Oggi siamo qui per ascoltare la vostra voce... a cura di Elton Kalica Ristretti Orizzonti, 9 settembre 2015 4 settembre 2015. Il Tavolo 2 degli Stati Generali incontra la redazione di Ristretti Orizzonti. "Oggi siamo qui per ascoltare la vostra voce. Vi invito a parlare come se steste rappresentando tutti i detenuti e a dire cosa vorreste cambiare per migliorare le condizioni di vita di tutti": con queste parole Marcello Bortolato, magistrato di Sorveglianza e responsabile del Tavolo 2 degli Stati Generali sull’esecuzione della pena, ha aperto l’incontro con la redazione di Ristretti Orizzonti. Gli Stati Generali sono stati istituiti per realizzare un’ampia consultazione sulla riforma del carcere, e in questo ambito il Tavolo 2 ha deciso infatti di approfondire i temi che deve trattare proprio in un confronto con la redazione di Ristretti Orizzonti nel carcere di Padova. Guidato dal responsabile del Tavolo, Marcello Bortolato, il gruppo di lavoro composto da Silvia Buzzelli, Alessandra Naldi, Annamaria Alborghetti, Fabio Gianfilippi, Ornella Favero e Silvia Talini (assenti purtroppo i funzionari del Dap Federico Falzone e Mauro D’Amico), ha incontrato detenuti e volontari della redazione per ascoltare proposte e idee. Tra gli obiettivi del tavolo c’è quello di stabilire dei criteri di organizzazione della vita detentiva delle carceri italiane secondo l’interpretazione più conforme al principio del finalismo rieducativo (art. 27 co. 3° Cost.), nonché avviare un processo di responsabilizzazione delle persone sottoposte all’esecuzione penale. Con ordine, tantissimi detenuti hanno preso la parola toccando molti argomenti. Restituire responsabilità ai detenuti è stata la richiesta principale. Sandro Calderoni ha chiesto che ci sia una vita detentiva più responsabile, con più stimoli, interessi, prospettive, e magari passioni, invece dell’attuale infantilizzazione. Carmelo Musumeci ha ricordato come la vita in carcere deve assomigliare il più possibile alla vita in libertà, perché il detenuto diventa più responsabile se si mettono al centro le relazioni affettive e sociali, per tutti i detenuti, senza distinzione. Bisogna allora rivoluzionare tutto quello che riguarda la vita affettiva di chi è in carcere, perché un detenuto con legami famigliari sani è un detenuto più responsabile. Una cultura di responsabilità serve anche per rafforzare la questione della sicurezza in carcere, ha sostenuto Clirim Bitri. Una maggior responsabilizzazione del detenuto anche nella tutela della sua salute, è stata la proposta di Gianluca Cappuzzo che ha parlato di un diversa idea di salute, intesa anche come benessere psicofisico. Occorre poi anche la politica dei rapporti disciplinari, oggi regolati dai Consigli di disciplina dove il detenuto non ha una difesa legale. Andrea Zambonini ha spiegato come il non "sapersi fare la galera", in particolare dei giovani detenuti appena entrati in carcere, porta spesso a tanti rapporti disciplinari, perdita della liberazione anticipata, denunce e altre forme sanzionatorie applicate in modo spesso automatico, senza tener conto di quanto le condizioni di vita determinarono certi comportamenti. Quindi bisogna ripensare la questione dei rapporti disciplinari e il peso che hanno nel percorso del detenuto. Oggi il detenuto butta via troppo tempo senza fare nulla in un carcere fatto di lunghe attese. Angelo Meneghetti, portando la sua memoria storica, ha ricordato com’era la vita nelle Case di reclusione negli anni 80, quando i detenuti si muovevano liberi all’interno del carcere mentre oggi il carcere è segmentato da molti cancelli, e le lunghe attese che si incontrano nell’attraversarli spesso fanno venire voglia di un ritorno al passato. Anche ampliare gli orari e renderli meno rigidi, )piccole cose come ad esempio poter scendere all’aria anche alla seconda ora) darebbe più possibilità di movimento all’interno del carcere, ha precisato Gaetano Fiandaca. Mentre nella società di oggi la tecnologia è diventata un’importante parte della vita di tutti, anche l’utilizzo di un computer e di una stampante in carcere è spesso proibito, "un maggior accesso agli strumenti tecnologici evita che una persona possa uscire dal carcere come un "senzatetto-digitale", ha rivendicato Andrea Donaglio. Introdurre l’uso della tecnologia anche per migliorare i rapporti con i famigliari, come l’introduzione delle schede telefoniche, in vista di una auspicabile liberalizzazione delle telefonate, e l’utilizzo di software di tele-chiamata come Skype per i detenuti che non fanno colloquio. Non si può parlare comunque solo di questioni di spazi e orari, bisogna guardare anche alla qualità della vita dentro, e ci sono allora pratiche positive di mediazione dei conflitti che occorre prendere in considerazione anche all’interno del carcere. Da qui l’invito di Lorenzo Sciacca a portare la cultura della mediazione in carcere, sia dei conflitti tra detenuti e detenuti e tra agenti e detenuti, sia attraverso un possibile rapporto con le vittime (grazie a un lavoro di formazione fatta da mediatori penali), nell’ambito di percorsi di giustizia riparativa, dove i detenuti si confrontano con la società. "Il carcere deve aprirsi al massimo al confronto specialmente con le scuole superiori del territorio in un quadro di prevenzione, come avviene a Padova nel progetto carcere-scuole", ha ricordato Erion Celaj. Da questi Stati Generali è emersa anche l’esigenza di una rappresentanza dei detenuti, ha ricordato Bruno Turci chiedendo al tavolo di aprire una discussione sull’introduzione di figure di rappresentanza dei detenuti ai fini di facilitare la comunicazione dei problemi collettivi all’amministrazione del carcere. Bisogna poi ripensare anche ai circuiti. La separazione dei detenuti in categorie ha prodotto forme di sofferenza simili alla tortura, che possono durare molti anni. Tommaso Romeo ha spiegato come i circuiti sono un sistema che nel corso degli anni ha assunto un carattere estremamente rigido, che ti inchioda al tuo passato e non ti permette di distaccartene. Mentre Biagio Campailla ha ricordato che cosa è stato e come lo ha ridotto il 41 bis, la fatica di recuperare la propria umanità quando ne è uscito e quando poi è stato declassificato. Dopo una carrellata di proposte e riflessioni esposte dai detenuti, si è aperto un intenso confronto tra i componenti del tavolo e i detenuti. Il dibattito ha coinvolto anche il direttore del carcere di Padova, Salvatore Pirruccio che ha seguito con attenzione tutto l’incontro, alcuni educatori e i volontari presenti. "Dobbiamo lavorare per una carta degli standard minimi per una vita detentiva dignitosa e una pena che abbia un senso, da garantire in modo omogeneo in tutte le carceri", ha concluso Ornella Favero. "Creare un denominatore comune è oggi un’esigenza vitale, poiché veder gestire con uno stesso Ordinamento un carcere aperto come Bollate e un carcere chiuso e rigido come Parma è una contraddizione inaccettabile". Dopo avere raccolto tutto il materiale prezioso per il loro lavoro, gli esperti che compongono il tavolo hanno promesso di far tesoro delle proposte. "Siamo convinti che lavorare su una Carta degli standard minimi da garantire per la vita detentiva sia la direzione giusta per il nostro tavolo", ha confermato Marcello Bortolato. Ora si aspetta che altri tavoli organizzino incontri simili con i detenuti per raccogliere spunti e idee per meglio realizzare gli obiettivi stabiliti. Sicuramente questo incontro ha sottolineato la ricchezza del confronto, soprattutto quando si ha l’umiltà di riconoscere il valore della voce delle persone direttamente interessate, specialmente quando queste persone hanno deciso di prendere il proprio destino in mano e lavorare per migliorare le proprie condizioni di vita, come i detenuti della redazione di Ristretti Orizzonti. Vita detentiva, responsabilizzazione, circuiti e sicurezza… di Carmelo Musumeci Ristretti Orizzonti, 9 settembre 2015 "Oggi una guardia mi ha sorpreso a parlare a voce alta da solo. E mi sono giustificato che stando in carcere è un’abitudine che si prende facilmente, quella di discutere con le sbarre e le pareti della propria cella". (Diario di un ergastolano carmelomusumeci.com). Il giorno quattro settembre, nell’ambito degli Stati generali sulla esecuzione penale, i componenti del tavolo due, con il suo coordinatore dottor Marcello Bortolato, magistrato presso l’Ufficio di Sorveglianza di Padova, (assenti però i due funzionari del Dap che ne fanno parte) sono venuti a trovarci nella redazione di "Ristretti Orizzonti". E si sono seduti accanto ai detenuti per ascoltare le nostre testimonianze e stimolare le nostre eventuale proposte. Penso che per la prima volta molti di noi in carcere non si sono sentiti solo cose ma persone. Credo che sia stato un bel dibattito/confronto che forse è stato più utile ai detenuti che a loro, perché abbiamo scoperto che le persone che ci ascoltavano non erano dei "nemici" come molti di noi hanno pensato per colpa di anni passati in isolamento sociale, in carceri malsani, criminogeni e illegali. Ci siamo subito resi conto dagli sguardi e dall’attenzione con cui tutti ci ascoltavano che i componenti del tavolo due erano venuti dentro per capire come migliorare le nostre condizioni di vita. Ecco alcune cose che si sono dette e credo pensate, perché in quattro ore di dibattito non è stato possibile dire tutto quello che avevamo nella mente e nel cuore. - Ogni carcere è uno stato a sé. E con regole e consuetudini proprie e un personale regolamento interno. Poi dipende in quale circuito/regime sei rinchiuso, che potrebbero essere 41 bis; AS1; AS2; AS3 e media sicurezza. A secondo di questa allocazione e del carcere dove sei sbattuto cambiano le modalità e anche il numero dei colloqui e delle telefonate, dell’ora d’aria ecc. L’universo carcerario è difficile da spiegare perché qui tutto è confuso. È un mondo all’incontrario, quello che è consentito oggi è vietato domani e quello che sarà permesso domani è proibito oggi. Credetemi, è difficile capire il carcere se non ci vivi. E anche se ci vivi poi è difficile descriverlo, forse perché è impossibile spiegare il nulla. - L’altro giorno ho telefonato alla mia compagna e ci siamo scambiati due coccole, ma non sono riuscito a dirle che le volevo bene come faccio di solito perché era finito il tempo consentito. Adesso devo aspettare per dirglielo la prossima settimana. E mi domando spesso perché le telefonate con i nostri familiari durano solo dieci minuti. - Sembra che i cancelli delle carceri gemano e strillino solo quando li spalancano forse perché sono abituati a stare sempre chiusi. E quando sei chiuso tutto il giorno in una cella è difficile ammazzare il tempo, forse per questo a volte è il tempo che ammazza noi. - Di solito i detenuti passeggiano avanti e indietro io invece preferisco girare intorno al cortile perché odio, dopo appena pochi passi, fermarmi davanti ad un muro per fare dietro front. E non capisco perché nei cortili dei passeggi in tutte le carceri dove sono stato non ho mai trovato un albero o un filo d’erba. - In carcere il tempo sembra non finire mai, forse perché qui il tempo si dilata in un minuto qualsiasi, in un’ora qualsiasi, in un giorno qualsiasi di qualsiasi anno. - In carcere le persone vivono a stretto contatto come le acciughe perché si è costretti a stare vicini, molto più vicini di quanto sarebbe naturale. E tuttavia ognuno è solo con la sua solitudine nel cuore. - Il carcere è uno strano mondo pieno di persone strane, ma incredibilmente spesso le persone più mentalmente prigioniere sono proprio certe guardie. Io nonostante che cerco di vedere le cose per quelle che sono, di essere obiettivo e di non avere pregiudizi, faccio molto fatica a capirli specialmente quando vengono a lavorare incazzati neri come se fossimo noi la causa dei loro problemi. Credo che ci vorrebbero meno guardie incazzate e più operatori sociali. - In carcere è difficile, se non impossibile, scoprire la verità, forse perché anche questa deve rimanere prigioniera. - L’unica cosa che fa sentire ancora vivi i detenuti è la speranza, ma c’è poco da sperare con un fine pena nel 9.999. Aspettare un giorno che non arriverà mai ti avvelena la vita e può condurre alla follia. - Il carcere mi ha sempre fatto paura perché ho sempre avuto terrore che mi facesse diventare più cattivo di quando sono entrato. E ancora non so se ci sono riusciti. Spero di no perché ero già abbastanza cattivo fuori. Che altro aggiungere? Spero che altri miei compagni detenuti abbiano l’opportunità di incontrare e confrontarsi con i membri degli altri tavoli degli Stati generali sulla esecuzione della pena, per dare il loro contributo a portare la legalità costituzionale e l’umanità nelle nostre "Patrie Galere". Alcune riflessioni sull’incontro del ministro Orlando con i direttori delle carceri a cura della redazione Ristretti Orizzonti, 9 settembre 2015 È da tempo che sosteniamo che nel nostro Paese è assurdo che con lo stesso Ordinamento si possa gestire un carcere aperto come Bollate e carceri chiuse e rigide come Parma, e che per il detenuto ogni trasferimento sia un terno al lotto, con il rischio di capitare in un carcere dove perde tutto quel poco che aveva e si ritrova più "ristretto" che mai. In queste ore il Ministro Orlando si sta confrontando con i direttori delle carceri italiane. E noi ci stiamo chiedendo quale sarebbe la prima domanda che faremmo a questa platea se fossimo nei panni del Ministro. Allora è fin troppo facile, la prima domanda sarebbe appunto "come mai ci sono modalità così diverse di interpretare ed applicare la legge? Come è possibile che possano coesistere nello stesso sistema modi di amministrare le carceri che sono addirittura opposti?". Questa è sicuramente la questione cruciale a cui non riusciamo a dare una risposta accettabile. Troppo spesso si giustificano le situazioni esistenti con la carenza di risorse e personale e immaginiamo che questa sarà un’affermazione ricorrente nell’incontro di oggi. È senz’altro vero che la situazione è grave e induce i direttori che credono nell’impostazione "trattamentale", nel mettere al centro i percorsi rieducativi e risocializzanti delle persone detenute, a salti mortali e soluzioni creative, mentre concede agli altri un alibi perfetto per restare immobili; ma è anche vero che la carenza di risorse non può essere un mantra ripetuto ad ogni tentativo di miglioramento delle condizioni delle persone detenute. Gli agenti, gli educatori, gli amministrativi, sono lavoratori ed è giusto che i loro diritti siano tutelati, ci mancherebbe. È giusto che abbiano le ferie, il riposo settimanale e tutto quello che gli spetta e che non è sacrificabile. Ma perché il diritto dei detenuti "al trattamento", a fare un percorso di reinserimento, è invece sacrificabile? Perché le attività sono considerate un optional cui poter rinunciare e si permette che alle due, alle tre di pomeriggio nel carcere cali la notte e cessino tutte le attività? È necessario un rovesciamento del punto di vista, che metta al centro la persona detenuta attorno alla quale deve ruotare l’organizzazione dell’istituto, questo non perché si debbano considerare solo le esigenze dei detenuti, ma perché altrimenti si rischia di vanificare il lavoro e gli sforzi di tutto il sistema che, non dimentichiamolo, deve tendere alla funzione rieducativa della pena. A noi dispiace che gli agenti siano costretti a turni pesanti, però la soluzione non può essere la diminuzione delle attività e delle possibilità rieducative per il detenuto, vanno tentate strade nuove. La responsabilizzazione del detenuto è una di queste; un lavoro con le persone detenute che punti alla loro responsabilizzazione eviterebbe ad esempio situazioni in cui le persone detenute devono essere accompagnate passo passo in ogni corridoio, con conseguente impiego di numerosi agenti. Ci sono poi altre iniziative che renderebbero migliore la vita della persone detenute e non riguardano la cronica assenza di personale: perché, per esempio, in alcuni istituti i direttori non concedono i colloqui con terze persone? Perché le telefonate possono essere effettuate solo in determinati giorni? Perché in alcune carceri non è nemmeno preso in considerazione di consentire l’uso del computer in cella? O perché in alcune realtà non si possono chiamare i cellulari in un’epoca in cui il telefono fisso è sempre meno diffuso? Questi sono solo alcuni degli esempi che ci vengono in mente, che potrebbero migliorare la situazione delle persone detenute senza ricorrere all’incremento di personale. Ma il fatto che in molte realtà queste misure non vengano attuate suggerisce che troppo spesso la carenza di personale è un alibi dietro il quale si nasconde l’inerzia di un sistema ormai inadeguato. Giustizia: decalogo del rifiuto alla richiesta del Papa di una "grande amnistia" di Andrea Pugiotto Il Manifesto, 9 settembre 2015 La richiesta del Papa "di una grande amnistia" per il Giubileo Straordinario della Misericordia, può anche essere respinta al mittente. Purché lo si motivi con ragioni all’altezza dell’interlocutore, il quale possiede carisma, progettualità, credibilità in quantità che la politica ha smarrito da tempo. Ovvio l’entusiasmo dei favorevoli, a cominciare dalla voce ragionevolmente visionaria di Pannella. Quanto agli altri, il silenzio generale è stato interrotto da poche risposte verosimili, ma non vere. Eccone il catalogo. La risposta orgogliosa è, in apparenza, convincente. Rivendica il primato della politica sull’indulgenza cristiana. La misericordia è una virtù morale, che dispone alla compassione e opera per il bene del prossimo perdonandone le offese. Non può però dettare tempi e contenuti delle scelte giuridiche che, laicamente, rispondono all’etica della responsabilità, preoccupandosi delle conseguenze concrete più che dei buoni propositi. Tutto giusto ma sbagliato se riferito al tema della clemenza, dove la voce di Bergoglio si è aggiunta (e non sostituita) a quella del capo dello Stato e della Corte costituzionale che, da tempo, hanno invocato una legge di amnistia e indulto. Il primo, motivandone le ragioni strutturali nel suo unico messaggio alle Camere, ignorato al Senato, discusso solo di sponda alla Camera. La seconda, evocandolo in un’importante sentenza del 2013 in tema di sovraffollamento carcerario. Rispondere picche al Papa, come già al Presidente Napolitano e ai Giudici costituzionali (tra i quali, allora, sedeva anche Sergio Mattarella), testimonia della politica non l’autonomia, ma la grave afasia. La risposta pavloviana è quella di chi ama vincere facile. C’è la sua variante rozza ("Mai più delinquenti in libertà") e quella più forbita ("Le carceri devono essere luoghi di rieducazione, ma chi è condannato deve stare in carcere fino all’ultimo giorno"). È un mantra costituzionalmente stonato. Se le pene "devono tendere" alla risocializzazione, durata e afflittività dipendono, in ultima analisi, dal grado di ravvedimento del reo: questo, alle corte, è quanto imposto dalla Costituzione. La certezza della pena è, dunque, un concetto flessibile, più processuale che sostanziale. Scambiarla con la legge del taglione significa abrogare l’intero ordinamento penitenziario, benché vigente da quarant’anni. C’è poi la risposta causidica. Interpretare le parole del Papa come un appello alla politica ne fraintenderebbe il senso, esclusivamente ecclesiale. Che tale precisazione venga dal portavoce vaticano non stupisce: già nel 2002 la richiesta di clemenza di Papa Wojtyla - coperta da applausi in Parlamento - fu poi ignorata da deputati e senatori. Prudenzialmente, oltre Tevere, si vorrebbe evitare il déjà-vu. Se Bergoglio ha usato - per la prima volta - la parola "amnistia", l’ha fatto a ragion veduta, soppesandone l’inevitabile impatto politico. Non ha improvvisato. Ha proseguito la sua riflessione (sul senso delle pene, sulla necessità di un diritto penale minimo, sui pericoli del populismo penale) e la sua azione riformatrice (abolizione dell’ergastolo, introduzione del reato di tortura), entrambe costituzionalmente orientate. Isolare da ciò il suo appello alla clemenza è come divorziare dalla realtà delle cose. Dal governo, invece, è giunta la risposta stupefatta: "Ma come? Proprio ora che il tasso di sovraffollamento è calato, grazie a misure deflattive adeguate? Proprio ora che si è aperto un grande cantiere per la riforma della giustizia e dell’ordinamento penitenziario?". Lo stupore nasce da un fraintendimento di fondo: quello per cui un atto di clemenza generale sarebbe alternativo a riforme strutturali, quando invece ne rappresenta un tassello essenziale. Amnistia e indulto sono previsti in Costituzione come utili strumenti di politica giudiziaria e criminale, a rimedio di una legalità violata da un eccesso di processi e detenuti. È solo la sua rappresentazione collettiva (decostruita efficacemente da Manconi e Torrente nel loro libro La pena e i diritti, Ed. Carocci, 2015) ad aver trasformato una legge di clemenza da opportunità a catastrofe per i propri dividendi elettorali. Resta la risposta possibilista. Fare in modo che "una legittima aspirazione della Chiesa possa diventare un fatto politico" (così il Presidente Grasso); tradurre questa richiesta "in qualche cosa di strutturale, che rimanga anche dopo" (così il ministro Orlando). Come? Le maggioranze dolomitiche necessarie e le divisioni tra le forze politiche, temo, bloccheranno i disegni di legge ora fermi in Commissione al Senato. Perché, allora, non riformare l’art. 79 della Costituzione che, nel suo testo attuale, oppone così rilevanti ostacoli alla loro approvazione? L’ultima amnistia risale al 1990, l’ultimo indulto al 2006. Restituire agibilità politica e parlamentare agli strumenti di clemenza: questa sarebbe una risposta possibile, e all’altezza della misericordia giubilare. Giustizia: Stati Generali carceri, oggi il ministro Orlando incontra provveditori e direttori Askanews, 9 settembre 2015 Il ministro della Giustizia Andrea Orlando incontrerà oggi alle 15 presso la sede dell’Istituto Superiore di Studi Penitenziari in via G. Barillari 140, i direttori di tutti gli Istituti penitenziari italiani e i provveditori dell’Amministrazione penitenziaria. L’incontro si colloca nel percorso degli Stati generali dell’esecuzione penale, che hanno dato vita nello scorso mese di giugno a un ampio e approfondito confronto che dovrà portare concretamente a definire un nuovo modello di esecuzione penale e una migliore fisionomia del carcere, più dignitosa per chi vi lavora e per chi vi è ristretto. È la prima volta che un ministro incontra tutti i direttori degli Istituti, figure centrali anche nella promozione del necessario cambiamento dei modelli di detenzione e trattamento. Dopo il superamento della Torreggiani e il decisivo miglioramento del sistema penitenziario, il ministro Orlando approfondirà con i dirigenti e i funzionari direttivi dell’amministrazione penitenziaria l’analisi delle attuali condizioni di vita delle persone detenute e le prospettive di miglioramento e di adeguamento del sistema agli standard internazionali. Giustizia: tra burocrazie carcerarie e mercati criminali di Valter Vecellio lindro.it, 9 settembre 2015 Il mercato criminale della droga prodotto dalle leggi proibizioniste vale oltre venti miliardi di euro. Che cosa accade, oggi, in città? Il Governo presenta la "Relazione sulle Dipendenze al Parlamento"; meglio, la data ufficiale reca scritto: 30 giugno, solo ieri, 8 settembre, se ne sono potuti conoscere i contenuti. È un "malloppo" di ben 691 pagine, ma a prima vista non sembra essere il solito barboso rapporto con riflessioni ai quattro formaggi e analisi a un tanto al chilo. Almeno questo è il giudizio del radicale Giulio Manfredi, che si è specializzato nell’analisi di documenti governativi e ministeriali, e spesso li valuta e giudica con occhio severo e critico. Non sembra essere questo il caso: "È impossibile riassumere 691 pagine; ma a prima vista emerge la serietà del lavoro di redazione, che ha coinvolto per la prima volta le regioni ma anche le associazioni del privato sociale ed i servizi pubblici". Manfredi coglie alcuni dati indicativi: la stima del numero totale di spacciatori al dettaglio è pari a 389.956 persone (ultimo anno di riferimento il 2009); la stima di 4.506.624 consumatori di cannabis, 1.165.763 consumatori di cocaina e 530.193 consumatori di oppiacei produce una stima del fatturato complessivo annuo del mercato criminale delle droghe (prodotto dalle leggi proibizioniste) di quasi 23 miliardi di euro (pag. 15 e 16 della Relazione). Il sistema proibizionista costa in termini di carceri, Polizia e magistratura ben 1,4 miliardi di euro, pari a una spesa media pro-capite di quasi 24 euro all’anno, bambini e anziani compresi (pag. 89 e 90 della Relazione). È augurabile, a questo punto, che è che la Relazione 2015 non sia lasciata ammuffire nei cassetti del Parlamento come le precedenti, ma sia utilizzata come documento-base per quella Conferenza Nazionale sulla Droga che il Governo italiano, in base alle leggi dello Stato, dovrebbe indire ogni tre anni, e che invece attende di essere convocata da sei anni (l’ultima è del 2009, Governo Berlusconi). Che cosa accade oggi in città? Dopo la chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari i ‘pazientì sono stati trasferiti con i detenuti comuni; le necessarie strutture però non sono state ancora approntate; non, almeno, come dovrebbero. Con immaginabili conseguenze. Il bilancio è inquietante: quotidiani episodi di feroci mutilazioni e automutilazioni; devastazione delle celle; gli operatori delle carceri spiegano che in molte strutture ‘ordinariè, già sovraffollate di loro e in precarie condizioni, con la "migrazione" di decine di detenuti malati di mente, si sono trasformate in veri e propri inferni. Scene raccapriccianti. A Treviso un detenuto azzanna la mano di un agente penitenziario e gli stacca di netto una falange. A Sanremo, un altro detenuto malato di mente amputa con un morso la mano di un altro detenuto. Un episodio simile in un carcere del Molise. A Genova, un agente è aggredito e privato a morsi di una parte dell’orecchio. "La situazione è diventata insostenibile", dice Michele Lorenzo, Segretario regionale del Sindacato Autonomo della Polizia Penitenziaria ligure. "Le carceri comuni sono diventate le succursali degli Ospedali Psichiatrici con conseguenze davvero inimmaginabili non solo per gli agenti di custodia ma anche per gli stessi detenuti. Il caso di Genova Marassi è quello più significativo di questa situazione: la clinica psichiatrica interna al carcere ha un numero di posti letto limitati che dopo la chiusura degli Ospedali Psichiatrici è sempre esaurito. Quando arrivano altri detenuti con problemi mentali, il carcere non può rifiutarli, quindi l’amministrazione è costretta a liberare posti letto e a trasferire i soggetti pericolosi all’interno della IV sezione del carcere, in mezzo ai detenuti comuni". Che cosa succede oggi in città? Che il corpo di una detenuta suicida del carcere don Bosco di Pisa resti per una ventina di giorni in una cella frigorifera; come mai? Manca un fax. Incredibile? Vediamo. I familiari di Ramona (così si chiamava la detenuta suicida) denunciano il "nessun rispetto per questa morte". Non l’hanno potuta vedere nemmeno quando la salma è stata loro riconsegnata. La cassa di legno non è stata riaperta. Tutto per un disguido. "Il sostituto procuratore aveva dato l’ok per la sepoltura di Ramona il 19 o il 20 agosto, dopo l’autopsia", dice la sorella della ragazza. "Ma il fax non è mai stato trasmesso. Che la situazione era stata sbloccata lo abbiamo saputo qualche giorno fa dall’impresa funebre che ha organizzato il funerale di mia sorella. È stata tenuta venti giorni in una cella frigorifera. Le hanno fatto male in vita e anche da morta". Che cosa succede oggi in città? Questa è una storia di ordinaria burocrazia, raccontata dagli aderenti all’associazione di volontariato Liberarsi di Firenze; che tra le varie cose porta avanti un progetto di una collana di libri, intitolata "L’evasione possibile". Gli autori sono detenuti, con lunga pena (spesso ergastolani) e reclusi in sezioni speciali (41bis). La collana, stampata dall’editrice Sensibili alle Foglie ed è nata con l’appoggio della Chiesa Valdese. Il libro in questione è stato scritto da Salvatore Ritorto, condannato all’ergastolo, detenuto nella sezione a 41 bis del carcere di Viterbo. Ritorto ha intitolato il suo libro: "Il prigioniero libero", pensieri, emozioni, considerazioni dall’ergastolo; è uscito nel giugno 2015, ma non l’ha mai potuto vedere. Perché ai detenuti nelle sezioni a 41 bis non possono essere mandati libri, né dai familiari, né dagli amici, né dai loro avvocati: l’unico modo è acquistarli tramite l’impresa interna al carcere, quella che vende i dentifrici e i detersivi (per esempio). Nel caso di Ritorto, dicono all’Associazione, "non sappiamo per quale motivo non gli hanno comprato una copia del suo libro, anche perché la corrispondenza tra la nostra associazione e il nostro amico detenuto è stata bloccata e non ne conosciamo i motivi". I motivi indubbiamente ci saranno; ma quali? Piacerebbe saperlo. Però ammetterete che non capita spesso che un autore di un libro non possa vedere la sua opera, una volta stampata. Giustizia: caso Meredith; gli innocenti in cella per errore ci costano 35 milioni all’anno di Anna Maria Greco Il Giornale, 9 settembre 2015 Il caso Meredith è emblematico: Amanda e Raffaele, assolti, hanno diritto a un indennizzo da 500mila euro. E i pm che sbagliano non rischiano niente. Quattro anni di carcere per Raffaele Sollecito e Amanda Knox. Ingiusto. Come gli altri quattro anni d’inferno che i due accusati dell’omicidio di Meredith Kercher, a Perugia nel 2007, hanno passato. Cinque gradi di giudizio, tra un processo di condanna e uno d’assoluzione e poi un altro di condanna fino alla definitiva sentenza che, a marzo scorso, ha sancito la loro innocenza. E ora che sono note le pesanti motivazioni della Cassazione è chiaro che i colpevoli, in questa vicenda, vestono la toga o la divisa. Sono magistrati e investigatori che hanno commesso, per i supremi giudici, "errori clamorosi", affetti da "amnesie investigative", responsabili di "colpevoli omissioni", costruttori di "inconsistenti motivazioni". Insomma, un’accusa senza prove e neanche indizi. L’avvocato di Sollecito, Giulia Bongiorno, lo definisce "un errore giudiziario mostruoso". E annuncia la richiesta allo Stato del risarcimento del danno. Dagli Usa la Knox per ora tace, ma farà altrettanto. Di tempo per decidere ne ha, due anni. L’entità dell’indennizzo sarà tutta da valutare, ma il massimo stabilito è 516mila e 456,90 euro. Si parla di ingiusta detenzione, perché il ragazzo pugliese è stato rinchiuso in un carcere di massima sicurezza, per 6 mesi in isolamento, senza incontrare avvocati e parenti nei primi 15 giorni. L’americana, altrettanto. La prima condanna è del 2009; l’assoluzione e la scarcerazione del 2011 dalla Corte d’Assise d’appello, con la Knox condannata a 3 anni solo per la calunnia verso Patrick Lumumba; nel 2013 la Cassazione annulla l’assoluzione e rinvia gli atti alla Corte d’Assise d’appello di Firenze, che di nuovo condanna nel 2014 a 28 anni la ragazza e a 25 Sollecito, fino a questa primavera quando la Suprema corte annulla senza rinvio. Punto, fine. Fine di un’odissea giudiziaria vergognosa per il nostro Paese. Che paga ogni anno milioni per riparare ingiuste detenzioni ed errori giudiziari. Nel 2014 c’è stato un aumento del 41,3% rispetto al 2013: 995 domande liquidate per 35 milioni 255mila euro, quando dal ‘92 al 2014 in tutto erano circa 581 milioni. Dal 1991 a oggi 23mila casi di ingiusta detenzione sono costati quasi 600 milioni di euro. Nel 2014 incremento record anche dei pagamenti per errore giudiziario: dai 4.640 euro del 2013 (4 casi), al milione 658mila euro lo scorso anno a 17 persone. L’Italia è fra i primi Paesi in Europa per condanne dalla Corte di Strasburgo per violazioni dello Stato ai danni dei cittadini: 71 milioni di euro in indennizzi, cifra più alta tra i 47 Paesi del Consiglio d’Europa. I dati a gennaio scorso sono stati al centro di uno scontro tra l’Ucpi e l’Anm, sulla nuova legge sulla responsabilità civile dei magistrati. Dall’introduzione nel 1988 della Vassalli solo 9 condanne per le toghe, ma il sindacato dei magistrati si è opposto strenuamente alla riforma approvata a febbraio, che abolisce il filtro di ammissibilità dei ricorsi e, pur mantenendo la responsabilità indiretta, obbliga lo Stato a rifarsi in un secondo momento sul magistrato, fino a metà dello stipendio annuo. Cambierà davvero qualcosa? Diceva in aula la pm Manuela Comodi, chiedendo l’ergastolo per i due ragazzi con i colleghi Giuliano Mignini e Giancarlo Costagliola: "Il ragionevole dubbio? Per me non c’è mai stato". I magistrati di Perugia che hanno agito, per la Cassazione, "nella spasmodica ricerca" di colpevoli, distorcendo le indagini e cancellando per sempre le vere prove, pagheranno per i loro errori? Difficile. Difficile, anche che subiscano contraccolpi disciplinari sulla loro carriera, visto che manca un automatismo per trasmettere la sentenza sui risarcimenti agli organi titolari dell’azione disciplinare. Per ora l’unica cosa certa è che, anche per il vergognoso processo Meredith, a pagare sarà lo Stato. Giustizia: caso Marta Russo; Giovanni Scattone ha pagato il suo debito, lasciamolo in pace di Vincenzo Vitale Il Garantista, 9 settembre 2015 Espiare, etimologicamente, significa "rendersi oltremodo pio", "purificarsi". Ne viene che chi abbia espiato la pena che gli era stata inflitta si ritrova nella posizione di partenza, senza che nulla o nessuno possano intervenire per depotenziarla socialmente o moralmente. Egli è per definizione colui che si è purificato dell’errore commesso e che perciò vanta i medesimi diritti di tutti gli altri. Ecco perché suona incomprensibile e perfino odioso che si siano levate delle voci allo scopo di protestare per il fatto che Giovanni Scattone, condannato per l’omicidio colposo di Marta Russo alla Sapienza, dopo aver scontato la sua pena, abbia osato chiedere un posto di docente in una scuola romana, ottenendolo. Scattone è oggi come tutti gli altri, come coloro stessi che protestano. Anzi, direi che è perfino in una posizione moralmente migliore. Infatti, a differenza di tutti noi e perfino di coloro che protestano, di fatto è stato costretto ad attraversare un’esperienza bruciante e difficile come quella del carcere dalla quale è riemerso senza perdere ovviamente nulla della sua umanità. Inoltre, egli si è sempre proclamato innocente e continua a farlo anche adesso: e forse questo dà fastidio. Questa è una vecchia storia. Sembra che molti non capiscano che una cosa è la verità processuale, altra, ben diversa, è quella reale e che non sempre quella coincide con questa, pur nella buona fede di tutti. Ne viene che il diritto di proclamarsi innocente, pur dopo una sentenza definitiva di condanna, è sacrosanto e che nessuno può per tale ragione essere criticato o stigmatizzato. Invece, per Scattone, le polemiche montano, si afferma che egli non dovrebbe insegnare, non dovrebbe lavorare, non dovrebbe, in sostanza, vivere. Ma perché? Perché, se egli non ha più debiti di sorta, dovrebbe essere privato del diritto di vivere in modo normale nell’ambito della società? Certo, il dolore della famiglia di Marta Russo è comprensibile, anche perché nulla sarà in grado di restituire loro la povera ragazza. Ma proprio per questo, per il fatto cioè che ciò che farà o non farà Scattone è indifferente a questo scopo, non si capisce per quale ragione si debba infierire contro di lui o contro chiunque si trovasse nella identica sua situazione. Occorrerebbe che tutti facessimo un bagno di umiltà e di moderazione, abituandoci a pensare che la giusta rivendicazione della giustizia - quando sia stato commesso un delitto grave come l’omicidio - non comporta in alcun modo l’annientamento del colpevole né dal punto di vista morale né da quello sociale. La giustizia non annienta, ma, attraverso l’espiazione della pena, redime, reinserisce il colpevole nel circuito sano delle relazioni sociali: il che è esattamente ciò che Scattone sta cercando di fare. Ma allora perché protestare? Perché stracciarsi le vesti? Inoltre, occorre ricordare che Scattone è stato condannato per un delitto colposo, non certo doloso: lo si è insomma condannato non perché abbia deliberatamente voluto uccidere la giovane Marta Russo, ma perché ha peccato di imprudenza nel maneggiare un’arma, tanto da provocare la morte della ragazza. C’è una bella differenza fra le due ipotesi, in quanto per ciò che attiene al reato doloso è alla volontà malvagia del soggetto che bisogna guardare, mentre per il reato colposo si tratta solo di scarsa attenzione, di un difetto di prudenza: qui, come dicono i giuristi, si vuole l’azione, ma non l’evento che ne deriva. Insomma, leviamoci dalla testa che Scattone e i tanti come lui che hanno esaurito di pagare il debito contratto espiando la loro pena possano a vita essere stigmatizzati, perseguitati, censurati, biasimati, impediti dallo svolgere una vita normale. Farlo sarebbe un atto di barbarie non meno grave del reato da loro commesso. Giustizia: perché Cantone ha ragione sulla riforma delle carriere dei magistrati di Andrea Mazziotti (Presidente Commissione Affari Costituzionali della Camera) Il Foglio, 9 settembre 2015 Nell’agosto 2014, in occasione dei vertici di maggioranza sulla giustizia, Scelta Civica aveva messo per iscritto la richiesta al ministro Orlando di rafforzare la responsabilità disciplinare dei giudici e di attuare interventi che assicurassero all’interno della magistratura la prevalenza del merito non solo sull’anzianità, ma anche sulle correnti. Chiedevamo anche che si aprisse un dibattito senza pregiudizi ideologici sull’obbligatorietà dell’azione penale e sulla separazione delle carriere di magistrati giudicanti e inquirenti. A dodici mesi di distanza, va dato atto al governo di aver dato segnali importanti. Sono stati affrontati veri e propri tabù come la responsabilità civile dei giudici. E ora, come annunciato dal ministro, partiranno le riforme del Csm, dei criteri di progressione di carriera e della responsabilità disciplinare. Alle proposte del ministro Orlando è seguito un dibattito molto acceso. La cosa nuova (e positiva) è che non c’è stata la solita contrapposizione destra-sinistra, pro-antiberlusconiani. Si sono confrontati, invece, rappresentanti delle istituzioni (di oggi e di ieri) favorevoli alle riforme, come Cantone, Violante e Sabino Cassese, e componenti della magistratura, come il procuratore Spataro e il presidente della Anm Sabelli. Meno positivo è che questi ultimi abbiamo sostanzialmente difeso il sistema attuale nel suo complesso, come se non esistesse in Italia un problema legato alla magistratura. Ma il problema c’è. Se (dati Eurispes) due italiani su tre si fidano poco della giustizia è proprio perché il sistema non funziona. Chi lo difende acriticamente sembra quasi non rendersene conto. È il riflesso condizionato di tutte le categorie e corporazioni italiane di fronte alle riforme: "Non serve riformare me; è il resto che non funziona. La colpa è dei politici che ci delegittimano e ci tolgono risorse". La realtà è che la responsabilità più grave della politica (di sinistra e di destra) è stata proprio quella di aver avuto paura per anni di mettere mano a temi come carriere, responsabilità disciplinare ed elezione del Csm. E soprattutto di non aver combattuto il sistema delle correnti che, come ha detto Cantone, sono il cancro della magistratura. Un magistrato nell’esercizio delle sue funzioni deve applicare la Costituzione e la legge senza condizionamenti ideologici. Basta invece leggere gli statuti o i documenti ufficiali delle associazioni correntizie per vedere come queste si richiamino spesso a degli obiettivi totalmente politici. Non ci si può poi lamentare se in qualcuno sorge il sospetto che alcune iniziative giudiziarie siano condizionate dalla politica o dall’appartenenza di corrente. Per questo siamo d’accordo con Cantone e sosterremo qualsiasi proposta del governo per la riforma delle progressioni di carriera in senso meritocratico e della responsabilità disciplinare per punire davvero chi sbaglia o lavora poco o male. E speriamo anche sul tema dell’obbligatorietà dell’azione penale. Solo su un punto la pensiamo diversamente da Cantone: la separazione delle carriere, che secondo il presidente dell’anticorruzione porterebbe a un’autoreferenzialità ancora maggiore. Il rischio esiste. Ma per ricostruire il rapporto tra cittadini e magistrati, occorre eliminare la sensazione che l’imputato ha spesso in un processo penale di trovarsi a giocare una partita in cui l’arbitro è imparentato con il suo avversario. Magari un parente assolutamente corretto e senza pregiudizi, ma pure sempre un parente. Giustizia: dalle intercettazioni prove illegittime di Antonello Soro (Presidente dell’Autorità Garante per la privacy) Il Messaggero, 9 settembre 2015 Sembrerebbero trovare conferma, anche in giurisprudenza, le preoccupazioni da noi espresse, a proposito della vicenda Hacking Team, circa l’inutilizzabilità degli elementi di prova ottenuti con tecniche investigative atipiche, non circondate da sufficienti garanzie. Con il rischio ulteriore di vanificare mesi di indagini, per eccezioni processuali fondate sull’illegittimità del mezzo di prova utilizzato. Di questi temi si sono occupati la Cassazione italiana e il Tribunale costituzionale portoghese, che con due sentenze recenti ridefiniscono, in termini anche innovativi, l’equilibrio tra libertà e sicurezza; diritto e tecnologia; privacy, giustizia e intelligence. Confermando, ancora una volta, la centralità del diritto alla protezione dei dati personali nella società digitale; un diritto d’inviolata personalità la cui compressione rischia di renderci tutti schiavi della logica totalitaria dell’uomo di vetro. Il 27 agosto, dopo un solo mese dalla sua approvazione, la legge anti-terrorismo portoghese è stata dichiarata incostituzionale nella parte in cui autorizza gli organi di intelligence ad acquisire, per esigenze di contrasto del terrorismo, i tabulati telefonici e telematici in base a una mera autorizzazione giudiziale (un po’ come da noi). Secondo i giudici portoghesi, a tutela dei cittadini i cui dati siano acquisiti sono necessarie garanzie maggiori, che solo un controllo giurisdizionale più forte, analogo a quello previsto per il processo penale, può garantire. È un’affermazione importante, perché assicura al cittadino una tutela procedurale effettiva, pur in un settore, quale quello dell’intelligence, caratterizzato tradizionalmente dalla prevalenza degli interessi collettivi sui diritti individuali e dalla tendenziale assenza di un sindacato, sull’esercizio del potere, diverso dalla (discrezionalissima) responsabilità politica. Il Tribunale richiama la sentenza con cui, un anno fa, la Corte di giustizia europea ha annullato la direttiva sulla conservazione dei dati di traffico per violazione del principio di proporzionalità tra privacy ed esigenze investigative, esigendo tra l’altro un vaglio forte - giurisdizionale o di un’Autorità indipendente - sul trattamento di questi dati. Il diritto all’intangibilità della sfera privata può dunque essere limitato, nella misura strettamente indispensabile, solo in presenza di esigenze investigative effettivamente accertate, da parte di un organo terzo, con idonee garanzie. Proprio dell’adeguatezza di queste garanzie si occupa la Cassazione italiana, che il 26 giugno scorso ha dichiarato illegittime (e dunque inutilizzabili) le intercettazioni ambientali realizzate mediante immissione di virus informatici in uno smart-phone, capaci di attivare in ogni momento la videocamera del telefono. Questa tecnica investigativa consentirebbe, in violazione di Costituzione e codice, un controllo totale dell’indagato, esteso ad ogni luogo e contesto, talmente pervasivo da non avere più alcun limite né, del resto, possibilità di riscontro effettivo. Come sembrerebbe dimostrare la vicenda Hacking Team, infatti, alcuni dispositivi utilizzati per le intercettazioni da remoto sarebbero in grado non solo di "concentrare", in un unico atto, una pluralità di strumenti investigativi (perquisizioni del contenuto del pc, pedinamenti con il sistema satellitare, intercettazioni di ogni tipo, acquisizioni di tabulati) ma anche di eliminare le tracce delle operazioni effettuate, a volte anche alterando i dati acquisiti. Salterebbero così, chiaramente, tutte le garanzie stabilite dal codice di rito a tutela dell’indagato: dal riscontro effettivo del giudice sugli atti compiuti dagli inquirenti al contraddittorio sulla prova, che presuppone ovviamente la possibilità per l’indagato di contestare la veridicità degli elementi addotti contro di lui. Questi rischi erano stati da noi sottolineati proprio in relazione all’emendamento proposto al decreto-legge anti-terrorismo di febbraio scorso, che avrebbe legittimato le intercettazioni da remoto, in assenza di garanzie adeguate. È stato certamente un atto di saggezza lo stralcio di quella norma, come anche di quelle (in materia di intercettazioni preventive e conservazione dei tabulati), che avrebbero alterato eccessivamente il rapporto tra privacy e sicurezza, così faticosamente ridefinito tra il Datagate e Charlie Hebdo. Con il rischio di rendere la tecnologia non uno sviluppo della libertà ma, per essa, un’insidia. E di dimenticare quanto, riprendendo la giurisprudenza costituzionale tedesca, ci ricordano le due sentenze citate: la sola percezione di poter essere continuamente controllati è essa stessa perdita di libertà. Giustizia: la Corte europea ci condanna "mini-prescrizioni aiuto agli evasori" di Liana Milella La Repubblica, 9 settembre 2015 Brutta sorpresa per il governo sulla prescrizione. Ancora una volta l’Europa bacchetta l’Italia per colpa dei tempi di cancellazione dei reati troppo brevi. Dopo i ripetuti richiami dell’Ocse su una prescrizione corta che non consente di contrastare adeguatamente la corruzione, stavolta è la Corte di giustizia del Lussemburgo, su sollecitazione del tribunale di Cuneo, che per la prima volta invita addirittura i giudici italiani a "disapplicare" la legge ex Cirielli qualora essa "leda gli interessi finanziari della Ue". Legge del dicembre 2005, voluta da Berlusconi per via dei suoi processi, che ha ridotto della metà il tempo concesso ai magistrati per indagare e chiudere i dibattimenti. Sul tavolo della Corte Ue le frodi carosello e gli acquisti di champagne di Ivo Taricco e di altri imputati avvenuti tra il 2005 e il 2009 aggirando il pagamento dell’Iva, reati in parte già prescritti o in corsa verso l’ultimo termine del 2018. Un caso di denegata giustizia che ha spinto i giudici italiani a chiedere alla Corte se il nostro diritto non rischi di creare una nuova possibilità di esenzione dall’Iva, ovviamente non prevista dal diritto dell’Unione. Quesito che ha ottenuto risposta pienamente positiva in Lussemburgo visto che l’articolo 325 del Trattato sul funzionamento della Unione stabilisce che gli Stati membri debbano lottare con misure effettivamente dissuasive contro le attività illecite che ledono gli interessi della stessa Ue. Poiché il suo bilancio è finanziato anche dalle entrate dell’Iva, la sua mancata riscossione ne danneggia concretamente gli interessi. La decisione di Lussemburgo piomba sul braccio di ferro politico che, ormai da mesi, blocca la riforma, già di per sé soft, della prescrizione proposta dal governo Renzi, orologio fermo dopo la sentenza di primo grado, due anni per l’Appello e uno per la Cassazione, poi le lancette ripartono se il dibattimento non è finito. In sostanza tre anni in più per chiudere un processo. Ma il ddl è bloccato al Senato dopo il via libera della Camera, per via della rissa nella maggioranza tra il Pd e i centristi di Ncd. Come più volte ha dichiarato il vice ministro della Giustizia, l’alfaniano Enrico Costa, il testo non passerà mai se la prescrizione per la corruzione dovesse restare quella proposta dalla Pd Donatella Ferranti, il massimo della pena più la metà. Nessun compromesso possibile. Inutili i numerosi incontri per tentare una mediazione. I magistrati, nel frattempo, hanno bocciato la riforma che, come ha detto più volte il presidente dell’Anm Rodolfo Sabelli, non risolve il problema, perché per ottenere un risultato la prescrizione andrebbe fermata dopo l’inizio dell’azione penale. A complicare la partita politica c’è l’intreccio tra prescrizione e riforma delle intercettazioni. Anche qui Ncd alza il prezzo, chiede che tutti i casi di ingiusta detenzione portino a una denuncia disciplinare per le toghe. Il responsabile Giustizia del Pd David Ermini tenta di chiudere su entrambi i fronti: "La partita sulla prescrizione è durata anche troppo a lungo. Ma bisogna lavorare pure sui tempi dei processi". Quasi una mano tesa a Costa che si limita a una provocazione: "I processi lumaca generano prescrizioni. Le prescrizioni lunghe generano processi lumaca. I processi rapidi impediscono le prescrizioni". Una conferma che non esistono margini di possibile trattativa. Soprattutto perché la presidente della commissione Giustizia della Camera, la Pd Donatella Ferranti, non molla sulla prescrizione della corruzione. Definisce "un monito ultimativo" la decisione di Lussemburgo e chiede che "la riforma esca dal limbo parlamentare per diventare al più presto legge". Ma Costa ribatte: "Se il testo resta così com’è al Senato Ncd vota contro". Lettera aperta a Marco Travaglio di Clirim Bitri Ristretti Orizzonti, 9 settembre 2015 Egregio sig. Marco Travaglio, con le sue affermazioni, ho l’impressione che lei stia istigando molti, stranieri e non, ad iniziare a delinquere. Le spiego meglio: ho sentito una trasmissione su La7 alle ore 20.30 del 02-09-2015 dove fra gli ospiti c’era anche Travaglio, e sempre la stessa storia, "in Italia non finisce in carcere nessuno". Se è così non riesco a capire perché le carceri italiane sono sempre sovraffollate. Io poi mi sono sentito male, perché questo tipo di informazione ha contribuito molto al fatto che io oggi scrivo dal carcere, come detenuto. Arrivato in Italia nel 1997, tutto quello che conoscevo dell’Italia l’avevo preso dalla televisione (il bel paese dove tutti i sogni diventano realtà), il mio sogno era mettere insieme qualche milioni di lire e tornare al mio paese per continuare gli studi. Mi illudevo! Alle periferie di Napoli dove ho trovato ospitalità il lavoro che sono riuscito ad avere era in agricoltura, con la paga ricevuta a malapena riuscivo a pagare l’affitto e da mangiare. Sentendo alla tv affermazioni come le sue "in Italia non finisce in carcere nessuno", ho avuto la "brillante" idea di iniziare a commettere i primi "furtarelli", e così sono iniziati anche i primi fermi da parte delle forze dell’ordine, e come Lei sostiene dopo pochi giorni venivo rilasciato in attesa del processo, a me bastava essere "libero", intanto dalla tv, non so se da Lei o da altri, sentivo le parole "in Italia non finisce nessuno in carcere e nessuno paga per i crimini commessi", queste parole mi hanno convinto ad iniziare ad aumentare la gravità dei miei reati. Io sto scontando TUTTA la mia pena anche per quei "furtarelli", fino all’ultimo giorno. Sono straniero e detenuto in Italia dal gennaio 2009, ho un cumulo di pene dove la pena più alta è 5 anni. Il 31 agosto 2015 mi è stato comunicato che dovevo scontare altri 8 mesi di detenzione per un tentato furto commesso nel 1999, oggi sono in carcere e mi è rimasta da scontare soltanto la pena di anni 1 e mesi 3 per falsa dichiarazione al Pubblico ufficiale e gli 8 mesi per tentato furto nel 1999. E allora non mi ci trovo! O non ho capito quello che dicevano le persone che parlavano alla televisione al tempo in cui io ho iniziato a delinquere o loro non sapevano quello che dicevano, secondo loro io NON dovevo essere in carcere, e come me ci sono tanti altri. Non ho nulla da perdere o da guadagnare, non mi permetto e non sono nella posizione di fare la morale a nessuno, volevo solo dire che questo tipo di informazione è in un certo senso, anche se so benissimo qual è la mia responsabilità, corresponsabile delle azioni che io ho commesso, e questo tipo di informazione in un certo senso, paradossalmente, ha la sua responsabilità anche verso le vittime dei miei reati, perché mi avevano convinto che potevo fare tutto quello che volevo e non avrei pagato per i miei reati. Egregio sig. Travaglio, mi sono rivolto a Lei in quanto se parlassi in generale la responsabilità non sarebbe di nessuno, certo sarebbe veramente bello se solo Lei avesse questa linea di pensiero, ma invece sono molti i giornalisti e politici che fanno queste affermazioni, può essere che veramente ci credono, ma NON è così. Speranzoso, ma non molto fiducioso in un cambiamento della propaganda mediatica su questo tema, voglio ribadire che in Italia paghi per tutto quello che fai, può darsi in ritardo, ma paghi. La saluto dal carcere di Padova, convinto da un certo tipo di informazione che non avrei mai pagato per i miei reati commessi in Italia. Veneto: chiusura degli Opg, magistrati impotenti quando lo psicolabile commette un reato di Giorgio Cecchetti Il Mattino di Padova, 9 settembre 2015 Chiusi gli ospedali psichiatrici giudiziari, il Veneto è privo della Residenza di sicurezza sanitaria prevista dalla legge. I pubblici ministeri delle Procure del Veneto non sanno più che pesci pigliare, non sanno dove mandare chi compie reati ed è con tutta evidenza un malato psichiatrico. Dal 31 marzo scorso, infatti, gli Ospedali psichiatrici giudiziari sono stati chiusi per legge, anche se chi era trattenuto là è ancora dentro quelle mura; il nome però è cambiato, adesso Reggio Emilia e Castiglione delle Stiviere (dove ci sono ancora 45 malati di mente veneti, tra cui tre donne) si chiamano Rems (Residenze per l’esecuzione della misura di sicurezza sanitaria). Ogni regione avrebbe dovuto creare una residenza per i malati del suo territorio, strutture sanitarie davvero alternative al ricovero manicomiale, pur con un deciso controllo per quelli considerati socialmente pericolosi. Il Veneto per ora non ha la sua Rems, anche se la giunta regionale ha deciso di realizzarla a Nogara, nel Veronese, con i 14 milioni erogati dallo Stato. Ma è un progetto ancora sulla carta. Così i pubblici ministeri veneti si trovano a gestire situazioni di grande disagio: sarebbe facile spedire tutti, anche i malati, in carcere, ma questo crea sofferenza inutile all’interessato che viene curato poco e male, e spesso grandissimi disagi agli agenti della Polizia penitenziaria, che non sono in grado di gestire questo tipo di umanità in celle spesso sovraffollate, e agli altri detenuti. Ecco, allora, la trafila alla quale è costretta la pubblico ministero di Venezia Carlotta Franceschetti, che non avrebbe alcuna intenzione di rinchiudere un indagato chioggiotto nel carcere di Santa Maria Maggiore soltanto perché resta l’unica soluzione praticabile. Non è accusato di reati gravissimi: deve rispondere di danneggiamento e, dopo essere stato giudicato instabile, è stato ricoverato nel reparto di Psichiatria dell’Ospedale di Chioggia, che però non è un luogo di detenzione, dove il livello di sicurezza è limitato anche se ha tutti i requisiti terapeutici. Così, un giorno sì e uno no, il chioggiotto sfascia le suppellettili della stanza dove lo trattengono. La pm lagunare ha preso carta e penna e ha scritto a una quindicina di strutture sanitarie, alcune nelle regioni dove le Rems sono state costituite, e ha spedito la richiesta di aiuto anche alle strutture del Veneto che si erano dichiarate disponibili a ricevere alcuni malati. C’è chi non ha ancora risposto, quelle che lo hanno fatto hanno dato una risposta negativa. Dalle altre regioni hanno spiegato che sono a disposizione dei malati del loro territorio e non sono in grado di accoglierne altri. Anche da Veneto sono arrivati i "no" per questioni di posti. Allora, il magistrato ha scritto all’ex Ospedale psichiatrico più vicino, quello di Castiglione delle Stiviere, nel Mantovano: le hanno risposto che in questo momento ospitano 265 pazienti-detenuti, ben 101 in più di quelli che la struttura sanitaria potrebbe sopportare. Nell’ex manicomio giudiziario, infatti, sono rimasti tutti coloro che non sono strati ripresi nelle loro regioni, visto che l’amministrazione, come in Veneto, non ha creato ancora una propria struttura. A questi, poi, si sono aggiunti i nuovi entrati della Lombardia. Sardegna: l’Assessore a Sanità Arru "non sia snaturata l’originaria funzione delle Rems" Adnkronos, 9 settembre 2015 L’assessore regionale della Sanità, Luigi Arru, si attiverà perché sia convocato al più presto il Tavolo interregionale sulle Rems. "Le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) - ricorda l’assessore - hanno come funzione la presa in carico e la cura di persone che devono essere riavvicinate alla regione di provenienza. La Sardegna è stata efficiente e virtuosa, aprendo tempestivamente una struttura che permettesse ai nostri corregionali, detenuti negli Opg della Penisola, di tornare nell’Isola. "È una struttura - spiega Arru - nella quale sono assicurati standard di sicurezza superiori a quelli previsti dalla norma; in seguito ad un lavoro costante con prefettura e forze dell’ordine sono stati elevati gli standard di garanzia, potenziati inoltre dalla presenza di un equipe multi-professionale che assicura percorsi personalizzati di presa in carico. A fronte di tutto ciò, non vorremmo che la nostra efficienza portasse a snaturare la funzione originaria di queste strutture. Al di là dei casi singoli - afferma in conclusione - pretendiamo un rigoroso rispetto della legge istitutiva e delle motivazioni per cui nascono le Rems, a maggior ragione nei confronti di una Regione che a questa legge e a queste motivazioni si sta attenendo". Lazio: le carceri regionali sono ancora sovraffollate, occorrono maggiori risorse di Massimo Costantino (Segretario generale aggiunto Fns Cisl) tusciaweb.eu, 9 settembre 2015 Il ministro della Giustizia Andrea Orlando incontrerà oggi alle 15 nella sede dell’Istituto superiore di studi penitenziari, i direttori di tutti gli Istituti penitenziari italiani e i provveditori dell’amministrazione penitenziaria. Per gli istituti della regione vi parteciperanno 14 direttori. L’incontro si colloca nel percorso degli Stati generali dell’esecuzione penale che dovrà portare concretamente a definire un nuovo modello di esecuzione penale e una migliore fisionomia del carcere, più dignitosa per chi vi lavora e per chi vi è ristretto. È la prima volta nella storia dell’amministrazione stessa che un ministro incontra tutti i direttori degli istituti. Il ministro Orlando approfondirà con i dirigenti e i funzionari direttivi dell’amministrazione penitenziaria l’analisi delle attuali condizioni di vita delle persone detenute e le prospettive di miglioramento e di adeguamento del sistema agli standard internazionali. Questo il dato di sovraffollamento dei detenuti presenti nel Lazio pari a più 539. Risultano attualmente reclusi e presenti nei 14 istituti penitenziari del Lazio 5.811 detenuti (379 donne, 5.432 uomini), mentre la capienza regolamentare dovrebbe essere di 5.272, un dato in crescita rispetto ai mesi precedenti. Il dato nazionale ad oggi è di 52.366 detenuti reclusi (2.132 donne e 50.234 uomini). Per la Fns Cisl Lazio occorrono maggiori risorse, soprattutto economiche, per adeguare gli istituti penitenziari in special modo per quanto concerne le caserme agenti, in più sedi le stesse risultano in condizioni fatiscenti, risolvere definitivamente le problematiche, dopo la chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg) in alcuni Istituti della regione dove sono state aperte sezioni per detenuti con infermità psichiche che necessitano di interventi intensificati sia di tipo sanitario che di vigilanza a tutela della loro salute mentale. Per la Fns Cisl Lazio occorre, anche, una maggiore consistenza effettiva di personale di polizia penitenziaria che consenta lo svolgimento del proprio servizio non solo nelle migliori condizioni lavorative ma anche in quel benessere organizzativo più volte decantato considerato che personale in servizio di polizia penitenziaria nei 14 istituti penitenziari della regione Lazio risulta essere sottodimensionato e non più rispondente alle esigenze funzionali degli Istituti dove si continua a registrare un esubero di detenuti rispetto alla capienza detentiva prevista. Umbria: il carcere di Perugia è un’isola felice… quello di Terni no di Francesco Petrelli (Vice segretario regionale Ugl Polizia penitenziaria) umbriaon.it, 9 settembre 2015 In questi giorni sono tornate alla ribalta le difficoltà che si registrano nella Casa circondariale di Terni. La complessità di un istituto che ormai può essere considerato di massima sicurezza e che erano state ampiamente annunciate da tutti i sindacati nell’aprile del 2014, quando in maniera sconsiderata è stata previsto l’arrivo di 288 detenuti ad alta sicurezza. Le istituzioni e ancor prima il Dipartimento e il Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria sono stati complici di un delitto in piena regola, consegnando all’istituto ternano il primato di primo carcere in Umbria, includendo anche tutti i soggetti fuori per giustizia. Le prese di posizione del Sappe di questi ultimi giorni, seppur legittime, debbono far riflettere tutti noi, sia i sindacati che gli stessi lavoratori che hanno subito passivamente le scelte di coloro che usano Terni come contenitore di criminalità. Terni ormai contiene nelle proprie mura i maggiori gruppi della criminalità organizzata e gli artefici in prima linea di Mafia Capitale che ovviamente, come confermano gli organismi di controllo, creano infiltrazioni criminali in tutto il territorio. Il carcere di Perugia, come si è letto, è diventato un’isola felice con pochi ristretti e con poche tipologie di detenuti, Spoleto mantiene la propria capacità detentiva, Orvieto ospita detenuti con custodia attenuata con numeri di poche entità mentre Terni è diventato un istituto che accoglie di tutto e di più. La Direzione e il Comandante hanno ovviamente le proprie responsabilità, ma la prima in assoluto è stata quella di permettere la trasformazione di un istituto che, per come è composto, non poteva accogliere altre tipologie di detenuti. Dai 41bis agli As3, dagli As2 ai "comuni" fino ai "protetti", una promiscuità difficile da gestire con le poche risorse umane a disposizione. Pochi ufficiali e poco personale da impiegare nelle troppe attività nell’istituto, insufficiente per gli stessi livelli minimi di sicurezza. Un’ingenuità che è stata grande e fatale, il pericolo di sottovalutare e di concedere troppo spazio ai detenuti "eccellenti" non poteva non ricadere nella normale gestione dei detenuti comuni. La dignità dei detenuti deve essere uguale per tutti, la creazione di ristretti di serie A e di serie B ha generato tutto quello che ne consegue. Il triste primato di capienza, con la diminuzione dei reclusi comuni dovuta alle maglie larghe della riforma della giustizia, non presuppone che Terni debba accogliere sempre più detenuti di associazioni criminali. La Direzione si trova di fronte ad una situazione difficile da gestire ma che purtroppo ha voluto a tutti i costi. Eventi critici e aggressioni sono solamente il prologo di azioni previste e prevedibili che meritano un’attenzione estrema dai sindacati nazionali e anche dalla politica. La casa circondariale di Terni non può essere l’unico carcere dell’Umbria e dell’Italia che deve accogliere più detenuti di tutti. Palermo: detenuta tunisina di 58 anni si impicca in cella, era in carcere da poche ore di Romina Marceca La Repubblica, 9 settembre 2015 Si è impiccata con un lenzuolo dopo appena mezz’ora dal suo ingresso nel carcere Pagliarelli, nella sezione delle donne. Quello di Wahida Ben Khafallah, tunisina, detenuta per pochi minuti nel penitenziario palermitano è il secondo caso di suicidio nelle ultime due settimane nelle carceri siciliane, il trentaduesimo in Italia dall’inizio dell’anno. Il 26 agosto a togliersi la vita era stato un giovane italiano di 30 anni, anche lui impiccato ma nel carcere di Gela. Gli restavano meno di due anni di pena per detenzione di droga e ricettazione. Anche Wahida Ben Khafallah, che aveva 58 anni, doveva scontare una condanna definitiva per droga. Era conosciuta dalle forze dell’ordine per i diversi episodi di spaccio nei quali era stata coinvolta nel centro storico della città. Dal momento in cui è stato scoperto il suo cadavere all’interno della cella in cui si trovava da sola, cinque giorni fa, nessuno ha reclamato il corpo. Ieri è stata eseguita l’autopsia, disposta dal pm Gaetano Guardì, la donna resterà in deposito e poi, con molta probabilità, verrà cremata. Venerdì sera, quando è arrivata a Pagliarelli, Wahida Ben Khafallah ha solo detto di essere vedova. Ha passato le visite mediche e poi è stata ricevuta all’ufficio immatricolazione. Alle tre è scattata l’emergenza. "Era in una cella da sola - spiega il direttore del Pagliarelli, Francesca Vazzana - perché ancora stavamo decidendo la sistemazione più adeguata per lei". I poliziotti penitenziari si sono accorti quasi subito di quello che era accaduto nella cella dovesi trovava la detenuta tunisina. "C’è stato anche un soccorso con le manovre rianimatorie da parte del nostro personale - spiega il direttore del penitenziario - ma non c’è stato nulla da fare. La detenuta aveva stretto le lenzuola alle sbarre della finestra". Anche i medici del 118 non hanno potuto fare nulla, se non dichiarare la morte della donna. Sull’ultimo caso di suicidio dietro le sbarre interviene il sindacato Osapp. "L’assistenza sanitaria è al lumicino - denuncia il segretario generale dell’Osapp, Mimmo Nicotra - basti pensare che da dieci anni non è stato bandito alcun concorso per educatori. Nelle carceri si muore per solitudine". E da sola, senza nessuno a vegliarla, Wahida Ben Khafallah rimane nell’obitorio dell’ospedale Policlinico. Non ha lasciato nessun biglietto per spiegare il suo gesto e il personale del carcere non aveva notato alcun atteggiamento che potesse far presagire quanto accaduto. Adesso dal carcere e dalla procura sperano che la sua fotografia possa essere vista da chi la conosceva per rintracciare i suoi familiari in Tunisia. Genova: Sappe; carcere di Marassi a rischio, tra sovraffollamento e detenuti psichiatrici genova24.it, 9 settembre 2015 La segreteria regionale del Sappe dopo aver lanciato l’allarme per un’esponenziale presenza di detenuti negli istituti liguri tra i quali quelli con evidenti problemi psichiatrici che hanno e stanno determinando una gestione all’estremo per quanto riguarda l’aspetto sicurezza, annuncia per il prossimo 18 settembre dalle ore 9,30 il segretario generale del Sappe, Donato Capece sarà presente a Marassi per incontrare il personale di Polizia Penitenziaria e fare il punto della situazione di Genova con il Direttore dell’istituto per cercare valide soluzioni. Abbiamo inviato una nota al Ministro della Giustizia Orlando nella quale illustriamo la criticità della Liguria penitenziaria - commenta il segretario regionale del Sappe Michele Lorenzo - contestualmente abbiamo richiesto la presenza del segretario generale del Sappe, Donato Capece, affinché appuri di persona la condizione di lavoro della Polizia Penitenziaria nell’istituto di Marassi che, secondo noi, è l’istituto capofila per quanto riguarda la presenza di detenuti con problemi psichiatrici che hanno determinato un’impennata degli eventi critici, come celle incendiate, aggressioni al personale e risse interne. Il tutto riverbera sui carichi di lavoro della Polizia Penitenziaria che, proprio su Marassi, sta registrando un decremento del suo organico con quasi 100 agenti in meno. Un mix negativo che non può essere sottovalutato. Continua Lorenzo- le storture del sistema penitenziario ligure, di Marassi in modo particolare che oggi lo collocano, dopo Napoli Poggioreale e Bologna, al terzo posto tra gli istituti a maggiore criticità non devono essere solo un ammasso di dati da pubblicizzare, ma uno spunto di ragionamento su quale incontrarci e trovare la soluzione. Noi come Sappe siamo disponibili ad un confronto con l’Amministrazione per risolvere il problema Marassi e Liguria. Quindi è ora d’intervenire seriamente. Nel frattempo- continua il segretario regionale - ben venga la visita di Capece che sicuramente saprà farsi ascoltare dai quei vertici romani che gestiscono la nostra amministrazione portando nei loro uffici la nostra protesta ma anche le nostre proposte. Il Sappe - conclude Lorenzo - pretende una maggiore attenzione al caso "Liguria" ma prioritario è l’istituzione delle strutture denominate Rems che dovranno ospitare i detenuti affetti da problemi psichiatrici non compatibili con il regime penitenziario. L’invito del 18 settembre alle ore 10,30 nella sala conferenza di Marassi, è esteso a tutte le componenti politiche presenti in Liguria. Rovigo: sul "carcere d’oro" scoppia un caso politico, 3 interrogazioni e dossier al governo di Marco Bonet Corriere del Veneto, 9 settembre 2015 Il caso del nuovo carcere di Rovigo, costato 29 milioni di euro, pronto da due anni e malinconicamente chiuso mentre nel resto del Veneto le celle straripano, finisce sul tavolo del ministro della Giustizia Andrea Orlando. L’Ufficio di gabinetto del Guardasigilli sta infatti mettendo a punto un dossier per tentare di capire per quale ragione il cantiere aperto nel 2007 sia stato bloccato e non siano stati completati i lavori di rifinitura che permetterebbero di trovar posto a 408 detenuti, dopo che già sono stati ultimati i 90 alloggi destinati agli agenti e pure i due superattici da 160 metri quadri a servizio del direttore e del comandante. Più che una cattedrale, una vera e propria cittadella nel deserto. Nell’attesa che via Arenula chiarisca, infuria la polemica politica, anche perché i dati relativi alla popolazione carceraria del Veneto, aggiornati al 31 agosto scorso, confermano l’assoluta necessità della nuova struttura: nelle 9 case circondariali sparse nella nostra regione si trovano 2.227 detenuti, 528 in più di quelli previsti dalla capienza regolamentare che è di 1.699 (il 30% in meno). E a poco è servito il decreto "svuota carceri" approvato nel 2010, che pure ha fatto uscire in 5 anni 1.151 persone: il problema persiste e si ripropone ciclicamente, qui più che altrove. Il sindaco di Rovigo, il leghista Massimo Bergamin, è furioso: "La città non ne vuoi sapere di cattedrali nel deserto, a due passi dalla tangenziale, destinate a marcire nel tempo e a diventare rifugio per tossici e sbandati. Se il carcere non sarà aperto, e tutti sappiamo quanto servirebbe visto che l’attuale Casa circondariale è in pieno centro, che ne sarà di quel complesso enorme? Come al solito finirà che toccherà al Comune farsene carico, ovviamente senza che lo Stato ci dia un centesimo". Detto che è difficile immaginare una seconda vita per un istituto di pena che occupa una superficie di 26 mila metri quadrati, Bergamin mette subito le mani avanti: "Che nessuno pensi di poterlo trasformare in qualcos’altro, più utile ai tempi in cui viviamo". Si riferisce ad un centro per l’accoglienza dei migranti? "Vedo che ha capito. Diciamo no sin da ora, se mai si faranno avanti sappiano che troveranno il sindaco e tutta Rovigo sulla loro strada". Dice il sindaco che a lui non interessa nulla "dei burocrati romani che si rimpallano le responsabilità", lui vuole "una soluzione qui e ora". Soluzione che, in realtà, è a portata di mano: basta trovare i soldi. Che però non ci sono. Lo ha lasciato intendere nei giorni scorsi il prefetto di Rovigo, Francesco Provolo ("L’avvio di nuove strutture detentive non è tra le priorità del governo, i problemi delle vecchie carceri sono state risolte in altra maniera") e lo conferma la deputata dei Cinque Stelle Francesca Businarolo, membro della commissione Giustizia alla Camera: "In parlamento si è discusso molto del sovraffollamento carcerario ad inizio legislatura, dopo la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, ma da tempo l’argomento è sparito dall’agenda. Il nodo è essenzialmente finanziario: non ci sono fondi per pagare nuovi agenti, nonostante il corpo di polizia penitenziaria sia cronicamente sotto organico, e non ci sono fondi per garantire la continuità della gestione dei nuovi istituti, che comprende anche le utenze, i servizi, le manutenzioni, l’attività riabilitativa delle cooperative. Certo - conclude Businarolo questo è un problema che ci si sarebbe dovuti porre prima di aprire il cantiere, non ora che sono stati spesi 29 milioni". Anche lei, come il deputato polesano de I Pd Diego Crivellari, annuncia un’interrogazione al governo e lo stesso farà il senatore Udc Antonio De Poli: "Chiederò a Orlando e a Renzi come intendano intervenire per non sprecare le risorse impiegate, mentre l’Ue continua a richiamare l’Italia per la situazione nelle nostre carceri e il Paese è costretto a risarcimenti milionari nei confronti dei detenuti". Lucca: Sappe; detenuto tunisino aggredisce tre poliziotti penitenziari La Nazione, 9 settembre 2015 Alta tensione nel carcere di Lucca, dove un detenuto tunisino responsabile di rapina aggravata, lesioni personale aggravate, furto e altro, ha prima picchiato tre poliziotti del carcere e poi ingerito pezzi di plexigas che lui stesso aveva provocato con la rottura di alcuni pannelli. A darne notizia è Donato Capece, segretario generale Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, il primo e più rappresentativo della Categoria. "Sono stati momenti di alta tensione, gestiti al meglio dal personale di Polizia Penitenziaria che con grande professionalità ha impedito conseguenze più gravi all’interno della Casa Circondariale di Lucca, che alla data del 31 agosto scorso risultava affollata da 112 detenuti, 20 in più rispetto ai posti letto regolamentari". "È uno stillicidio costante e continuo: i nostri poliziotti penitenziari continuano a essere picchiati e feriti nell’indifferenza delle autorità regionali e nazionali dell’amministrazione penitenziaria, che sono per altro costrette a confermare l’aumento delle violenze contro i Baschi Azzurri del Corpo nonostante il calo generale dei detenuti ma che nonostante ciò non adottano alcun provvedimento concreto perché queste folli aggressioni abbiamo fine, ad esempio sospendendo quelle pericolose vergogne chiamate vigilanza dinamica e regime penitenziario aperto", denuncia il leader nazionale del Sappe, che rivolge ai poliziotti feriti "la solidarietà e la vicinanza del primo Sindacato dei Baschi Azzurri". Capece ricorda che il Sappe aveva reso pubblico, nelle scorse settimane, il dato allarmante delle aggressioni contro i poliziotti in Toscana nei primi sei mesi del 2015: 501 atti di autolesionismo (il record in tutta Italia), 3 tentati suicidi, 213 colluttazioni e 39 ferimenti che, alla data di oggi, sono lievitati ulteriormente. Pasquale Salemme, segretario Regionale Sappe della Toscana, evidenzia infine "la professionalità, la competenza e l’umanità che ogni giorno contraddistingue l’operato delle donne e degli uomini della Polizia Penitenziaria con tutti i detenuti per garantire una carcerazione umana ed attenta pur in presenza ormai da anni di oggettive difficoltà operative, le gravi carenze di organico di poliziotti, le strutture spesso inadeguate. Attenti e sensibili, noi poliziotti penitenziari, alle difficoltà di tutti i detenuti, indipendentemente dalle condizioni sociali o dalla gravità del reato commesso. Ma che corrono rischi e pericoli ogni giorno, in carcere, a Lucca e nelle altre strutture detentiva campane, per il solo fatto di essere rappresentanti dello Stato che garantiscono sicurezza e per questo pagano anche prezzi altissimi in termini di stress e disagi". Napoli: leggere ad alta voce in carcere, esperienza di sostegno genitoriale ai padri detenuti di Lina Di Maio (Pediatra di comunità, Associazione culturale Pediatri Campania) Sanità 24 - Sole 24 Ore, 9 settembre 2015 Sono passati dieci anni da quando l’Istituto Mario Negri di Milano affermava che, se si fosse considerato il Sud dell’Italia come uno stato indipendente all’interno dell’Unione Europea, sarebbe stato il più povero (Bonati Campi, 2005). È ancora così. E lavorare in un consultorio della periferia di Napoli ci fa porre degli obiettivi strategici e ci impone l’utilizzo di mezzi alternativi, semplici, ma di provata efficacia. Uno dei determinanti sociali della salute, forse il più importante, è l’istruzione e la capacità di leggere ne è l’asse portante. Il carcere di Secondigliano è a 500 metri in linea d’aria dal consultorio dove operiamo e dunque vivere a contatto continuo con i contesti di vita delle famiglie ("Un bambino non può esistere da solo" insegna Winnicott) ci ha portato inevitabilmente a legare la nostra esperienza con la traiettoria di vita dei detenuti e soprattutto dei loro figli, inseriti nella ricchezza di interventi che la direzione del Centro Penitenziario aperta, lungimirante, accogliente e rigorosa ha scelto di attuare. Nati per leggere in carcere sostiene la genitorialità dei papà detenuti, che vivono una doppia distanza, quella fisica, determinata dall’allontanamento dal nucleo familiare e quella affettiva, dovuta all’impossibilità di esercitare una funzione educativa e di condividere gli affetti nella quotidianità. La lettura di una breve storia o di un albo illustrato può consentire loro di riappropriarsi di un pezzetto di questa quotidianità, permettendo ai bambini di vivere un momento di grande valenza affettiva e attuando un efficace (perché è il padre a proporlo) rinforzo di quanto vissuto nella sala d’attesa. Con il progetto "Nati per leggere" si fornisce ai piccoli in attesa, spesso lunga, del colloquio col genitore quella possibilità (che probabilmente non avrebbero in altro modo) di incontro con i libri, le storie da ascoltare, le immagini da leggere. La nostra avventura è iniziata nel luglio 2013 con i primi contatti con la Direzione ed è proseguita con incontri numerosi con piccoli gruppi di detenuti e con l’allestimento di una mensola di libri per ogni sala colloquio. Dal febbraio 2014 sono iniziate le letture ai bambini. È stata allestita una piccola biblioteca nello spazio che la Direzione ci ha affidato. Il ministero della Giustizia contribuirà con un piccolo finanziamento al progetto che ci permetterà di comperare altri libri e di arredare, semplicemente, un angolo dello spazio destinato all’attesa dei piccoli e delle loro famiglie. Perché leggere ai bambini? Zagrebelsky dice che il numero delle parole conosciute e usate è direttamente proporzionale al grado di sviluppo della democrazia e dell’uguaglianza delle possibilità. Il rapporto fra ricchezza delle parole e ricchezza delle possibilità è dimostrato. I ragazzi più violenti posseggono strumenti linguistici scarsi e inefficaci sul piano del lessico, della grammatica, della sintassi. Non sanno nominare le proprie emozioni, non sanno narrare. Quando manca la capacità di dare un nome alle cose e alle emozioni manca un meccanismo fondamentale di controllo sulla realtà e su se stessi. Ma la scuola non ce la fa a compensare i dislivelli di partenza. "Ognuno di noi può diventare un santo o un bandito, ma ciò dipende dai primi 3 anni di vita, non da Dio. È una legge di una scienza che si chiama epigenetica. In altre parole si può definire il risultato del dialogo che si instaura tra i nostri geni e l’ambiente familiare e sociale nel quale cresciamo". Lo ha detto Rita Levi Montalcini. James Heckman dell’Università di Chicago, economista e premio Nobel per l’Economia nel 2000 ha affermato che "investire precocemente nel capitale umano rende moltissimo" e il collega Nobel, Amartya Sen, cresciuto nei luoghi del poeta Tagore parla, poeticamente, di "flourishing life", una vita che fiorisce nel momento in cui riesce a realizzarsi perché le sue capacità riescono a divenire attuali, ne hanno le possibilità. Il progetto "Nati per leggere" favorisce la lettura a voce alta a cominciare dal 6° mese di vita intrauterina quando l’organo dell’udito è ormai maturo ed è uno strumento prezioso perché fa entrare voce, libri, immagini, storie, fantasia nella vita dei bambini, legandoli saldamente all’ascolto e alla lettura che mamma e papà donano loro. Il consultorio di Secondigliano ha ancora un piccolo capitale di libri e può ancora donare un volume al "bilancio di salute familiare" di chi è coinvolto nell’iniziativa, e questo perché tanti anni fa il governo della città ci permise un acquisto pesante (1000 kg di libri!) in una zona della città ancora oggi priva di librerie e biblioteche. Salerno: presso l’Icatt di Eboli due serate dedicate ai detenuti e ai loro figli ottopagine.it, 9 settembre 2015 Il ruolo genitoriale dei detenuti è il tema, spesso sottovalutato dai più, posto al centro di due iniziative che si svolgeranno, rispettivamente, il 12 e il 19 settembre prossimo presso l’Istituto a Custodia Attenuata di Eboli. Messa fortemente in discussione dall’esperienza della reclusione, quello della genitorialità è un aspetto ancor più delicato sia per chi si vede privato del contatto col proprio papà sia per l’esclusione del genitore dalla funzione paterna, nel caso specifico dei detenuti dell’Icatt. In continuità con le linee ministeriali adottate sul tema e con l’attenzione che la direzione della casa di reclusione ebolitana, con la dottoressa Rita Romano, ha da sempre posto su questo argomento, sabato 12 settembre padri e figli saranno protagonisti di un piccolo evento loro dedicato. I bimbi dei detenuti insieme ai loro papà dovranno allestire un piccolo party nel giardino del castello Colonna, sede dell’istituto carcerario, avendo così l’occasione di fare oltre che di stare insieme, inserendo piccoli tasselli a una relazione importantissima per la crescita emotiva e psicologica dei piccoli ma fondamentale anche per il recupero del detenuto. Un momento di condivisione e di festa trascorrendo ore spensierate in cui i bimbi con i loro papà prepareranno da mangiare e vivranno insieme momenti di gioco e svago grazie all’animazione di volontari ebolitani. L’obiettivo è quello di favorire un rapporto che si sedimenti oltre i "freddi" momenti di colloquio, unico punto di contatto del detenuto con il proprio mondo relazionale. A rendere più armoniosi gli incontri con i figli degli ospiti dell’Icatt punta l’evento del 19 settembre e la serata di beneficenza a sostegno del progetto "Genitori senza Barriere" portato avanti sin dal maggio scorso all’Icatt grazie al lavoro, a titolo volontario, della psicologa e criminologa clinica Angela Mastrolorenzo, la sociologa e counsellor Raffaella Terribile, l’educatrice e counsellor Enza La Padula. Il gruppo musicale Bande Amì ha organizzato un concerto i cui proventi finanzieranno l’acquisto di giochi per attrezzare l’area del carcere dove si svolgono gli incontri familiari. Questo contribuirà a rendere meno pesanti per i bambini le lunghe ore di viaggio per raggiungere i loro padri, la forzosa attesa e la perquisizione cui anche loro sono sottoposti per l’ingresso nell’istituto penitenziario. Cuneo: nel carcere di Fossano una due-giorni di sport all’insegna dell’integrazione targatocn.it, 9 settembre 2015 Il 9 e il 10 settembre si confronteranno 5 squadre di calcetto maschili e 6 squadre di pallavolo miste. Due giornate di sport, nella Casa di reclusione di Fossano, si svolgeranno all’insegna dell’integrazione: il 9 e il 10 settembre si confronteranno 5 squadre di calcetto maschili e 6 squadre di pallavolo miste; comprenderanno la trentina di giovani volontari (fra i 15 e i 24 anni) che da circa 3 anni svolgono attività di animazione in carcere. Con loro ci saranno anche alcuni utenti del centro diurno per disabili gravi "Santa Chiara" di Fossano. Il centro è gestito dalla Cooperativa Il Ramo della Comunità Papa Giovanni XXIII che offre occasioni lavorative e di svago a circa 170 ragazzi disabili del territorio; alcuni dei ragazzi sono impegnati all’interno del carcere con attività musicali e teatrali. La preghiera conclusiva dell’evento, guidata dal vicario del Vescovo di Cuneo Don Derio Olivero, sarà ecumenica ed incentrata su un tema di grande attualità: "costruire la pace insieme tra le religioni". Per alcuni dei ragazzi detenuti sono iniziati negli anni percorsi alternativi al carcere; la Comunità educante per i carcerati (Cec) di Piasco ha ospitato una decina di persone nell’ultimo anno, provenienti da diversi istituti penitenziari di tutta Italia. Roberto Fea, responsabile di zona della Comunità Papa Giovanni, chiede anche il coinvolgimento delle istituzioni: "chiederemo un incontro al Garante dei diritti per i carcerati della Regione Piemonte: il percorso svolto all’interno delle Cec non è riconosciuto, e potrebbe essere una vera alternativa al carcere per molti detenuti. Le comunità educanti infatti costituiscono una vera possibilità di riscatto; qui i detenuti potrebbero sentirsi costruttori della propria storia, e recuperare la dignità della propria vita". Gianluca da anni è volontario in carcere: "Tutto cominciò anni fa con una chitarra in mano, circondato da omoni tatuati, scuri, ma con una gran voglia di riscatto negli occhi. Oggi riscopro che "l’uomo non è il suo errore", come insegnava Don Oreste Benzi; relazionarmi con i detenuti, suonare, pregare, giocare, mi aiuta a riscoprire la bellezza di un incontro vero, senza fronzoli, che a volte è anche molto duro". Immigrazione: prefetture in azione per pianificare l’accoglienza di altri 20mila profughi di Riccardo Chiari Il Manifesto, 9 settembre 2015 Partita la Circolare del Viminale per la pianificazione dell’accoglienza. Il ministro Alfano: "Oggi nel sistema di accoglienza ci sono 95mila migranti: i 20mila di cui si sta parlando sono quelli attesi nei prossimi giorni". Distribuzione per quote regionali, in base alle intese Stato-Regioni del 2014. Annunciata dalla scorsa settimana, è partita la circolare del Viminale ai prefetti per la pianificazione dell’accoglienza di altri 20mila migranti attesi nelle prossime settimane. La distribuzione è sempre per quote regionali, che saranno definite ufficialmente entro pochi giorni ma che non si dovrebbero discostare da quelle utilizzate fino ad oggi. In percentuale quindi la Sicilia potrebbe accogliere il 15% dei profughi, a seguire la Lombardia con il 13%, il Lazio con il 9%, la Campania con l’8%, Piemonte e Veneto con il 7%, Toscana, Emilia Romagna e Puglia con il 6%, e infine le altre regioni più piccole con quote minori. Il Viminale per il momento si limita ad annunciare che i 20mila nuovi migranti verranno "equamente distribuiti" in base alle intese sottoscritte nel 2014 nell’ambito della conferenza unificata Stato-Regioni. Peraltro il prefetto Mario Morcone, capo del dipartimento immigrazione del ministero, alla fine di agosto aveva spiegato che in previsione della nuova circolare ai prefetti si stava valutando la situazione regione per regione. Le prefetture sono già al lavoro per trovare un’accoglienza decente ai profughi. Con la fine imminente della stagione turistica e la riapertura delle scuole della prossima settimana, l’obiettivo è quello di trovare sistemazioni negli alberghi, nei campeggi, nei residence e nei villaggi turistici che potrebbero essere disponibili ad occupare le stanze garantendosi un guadagno, visto che lo Stato destina 35 euro di spesa per ogni profugo. Per certo si è subito alzata l’opposizione delle regioni fascioleghiste. "Non ci sono nuovi spazi - fa sapere Anna Rosa Pavanello, presidente di Anci Veneto e sindaco di Mirano - a meno che non arrivino disponibilità da parte delle parrocchie. C’è una difficoltà generalizzata, non riusciamo a trovare nuovi posti, i miei colleghi non ce la fanno. Per non parlare dei sindaci che dicono di ‘nò a priori". Attualmente il Veneto accoglie circa 6mila migranti, 1.400 in meno rispetto alla quota prevista per la regione: "L’unica possibilità è affidata al mondo delle parrocchie, degli edifici vuoti di proprietà della chiesa e dei convitti ecclesiastici". La strada indicata da Pavanello ha già iniziato ad essere percorsa in Toscana, dove l’arcivescovo fiorentino Giuseppe Betori ha dettato la linea: "Le parrocchie che con disponibilità e generosità intendono seguire la strada indicata dal Papa si mettano in contatto con la Caritas diocesana, che sola può garantire un’ordinata attuazione di questa complessa operazione e soprattutto i rapporti con le autorità dello Stato e quelli con le amministrazioni locali, perché tutto avvenga nel rispetto delle leggi. In più, ogni parrocchia è invitata a farsi formalmente e concretamente carico dell’accoglienza di una famiglia o di un piccolo gruppo di profughi". Dal canto suo la Regione Toscana ha attivato un numero telefonico (331-6983.061) per chi si dice pronto ad ospitare uno o più profughi in casa. Nel mentre i numeri complessivi dell’accoglienza sono stati certificati dal ministro Alfano: "Oggi nel sistema di accoglienza ci sono 95mila migranti: i 20mila di cui si sta parlando sono altri 20mila di cui si cerca la collocazione, in riferimento al fatto che possono avvenire nuovi sbarchi". Il governo Renzi peraltro seguirà la linea dura: "Quelli che scappano da guerre e persecuzioni - avverte Alfano - noi li accogliamo e poi li redistribuiamo pro quota in Europa. Quelli invece che sono migranti che non scappano da guerre e persecuzioni, noi li dobbiamo rimpatriare. E il sistema dei rimpatri - sottolinea il ministro dell’Interno - deve essere un sistema di rimpatri europeo". Questa richiesta sarà ribadita al vertice Ue del 14 settembre, insieme a quelle di innalzare le quote di profughi da distribuire nell’Unione, e l’obbligatorietà per tutti gli Stati di accettarli. Immigrazione: i "centri d’accoglienza" da "bestie" delle coop di Silvio Messinetti Il Manifesto, 9 settembre 2015 Aprigliano (Cs). Migranti ammassati nella struttura gestita dal consigliere Pd. Protesta dei richiedenti asilo stipati (e abbandonati) nell’ex albergo di Spineto. "Siamo umani o bestie?", urlava Matteo Renzi dal palco della festa nazionale dell’Unità. Bene, anzi benissimo. Ma Renzi farebbe meglio a venire in Calabria e visitare i molti "centri d’accoglienza" in cui centinaia di migranti vivono come "bestie", in luoghi affatto accoglienti, spesso gestiti da cooperative vicine al Pd. Per esempio, il centro provvisorio di Spineto, nel comune di Aprigliano, incastonato nei verdi boschi della Sila cosentina, era un vecchio albergo-ristorante, Il Capriolo, realizzato trent’anni fa su due corpi distinti per più piani. Con affidamento diretto da parte della prefettura di Cosenza, la cooperativa Sant’Anna gestisce ora una ottantina - ma prima erano anche di più - di africani provenienti da Somalia, Gambia, Nigeria e Ghana. A guidare la cooperativa è il quarantenne Carmelo Rota, assessore comunale del Pd. In cambio dei "servizi" riceve 29 euro al giorno a migrante, secondo una convenzione con la prefettura che viene prorogata ogni tre mesi. Ma la scena che si presenta agli occhi descrive non certo un resort a quattro stelle, come pure dalle guide questo posto lasciava presagire. Si tratta, piuttosto, di un dormitorio di carne umana, di un parcheggio per migranti, di un campo profughi che nemmeno in Medio Oriente. È questo l’inferno degli asilanti che arrivano in Italia. "Ci sentiamo abbandonati e dimenticati - è il coro unanime - qui non c’è linea per il cellulare, non abbiamo assistenza legale, nonostante le nostre proteste e le promesse della prefettura non è cambiato nulla". Un ragazzo eritreo, Ahmed, si avvicina per parlare e descrive il centro come "una prigione a cielo aperto, sento la testa battere come una pentola a pressione, se continua così mi suicido", aggiunge. "Nel sotterraneo hanno messo le donne perché loro non si ribellano", dice un ghanese con il rosario al collo. Attualmente ospita 84 richiedenti asilo. Molti di loro provengono da Amantea, dall’ex albergo Ninfa Marina, trasferiti di forza nell’entroterra silano dopo il riot dell’inverno scorso nella città tirrenica. La struttura è isolata per diversi chilometri. Alcuni si trovano lì da oltre 11 mesi. Abdul, somalo, ci dice che: "C’è un solo autobus che permette di allontanarsi da Spineto, partendo alle 6 di mattina e rientrando alle 15". Sono presenti 14 donne di nazionalità somala e nigeriana che lamentano l’assoluta mancanza di assistenza sanitaria. La protesta a cui hanno dato vita il mese scorso è scaturita dalla mancata fermata da parte dell’autobus delle Ferrovie della Calabria per consentir loro di arrivare a Cosenza. Hanno bloccato il traffico in entrambe le direzioni sulla strada silana con cassonetti e materassi dati alle fiamme. Regna il mistero sull’agibilità della struttura di Aprigliano che è composta di due stabili, uno costruito negli anni ‘70 su tre piani e un altro, che negli anni ‘90 era una sala ricevimenti su un piano con il seminterrato. Attualmente ci sono posti letto in ogni angolo, anche nei sottoscala. Il degrado è palpabile. È per questo che la procura di Cosenza, sulla scorta delle denunce dei migranti e in seguito al dossier dell’associazione la Kasbah, ha aperto lunedì un fascicolo d’indagine. Gli agenti della mobile hanno eseguito un sopralluogo per verificare le reali condizioni di vita dei profughi. Secondo Rota le carte sono a posto. Ma dagli uffici tecnici del comune trapela che c’è il segreto istruttorio. Esisterebbe un certificato del 2004 che dichiara la struttura inagibile e uno del 2007 secondo cui, invece, sarebbe agibile. I migranti di Spineto raccontano di sentirsi abbandonati, alcun processo di inserimento sociale è stato messo in atto. Le persone intervistate raccontano di essere state "diniegate" dalla commissione per il riconoscimento dello status ma di non aver mai incontrato l’operatore legale né l’avvocato. Né di esser stati informati della possibilità di presentare ricorso. Sono esseri umani o bestie? Immigrazione: Giddens "grazie ai migranti un’Europa migliore scopriamoci solidali" di Enrico Franceschini La Repubblica, 9 settembre 2015 L’ex rettore della Lse e ideatore della terza via Anthony Giddens: "Serve una strategia multilaterale, non discorsi a vuoto". "L’esodo dei migranti siriani ha fatto emergere un nuovo spirito solidale in Europa e spinto la Germania ad assumere con intelligenza un ruolo guida". Per Anthony Giddens, ex-rettore della London School of Economics, ideatore della Terza Via e membro della camera dei Lord, sono i segnali positivi portati dalla crisi che da settimane scuote il continente. "Ma i rischi sono gravissimi, perché la questione dei migranti si mescola ad altre crisi, come quella dell’euro e dell’Ucraina, e rischia di spaccare ulteriormente l’Unione Europea", avverte il grande sociologo. Individuando nei profughi che fuggono dalla Siria un nuovo tipo di rifugiato: "il migrante globale", con telefonino in tasca e conoscenza del mondo digitale. Questa crisi sconvolgerà l’Europa, professor Giddens? "Viviamo nell’era dei media 24 ore su 24, cosicché la crescente ondata di migrazione riceve una copertura mediatica costante, onnipresente e spesso in tono isterico, che viene poi adottato da qualche leader politico. Ma è sbagliato farsi prendere dall’isteria. Poniamo che 600 mila migranti l’anno entrino per cinque anni nell’Unione Europea: sarebbero in tutto lo 0,6 per cento della popolazione Ue, che sfiora i 500 milioni. Dunque è importante mantenere l’equilibrio nel valutare le possibili conseguenze di una situazione che presenta anche elementi positivi". Quali? "Lo spirito di generosità e solidarietà umana che è emerso in molti paesi europei da parte di opinione pubblica, associazioni private e anche istituzioni pubbliche, uno spirito diverso da quello emerso in precedenza, che era fatto di sentimenti più negativi. Un altro elemento positivo è l’atteggiamento della Germania e del suo leader in particolare, Angela Merkel, che ha assunto un ruolo guida, dimostrando generosità ma pure intelligenza: il suo paese sta vivendo un declino demografico, la maggioranza dei migranti sono giovani, un dettaglio che non deve essere sfuggito al governo tedesco". Dall’immagine del bambino annegato sulla spiaggia turca, alla stazione di Budapest invasa, alla marcia a piedi verso la Germania, questa storia ha colpito l’opinione pubblica europea come non era ancora accaduto. Cosa c’è di nuovo? "Per me la novità più interessante è che, oltre a essere mediamente giovani, una parte sostanziale dei profughi siriani sono istruiti e digitalmente esperti: emigrano con il telefonino, come ha notato il New York Times, dunque sono capaci di rimanere in contatto con i parenti in patria e al tempo stesso sono consapevoli delle reazioni dell’opinione pubblica internazionale e di come le loro azioni, individuali o collettive, possano influenzarle. Sono migranti molto diversi da quelli che arrivano con i barconi dalla Libia o che fuggivano dai Balcani dopo la guerra nell’ex-Jugoslavia. Fanno parte del nuovo mondo digitale, potremmo definirli l’avanguardia di un migrante globale in grado di manifestarsi nel prossimo futuro non solo in Europa ma ovunque nel mondo". Come si può risolvere questa crisi? "È evidente che serve una strategia multilaterale, come quella delineata dal presidente della commissione europea Juncker per dare sollievo ai paesi che sono la prima linea dell’immigrazione, quali l’Italia. Il problema è la sindrome del discorso a vuoto. Alle istituzioni europee piace fare piani ambiziosi che spesso non vengono realizzati: vedi l’unione energetica, progetto di cui la Ue discute da 25 anni. Molti paesi europei mettono il proprio interesse davanti all’interesse collettivo dell’Unione, perciò il sistema non funziona". Che pericoli ci sono per l’Europa? "Non bisogna reagire istericamente, come ho detto, ma i pericoli sono seri. La crisi dei migranti può portare a divisioni e spaccature sempre più profonde tra il nord e il sud, e tra l’est e l’ovest, dell’Unione, e in teoria può minacciarne addirittura il collasso. La soluzione dipende dalla possibilità che un piano d’azione Ue diventi realtà, insieme alla necessità di interventi di vario genere per stabilizzare la Siria. Il problema è che la questione della Siria si mescola ad altre tre crisi europee: la crisi più ampia dei migranti; la crisi dell’eurozona; e il conflitto in Ucraina. Faccio un esempio: è improbabile che si possa risolvere la guerra civile in Siria e giungere a una pacificazione senza la collaborazione della Russia, ma lo scontro con la Ue sull’Ucraina rende difficile che Putin collabori con l’Europa sulla Siria". Come influisce tutto ciò sul referendum sulla Ue indetto in Gran Bretagna entro il 2017? "L’uscita della Gran Bretagna dalla Ue diventa più probabile a causa della crisi dei migranti perché l’immigrazione è la questione principale che spinge avanti i no alla Ue, diventati per la prima volta maggioranza in un sondaggio, forse non per coincidenza, proprio in questi giorni. È una paura irrazionale e fondamentalmente erronea, perché gli immigrati sono una risorsa per il Regno Unito, ma a livello psicologico può avere l’effetto di portare Londra fuori dall’Europa. E al tempo stesso, se il primo ministro Cameron rifiuta di partecipare a un’azione globale europea nei confronti della crisi dei migranti, è verosimile che la Ue sarà ancora più intransigente nelle trattative con cui Cameron vorrebbe rinegoziare l’appartenenza britannica all’Unione". Immigrazione: la "Marcia" per i migranti dilaga da Venezia a tutta Italia di Antonio Sciotto Il Manifesto, 9 settembre 2015 Numerosissime le adesioni e le piazze parallele in tante città. Ci sono pure Cgil, Cisl, Uil e Fiom. A piedi nudi: "Noi stiamo dalla parte degli uomini scalzi, di chi ha bisogno di mettere il proprio corpo in pericolo per poter sperare di vivere o di sopravvivere". Si moltiplicano le adesioni alla Marcia delle donne e degli uomini scalzi di Venezia: già 300 organizzazioni e 1500 personalità del mondo della cultura, della politica e dello spettacolo hanno aderito all’appello in favore dell’accoglienza ai migranti, spiegano gli organizzatori. Ma l’11 settembre il corteo a piedi nudi non si terrà soltanto al Lido: verrà affiancato infatti da tante altre marce in molte città italiane, ieri sera erano già 46. Da Alessandria a Catania, da Genova a Pisa, da Forlì a Napoli, a Trento, a Volterra, passando per Roma. L’appuntamento veneziano è alle 17 al Lido Santa Maria Elisabetta, per marciare "fino al cuore della Mostra", mentre per gli altri cortei in contemporanea nel resto d’Italia l’elenco si può trovare sul blog in continuo aggiornamento don?neuo?mi?ni?scalzi?.blog?spot?.it. Parteciperanno, e stanno mobilitando ovviamente i loro iscritti, i tre sindacati confederali: la Cgil, tra i primi firmatari, ha aderito giovedì scorso, mentre lunedì sono arrivati gli ok di Cisl e Uil. E in piazza ci saranno anche le tute blu Fiom. L’idea è partita da un gruppo di artisti e personalità del mondo dello spettacolo, del giornalismo e della cultura, insieme a diverse associazioni: Lucia Annunziata, Marco Bellocchio, Gad Lerner, Elio Germano, Ascanio Celestini, Roberto Saviano, Andrea Segre. E ancora: Valerio Mastandrea, Jasmine Trinca, Fiorella Mannoia, Don Vinicio Albanese, Giulio Marcon, Toni Servillo, Mauro Biani. Con Amnesty, Terres des hommes, Emergency, Acli, Arci, Medici senza frontiere, Mani tese. "Noi stiamo dalla parte degli uomini scalzi - recita l’appello. Di chi ha bisogno di mettere il proprio corpo in pericolo per poter sperare di vivere o di sopravvivere. È difficile poterlo capire se non hai mai dovuto viverlo. Ma la migrazione assoluta richiede esattamente questo: spogliarsi completamente della propria identità per poter sperare di trovarne un’altra. Abbandonare tutto, mettere il proprio corpo e quello dei tuoi figli dentro a una barca, un tir, un tunnel e sperare che arrivi integro al di là, in un ignoto che ti respinge, ma di cui tu hai bisogno". Quindi la sollecitazione ad aprirsi a chi fugge, a soccorrerlo e ad accoglierlo: "Non è pensabile fermare chi scappa dalle ingiustizie, al contrario aiutarli significa lottare contro quelle ingiustizie. Dare asilo a chi scappa dalle guerre, significa ripudiare la guerra e costruire la pace. Dare rifugio a chi scappa dalle discriminazioni religiose, etniche o di genere, significa lottare per i diritti e le libertà di tutte e tutti. Dare accoglienza a chi fugge dalla povertà, significa non accettare le sempre crescenti disuguaglianze economiche e promuovere una maggiore redistribuzione di ricchezze". Via via sono arrivate tante altre adesioni: Ettore Scola, Francesca Comencini, Francesco Munzi (membro della giuria della Mostra del cinema di Venezia), Livia Turco, Pippo Civati, l’eurodeputata ed ex ministra per l’integrazione Cecile Kyenge, Eleonora Forenza dell’Altra Europa con Tsipras e Arturo Scotto di Sel. Ma ci sono anche don Luigi Ciotti di Libera, il gruppo Feltrinelli, la Casa delle donne di Roma, l’associazione Ong italiane, l’Asgi. Il coordinamento Comunità d’accoglienza ha deciso di tenere il suo consiglio nazionale a piedi scalzi. Da segnalare, tra le quasi 50 marce, quella che si terrà a Roma: perché parte dal Centro Baobab (via Cupa 5), dove tante volontarie e volontari assistono ogni giorno i migranti in transito per la capitale. La Cgil chiede che l’Europa "costituisca una politica europea dell’asilo", la Cisl "l’immediato superamento del Regolamento di Dublino, per un’accoglienza sicura e rispettosa dei diritti umani dei profughi". La Uil annuncia per l’11 settembre "una giornata di solidarietà e accoglienza in favore dei profughi e dei richiedenti asilo". Oggi a Roma la conferenza stampa di lancio della Marcia, con la presidente della Camera Laura Boldrini, le associazioni e gli artisti. Droghe: in Italia si è aperta una "finestra politica"? di Franca Beccaria (Sociologa, Eclectica, istituto di ricerca e formazione, Torino) Il Manifesto, 9 settembre 2015 Le politiche sulle droghe di un paese sono particolarmente sensibili all’influenza di fattori e soggetti esterni (convenzioni Onu, direttive europee, gruppi di pressione internazionali) e interni (soggetti portatori di interessi diversi) che esercitano la loro influenza sul processo decisionale e sull’implementazione delle politiche. In Italia il nuovo millennio è stato inaugurato con una svolta repressiva nella politica sulle droghe culminata nella legge Fini-Giovanardi del 2006, che è stata rafforzata da una straordinaria operazione di costruzione sociale del problema, avvenuta attraverso il braccio operativo del Dipartimento delle Politiche Antidroga (Dpa). Fino al 2014 il Dipartimento ha portato avanti un’intensa attività di "animazione del problema" (produzione bulimica di materiale informativo rivolto alla popolazione e agli operatori del settore), una sistematica operazione di "dimostrazione del problema" (divulgazione selettiva di dati e letteratura scientifica a sostegno di tesi predefinite) e la costante ricerca di "legittimazione del problema" ottenuta anche attraverso il suo Comitato scientifico, costituito da esperti in maggioranza americani, con sovra-rappresentanza delle neuroscienze e della farmacologia e totale assenza di epidemiologi, sociologi e antropologici, per misurare e monitorare la dimensione del fenomeno e i suoi cambiamenti, e di professionisti della cura delle dipendenze. La costruzione del problema, piegata agli orientamenti ideologici del momento, è avvenuta anche attraverso la distribuzione dei fondi previsti dalla legge, in gran parte destinati a progetti sui danni della cannabis sul cervello. Cosa succede oggi? È ragionevole ipotizzare che ci troviamo di fronte a una finestra politica, un intervallo temporale in cui si verificano condizioni e opportunità per la formulazione di una nuova politica. Dal punto di vista del problema, il consumo può essere considerato normalizzato, non solo per la sua diffusione, ma anche per la sua crescente accettabilità sociale e riduzione dello stigma del consumo a uso ricreativo. Dal punto di vista delle politiche molte Regioni hanno approvato l’uso terapeutico della cannabis e per la prima volta è stata presentata una proposta di legge per la sua legalizzazione da parte di un ampio gruppo interparlamentare. Inoltre il quadro politico potrebbe essere particolarmente favorevole al cambiamento: un governo di diverso orientamento politico, intense attività di lobby portate avanti da gruppi di interesse, tra i quali troviamo anche le associazioni dei consumatori di canapa, il cui attivismo è piuttosto recente sulla scena italiana. A tutto ciò si aggiunga quanto sta avvenendo nell’arena internazionale, con i cambiamenti normativi che stanno rapidamente cambiando lo scenario americano, la nuova legge uruguaiana, le sperimentazioni europee e l’attività di sensibilizzazione a favore della legalizzazione delle droghe portata avanti dagli autorevoli componenti della "Global Commission on Drug Policy". Basterà tutto ciò a superare le divergenze ideologie che hanno caratterizzato i discorsi sulle droghe nel nostro paese? Le opportunità per aprire una finestra politica che faccia entrare luce e porti all’archiviazione dell’oscurantismo dell’ultimo decennio ci sono. È importante però che non si resti abbagliati solo dalla questione cannabis, ma si colga questa policy window per una più ampia revisione normativa che includa i consumi di tutte le sostanze illegali e le risposte da dare a coloro che si trovano in situazioni problematiche, che, va ricordato, continuano a esistere. Filippine: Daniele Bosio, l’ambasciatore prigioniero dei giudici filippini dal 2014 di Errico Novi Il Garantista, 9 settembre 2015 L’ultimo rinvio risale ormai a quasi quattro mesi fa. All’udienza del 21 maggio, quando il ministro della Giustizia delle Filippine annuncia che per il caso dell’ambasciatore italiano Daniele Bosio va attivata la rarissima procedura dello "special prosecutor". In pratica la nomina di una figura dell’accusa istituita solo in casi eccezionali e per "vicende politiche di ampia portata nazionale". Si tratta invece di un’odissea giudiziaria iniziata l’ormai lontano 6 aprile 2014 per un presunto caso di pedofilia. Bosio, diplomatico della rappresentanza italiana nello Stato asiatico, avrebbe abusato di alcuni minori in occasione di una gita a un parco acquatico. Un’ipotesi smentita categoricamente dai genitori delle presunte vittime. Nelle loro testimonianze scritte, hanno dichiarato che l’ambasciatore portò semplicemente i bambini "a fare una nuotata". E che il passaggio nel residence dove Bosio alloggiava era necessario perché i bimbi potessero fare una doccia: si trattava di bambini di strada e se non si fossero messi in ordine non li avrebbero fatti entrare all’acqua park. Un gesto di umanità, ha sostenuto Bosio e hanno sempre confermato sia i minori che le loro famiglie. Un caso troppo appetitoso, probabilmente, per una Ong, la "Bahay Tuluyan" che campa di storie come questa. Sta di fatto che per il diplomatico, nella primavera dell’anno scorso, è iniziato un travaglio ancora lontano dal chiudersi. Da incubo la fase preliminare delle indagini: prima l’indagato si trova a firmare una sorta di rinuncia a ogni diritto costituzionale che sarebbe valida solo se compiuta alla presenza di un avvocato, diritto che Bosio si vede negato; da lì l’ambasciatore si trova in una cella di 30 metri quadri con 80 persone dentro, una specie di girone dantesco dal quale esce dopo 40 giorni solo per essere portato in ospedale, in seguito a complicanze renali. Scarcerato perché "non esistono prove sufficienti", il diplomatico vede ancora languire un processo che va a singhiozzo, forse, proprio perché non lo si riesce ad incastrare. Stati Uniti: nella campagna elettorale entra il dibattito sul dramma delle carceri di Matteo Luca Andriola linkiesta.it, 9 settembre 2015 I numeri dicono che bisogna fare qualcosa: gli Stati Uniti hanno diversi record mondiali, tutti negativi. Vuoi riformare il sistema carcerario? Se sei un politico negli Stati Uniti, questo è il mezzo migliore per guadagnare consensi e voti, specie in vista delle elezioni presidenziali per il 2016. La visita di Barack Obama al penitenziario di El Reno, in Oklahoma, a metà luglio, la prima fatta da un presidente in carica, ha riportato all’attenzione del pubblico americano il tema del sistema carcerario, uno dei più contraddittori e costosi del mondo. Il sistema carcerario americano è uno dei più contraddittori e costosi del mondo. Ad ogni 100 milioni di dollari spesi in costruzione, infatti, corrispondono 1,6 miliardi per costi operativi nei successivi trenta anni, con un costo annuo per l’erario di circa 80 miliardi di dollari, mentre ogni prigioniero costa circa trentamila dollari l’anno. Il tutto nonostante il 75 per cento delle strutture carcerarie sia gestito da privati, come la The Geo Group o dalla Corrections Corps of America. A fianco di questo, gli Stati Uniti d’America detengono uno dei primati più negativi a livello globale: con più di 2.250.000 persone in prigione, cioè 726 detenuti ogni 100.000 abitanti, uno ogni 138 americani, è la nazione che detiene il record mondiale d’imprigionati al mondo. Negli Usa ci sono circa 6.000 carceri, molte più di college e università, come riportava il 6 gennaio di quest’anno il Washington Post. Le cifre relative alla popolazione carceraria sono impressionanti: 100.000 detenuti in isolamento, 128.000 ergastolani, 100.000 i minorenni rinchiusi in riformatorio e 15.000 nelle prigioni per adulti. Con meno del 5 per cento della popolazione globale, gli Usa hanno il 25 per cento della popolazione carceraria mondiale. Poco meno di cinque milioni di persone (4.800.000) sono in libertà vigilata e ben 5 milioni sono coloro i cui nomi non figurano più nelle liste elettorali. E nelle carceri federali, con ben 700.000 detenuti, 400.000 sono in attesa di giudizio, in attesa dell’avvocato e nella speranza che gliene venga affidato uno d’ufficio. Un rapporto del 2006 stilato dal Dipartimento di Giustizia (Probation and Parole in the United States) sosteneva che un cittadino americano su 32 era al momento in carcere o sotto forme varie di custodia, una percentuale che corrispondeva a 7,2 milioni di statunitensi (con 2,3 milioni effettivamente imprigionati). Il boom di carcerati nelle strutture detentive americani, da 400.000 a oltre 2 milioni di detenuti, si è registrato dal 1980. Teniamo presente che il boom di carcerati nelle strutture detentive americani, da 400.000 a oltre 2 milioni di detenuti, si è registrato dal 1980, cioè dall’inizio della ‘rivoluzionè reaganiana, inducendo un corrispondente boom dell’edilizia carceraria, prevalentemente nell’America rurale, con la creazione di strutture situate in piccole cittadine, nei deserti e in angoli remoti con ampi spazi, lontano dai principali centri abitati. A questi dati sconcertanti - da confrontare con quelli di Paesi illiberali come la Cina popolare, con 1,6 milioni di carcerati, ma con una popolazione complessiva oltre quattro volte maggiore di quella degli Usa, o descritti come ‘autoritarì, come la Russia, che ha comunque percentuali più basse degli Usa, con 627 prigionieri ogni 100.000 abitanti - vanno aggiunte altre due questioni: quella etnica e quella sociale. Infatti, metà della popolazione carceraria negli States è di etnia afro-americana e proviene dai ceti più umili. Mentre il tasso di incarcerati bianchi è di 393 per 100.000, mentre per i neri è 2.531. Considerando solo i maschi, il tasso per i bianchi sale a 717, mentre per i neri arriva a 4.919, ma in vari Stati supera quota 10.000 - con cifre medie, dunque, di circa il 10 per cento dei maschi adulti e afro-americani per Stato sono incarcerati! Peggio ancora, il tasso d’incarcerazione per i giovani afro-americani è di 12.603 per 100.000 abitanti, contro il 1.666 dei loro coetanei bianchi: cifra comunque astronomica, che rende il carcere negli Stati Uniti, per questi giovani, una sorta di "rito d’iniziazione". Nel Paese in cui molti si arruolano come volontari, partendo nelle missini all’estero, per sfuggire alla miseria, anche nel braccio della morte la disparità è evidente: all’inizio del decennio corrente abbiamo 11 bianchi "giustiziati" per l’omicidio di un nero contro 202 afro-americani uccisi per l’omicidio di un bianco (un quarto di questi è stato condannato da giurie di soli bianchi). Inoltre, su un totale di quasi 1.000 esecuzioni, l’80 perc ento riguarda omicidi di bianchi, anche se in America il 50 per cento delle vittime degli omicidi è nero. Secondo diversi osservatori statunitensi, però, le cause di tali cifre non devono esser ricercate nel sistema economico americano o nell’effettiva discriminazione razziale che ancora caratterizza il paese (nonostante un presidente di colore, nonostante numerosi politici afro-americani in ambo gli schieramenti) quanto in precise scelte politiche fatte nel corso dei decenni. Si pensi alla War on Drugs, inaugurata dal repubblicano Nixon nel 1971, che ha avuto come risultato non solo un primo aumento di carcerazioni, ma l’impulso a creare nuovi carceri, riportava il Washington Post del 29 ottobre 2008. Infatti, nel 2004 i prigionieri detenuti per traffico di droga erano circa il 21 per cento nelle prigioni statali e il 55 per cento in quelle federali, spiegava un rapporto del Dipartimento di Giustizia dell’ottobre 2006. È quindi un tema che non può non essere affrontato in sede di campagna elettorale, anche solo per le spese statali. Quali sono le proposte dei principali candidati alla presidenza? In ambito repubblicano, l’esuberante e populista Donald Trump propone soluzioni draconiane contro il crimine, criticando la proposta di abbassare le sentenze minime per i reati non violenti - proposte da Obama dopo la visita al carcere, assieme ai vari programmi di prevenzione della criminalità e di recupero, la fine alla tolleranza per gli abusi, le violenze e gli stupri nelle prigioni. Jeb Bush, candidato papabile a rappresentare il Gop, pur non parlando apertamente della situazione dei detenuti civili nelle carceri americane, ha detto, a favore della sicurezza dei cittadini: "Sì alla tortura in alcuni casi estremi: può essere necessaria per rendere gli Stati Uniti più sicuri", un possibile deterrente per costringere i prigionieri presumibilmente legati ad Al Qaida a fornire informazioni e nomi. Hillary Clinton: "È tempo di chiudere l’era della carcerazione di massa". Invece, poco dopo la visita di Obama, la candidata democratica Hillary Clinton, dalle aule della Columbia University, ha detto che "è tempo di chiudere l’era della carcerazione di massa", aprendo così un dibattito bipartisan su un tema spendibile per la campagna elettorale per l’anno prossimo. Peccato che, come nel caso delle responsabilità belliche, molte scelte politiche che hanno portato alla situazione insostenibile da lei denunciata siano state fatte da suo marito, Bill, quando era alla Casa Bianca, dato che il governo, con la legge sul crimine del 1994, stanziò quasi 10 miliardi di dollari per costruire nuove prigioni, mentre quella del 1997 autorizzò il passaggio di armamenti militari ai dipartimenti di polizia locali, per un valore complessivo di 6 miliardi di dollari. Clinton infatti, per evitare l’accusa di essere "buonista" coi criminali - siamo all’inizio del mandato di Rudolph Giuliani, sindaco repubblicano di New York che darà il via alla politica anti-crimine della Zero Tollerance ("Tolleranza Zero"), elogiata dai conservatori di mezzo mondo - promosse linee guida più dure sulle sentenze e tagliò i fondi per l’educazione nelle carceri e quelli per la promozione di pene alternative. Ora, sembra che la candidata alla presidenza degli Stati Uniti voglia ritrattare quelle stesse leggi che il marito approvò, e che lei stessa avvallò. Diverse le posizioni di un altro candidato democratico, Martin ÒMalley, ex governatore del Maryland, che ha proposto di riformare i dipartimenti di polizia e, cosa non meno importante, abolire la pena di morte in tutto il territorio federale. "Il sistema di giustizia penale degli Stati Uniti ha un disperato bisogno di riforme. Per troppo tempo il nostro sistema giudiziario ha alimentato nel Paese una storia crudele di razzismo e disuguaglianza economica", scrive ÒMalley. Ha proposto poi di depenalizzare il consumo di marijuana, da non considerare più come una droga, altra causa importante degli arresti. Altro problema è il ripristino del diritto di voto per i detenuti, dato che la carcerazione dovrebbe aver scopo ‘rieducativò, non ‘punitivò ("Tutti coloro che hanno scontato la pena e rientrano nella società dovrebbero poter votare"). Le sue, però, non sono solo parole: quando governava il Maryland, stato notoriamente conservatore, la pena di morte riuscì ad abolirla nel 2013, definendola un "deterrente razzista e inefficace". Ha spiegato che "come Presidente, continuerò ad oppormi alla pena capitale e lavorerò per eliminare le condanne a morte dalle leggi federali". Le sue, però, non sono posizioni gettonate nell’elettorato: l’ex governatore del Maryland è ancora molto indietro rispetto a Hillary Clinton - e al senatore del Vermont Bernie Sanders. La campagna elettorale per il 2016 è ancora molto lunga, e il tema della riforma carceraria - vista la situazione vergognosa descritta all’inizio - potrebbe essere speso dai settori più liberal dei Democratici per affermarsi sui Repubblicani che promuovano ancora ricette law & order, magari cavalcando, come dopo l’11 settembre 2001, il tema del fondamentalismo islamico. Stati Uniti: scarcerata Kim Davis, la funzionaria che rifiuta di sposare i gay Askanews, 9 settembre 2015 Per la sua liberazione mobilitati i conservatori statunitensi. Torna libera Kim Davis, la cancelliera della contea di Rowan, in Kentucky, arrestata la settimana scorsa dopo che si era rifiutata in nome delle sue convinzioni religiose di rilasciare licenze matrimoniali alle coppie omosessuali. La notizia, giunta dopo una grande mobilitazione a suo favore, è stata resa nota dall’avvocato della donna. Per la sua liberazione era intervenuto anche il senatore Mike Huckabee, candidato repubblicano alle prossime presidenziali Usa. "Aveva accettato di andare in carcere per testimoniare la sua fede, ha detto Huckabee. In questo modo ha fatto scattare qualcosa in questo paese in cui la gente è stanca della tirannia giudiziaria che sopprime le libertà, confisca i diritti costituzionali fondamentali e li mette a rischio". La Davis, dal canto suo, non si è mostrata pentita della sua clamorosa presa di posizione. "Lascio solo a Dio la gloria, ha dichiarato dopo la scarcerazione davanti a una folla di sostenitori. Il suo popolo si è unito e voi siete un popolo forte e tenace. Noi serviamo un Dio vivente che conosce perfettamente come ciascuno di noi si comporta. La nostra lotta non si ferma. Non dobbiamo cedere perché Dio è qui presente". La Corte suprema statunitense, due mesi fa, ha sancito il diritto costituzionale di sposarsi anche alle coppie omosessuali. Da allora, la Davis si è appellata al suo diritto di non applicare la decisione dei giudici in nome della libertà religiosa in quanto riconoscere e consentire i matrimoni tra persone dello stesso sesso sarebbe un atto che resterebbe marchiato per sempre - ha spiegato il suo avvocato - nella sua coscienza. Burundi: rilasciati 14 cittadini ruandesi sospettati di spionaggio per conto di Kigali Nova, 9 settembre 2015 Le autorità del Burundi hanno rilasciato 14 dei 29 cittadini di nazionalità ruandese detenuti da alcuni mesi con l’accusa di spionaggio per conto del governo di Kigali. La decisione, secondo quanto riporta il sito d’informazione "Africa Review", è stata presa dopo che nei giorni scorsi il governo ruandese si era appellato a Bujumbura per il rilascio di tutti i detenuti ruandesi, accusando a sua volta le autorità burundesi per aver arrestato cittadini ruandesi. L’ambasciatore del Burundi in Ruanda, Alexis Ntukamazina, ha confermato che cittadini burundesi sono al momento detenuti in Ruanda, aggiungendo che i due governi stanno lavorando insieme per il loro rilascio. "Posso confermare che siamo a conoscenza di alcuni burundesi detenuti in Ruanda e stiamo lavorando per capire come risolvere questo problema", ha detto Ntukamazina, senza precisare il numero e le ragioni per cui sono stati arrestati. "Alcuni ruandesi in precedenza detenuti in Burundi sono già stati rilasciati. Sono fiducioso nel fatto che anche gli altri siano rilasciati e crediamo che la questione sarà risolta in breve tempo", ha aggiunto l’ambasciatore. Secondo fonti della sicurezza di Bujumbura, i cittadini burundesi sono stati arrestati tra l’aprile e l’agosto scorsi. La maggior parte di essi si sarebbero rifugiati, ma sospettati di essere spie o membri delle milizie Imbonerakure (i miliziani filo-governativi burundesi). Le relazioni diplomatiche tra Ruanda e Burundi sono peggiorate negli ultimi mesi dopo che Kigali ha espresso preoccupazione per le violenze nel paese, mentre il governo di Bujumbura ha accusato il Ruanda - che ospita oltre 70 mila rifugiati burundesi - di aver dato un rifugio sicuro ai membri dell’opposizione per consentire loro di riorganizzarsi per proseguire la loro battaglia contro il governo. Il governo ruandese ha sempre negato le accuse.