall’accusa di terrorismo e spionaggio internazionale". Tuttavia, prosegue, "dopo la nostra messa in libertà da parte della magistratura, la polizia ci ha nuovamente arrestato". A quel punto i due italiani vengono rinchiusi "in un equivalente dei Cie italiani in cui non erano rispettate le minime condizioni igienico sanitarie - ma su cui capeggiavano le insegne dell’Unione Europea - ci ha espulso in Italia solo dopo il nostro impegno a pagare i costi del viaggio dei nostri carcerieri che dovevano scortarci all’aeroporto di Istanbul". Il segretario di Rifondazione comunista, Paolo Ferrero, ha ringraziato il corpo diplomatico italiano che si è impegnato per la scarcerazione dei due italiani e ha definito "assurde" le accuse formulate nei loro confronti: "La Turchia - ha detto Ferrero - non vuole che nessuno sia testimone e possa denunciare e documentare i massacri e le distruzioni di cui si rende quotidianamente responsabile il governo turco nei confronti della popolazione curda". La detenzione - I due attivisti erano partiti lo scorso 22 luglio, ad una settimana appena dal fallito golpe militare proprio contro Erdogan. Pur avendo come destinazione Diyarbakir, considerata come la capitale del Kurdistan turco, non vengono fermati immediatamente dalle autorità locali. Iniziano quindi la loro attività di indagine e documentazione nei villaggi della resistenza curda. "Eravamo in un villaggio, abbiamo visto un aereo arrivare, sganciare bombe, e tutta la montagna divampare", racconta Pietro. I due sono testimoni di una "vera e propria guerra", con coprifuoco in vigore dalla sera alla mattina. Nei villaggi si raccontano anche diverse atrocità, come quella di una bomba ad orologeria lasciata esplodere nel frigorifero di una donna. Le loro attività suscitano i primi sospetti, vengono fermati ed interrogati. E chiedono loro: "Cosa pensate di Erdogan? E di Ocalan (storico leader del Pkk turco)? E di Gulen (considerato l’ispiratore del golpe fallito)?". Quando viene data la risposta su Erdogan i due vengono invitati a "restare la sera, come ospiti". Pasculli e Tamagnini vengono quindi arrestati da lunedì 25 a domenica 31 luglio, con l’accusa di appoggio al terrorismo curdo e di spionaggio internazionale. Pietro era riuscito a mettersi in contatto con i diplomatici italiani in Turchia, che si sono attivati. "Il processo era chiaramente farlocco, soltanto in lingua turca - racconta Pasculli - il giorno stesso dell’inizio del procedimento abbiamo conosciuto il nostro avvocato, con cui mai avevamo parlato prima, e abbiamo visto il dossier contro di noi, che contava un centinaio di pagine". Nonostante le accuse del procuratore, il giudice li libera. I due italiani si preparano a lasciare il Paese l’indomani ma continua Pietro, "i poliziotti si presentano nel nostro albergo, ci prendono tutto, e capiamo che saremo trasferiti ad Adana, in un centro di detenzione ed espulsione". Arrivati in questo centro, equivalente del nostro Cie, Pasculli e Tamagnini si ritrovano a vivere con profughi che - come capiscono presto - sono stati bollati come oppositori del regime, il quale usa il pugno di ferro dopo il tentato golpe dello scorso 15 luglio. "C’era un siriano, arrestato: aveva trovato un lavoro come scaricatore di cipolle fino a quando non si è lasciato sfuggire qualche parola contro il presidente - spiega l’attivista italiano -. Invece un altro era un ragazzo del Maghreb, in Turchia per completare gli studi, ma anche lui si è fatto trovare con qualche appunto contrario al regime". I due italiani restano nel centro di Adana tre notti, da lunedì 1 a giovedì 4 agosto. Un centro di detenzione dei migranti che, spiega Pasculli, era probabilmente finanziato con fondi europei: "All’uscita c’erano furgoncini con le bandiere incrociate della Turchia e dell’Unione europea, che non venivano usati, ma accesi ogni mattina più per tenerli in attività che per altro". Ai due italiani viene offerta la libertà in cambio di informazioni: servono i nomi dei curdi che hanno collaborato con loro. Gli attivisti rifiutano. Viene anche chiesto di pagare i costi del viaggio per l’espulsione ai poliziotti che li scorteranno. E ai due non resta che accettare. Turchia: ecco com’è un Cie da "paese sicuro" di Chiara Cruciati Il Manifesto, 10 agosto 2016 La storia di Pietro e Claudio: arrestati in Kurdistan con l’accusa di affiliazione ad un’organizzazione terroristica, sono scomparsi per tre giorni in un carcere per poi finire in un centro detentivo dove si usano fondi Ue. Scomparsi in un carcere turco e deportati, passando per un Cie circondati da bandiere europee e insetti. Pietro e Claudio hanno vissuto in prima persona la gestione dell’emergenza rifugiati appaltata dall’Europa alla Turchia "paese sicuro" e la guerra al popolo kurdo. Il quadro che emerge è drammatico, aggravato dallo stato di emergenza imposto al paese dopo il tentato golpe. La conseguenza, dice al manifesto Pietro Pasculli, è concreta: l’autorità non è più in capo alla magistratura, ma alla polizia. "Con Claudio Tamagnini siamo arrivati in Turchia il 22 luglio. Volevamo testimoniare il conflitto in Kurdistan, raccogliere le storie delle famiglie". Prima tappa Diyarbakir, ospiti del Mesopotamia Ecological Movement. "Abbiamo fatto un giro nel distretto di Lice, nelle montagne a sud di Diyarbakir, dove la questione ambientale è centrale: da un anno i villaggi sono vittima di raid dell’esercito turco. Le bombe incendiarie devastano campi, boschi e foreste e i residenti vengono cacciati dai soldati con la scusa di dare la caccia ai guerriglieri del Pkk. Quando hanno la possibilità di tornare, trovano campi devastati e case danneggiate. Abbiamo assistito noi stessi a bombardamenti sul villaggio accanto al nostro: la foresta ha preso fuoco". Seconda tappa è Nusaybin, città a pochi chilometri dalla Siria. Si specchia con Qamishli, teatro di un terribile attacco dell’Isis a fine luglio, 44 morti. "Siamo arrivati il 28 luglio nell’idea di procedere verso Cizre e poi verso il confine con l’Iraq - prosegue Pietro - A noi si era unita una ragazza tedesca. Una città devastata da 130 giorni di coprifuoco, limitato alle sole ore notturne appena due giorni prima. Nessuno straniero era ancora entrato, gli stessi sfollati tornavano in quei giorni". Al checkpoint all’ingresso la polizia li fa passare. Di fronte, gli effetti della guerra: macerie ovunque, quartieri scomparsi, racconti di ordigni lasciati nelle case ed esplosi al rientro dei proprietari. Qui, racconta Pietro, da metà marzo si era concentrata la resistenza del Pkk, dopo Cizre e Sur. A giugno, per evitare altre sofferenze ai civili, i combattenti si sono ritirati. Ma coprifuoco e raid non sono cessati. I tre si spostano nella zona sud di Nusaybin, quella che guarda Qamishli. Pochi minuti e una camionetta della polizia li avvicina: "Ci portano in questura e perquisiscono tutto quello che abbiamo, compresi telefoni, e pc. Avevo un diario, lo avevo chiamato ‘Kurdistan diary’. Il mio primo crimine". E scatta il ricatto: dateci i nomi di chi avete incontrato e vi lasciamo liberi. I tre ragazzi si rifiutano: "Iniziano le domande, per 6 ore. Un interrogatorio politico: chiedevano di Ocalan, Erdogan e Gülen. Alle 23 ci portano nelle prigioni sotterranee, in celle d’isolamento. Ci fanno firmare due moduli: nel primo dichiaravamo di essere in arresto, con il secondo si svela l’accusa: appartenenza ad un’organizzazione terrorista e spionaggio internazionale". In cella Pietro, Claudio e la ragazza tedesca restano tre giorni. Il quarto si apre il processo sulla base di un dossier di ben 100 pagine: "Una farsa: non c’era traduzione, parlavano in turco e il nostro avvocato, kurdo, non ha avuto la possibilità di incontrarci prima". Ma il giudice li libera: accuse cancellate. E qui scattano le leggi speciali, la magistratura soverchiata dalla polizia: poche ore dopo il rilascio, mentre tentavano di acquistare in hotel un volo per l’Italia, la polizia fa irruzione e li arresta di nuovo. Stavolta niente carcere, ma il centro di espulsione di Adana, etichettato in Turchia come "centro di rimozione", sotto il controllo del Ministero degli Interni e quindi della polizia: "Ci portano ad Adana, dove avremmo dovuto prendere un volo per Istanbul e poi per Roma, tutto a spese nostre compreso il per diem dei poliziotti che ci avrebbero accompagnato - continua Pietro - Nel Cie restiamo altri tre giorni, senza possibilità di comunicare con l’esterno. Celle affollatissime (tanti i rifugiati siriani e afgani), sporcizia, insetti, materassi sudici, cibo avariato: in molti si sono sentiti male. Eppure fuori vedevamo sventolare le bandiere europee e furgoni nuovi di zecca con su il logo Ue: forse tutto finanziato con il denaro che gli stiamo inviando". Infine la deportazione dalla Turchia "paese sicuro". Libia: forze speciali italiane in campo, nel documento del Cofs le direttive ai corpi d’élite di Andrea Purgatori huffingtonpost.it, 10 agosto 2016 Il governo italiano ammette per la prima volta ufficialmente che commando delle forze speciali siano stati dislocati nei teatri di guerra in Iraq, ma soprattutto in Libia. La notizia è contenuta in un documento appena trasmesso al Comitato di controllo sui servizi segreti (Copasir), e classificato "segreto". Nel documento, redatto dal Cofs (Comando interforze per le Operazioni delle Forze Speciali), si specifica che si tratta di operazioni effettuate in applicazione della normativa approvata lo scorso novembre dal Parlamento, che consente al Presidente del Consiglio di autorizzare missioni all’estero di militari dei nostri corpi d’elite ponendoli sotto la catena di comando dei servizi segreti con tutte le garanzie connesse. Immunità compresa. Dunque, è bene chiarire subito che in Libia tecnicamente non siamo ancora in guerra. Primo, perché i commando del 9° Reggimento "Col Moschin" del Gruppo Operativo Incursori del Comsubin, del 17° Stormo Incursori dell’Aeronautica Militare e del Gruppo di Intervento Speciale dei Carabinieri (e le forze di supporto aereo e navale) non rispondono alla catena di comando della coalizione dei trenta e più paesi che appoggia il governo del premier Fayez al-Sarraj, ma direttamente al nostro esecutivo. Secondo, perché si tratterebbe di missioni limitate nel tempo, che partono dalle basi italiane. Ma almeno adesso non c’è più alcun dubbio sul fatto che nel supporto alle operazioni contro l’Isis non ci sia solo la mano delle forze speciali americane, britanniche e francesi. In Libia, a singhiozzo, ci siamo anche noi. Cosa abbiamo fatto e cosa stiamo facendo in queste ore è scritto nero su bianco nell’informativa inviata al Copasir, su cui il Governo sarebbe pronto ad alzare il livello di segretezza fino ad apporre il sigillo del Segreto di Stato. Fonti della Difesa hanno confermato ufficiosamente il contenuto del documento, che dopo mesi di indiscrezioni e smentite - l’ultima con Matteo Renzi a Repubblica che diceva che "le strutture italiane impegnate nella lotta contro Daesh sono quelle autorizzate dal Parlamento, ai sensi della vigente normativa", era in realtà un’ammissione della possibilità di applicare il testo della legge approvata a novembre - fa chiarezza sulla presenza delle nostre forze speciali in due teatri di guerra in rapidissima evoluzione. Libia: "Sirte, soldati italiani al nostro fianco contro l’Is" di Vincenzo Nigro La Repubblica, 10 agosto 2016 I comandanti libici: forze speciali ci addestrano nello sminamento, con gli equipaggiamenti e le protezioni per gli uomini. I soldati di Misurata avanzano, la battaglia di Sirte, in Libia, potrebbe avvicinarsi al punto di svolta, ieri sera la operation room addirittura ha annunciato di aver riconquistato il centro Ouagadougou, che per due anni è stato il quartier generale dello Stato Islamico a Sirte. Ma è una battaglia che letteralmente sta dissanguando i giovani di Misurata. I cecchini, ma soprattutto le mine, le bombe, le trappole maledette preparate dai terroristi dell’Is uccidono, feriscono e tagliano le gambe ai miliziani libici. E anche per questo - secondo i racconti dei comandanti libici - alle forze speciali italiane è stato dato ordine di sostenere sul campo i libici nello sminamento. I racconti sembrano convincenti: i soldati italiani hanno portato a Misurata e Sirte gli equipaggiamenti per sminare, e stanno lavorando sul terreno con i libici. "Grazie, ci state aiutando! Sappiamo che sono arrivati i vostri soldati che ci addestrano a rimuovere le mine, con gli equipaggiamenti e le protezioni per gli uomini". Un comandante conferma la notizia, ma aggiunge: "Le forze speciali non vogliono vedere i giornalisti. Ci siete voi insieme a inglesi e americani, preferiscono lavorare in silenzio". Che forze speciali italiane fossero presenti in Libia era una notizia mai confermata dal governo, ma vera. Gli uomini dell’Esercito sono stati schierati prima a Tripoli per creare un nucleo di sicurezza per gli agenti dell’Aise, i servizi segreti, durante le missioni più delicate. Poi le forze speciali sarebbero passate da Benina, la base aerea del generale Haftar nell’Est del paese. E infine sono arrivati a Misurata. Dove sembra perfino che i militari britannici avessero chiesto ai libici di poter rimanere soli a lavorare con le brigate di Misurata, assieme agli americani che da giorni guidano gli attacchi aerei della Us Air Force e pilotano da terra i piccoli droni tattici che a Sirte servono a scoprire i nascondigli dell’Is. Una fonte della Difesa a Roma conferma che in Libia sono in azione nostre forze speciali, ma non vuole commentare nessuna delle operazioni in cui sono impegnate. Il ruolo degli italiani nella guerra alle mine è davvero benedetto dai libici. La battaglia di Sirte è iniziata in maggio, adesso è entrata nella fase finale, ma Misurata è stremata. Più di 300 morti, 3.000 i feriti. I soldati della città-martire della rivoluzione contro Gheddafi sentono di combattere da soli contro i terroristi dello Stato Islamico. E i raid americani sono ancora troppo pochi, solo 28 da inizio agosto. Ieri notte il comando ha annunciato la riconquista del centro congressi Ouagadougou, ma ci vorranno ancora giorni e molte mine sono pronte ad esplodere. Ancora ieri si è combattuto ferocemente. Alle 19 nel piazzale del piccolo ospedale da campo in una delle grandi ville alla periferia della città, le ambulanze arrivano all’improvviso. Scaricano feriti di ogni tipo, giovani ragazzi colpiti a una gamba e alla spalla, anziani combattenti con un braccio già ingessato e le ferite che ancora trasudano sangue. Ma poi entrano i morti, gli infermieri li imbustano immediatamente nei grandi sacchi neri e li spostano sotto un grande tendone di plastica raffreddato con gli split dell’aria condizionata. Ancora altri feriti, gravi. Uno è un comandante di 60 anni, ha aperto lo sportello della sua Toyota, ha messo un piede a terra ed è saltato sulla mina dell’Is. Lo portano dentro di corsa in sala operatoria sulla barella insanguinata. Nel piazzale due inservienti africani lavorano senza sosta: appena gli infermieri spostano il ferito, loro prendono la barella, cospargono il materasso con un liquido disinfettante e poi lavano il lettino con il tubo dell’acqua che il proprietario della villa usava per annaffiare le piante. Sangue, acqua e sapone si impastano con la terra rossa che gli scarponi dei soldati portano in giro dappertutto. Una bolgia di infermieri e volontari si sposta caotica, solo i chirurghi mantengono la freddezza, separano i vivi probabili dai morti inevitabili. "Siamo soli e siamo schiacciati dal peso di questa battaglia". Taraq Ismail è un chirurgo libico che opera in Gran Bretagna, lavora all’ospedale di Coventry. "Prendo permessi appena posso, adesso sono qui da un mese per aiutare i feriti. Ci manca tutto, le pinze per fermare il sangue, i mezzi di contrasto per la radiologia, i reagenti per le analisi del sangue. Ci mancano gli uomini, gli infermieri, i medici, ci mancano le ambulanze, abbiamo solo il nostro orgoglio, ci manca il vostro sostegno vero, concreto. Paghiamo tutto noi, pagano i commercianti di Misurata, anche le medicine che stanno scaricando adesso". Taraq conferma che il nemico mortale sono le mine. Racconta le fasi iniziali di questa battaglia, vista da suo osservatorio di chirurgo maxillofacciale e del collo: "A maggio iniziavano ad arrivare i feriti e le vittime dei grandi attentati con autobomba, giorni e giorni senza un ferito, poi all’improvviso decine di combattenti e di semplici viaggiatori colpiti sulla strada da Sirte verso Misurata. Poi è iniziata la battaglia: i nostri soldati avanzavano, ma quelli sparavano colpi di mortaio e spingevano i nostri verso campi minati che avevano appena piantato. Adesso i cecchini e le bombe sono il grande nemico. I terroristi sono micidiali nel costruire le bombe, le nascondono dappertutto: nelle case le stiamo trovando sotto i materassi, dietro le porte, dentro gli estintori". Dal piccolo ospedale parte un elicottero, l’unico, con i feriti più gravi. Arriva un’altra ambulanza: l’autista è l’ingegnere petrolifero Mohammad Alì Ihllishi. "Sono qui come volontario, ho una famiglia, sei figli, da un mese faccio la mia battaglia. Vengo dall’area di Al Dollar, sembrava che tutto fosse stato ripulito, e invece guarda questa foto, stamattina hanno tirato su un’altra bandiera nera del Daesh. Ero finito con l’ambulanza sotto il tiro di un cecchino, è arrivato un bulldozer per proteggermi, ma quello ha iniziato a sparare alle ruote del mezzo e poi al sistema idraulico, un incubo". Gli autisti delle ambulanze si perdono nel dedalo delle strade di Sirte devastate da mesi di guerra, e ogni giorno gli uomini dell’Is piazzano nuove mine. Anche per questo, se sono vere le voci di Sirte, il lavoro degli italiani sono molto più che un aiuto umanitario. Il premier libico: "L’Isis è un pericolo anche per voi. Aiutateci adesso" di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 10 agosto 2016 Fayez Serraj: "Non servono truppe straniere. Vediamo con grande favore la vostra scelta di concedere Sigonella. L’Isis utilizzerà ogni mezzo per inviare militanti in Europa". "La nostra Libia ha bisogno dell’aiuto internazionale nella battaglia contro l’Isis. L’Italia è tradizionalmente il nostro Paese amico, potete fare tanto". È il messaggio che ha lanciato da Tripoli il premier del governo di unità nazionale Fayez Serraj. Lo abbiamo incontrato per oltre 50 minuti ieri sera nel suo ufficio nel porto militare della capitale. "Ho scelto di parlare con voi anche perché mi ricordate la mia infanzia: mio padre quando ero piccolo leggeva il Corriere della Sera. Ma soprattutto questo è un momento importante per comunicare con l’Italia", ci ha detto. Come mai si è deciso di chiedere l’intervento militare Usa contro l’Isis a Sirte? "I nostri soldati avevano ottenuto grandi successi negli ultimi periodi contro gli uomini del Califfato. Erano avanzati per centinaia di chilometri. Ma l’Isis ricorre adesso a tattiche nuove nella difficile guerra urbana per le strade di Sirte. Sono infidi, pericolosi. Per evitare ulteriori perdite tra la popolazione civile locale e i nostri soldati abbiamo quindi deciso di chiedere aiuto alla alleanza internazionale impegnata contro l’Isis in Siria, in Iraq e qui in Libia. Le nostre truppe necessitano di armi più sofisticate per combattere la guerriglia urbana. Le richieste agli Stati Uniti sono venute dai nostri comandi impegnati sul campo. Comunque i nostri uomini possono fare da soli una volta ottenuto la copertura dall’aria. Ho chiesto solo l’intervento con attacchi aerei Usa che devono essere molto chirurgici e limitati nel tempo e nelle zone geografiche, sempre coordinati con noi. Non ci servono truppe straniere sul suolo della Libia". Ha chiesto aiuto anche all’Italia? "Sin dall’inizio il vostro esecutivo ha sostenuto il nostro governo di unità nazionale. All’Italia chiediamo qualsiasi aiuto possa darci. L’Isis è un nemico difficile, infido, pericoloso per il nostro Paese, ma anche per l’Italia, l’Europa e il mondo intero". Ma avete chiesto all’Italia un aiuto specificamente militare? "L’Italia è parte dell’alleanza internazionale guidata dagli Usa contro l’Isis e sta ai comandi dell’alleanza decidere come cooperare militarmente. Ma all’Italia noi chiediamo di trattare e curare nei suoi ospedali i nostri feriti di guerra. Vorremmo più cooperazione in questo senso. Gli aiuti medici e i visti per il trasferimento dei nostri feriti sul vostro territorio dovrebbero essere più rapidi. Abbiamo anche richiesto alcuni ospedali da campo che sarebbero molto utili per trattare in tempo utile i nostri feriti gravi sulle prime linee. Inoltre, abbiamo già ottenuto dall’Italia partite di visori notturni e giubbotti anti-proiettili che servono per salvare la vita ai nostri uomini. Ma non bastano. Necessitiamo di altri invii e altri aiuti". Potrebbe essere ancora più specifico? "Vediamo con grande favore la scelta italiana di permettere agli aerei Usa di utilizzare la base di Sigonella. I contribuiti italiani in ogni caso sono sostanzialmente di carattere umanitario. Contribuiscono a risparmiare la perdita di vite umane". Tra quanto tempo prevede la sconfitta dell’Isis a Sirte? "Non credo ci vorrà troppo tempo. Probabilmente non mesi, solo poche settimane". L’Italia sostiene il suo governo a Tripoli. Ma non c’è ancora stato il voto del parlamento di Tobruk che legittimi la formula dell’unità nazionale. Crede che, una volta sconfitto l’Isis, potrete negoziare più facilmente la cooperazione del generale Khalifa Haftar, che è il vero uomo forte di Tobruk? "Il nostro dialogo con il generale Haftar non è mai cessato. Come norma di principio, i comandi militari devono però obbedire ai politici di un Paese. Non può esistere uno Stato con due eserciti. Anche in Libia deve imporsi una sola catena di comando militare che risponde all’ombrello civile dell’autorità politica. Noi speriamo fermamente che il nostro Paese si adatti a questi principi: è il modo più efficiente per combattere l’Isis, stabilizzare la Libia e cooperare con la comunità internazionale. Secondo l’accordo raggiunto l’anno scorso in Marocco, il parlamento di Tobruk deve votare la mozione riguardante il mio governo di unità nazionale. Sino ad oggi tuttavia i suoi esponenti sono divisi. Sappiamo che 103 deputati sostengono il nostro governo. Ma non riescono a mettersi d’accordo per il voto finale. Noi siamo pronti a rispettare le loro decisioni. Nel frattempo però noi non possiamo attendere. Il Paese è in grave crisi, le sfide sono immense, la destabilizzazione cresce. Per questo abbiamo deciso di agire per il bene di tutti e permettere al nostro gabinetto di agire e operare, almeno su base temporanea. Dobbiamo assumerci le nostre possibilità, non possiamo restare nel vuoto di potere, i libici hanno bisogno di un’autorità pubblica funzionante". Esiste il rischio che l’Isis in Libia utilizzi le barche dei migranti per mandare i suoi militanti in Europa? "L’Isis è un’organizzazione pericolosissima. Utilizzerà qualsiasi mezzo per inviare i suoi militanti in Italia e in Europa. Non sarei affatto sorpreso di scoprire che i suoi uomini si nascondono sui barconi diretti verso le vostre coste. Dobbiamo affrontare insieme questo problema. L’Isis ci minaccia tutti allo stesso modo". Ha idea come Italia e Libia possono lavorare assieme per controllare le barche dei migranti e i commerci degli scafisti? "Italia e Libia lavorano assieme sulla base dei principi dell’operazione Sofia. Il tema è complicatissimo. Ha due aspetti: umanitario e relativo alla sicurezza. A me per personalmente spiace che le nostre coste, invece di essere visitate dai turisti europei, siano gremite di migranti e occasionalmente sulla spiaggia si trovino i cadaveri gettati dal mare di quelli che non ce l’hanno fatta ad approdare in Italia. Per quanto concerne la sicurezza, noi libici dobbiamo mettere sotto controllo i nostri immensi confini meridionali. Non abbiamo ancora le forze per farlo. Sono migliaia di chilometri in pieno deserto. Non sappiamo come fare contro le organizzazioni criminali internazionali che gestiscono il traffico di esseri umani. Sono potenti e ricche. Ma il mondo intero deve cercare di intervenire anche nei Paesi di origine dei migranti, aiutare a ricostruire le loro economie, i loro governi, per fermare le ragioni prime dell’esodo. Per quanto riguarda il Mediterraneo, occorre maggior cooperazione con la marina militare italiana. Con il governo di Roma dobbiamo trovare il modo per rimandare i migranti nei loro Paesi di origine". La stampa russa accenna nelle ultime ore a un suo possibile viaggio a Mosca. Cosa si attende dai suoi colloqui con il presidente Putin? "Il nostro governo ha buone relazioni con Mosca. Ho appena visto il loro ambasciatore. Potrei andare in Russia prossimamente. Noi cerchiamo un buon rapporto con tutti i Paesi che sono interessati alla nostra regione". Caso Regeni. Il senatore Lucio Barani: "Renzi lo sa che il governo egiziano è innocente" di Brahim Maarad L’Espresso, 10 agosto 2016 Il capogruppo di Ala in Egitto si accredita come voce ufficiale della maggioranza. "Grave errore interrompere i rapporti. Il governo italiano si sarebbe comportato come quello egiziano". "L’Egitto? È più sicuro della Francia ed è un grave errore da parte dell’Italia interrompere i rapporti perché il governo egiziano non ha avuto nessun ruolo nell’uccisione di Giulio Regeni. È stato danneggiato almeno quanto quello italiano. E Renzi lo sa che il governo egiziano è innocente. Tutto il resto è colpa delle opposizioni che non vogliono la verità ma semplicemente rovinare le relazioni". Non sono dichiarazioni del presidente al-Sisi. L’assoluzione porta invece la firma del senatore italiano Lucio Barani, ex segretario del Nuovo partito socialista e attuale capogruppo di Alleanza liberal-popolare-autonomie (diciotto membri in tutto). Al Cairo però viene presentato in più occasioni come capogruppo della maggioranza parlamentare di Roma e quindi ogni sua affermazione viene ripresa, in particolare dai mezzi filogovernativi, come dichiarazioni ufficiali del governo italiano. Durante la sua visita in Egitto, accompagnato da una ristretta delegazione di imprenditori italiani, ha partecipato anche a una trasmissione televisiva condotta da Ahmed Moussa, il giornalista che qualche mese ospitò il testimone che mentì dicendo di aver visto Giulio litigare con un altro straniero davanti al consolato italiano. È proprio durante l’ultima puntata del programma in onda su "Sada Elbalad" che il senatore Barani ha dato il peggio. "L’Egitto ha compiuto ogni sforzo possibile per individuare gli assassini di Regeni"; "i social network hanno portato avanti una mistificazione che ha frantumato i rapporti tra i due Paesi"; "L’Italia non avrebbe dovuto interrompere la fornitura dei ricambi degli F16. Inoltre il governo non voleva attuare il provvedimento, è stata una decisione del Parlamento, in particolare del Partito democratico e del Movimento cinque stelle". E ancora: "In Italia abbiamo avuto delle stragi tanti anni fa e non sappiamo ancora chi sono i colpevoli, non possiamo pretendere che l’Egitto li scopra in poche settimane". Hanno trovato ampio spazio anche le tesi complottistiche di "altri che hanno l’interesse a rovinare i rapporti tra i due Paesi". L’unica critica avanzata dal senatore è stata indirizza all’Università di Cambridge per la scarsa collaborazione. Invece il governo egiziano "ha consegnato i documenti che la legge e la costituzione permettono". Non è finita: "Se un caso Regeni, con una vittima egiziana, fosse avvenuto a Roma, il governo italiano si sarebbe comportato come si è comportato quello egiziano, nel rispetto della legge e della tutela della privacy dei suoi cittadini". Parlando di turismo, il senatore ha raccontato di essersi trovato assolutamente bene e che "il ministero degli Esteri italiano deve eliminare il paese dalla blacklist". Dichiarazioni che non sono passate inosservate. Da una parte i media del regime hanno chiesto ad alta voce di approfittarne e quindi considerare il capitolo Regeni chiuso e iniziare una nuova pagina con gli "amici" di Roma. Così come sono state riprese in diverse edizioni tutte le inattese affermazioni del senatore con non poco stupore. Dall’opposizione, in particolare diversi blogger, hanno però fatto notare come sia poco credibile tutta la messinscena. Alcuni siti hanno parlato di "comparsa" a vantaggio di imprenditori italiani ed egiziani. Altri hanno definito il senatore Barani addirittura "un impostore" perché "non è capogruppo della maggioranza e conta davvero poco nel governo italiano". Etiopia: è strage di contadini Oromo, 100 morti e migliaia di arresti di Rita Plantera Il Manifesto, 10 agosto 2016 Land Grabbing. Cento morti e arresti a migliaia tra chi non si piega all’esproprio di Addis Abeba mentre l’Italia festeggia la "sua" diga. È strage di oppositori in Etiopia, una strage che si è concentrata nei giorni tra il 6 e il 7 agosto scorsi quando almeno cento persone sono state uccise dalla polizia etiope durante le proteste antigovernative nelle regioni di Oromiya e Amhara. Il numero di vittime si è registrato a Oromia nelle città di Ambo, Adama, Asassa, Aweday, Gimbi, Haromaya, Neqemte, Robe e Shashemene. Secondo Amnesty International almeno 30 persone sarebbero state uccise in un solo giorno a Bahir Dar il capoluogo regionale dell’Amhara, dove in diverse migliaia avevano preso parte a una manifestazione. "Le forze di sicurezza etiopi hanno sistematicamente fatto ricorso a un uso eccessivo della forza nei loro errati tentativi di mettere a tacere le voci di dissenso", ha dichiarato Michelle Kagari, vice direttore regionale di Amnesty per l’Africa Orientale, il Corno d’Africa e la regione dei Grandi Laghi. In centinaia sono stati arrestati e rinchiusi nei centri di detenzione non ufficiali, tra cui le basi di addestramento dell’esercito e della polizia. "Siamo estremamente preoccupati che l’uso di strutture di detenzione non ufficiali possa esporre le vittime a ulteriori violazioni dei diritti umani, tra cui la tortura e altre forme di maltrattamento", ha detto Kagari. A innescare le proteste a novembre dello scorso anno era stata la decisione del governo di implementare l’Integrated Development Master Plan, piano che prevedeva l’espansione urbana della capitale con la creazione di una zona industriale nella regione di Oromia e l’esproprio dei terreni agricoli dell’area interessata, con spostamento forzato di molti Oromo). Benché il piano sia stato successivamente abbandonato, le proteste sono continuate per chiedere riforme politiche, uno stato di diritto e la liberazione dei detenuti politici. Da anni i gruppi per la difesa dei diritti denunciano gli effetti delle politiche governative della cosiddetta villaggizzazione: vale a dire le violenze perpetrate dalle forze di sicurezza per costringere le comunità locali a trasferirsi da zone urbane sottopopolate, da destinare a investimenti privati, in villaggi governativi, rivelatisi privi dei servizi e infrastrutture di base promessi. D’altro canto il master plan per la crescita urbanistica di Addis Abeba prevede l’inglobamento amministrativo dei comuni circostanti attualmente sotto la giurisdizione dell’autorità regionale degli Oromo. Ciò significherebbe per le comunità indigene il passaggio sotto la giurisdizione del governo federale che comporterebbe l’adozione dell’aramaico come lingua ufficiale e l’abbandono della lingua oromo. Cambiamenti non da poco per il più grande gruppo etnico del paese - gli Oromo, appunto - da tempo in conflitto con il governo centrale per ragioni storiche, tra cui proprio la deportazione da quello che una volta era il territorio ancestrale del popolo e che ora è Addis Abeba. La stragrande maggioranza della popolazione etiope vive ancora di un’agricoltura di sussistenza su piccoli appezzamenti di terreno che spesso è costretta ad abbandonare a causa di politiche di land-grabbing, accaparramenti da parte di privati che spesso significano l’acquisto di ettari ed ettari di terreni a prezzi stracciati da parte di multinazionali o governi stranieri, da destinare a monoculture intensive. Forme di investimento molto redditizio nell’ambito dell’agribusiness a danno delle popolazioni indigene vittime di devastanti disastri ambientali quali la distruzione di biodiversità, deforestazione, usurpazione di aree di pascolo e di terreni destinati all’agricoltura di sussistenza, con conseguente abbandono delle aree di origine. Le comunità indigene della regione di Gambella sono entrate in conflitto con il governo proprio sui piani di esproprio e conversione di migliaia di ettari di terreno in piantagioni agricole su larga scala. E non è l’unico caso. In questo scenario anche l’Italia può vantare responsabilità di sostanza. Lo scorso marzo l’ong Survival International ha presentato all’Ocse un’istanza contro l’italiana Salini-Impregilo per la costruzione della diga di Gibe III nella valle dell’Omo. Si tratta della più grande diga d’Africa e servirà per produrre energia elettrica e per irrigare le monocolture di canna da zucchero a scapito dell’autonomia alimentare di circa 500 mila persone, vittime di abusi e trasferimenti forzosi. La diga secondo Survival ha messo fine alle esondazioni stagionali del fiume Omo da cui dipendono direttamente e indirettamente più di 200 mila indigeni per abbeverare le loro mandrie e coltivare i campi. Proprio ieri, secondo quanto riportato dall’Agenzia per la promozione all’estero e l’internazionalizzazione delle imprese italiane (Ice), la centrale idroelettrica Gilgel Gibe III ha iniziato a produrre elettricità. Australia: gli orrori del campo per rifugiati di Nauru, violenze anche su bambini di Giulia Zanichelli La Repubblica, 10 agosto 2016 2.000 rapporti raccontano terribili retroscena sull’isola-prigione australiana. Alcuni documenti mettono a nudo le crudeltà perpetrate sull’isola dove vengono raccolti i richiedenti asilo. Violenze, abusi sessuali, minacce fisiche e psicologiche, aggressioni: 2.116 rapporti risalenti al periodo tra maggio 2013 e ottobre 2015, pubblicati in esclusiva dal quotidiano britannico Guardian, sono la prova ultima e definitiva di una situazione che già da tempo si sapeva essere ai limiti dell’umanamente accettabile. Il centro di detenzione dell’isola di Nauru, la più piccola dell’Australia situata nel nord est del continente, è riservato ai soli richiedenti asilo, così come l’isola Manus in Papua Nuova Guinea. I dati risalenti al giugno 2016 riportano 442 persone ospiti, delle quali 338 uomini, 55 donne e 49 bambini. Il report dell’orrore evidenzia come i minori siano i più colpiti: 1.086 documenti sono riservati proprio ai bambini, nonostante rappresentino il 18% dei detenuti totali sull’isola. 7 casi di violenza sessuale, 59 segni di violenza, 30 casi e 159 minacce di autolesionismo vengono raccontate in modo molto dettagliato e non lasciano spazio a incomprensioni. Anche le giovani donne sono un’altra categoria particolarmente umiliata: violenze e minacce sessuali sono all’ordine del giorno, ed esiste pure una lista stilata dalle guardie della prigione delle ragazze single " da aspettare" in agguati notturni. Uno dei sorveglianti, per convincere una ragazza a non lamentarsi delle sue attenzioni, le avrebbe anche detto che lo stupro è una pratica abituale in Australia e nessuno viene mai punito per questo. Gli autisti dei bus invece preferiscono fotografarle lascivamente e usare gli scatti in seguito per masturbarsi. Le 8.000 e più pagine di denuncia riportano nel dettaglio tanti altri casi, dalle minacce di morte o gli espliciti schiaffeggiamenti delle guardie verso i bambini, alle richieste di favori sessuali per concedere più tempo per fare la doccia. I file sottolineano la disperazione in cui si trovano gli abitanti di Nauru: i bambini traumatizzati si cuciono le labbra o perdono il controllo della propria sessualità, le donne gravide si rifiutano di partorire in ambienti così malsani e pericolosi, gli abitanti hanno allucinazioni e iniziano a manifestare disturbi mentali e i casi di tentato suicidio sono tantissimi. Il primo ministro australiano Malcolm Turnbull ha dichiarato che esaminerà in prima persona tali report per verificare se ci sono effettive denunce provenienti dal carcere o sono presenti situazioni non gestite nel modo dovuto. Pakistan: avvocati in sciopero per la strage di Quetta, che ha causato 74 morti Il Dubbio, 10 agosto 2016 Gli avvocati del Pakistan hanno indetto una protesta dopo l’attentato di lunedì all’ospedale civico di Quetta che ha provocato fino a 74 morti, tra cui molti legali, e oltre 100 feriti. Su appello dell’associazione di categoria della Corte Suprema del Pakistan, in tutto il Paese gli avvocati si sono astenuti dal lavoro, partecipando a manifestazioni. Bandiere a mezz’asta in tutti gli edifici pubblici e anche privati. Tutti i mercati, gli istituti educativi e i business center sono rimasti chiusi a Quetta, dove lunedì un’esplosione ha scosso l’ospedale dove era stato portato il famoso avvocato Bilal Kasi, ucciso poco prima da ignoti aggressori in un agguato per strada. All’ospedale si erano velocemente riunite decine di colleghi e giornalisti, rimasti vittime dell’attacco rivendicato da una formazione dissidente dei talebani pakistani, apparentemente vicina allo Stato islamico. Islamabad, però, ha puntato il dito contro l’agenzia d’intelligence indiana Raw. Il premier pakistano, Nawaz Sharif, ha ordinato alle istituzioni di sicurezza di rispondere con forza per eliminare i terroristi. Questi, ha sottolineato, "stanno colpendo obiettivi facili, bisogna rispondere in un modo coordinato".