Giustizia: "juristocracy", una via per eludere la democrazia di Astolfo di Amato Il Garantista, 8 settembre 2015 Il tema dei rapporti tra giustizia e politica è tornato sulle prime pagine. Sono bastate le inaspettate critiche di Cantone verso alcuni aspetti dell’amministrazione della giustizia, per riportare l’argomento al centro del dibattito. E, dunque, aprire un nuovo round di scontri dialettici tra chi vuole che la magistratura rientri nei confini suoi propri e chi vede in ogni tentativo di definire i confini solo un modo per proteggere ladri e corrotti. La questione, tuttavia, di una corretta definizione dei rapporti tra giustizia e politica va inquadrata, per essere compresa appieno, in un fenomeno di portata ben più vasta, che coinvolge un numero crescente di paesi del mondo e che è segnata, al fondo, da una ridefinizione dei rapporti di forza nella società. Nella quale emerge il prevalere, su tutto e perciò anche sulle regole democratiche, delle élites tecniche. Del resto, anche il più grande filosofo italiano del nostro tempo, Emanuele Severino, ci ha a lungo avvertito che la tecnica, da mero strumento, si è fatta scopo, anzi il solo scopo, della nostra epoca. Piegando al suo servizio anche la democrazia e le sue regole. Non vi è da stupirsi, quindi, che si sia in presenza di un passaggio costante, ma inarrestabile, del potere dai politici ai tecnocrati. A questo fenomeno complessivo partecipa anche il mondo della giustizia. Il fenomeno, analizzato da alcuni studiosi anglosassoni, prende il nome di juristocracy (giuristocrazia). Una sorta di totalitarismo giudiziario, che vede capovolto il rapporto tra politica e giustizia. Nella classica concezione della democrazia, fonte di ogni legittimazione è il popolo. Ed anche il momento giurisdizionale è da esso che deve trarre la propria legittimazione. Il che avviene in forza del principio della prevalenza della legge, formatasi per volontà dei rappresentanti del popolo. Questo schema è cominciato a saltare nel momento in cui si è affermata la diretta prevalenza delle costituzioni sulla stessa volontà del legislatore. La costituzione che prevale, difatti, è quella che risulta dalla interpretazione dei giudici. Da quel momento la galoppata è stata inarrestabile. Essa ha avuto anche benefici effetti, soprattutto sul piano dei diritti civili, che hanno potuto avanzare più velocemente della evoluzione sociale. Il costo, tuttavia, è stato uno svuotamento progressivo del sistema democratico. Il quale vede inaridita la sua ragion di essere dalla circostanza che le sue funzioni restano ridotte a ben poca cosa, ove si tenga conto di quanto sia ormai deciso dagli organismi tecnici internazionali e, all’interno, dal sistema giudiziario. Occorre anche dire che il quadro complessivo che emerge è nient’affatto eterogeneo. Visto nel suo insieme esso appare pienamente funzionale ad accrescere il potere delle forze che guidano la globalizzazione. Il collante è costituito da una possibilità di manipolazione dell’opinione pubblica, che non ha precedenti e che certamente è in grado di orientare le scelte dei tecnocrati e, tra questi, anche dei giudici. Ad uno ad uno, difatti, sono stati distrutti i luoghi di elaborazione di idee forti. Così in Italia sono stati distrutti i partiti. Alla idea, nobile, della tolleranza è stata sostituita la prospettiva, morbida ed accattivante, del relativismo. Ma il relativismo non ha la forza morale di combattere e di opporsi. Ha l’effetto di un oppiaceo. È una manna per la globalizzazione. La giuristocrazia è perfettamente funzionale a tutto questo. Impedisce alla dimensione politica di elaborare strategie per il futuro, soprattutto impedisce di elaborare strategie che divergano dalle prospettive della globalizzazione, così come la stessa si sta sviluppando. La giuristocrazia rappresenta, anch’essa, uno strumento di appannamento delle coscienze. Attraverso le inchieste e la loro risonanza mediatica crea uno spettacolo che avvince e distrae. Basta pensare a quello che è successo con Craxi in Italia. La dimensione politica del suo progetto, il ruolo guida dei partiti socialisti dei paesi del mediterraneo, la rivendicazione dell’autonomia del paese nella vicenda di Sigonella, sono stati cancellati per lasciare posto alla immagine del ladro. Analoga, sotto il profilo che qui interessa, è stata la sorte di Andreotti e di molta parte della Democrazia Cristiana. Della cui autentica fedeltà ai valori democratici e della capacità di guidare il Paese nel ritorno alla libertà è restato uno sbiadito ricordo Ma, a ben vedere, analogo svuotamento vi è stato anche per le forze politiche che avevano una visione diversa e contrapposta, anch’esse cloroformizzate dalla giuristocrazia e private della loro stessa ragion d’essere. E, da allora, l’Italia è un paese sempre più debole nei flutti della globalizzazione, priva come è di una visione del proprio futuro. Giustizia: chiusura degli Opg, la difficilissima gestione dei detenuti malati psichici di Nadia Francalacci Panorama, 8 settembre 2015 Dopo la chiusura degli Opg sono stati trasferiti con i detenuti comuni ma le strutture non sono attrezzate. Con conseguenza drammatiche e pericolose. Orecchie e falangi delle mani strappate a morsi e sputate in terra. Materassi e abiti incendiati. Sanitari sradicati e poi ridotti in mille frammenti. È l’inferno delle carceri italiane che dopo la chiusura degli Ospedali Psichiatrici giudiziari, hanno visto "migrare" decine di detenuti malati di mente nelle strutture carcerarie ordinarie. E le celle già sovraffollate e talvolta in precarie condizioni igieniche, si sono trasformate in gironi infernali. A Treviso un detenuto psichiatrico ha azzannato la mano di un agente penitenziario e ha serrato le mandibole fino a quando non gli ha staccato di netto una delle falangi del dito. Poi l’ha sputata all’interno della cella. Stessa cosa è avvenuta nel carcere di Sanremo, dove solo la prontezza di riflessi di un altro agente ha permesso di trasportare in ospedale, un detenuto al quale era stata amputata con un morso una parte della mano, per fargliela nuovamente riattaccare. L’agente infatti, dopo aver estratto dalla bocca del detenuto il pezzo della mano della sua vittima, l’ha messa nel ghiaccio e poi portata assieme al ferito, all’ospedale. Stessa identica scena, in un carcere del Molise. Ma i problemi continuano. A Genova, un agente è stato aggredito e privato di una parte dell’orecchio dopo il morso di uno di questi detenuti. "È diventata una situazione insostenibile - spiega Michele Lorenzo, Segretario regionale del Sappe Liguria della Polizia penitenziaria - le carceri comuni sono diventate le succursali degli ospedali psichiatrici con conseguenze davvero inimmaginabili non solo per gli agenti di custodia ma anche per gli stessi detenuti". A seguito della chiusura ufficiale degli Opg, il carcere di Genova ha dovuto improvvisare due aree "psichiatriche" per sorvegliare i detenuti malati di mente sfrattati dagli ex Opg. "Il caso di Genova Marassi è indubbiamente quello più significativo di questa situazione - prosegue il segretario Lorenzo - la clinica psichiatrica interna al carcere ha un numero di posti letto limitati che dopo la chiusura degli ospedali psichiatrici è sempre esaurito. Ma quando arrivano altri detenuti con problemi mentali, il carcere non può rifiutarli e quindi l’amministrazione è costretta a liberare posti letto e a trasferire i soggetti pericolosi all’interno della IV sezione del carcere, ovvero in mezzo ai detenuti comuni". "Questi continui e costanti trasferimenti hanno fatto in modo che nel giro di pochi mesi, il carcere genovese diventasse una struttura carceraria con all’interno due aree psichiatriche abusive- continua- con delle conseguenze gravissime in termini di incidenti, aggressioni, infortuni e danneggiamenti". In poche settimane, un detenuto psichiatrico si è reso protagonista di ben 80 eventi critici che hanno causato danni a detenuti e alla struttura. "Quando un malato di mente decide di incendiare i propri abiti e il proprio materasso non crea un danno solo alla sua cella o a se stesso ma all’intero reparto - puntualizza Michele Lorenzo - e tutto questo sta accadendo perché non c’è stata una corretta programmazione prima della chiusura degli ospedali psichiatrici. E adesso le strutture carcerarie, già al collasso e con un numero di agenti ridotto e sottorganico, stanno implodendo". Giustizia: la paranza dei bambini nella guerra di Napoli di Roberto Saviano La Repubblica, 8 settembre 2015 Una faida generazionale dietro all’uccisione del ragazzo di 17 anni. Se vuoi terrorizzare un territorio senza iniziare una lunga guerra tra famiglie criminali, devi fare molte stese. "Fare le stese" significa correre sui motorini e sparare a tutto e tutti. Tutti si buttano a terra, stesi, perché terrorizzati, pietrificati. Poi se qualcuno lo stendi davvero, se lo ammazzi, è danno collaterale. Possibilmente da evitare perché le stese riuscite meglio non dovrebbero provocare danni collaterali. Ma se accade, accade. Ecco cosa sta succedendo a Napoli. Sparare su finestre, cancelli, vetri delle auto, con pistole semiautomatiche ma anche fucili d’assalto, l’Ak47, intramontabile e sempre amato dai clan napoletani. Le stese sono un modo per seminare terrore con un metodo da guerriglia psicologica, mettere paura e far abbassare la testa. Usano questa espressione, "fare la stesa" come stendere o far stendere una persona. "Stesa" come estendere il proprio dominio o come stendere un lenzuolo, una cappa, su un quartiere, vicolo per vicolo. Senza stese un gruppo dovrebbe intraprendere una faida in modo classico e faida significa investimenti, alti, in manovalanza: pali, pedinatori, sicari. Così viene gestito il centro storico di Napoli dai gruppi criminali: con il terrore. Che nessuno alzi la testa all’arrivo dei nuovi, che siate affiliati o piccoli pregiudicati per reati minori che con l’associazionismo criminale non hanno nulla a che fare. Eppure dopo la morte di Gennaro Cesarano, che sia lui o meno l’obiettivo del commando di fuoco, l’unico discorso che ha trovato spazio è stato se a morire sia stato un colpevole o un innocente. Attributi che in quel territorio hanno perso senso, se mai ne hanno avuto uno. Come può un ragazzo di 17 anni se ritenuto colpevole generare quel senso di distanza e repellenza che si ha come quando si accumulano i cadaveri criminali di una nuova guerra di camorra. Se a quell’età muori in strada ucciso perché bersaglio di una paranza di fuoco vuol dire che il fallimento è andato ben oltre i proclami e le possibilità di riscatto di un territorio. È inutile presentare Napoli come un progetto lungimirante, è senza risorse e finanche senza idee: la speranza alimentata dal governo della città e dal governo di Roma in questo caso si chiama inganno. In un contesto del genere non resta che parlare di colpevolezza e innocenza, perché colpevole il morto, assolti noi che ne leggiamo, ne parliamo, ne scriviamo. Colpevole il morto vale la regola più abusata e falsa del "si uccidono tra loro". Sul morto per caso, sul morto innocente ancora esistono residuali moti di empatia ci si sente costretti a prendere parte, a decidere. Ecco perché ogni volta è la stessa attesa: ma stava in mezzo o non c’entrava? La mia risposta ora è: 17. 17 anni! E invece è per ogni colpevole che cade e si affilia si perde ogni possibilità di percorso altro e se il presunto colpevole è un diciassettenne, allora forse ci si soffermerà qualche attimo in più a considerare ciò che sta accadendo: il mezzogiorno italiano è nel pantano e solo una rivoluzione meridionale può sperare di modificare le cose. Uso l’espressione "rivoluzione meridionale" di Guido Dorso le cui pagine oggi sono persino più attuali di quando le scrisse su invito di Piero Gobetti nel 1925: "No, il Mezzogiorno non ha bisogno di carità, ma di giustizia; non chiede aiuto, ma libertà. Se il mezzogiorno non distruggerà le cause della sua inferiorità da se stesso, con la sua libera iniziativa e seguendo l’esempio dei suoi figli migliori, tutto sarà inutile". Ma quale libertà oggi viene data? Luigi Galletta, 21 anni, meccanico di Forcella, questa estate è stato ucciso per essersi rifiutato di truccare dei motorini sapendo che avrebbero fatto parte delle paranze che giravano per uccidere. Non voleva stare in mezzo ai guai, un’etica scelta per istinto; la mattina lo hanno massacrato di botte e il pomeriggio lo hanno ucciso. Anche in quel caso tutti i discorsi furono sul suo essere innocente o colpevole: davvero si era rifiutato o lavorava invece per i nemici di chi l’ha ucciso? Nel dubbio se piangere un morto o sputarci sopra ci si è dimenticati della sua storia. Innocente o colpevole? Sputtani Napoli o ne canti lodi? Si esaurisce il discorso su Napoli e su intere aree in cui ormai c’è guerra. Mi ha colpito il commento di Francesco Ebbasta, regista e anima dei Jackal, ragazzi che hanno fatto di Napoli, con la loro capacità di fare video online, un nuovo polo creativo. Loro che non si sono mai occupati di questi temi, hanno scritto che "bisogna accettare la realtà dei fatti per quella che è: siamo dei poveretti". Poveretti perché a Napoli si preferisce ignorare la realtà, perché due ragazzi armati che ne mettono in fuga duecento in piazza Bellini, la piazza più frequentata della città, sono il peggior ufficio stampa possibile. Il sindaco De Magistris invoca il governo che promette di inviare rinforzi armati, senza capire che militarizzare significa creare ulteriori tensioni. Alfano manderà 50 poliziotti. Ma davvero credete sia sufficiente? Ora l’unico lavoro di polizia che davvero avrebbe un senso sarebbe quello di intelligence per provare a capire che direzione sta prendendo questa guerra e poi mandare 50 progetti sociali veri, 50 idee nuove per sollevare da pressione fiscale e burocrazia le aziende del sud. Con 50 poliziotti sapete cosa succederà? Che Napoli si riempirà di posti di blocco che verranno accusati di fermare chi non porta il casco mentre gli affiliati - si dirà - hanno sentinelle e sanno dove non passare e anzi riceveranno ancora una più allargata simpatia della gente. Mentre va in scena l’ennesima pantomima tra politica cittadina e nazionale, ciò che resta è un dato di fatto sconcertante: questa nuova ondata di violenza ci dice che le organizzazioni criminali rimangono tra i pochi ambiti di crescita economica che la città offre. Ora la faida è tra le nuove generazioni: l’alleanza tra clan di Forcella e dei Quartieri Spagnoli è voluta da una parte della Sanità e osteggiata da un’altra e il campo si apre a tutti quei ragazzi che si sono addestrati sparando sui tetti contro le antenne paraboliche, quei minorenni che da un’inchiesta della Dda di Napoli vengono definiti "la paranza dei bambini". Le loro famiglie spesso non sono neanche di camorra, non appartengono al Sistema, sono lavoratori talvolta con precedenti penali senza l’aggravante dell’associazionismo mafioso. A questo proposito è interessante, per descrivere il contesto, ascoltare cosa dicono i familiari del ragazzo ucciso: aveva un precedente ma qui tutti chi per un motivo, chi per un altro, hanno avuto a che fare con la giustizia. Come se alla Sanità sia più normale che altrove commettere reati. E se non fossero gli abitanti stessi a dirlo potremmo essere accusati di voler diffamare il quartiere, eppure risulta evidente che dove non ci sono prospettive non c’è scelta. Del resto, la giovanissima età della nuova paranza ci dice chiaramente che c’è voglia e quindi necessità di fondare da zero una nuova generazione mafiosa. Una generazione che è figlia del suo tempo, che porta barbe lunghe da hipster e che comunica su Facebook, che si fa assolvere su Facebook da una platea di "amici" che è lontana dallo stigmatizzare finanche gli omicidi. Sulla bacheca di Gianluca Ianuale, uno degli assassini dell’uomo ucraino, Anatolij Karol, ucciso a Castello di Cisterna per aver tentato di sventare una rapina in un supermercato, ci sono frasi di vicinanza, di comprensione, talvolta ramanzine come si farebbero a un amico che si è ubriacato la sera prima. Ma nessuno che abbia preso le distanze. Ebbene lui ha ammazzato una persona e gli si dà solidarietà. La vicinanza che si dà a una persona che ha compiuto un crimine efferato come un omicidio arriva da un territorio che mette in conto che possa accadere. Ecco perché quel territorio ha gli strumenti per riuscire a metabolizzare un omicidio e riesce a trovare le parole "giuste", parole di circostanza. I più qualunquisti definiscono "sputtanapoli" chiunque osi raccontare ciò che accade in città, mentre loro, comodamente seduti nelle varie esaltazioni identitarie, lo sport, il mare, la pizza, la simpatia - galli sulla monnezza mi verrebbe da dire utilizzando un’espressione napoletana - ignorano ciò che accade a due passi. Tutto questo succede mentre le organizzazioni puntano ormai sui giovani. Le famiglie del passato hanno optato per una strategia doppia, da un lato il pentimento dall’altro lasciar dominare le nuove leve. Quando prenderanno il potere si siederanno sulle spalle di questi nuovi principi. I nuovi combattenti di camorra ricevono dalle vecchie famiglie armi e una volta mostrato di saper sparare e di saper gestire avranno l’incoronazione ad essere i vicari dei soliti re. I clan storici investono fuori e risolvono i guai giudiziari collaborando con la giustizia e spesso in cambio riescono a salvaguardare il proprio patrimonio come è accaduto alla villa di Pasquale Galasso definito il castello della camorra a Miasino, vicino a Novara, confiscato ma ancora gestito dai parenti del boss. Eppure è tutto ancora all’inizio; la morte di Ciro Esposito, figlio di Pierino il boss della Sanità, non è stata ancora vendicata, quindi la risposta della Sanità deve ancora venire (avevano provato ma la paranza partita per vendicarsi è stata arrestata). Napoli somiglia sempre di più a quella che era la città degli anni 80 e questi ragazzini ne mostrano il fallimento. Di questo sud non si parlerà ancora per molto: non porta voti, non genera consenso internazionale. Ma qui lo Stato, che dovrebbe amministrare, dare giustizia, organizzare l’educazione non è la politica o le forze dell’ordine. Lo Stato in questi posti è la Fondazione di Comunità San Gennaro voluta da don Antonio Loffredo il cui obiettivo è creare un’opportunità di lavoro attraverso la promozione della cultura, in alternativa alla strada. Lo stato è la Rete voluta da Alex Zanotelli, lo Stato è l’Orchestra Santainsamble dei bambini del Rione Sanità voluta dall’associazione l’Altra Napoli di Ernesto Albanese (suo padre fu ucciso mentre lo stavano derubando della pensione). Lo Stato è la Fondazione Pavesi che organizza corsi gratuiti di teatro per bambini. Lo Stato è il Nuovo Teatro Sanità di Mario Gelardi che offre uno spazio dove poter tentare di trascendere la propria quotidianità. Non pensare solo a soldi, sopravvivenza, e buffonerie. Ma provare a imparare, divertirsi, misurarsi. Tutto questo sta facendo lo Stato senza armi e senza codice penale contro la paranza dei bambini, il peggior prodotto di una terra dimenticata contesa tra disperati e indifferenti. E le lacrime di dolore che tracimano da queste storie nascono dalla difficoltà di resistere e non dalla celebrazione del lamento. È questa la differenza tra il pianto e il piagnisteo che in molti dovrebbero imparare a capire per capire questo sud. Giustizia: ecco le tre faide che insanguinano il cuore di Napoli di Dario Del Porto La Repubblica, 8 settembre 2015 Centro storico, zona est ed ovest: la posta in gioco e i clan che si scontrano senza esclusione di colpi. La guerra nel cuore di Napoli. Almeno tre faide attraversano la città: in pieno centro, come nella periferia occidentale e in quella orientale del capoluogo. A Forcella, le "paranze dei bimbi" che si contendono il quartiere stanno scrivendo nuovi capitoli di un romanzo di sangue che ha forse aggiunto un’ultima pagina in piazza Sanità, domenica mattina all’alba, con l’omicidio dei diciassettenne Gennaro Cesarano, ucciso davanti alla chiesa di San Vincenzo. Ma sale pericolosamente la tensione tra Rione Traiano e Soccavo dove in via Epomeo è stata rinvenuta addirittura una bomba a mano, che è stata fatta brillare dai carabinieri. E si spara anche a est, dove sabato sera, all’uscita di un negozio di via Camillo De Meis, è stato ucciso il trentenne Antonio Simonetti. Segnali preoccupanti, che hanno spinto il ministro dell’Interno Angelino Alfano ad inviare in fretta e furia altri 50 uomini di polizia e carabinieri per controllare il territorio, prendendo così atto che, in questo momento, esiste un’emergenza che va ben al di là della semplice "percezione" di cui spesso si fanno scudo gli addetti ai lavori. Anche la Procura è al lavoro con grande impegno. Ieri, al quinto piano del grattacielo del Centro direzionale, poliziotti e carabinieri hanno incontrato il procuratore aggiunto Filippo Beatrice, che coordina il pool anticamorra. Magistrati e investigatori hanno tracciato un punto della situazione alla luce degli ultimi eventi sui quali mantiene alta l’attenzione anche il procuratore della Repubblica Giovanni Colangelo, che meno di un mese fa aveva lanciato l’allarme sull’impennata del crimine organizzato davanti alla commissione parlamentare Antimafia presieduta da Rosy Bindi. Nei prossimi giorni i commissari di Palazzo San Macuto saranno a Napoli per una missione. Intanto nelle strade si continua a morire. A Forcella è guerra senza quartiere tra il gruppo Sibillo-Giuliano-Brunetti-Amirante, contrapposto agli eredi della storica famiglia Mazzarella e indebolito prima dall’inchiesta coordinata dai pm Henry John Woodcock e Francesco De Falco, poi dall’omicidio del diciannovenne Emanuele Sibillo, che era riuscito a sfuggire alla cattura. È ancora latitante invece il fratello di Sibillo, Pasquale detto "Lino", sulle cui tracce c’è la squadra mobile diretta da Fausto Lamparelli. Lo scontro ha già provocato una vittima innocente, il meccanico Luigi Galletta, di 21 anni, incensurato e risultato estraneo alle dinamiche malavitose. Gli inquirenti non escludono che le fibrillazioni in atto a Forcella possano essersi estese anche nella zona della Sanità, dove sono presenti i gruppi Sequino e Lo Russo. Nel quartiere di Totò stati consumati due omicidi in pochi giorni, quello del 67 enne Pasquale Ceraso e quello di Gennaro Cesarano, di 17 anni, che secondo familiari e amici è stato colpito per errore durante la sparatoria. Su questi due omicidi indaga il pm Enrica Parascandolo, è ancora presto per capire se stia per scoppiare una faida autonoma, rispetto a quella di Forcella, o se si tratti di episodi riconducibili a matrici diverse. C’è certamente la droga al centro della violenta contrapposizione in atto nell’area del Rione Traiano, dove secondo quanto emerso dalle più recenti indagini dei carabinieri del Nucleo operativo diretto dal maggiore Di Costanzo si contrappongono le nuove leve del gruppo Puccinelli e i Vigilia di Soccavo. Spaventano, in particolare, gli eventi che si sono susseguiti negli ultimi giorni: sabato scorso sono stati esplosi in strada, in via Tertulliano, 60 proiettili colpi di mitra e pistole, altri 21 bossoli sono stati ritrovati ieri in via Catone e infine labomba a mano, che è stata fatta brillare dai carabinieri. E si fa allarmante il quadro nella zona orientale, dove i contrasti mai sopiti tra i gruppi D’Amico e De Micco potrebbero essere alla base dell’ultimo agguato. Tre faide, forse quattro, che fanno battere di paura il cuore di Napoli. Giustizia: processo Meredith. La Cassazione "clamorosi errori nell’inchiesta" La Repubblica, 8 settembre 2015 Le motivazioni della sentenza di assoluzione di Amanda Knox e Raffaele Sollecito dall’omicidio della studentessa inglese a Perugia. "Sono sollevata" ha commentato la giovane da Seattle. A carico di Amanda Knox e Raffaele Sollecito - accusati dell’omicidio di Meredith Kercher - manca un "insieme probatorio" contrassegnato "da evidenza oltre il ragionevole dubbio". Lo sottolinea la Cassazione nelle motivazioni dell’assoluzione dei due ex fidanzati depositate stamani dalla Quinta sezione penale della Suprema Corte. I due erano stati assolti dalla Quinta sezione penale della corte di Cassazione presieduta da Gennaro Marasca il 27 marzo scorso. Solo la Knox era stata condannata a tre anni per il reato di calunnia, pena già scontata. Oggi le motivazioni. Il processo per l’uccisione di Meredith Kercher ha avuto "un iter obiettivamente ondivago, le cui oscillazioni sono, però, la risultante anche di clamorose defaillance o ‘amnesiè investigative e di colpevoli omissioni di attività di indagine". Ad avviso della Suprema Corte, se non ci fossero state tali defaillance investigative, e se le indagini non avessero risentito di tali "colpevoli omissioni", si sarebbe "con ogni probabilità, consentito, sin da subito, di delineare un quadro, se non di certezza, quanto meno di tranquillante affidabilità, nella prospettiva vuoi della colpevolezza vuoi dell’estraneità" di Knox e Sollecito rispetto all’accusa di avere ucciso la studentessa inglese Meredith Kercher a Perugia il 1 novembre 2007. È un dato "di indubbia pregnanza" a favore di Knox e Sollecito - "nel senso di escludere la loro partecipazione materiale all’omicidio, pur nell’ipotesi della loro presenza nella casa di via della Pergola" - la "assoluta mancanza di tracce biologiche a loro riferibili" nella stanza dell’omicidio o sul corpo della vittima. Nel "percorso travagliato ed intrinsecamente contraddittorio" del processo per l’omicidio Kercher c’è un "solo dato di irrefutabile certezza: la colpevolezza di Amanda Knox in ordine alle calunniose accuse nei confronti di Patrick Lumumba". La sentenza rileva che la calunnia è stata confermata dalla stessa Knox in un contesto "immune da anomale pressioni psicologiche". Per questo "una eventuale pronuncia della Corte di Giustizia Europea favorevole" al ricorso nel quale la Knox ha denunciato "un poco ortodosso trattamento degli investigatori nei suoi confronti", non potrebbe "in alcun modo scalfire" il definitivo passaggio in giudicato della sentenza di colpevolezza per la calunnia, "neppure in vista di possibile revisione della sentenza, considerato che le calunniose accuse che la stessa imputata rivolse al Lumumba, per effetto delle asserite coercizioni, sono state da lei confermate anche innanzi al pm, in sede di interrogatorio, dunque in un contesto istituzionalmente immune da anomale pressioni psicologiche". Nelle motivazioni della Cassazione si fa riferimento anche a come è stata trattata la vicenda sui media: "L’inusitato clamore mediatico" del delitto Kercher e i "riflessi internazionali" non hanno "certamente giovato alla ricerca della verità" provocando una "improvvisa accelerazione" delle indagini "nella spasmodica ricerca" di colpevoli "da consegnare all’opinione pubblica internazionale". Per la Cassazione sarebbe inutile processare nuovamente Amanda Knox per il delitto Kercher dato che è "negativa" la risposta sulla "possibilità oggettiva" di condurre ulteriori accertamenti che "possano dipanare i profili di perplessità, offrendo risposte di certezza". Questo anche perché i pc della Knox e della vittima "che forse avrebbero potuto dare notizie utili, sono stati, incredibilmente, bruciati da improvvide manovre degli inquirenti" e le tracce biologiche sono di "esigua entità" per essere rianalizzate. Le reazioni. "Sono molto sollevata e contenta". È il commento di Amanda Knox he la giovane ha fatto al telefono dagli Usa con uno dei suoi difensori, l’avvocato Carlo Dalla Vedova. Nonostante a Seattle siano ancora le prime ore della giornata la Knox ha già letto la sentenza. "Sono molto contenta - ha detto al suo legale - perché in queste motivazioni ci sono tutte le cose che abbiamo sempre sostenuto" "La Cassazione conferma una volta di più che Raffaele Sollecito è stato processato per anni e tenuto in carcere da super-innocente": l’avvocato Giulia Bongiorno, difensore dell’ingegnere pugliese, commenta così le motivazioni della Cassazione. Parole che per la penalista "rendono ancora più bella" quella sentenza e "prende a bastonate gli errori compiuti nelle indagini". Una sentenza importante e coraggiosa" ribadisce l’avvocato Bongiorno. "Esclude in modo categorico - aggiunge - la responsabilità di Sollecito e ha il coraggio di sottolineare la gravità degli errori investigativi. Belle parole in ogni rigo che danno ragione alla difesa e fanno comprendere la gravità dell’errore giudiziario". A dire la sua è anche Patrick Lumumba: "Perché Amanda: mi ha calunniato?", si chiede. "Di tanti che sono stati interrogati nel corso delle indagini solo lei è stata accusata di questo reato" dice parlando con l’Ansa. "Amanda Knox - afferma Lumumba - mi ha rovinato, moralmente, fisicamente ed economicamente". Per il legale della famiglia di Meredith Kercher, l’avvocato Francesco Maresca, la sentenza della Cassazione "dimostra la volontà da parte della giustizia italiana di mettere la parola fine su questa vicenda in ogni modo". "Rimangono in noi e nella famiglia - ha detto ancora l’avvocato Maresca - incertezze ma le sentenze vanno rispettate e noi lo faremo. Tenendoci i nostri dubbi". "Leggendo le motivazioni della sentenza - ha sottolineato ancora il legale di parte civile - si ricava immediatamente la sensazione che la Corte si sia limitata a un elenco scolastico degli elementi che ha ritenuto di una certa rilevanza ma non in grado di assumere la forza di indizi per arrivare a una condanna. Nulla di nuovo sotto al sole". Giustizia: Meredith, un’inchiesta sbagliata che sconvolge tante vite di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 8 settembre 2015 Gli errori nell’indagine hanno compromesso la possibilità di arrivare alla verità. Sono impietosi i giudici della Corte di Cassazione nella scelta dei termini per descrivere le indagini sul delitto di Meredith Kercher e motivare l’assoluzione definitiva di Amanda Knox e Raffaele Sollecito. Perché arrivano a parlare di "amnesie investigative" e di "colpevoli omissioni", ma soprattutto perché chiaramente evidenziano come un’attività seria e accurata avrebbe consentito di raggiungere la verità su quanto accadde la notte del primo novembre 2007 nella villetta di via della Pergola a Perugia. E così rendere giustizia a lei e alla sua famiglia. I genitori e i fratelli di Mez non sapranno mai perché la loro ragazza bella e solare, venuta in Italia per studiare, abbia trovato la morte in una maniera tanto assurda. Quegli "errori gravi" e quelle "scelte discutibili" dei pubblici ministeri e degli investigatori hanno compromesso per sempre il loro diritto a conoscere l’identità dell’assassino e dei suoi eventuali complici. Eppure un appiglio era stato fornito proprio da Amanda, durante la famosa notte trascorsa in questura quando nulla ancora si sapeva dell’omicidio, e lei descrisse le fasi del delitto accusando ingiustamente Patrick Lumumba "in un contesto immune da anomale pressioni psicologiche", mettendolo al posto di Rudy Guede. È bene tenere a mente l’evoluzione di questo processo per comprendere che sbagli, anche apparentemente non gravi, rischiano di compromettere l’esito di un’intera inchiesta. Le moderne tecniche scientifiche possono fornire un supporto formidabile, ma deve appunto trattarsi di un supporto. Credere che tutto possa essere affidato ai risultati di test e analisi è un’illusione che può generare gravissime conseguenze. Bisogna ricordarsi che la ricerca della verità coinvolge tutti i protagonisti: parti lese, imputati, semplici testimoni. E dunque bisogna essere cauti, evitando di travolgere, spesso irreparabilmente, le loro esistenze. Giustizia: requisiti doc per gli avvocati, partita Iva e trattare almeno cinque affari l’anno di Gianni Macheda Italia Oggi, 8 settembre 2015 Per continuare a stare nell’albo degli avvocati, i legali dovranno avere uno studio, il telefono, la partita Iva e trattare almeno cinque affari l’anno. Ma anche la posta elettronica certificata, la polizza assicurativa, l’avvenuto pagamento dei contributi dovuti all’ordine e alla Cassa di previdenza e l’essere in regola con l’aggiornamento professionale saranno tra i requisiti richiesti. Solo in presenza di tutto ciò, l’esercizio della professione avverrà in modo effettivo, continuativo, abituale e prevalente. Consentendo, appunto, la permanenza nell’albo. Attenzione, però: situazioni particolari, quali per esempio la crisi economica o problemi personali, possono evitare la cancellazione. A prevederlo è lo schema di decreto ministeriale concernente il "Regolamento recante disposizioni per l’accertamento dell’esercizio della professione, a norma dell’art. 21, comma 1, della legge 31 dicembre 2012, n. 247", che il ministero della giustizia, dopo averlo fatto avere al Consiglio nazionale forense per il placet (si veda ItaliaOggi del 4 e del 16 febbraio scorso), ha inviato al Consiglio di stato. Il quale, nell’adunanza del 27 agosto scorso, ha dato parere favorevole con alcune osservazioni. La legge di riforma forense affida allo schema di regolamento il compito di stabilire le modalità di accertamento dell’esercizio effettivo, continuativo, abituale e prevalente della professione, le eccezioni consentite e le modalità per la reiscrizione del professionista cancellato dall’albo. I requisiti individuati - si legge nell’articolato (si veda tabella in pagina) - devono ricorrere congiuntamente, vale a dire che l’esercizio della professione può dirsi effettivo solo se essi sussistono tutti. Possono tuttavia essere autocertificati, quindi comprovati nelle forme di cui agli articoli 46 e 47 del dpr 445/2000, con dichiarazioni sostitutive da sottoporre comunque a controllo a campione. L’art. 3 dello schema di decreto, ormai in dirittura d’arrivo, prevede che l’accertata mancanza dei requisiti comporta la cancellazione dall’albo del professionista. L’avvocato può però dimostrare che uno o più dei requisiti previsti non sussistono per la presenza di giustificati motivi. Questi possono essere sia di ordine oggettivo sia soggettivo, "in modo da dare rilevanza sia a casi di crisi economica diffusa sul territorio ovvero attinenti a mercato rilevante per il professionista oggetto dell’accertamento, sia a eventi che si riferiscono alla persona di quest’ultimo", specifica il provvedimento. Il riscontro sulla presenza dei requisiti, e quindi l’accertamento della effettività, continuatività, abitualità e prevalenza dell’esercizio professionale va fatto ogni tre anni dal consiglio dell’ordine territoriale. Deve riguardare anche gli avvocati stabiliti, ma non i giovani avvocati. Sono infatti sottratti all’accertamento della effettività dell’esercizio coloro che hanno un’anzianità di iscrizione all’albo inferiore a cinque anni e gli avvocati iscritti alla sezione speciale di cui all’articolo 6 del dlgs n. 96 del 2001. Per quanto riguarda la reiscrizione all’albo, essa riguarda l’avvocato che ha subito un provvedimento di cancellazione. Due i diversi limiti temporali definiti ai fini della nuova iscrizione in relazione ai requisiti la cui mancanza ha dato luogo alla cancellazione. Quando la cancellazione ha avuto luogo per mancanza del requisito del numero minimo di cinque affari per anno ovvero di quello relativo all’aggiornamento professionale obbligatorio, la reiscrizione può aver luogo non prima che siano decorsi 12 mesi dal momento in cui la delibera di cancellazione è divenuta esecutiva. Cioè il tempo minimo occorrente per acquisire effettivamente i requisiti. In tutti gli altri casi la reiscrizione all’albo può avere luogo anche subito dopo la cancellazione e sempre che il professionista sia venuto in possesso dei requisiti mancanti. Va ricordato che la procedura di cancellazione dall’albo è costruita sul contraddittorio con l’interessato. Il Consiglio dell’Ordine invita l’avvocato, a mezzo Pec o con lettera raccomandata con avviso di ricevimento, a presentare eventuali osservazioni entro un termine non inferiore a 30 giorni. L’avvocato che ne fa richiesta è ascoltato personalmente, mentre la delibera di cancellazione è notificata entro 15 giorni all’interessato. Se cambia il giudice, testi da risentire di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 8 settembre 2015 Nullità. Per la semplice lettura nel corso del procedimento delle deposizioni già rese serve il consenso anche implicito degli imputati. Se cambia uno dei componenti del collegio giudicante, le deposizioni testimoniali possono essere utilizzate solo con il consenso delle parti. In caso contrario si configura una nullità di ordine assoluto che può essere rilevata in ogni ordine e grado di giudizio. Lo puntualizza la Corte di cassazione con la sentenza n. 36012 della Seconda sezione penale depositata ieri. La Cassazione ha così annullato la sentenza di primo grado e quella di appello emesse dal tribunale di Carini e dalla Corte di appello di Palermo in una vicenda che aveva visto emesse in primo grado e confermate nel grado successivo le condanne a 2 anni e 2 mesi per ricettazione nei confronti di due uomini. Nel corso del giudizio di primo grado era cambiato l’organo giudicante e non era stato prestato consenso alla lettura delle deposizioni testimoniali acquisite sino a quel momento. Nonostante questo esplicito dissenso, veniva fatta salva l’istruttoria dibattimentale arrivando comunque a decisione. In appello veniva invece disposta una, solo parziale, rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, procedendo all’audizione di 3 dei 4 testi sentiti in primo grado. La Cassazione, nell’affrontare la questione, ricorda che l’acquisizione delle dichiarazioni attraverso la semplice lettura, nel caso di cambiamento della persona del Giudice, è ammessa solo con l’assenso delle parti. Consenso che può anche non essere espresso in modo formale, ma risultare almeno da comportamenti concreti e attraverso semplice acquiescenza. Tuttavia, nel caso esaminato, l’assenso non è c’è mai stato, neppure in forma implicita, e in questo modo si è provocata una nullità assoluta che non può essere rimediata, come invece ha ritenuto di fare la Corte d’appello, attraverso una rinnovazione, oltretutto solo parziale, delle dichiarazioni rese in precedenza. In questo modo, gli imputati sono stati giudicati da un collegio diverso da quello che ha partecipato all’istruttoria dibattimentale, e questo riguarda il processo di primo grado, e, nei fatti, privati di un grado di giudizio. Inevitabile quindi un doppio annullamento che investe entrambe le pronunce. Nei motivi alla base dei ricorsi presentati dalle difese aveva anche trovato posto comunque, anche se non affrontata specificamente, la bizzarra decisione della Corte d’appello di non procedere a risentire la persona offesa dal reato, deposizione che invece in primo grado era stata possibile prima del cambiamento dell’organo giudicante. La sospensione condizionale non preclude la domanda del lavoro di pubblica utilità di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 8 settembre 2015 Corte di cassazione - Sezione IV penale - Sentenza 7 settembre 2015 n. 36059. La richiesta dell’automobilista condannato per guida in stato di ebbrezza di sostituire la pena con i lavori di pubblica utilità non può essere respinta semplicemente sostenendo che essa è incompatibile con la sospensione condizionale della pena accordata all’imputato. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza 36059/2015, fissando una regola generale per cui in simili ipotesi il beneficio della sospensione deve intendersi tacitamente rinunciato. La vicenda - Un automobilista di Palermo era stato condannato in primo e secondo grado perché circolava di notte sulla pubblica via alla guida di una autovettura in stato di ebbrezza, in conseguenza dell’uso di bevande alcoliche. Circostanza accertata attraverso due misurazioni successive tramite alcoltest. Per cui a nulla è valso sostenere che non vi era la prova certa dello stato di ebbrezza "non essendo stata fornita la prova circa lo stato di manutenzione e controllo del dispositivo". Per i giudici di legittimità infatti è onere dell’imputato "fornire la prova contraria a tale accertamento dimostrando vizi od errori di strumentazione o di metodo nell’esecuzione dell’aspirazione, non essendo sufficiente la mera allegazione della sussistenza di difetti o della mancata omologazione dell’apparecchio". La motivazione - Per la Suprema corte, invece, è fondato il motivo con il quale il conducente ha lamentato la mancata ammissione al lavoro di pubblica utilità. Infatti, ricostruiscono i giudici, in caso di richiesta di sanzione sostitutiva del lavoro di pubblica utilità formulata dopo aver ottenuto il beneficio della sospensione condizionale della pena, la giurisprudenza ha affermato "l’incompatibilità tra i due istituti, traendone come corollario che la richiesta della pena sostitutiva del lavoro di pubblica utilità, implica la tacita rinuncia al beneficio della sospensione condizionale della pena eventualmente concesso in precedenza". E dunque, prosegue la Corte, diversamente da quanto ritenuto dal giudice di secondo grado, deve ritenersi che la richiesta del lavoro sostitutivo implichi inequivocabilmente, sia pure tacitamente, la rinuncia alla sospensione condizionale della pena in precedenza concessa. Da qui l’annullamento della sentenza in parte qua ed il rinvio alla Corte d’Appello di Palermo affinché valuti la sussistenza dei presupposti per l’accoglimento dell’istanza di applicazione della sanzione sostitutiva dei lavori di pubblica utilità. Genitori tossicodipendenti, figli adottabili anche in presenza di un legame affettivo di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 8 settembre 2015 Corte di cassazione - Sezione I civile - Sentenza 7 settembre 2015 n. 17711. La dichiarazione di adottabilità dei minori può essere disposta dal tribunale anche in presenza di un forte e riscontrato legame affettivo con i genitori qualora essi pur avendo intrapreso un percorso di riabilitazione dalla tossicodipendenza non siano assistiti da una prognosi favorevole sul recupero delle capacità genitoriali "in tempi compatibili con la salvaguardia del benessere dei piccoli e la prevenzione di ulteriori pregiudizi". La Corte di cassazione con la sentenza 17711/2015 ha confermato la motivazione con cui la Corte di appello di Roma ha decretato lo stato di abbandono, giudicando su di una vicenda che appare particolarmente spinosa proprio per la forte volontà del padre e della madre di non perdere il contatto con i propri figli. Il caso - Dalle relazioni acquisite nelle fasi di merito erano emerse "le tipiche criticità conseguenti allo stato di tossicodipendenza, consistenti in un’alterata percezione di sé e della realtà con gravissime ricadute sull’idoneità all’accudimento ed alla crescita equilibrata dei figli". Tutto ciò sarebbe stato aggravato "dall’alleanza di coppia", e da un’interpretazione dei bisogni dei bambini "legata essenzialmente all’alimentazione ed alla vigilanza sulle condizioni di salute, senza considerazione per la cura e la pulizia degli ambienti, funzionale anche alla prevenzione d’incidenti domestici, e senza un congruo apprezzamento della necessità di condivisione del tempo". Lacune che "non potevano ritenersi compensate dal legame affettivo comunque riscontrato con i minori". La motivazione - Affermazioni approvate dalla Cassazione secondo cui la decisione presa "non contrasta in alcun modo con il diritto dei minori a crescere ed essere educati nell’ambito della loro famiglia di origine, il cui carattere prioritario, solennemente riconosciuto dall’articolo 1 della legge n. 184 del 1983, (nel testo novellato dalla legge 28 marzo 2001, n. 149), e garantito attraverso la predisposizione d’interventi diretti a rimuovere situazioni di difficoltà e disagio familiare, non esclude la configurabilità dello stato di abbandono, nel caso in cui, come nella specie, il genitore, nonostante l’attaccamento dimostrato verso il figlio e la collaborazione prestata all’azione di sostegno dei servizi sociali, non abbia raggiunto l’autonomia necessaria nell’assistenza e nell’educazione del minore, e risulti comunque impossibile formulare previsioni in ordine al tempo ragionevolmente occorrente per ristabilire un adeguato contesto familiare". Dunque, prosegue la sentenza, "lo stato di adottabilità non implica necessariamente un rifiuto intenzionale e irrevocabile di adempiere i doveri genitoriali, ma può consistere anche in una situazione di fatto obiettiva del minore, che, indipendentemente dagl’intendimenti dei genitori, impedisca o ponga in pericolo il suo sano sviluppo psico-fisico". I giudici di legittimità hanno poi respinto anche i ricorsi dei parenti, nonni e zii, sostanzialmente perché la loro disponibilità è stata considerata tardiva rispetto alle condizioni in cui ormai versavano da tempo i minori. Insomma, la "sopravvenuta disponibilità mostrata" non è sufficiente e "stride" con l’incapacità, da loro stessi testimoniata, di rendersi conto della condizione in cui effettivamente vivevano i bambini. Le recenti decisioni sulle condotte vietate dalle norme sulla violenza sessuale Il Sole 24 Ore, 8 settembre 2015 Delitti contro la libertà individuale - Violenza sessuale e corruzione di minorenne - Elemento oggettivo - Atto sessuale - Nozione - Soddisfacimento della concupiscenza dell’aggressore - Volontaria compromissione della libertà sessuale della vittima - Necessità - Criteri di valutazione. La condotta vietata dall’articolo 609-bis del codice penale è solo quella finalizzata a soddisfare la concupiscenza dell’aggressore, o a volontariamente invadere e compromettere la libertà sessuale della vittima, con la conseguenza che il giudice, al fine di valutare la sussistenza dell’elemento oggettivo del reato, non deve fare riferimento unicamente alle parti anatomiche aggredite ma deve tenere conto, con un approccio interpretativo di tipo sintetico, dell’intero contesto in cui il contatto si è realizzato e della dinamica intersoggettiva. • Corte di cassazione, sezione III, sentenza 11 giugno 2015 n. 24683. Delitti contro la libertà individuale - Violenza sessuale - Elemento oggettivo - Nozione di atto sessuale. In tema di violenza sessuale la condotta sanzionata comprende qualsiasi atto che, risolvendosi in un contatto corporeo, pur se fugace ed estemporaneo, tra soggetto attivo e soggetto passivo del reato, ovvero in un coinvolgimento della sfera fisica di quest’ultimo, ponga in pericolo la libera autodeterminazione della persona offesa nella sfera sessuale. • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 1° marzo 2006 n. 7369. Delitti contro la libertà individuale - Violenza sessuale - Elemento oggettivo - Nozione di atto sessuale - Criteri di valutazione. La condotta vietata dall’articolo 609-bis del codice penale ricomprende oltre ad ogni forma di congiunzione carnale, qualsiasi atto che, risolvendosi in un contatto corporeo, ancorché fugace ed estemporaneo, tra soggetto attivo e soggetto passivo, ovvero in un coinvolgimento della corporeità sessuale di quest’ultimo, sia idoneo e finalizzato a porne in pericolo la libera autodeterminazione della sfera sessuale. La valutazione del giudice sulla sussistenza dell’elemento oggettivo non deve fare riferimento unicamente alle parti anatomiche aggredite ed al grado di intensità fisica del contatto instaurato, ma deve tenere conto dell’intero contesto in cui il contatto si è realizzato e della dinamica intersoggettiva, esaminando la vicenda con un approccio interpretativo di tipo sintetico. Possono costituire un’indebita intrusione fisica nella sfera sessuale non solo i toccamenti delle zone genitali, ma anche quelli delle zone ritenute "erogene" - ovvero in grado di stimolare l’istinto sessuale - dalla scienza medica, psicologica ed antropologico-sociologica. • Corte di cassazione, sezione III, sentenza 23 settembre 2004 n. 37395. Delitti contro la libertà individuale - Violenza sessuale - Interesse protetto - Libertà sessuale - Nozione - Elemento oggettivo - Atto sessuale - Nozione - Necessità del coinvolgimento della corporeità del soggetto passivo. I reati di violenza sessuale offendono la libertà personale intesa come libertà di autodeterminazione a compiere un atto sessuale, e non già la libertà morale della vittima, oppure il pudore e l’onore sessuale. Ne consegue che non ogni atto espressivo della concupiscenza dell’agente configura un atto sessuale idoneo a ledere la libertà di determinazione sessuale del soggetto passivo, essendo indispensabile che tale atto offenda la sfera della sessualità fisica della vittima. La nozione di atti sessuali è, in pratica, la somma dei concetti di congiunzione carnale ed atti di libidine previsti dalle previgenti fattispecie di violenza carnale ed atti di libidine violenti: non possono essere inclusi in tale nozione quei comportamenti - quali un gesto di esibizionismo sessuale o un atto di autoerotismo compiuto davanti a terzi - che, pur essendo manifestazione di istinto sessuale, non si concretano in un contatto corporeo tra soggetto attivo e soggetto passivo, ovvero non coinvolgono la corporeità di quest’ultimo. • Corte di cassazione, sezione III, sentenza 1° aprile 2004 n. 15464. Delitti contro la libertà sessuale - Violenza sessuale - Art. 609 bis cod. pen. - Condotta vietata - Individuazione. La condotta vietata dall’articolo 609-bis del codice penale (violenza sessuale) comprende - se connotata da costrizione - sia ogni forma di congiunzione carnale tra autore del reato e soggetto passivo, sia qualsiasi atto che offende in modo diretto ed univoco la libertà sessuale della vittima (elemento oggettivo), attraverso l’eccitazione dell’agente e l’eventuale soddisfacimento del suo istinto sessuale (elemento soggettivo). Di conseguenza, il delitto di violenza sessuale è configurabile non solo nei casi in cui avvenga un contatto fisico diretto tra soggetto attivo e soggetto passivo, ma anche quando il soggetto attivo, al fine del soddisfacimento del proprio piacere sessuale, costringa due soggetti diversi, da considerare entrambi soggetti passivi, a "compiere o subire" atti sessuali solo tra loro. • Corte di cassazione, sezione III, sentenza 22 aprile 2003 n. 18847. Lettere: Stati Generali dei minori e dei giovani adulti dell’area penale, se non ora quando Ristretti Orizzonti, 8 settembre 2015 Il tema della criminalità, e in particolare di quella violenza criminale che vede protagonisti minori e giovani adulti sconvolge l’agenda delle vecchie e nuove emergenze che da sempre soffocano ogni tentativo di sviluppo della nostra città e della nostra regione. La recrudescenza con cui si manifesta questa nuova guerra di camorra si alimenta nelle endemiche difficoltà che affliggono il quotidiano vivere della maggioranza della popolazione che ogni giorno è costretta a difendere il proprio diritto alla sicurezza, alla qualità della vita e al futuro dei propri figli. Ha perfettamente ragione chi, davanti al dilagare di comportamenti clamorosamente anti-sociali, che occupano spazi sempre più ampi del territorio vede allontanarsi ogni forma di speranza. L’articolazione delle situazioni che sottendono questo decadimento sociale e culturale sono molto complesse e articolate. Quello che possiamo dire è che alle spalle di ogni singolo c’è un vissuto diverso, che serve ad assegnare un senso preciso anche ai comportamenti delittuosi. Questa consapevolezza è importante perché evita di pensare alle istituzioni come se costituissero una rete rigida capace di governare i comportamenti sociali. E che quindi si dovrebbero accollare la responsabilità delle relative disfunzioni, da cui deriverebbero tra l’altro il disagio sociale e le varie forme di devianza. In fondo, chi dà la colpa di tutto alle istituzioni tradisce una concezione fortemente autoritaria e conservatrice della società. Le istituzioni invece sono sistemi di significati, attraverso cui qualifichiamo i comportamenti umani e ne possiamo prevedere le conseguenze. Anche le norme di legge sono significati, e ognuno sa come muoversi nel loro intrico per raggiungere i propri scopi. E su questo anche il ragazzo più sfortunato, più sottoprivilegiato, è perfettamente informato. Gli ultimi fatti di cronaca; quello di Castello di Cisterna e quello del Rione Sanità sono la testimonianza concreta dell’importanza delle scelte soggettive. Infatti sia il giovane Ianuale che ha ammazzato Anatoly Korol sia il minore ucciso alla Sanità avevano usufruito o stavano usufruendo di una opportunità di riscatto sociale attraverso l’Istituto della Messa alla Prova. Ma entrambi hanno utilizzato questa possibilità come semplice alternativa alla sanzione e alla giusta pena per i loro reati. D’altra parte i singoli che trasgrediscono, anche quando minorenni, conoscono bene il significato delle loro azioni, e se ne aspettano le conseguenze. Il primo insegnamento che le istituzioni dovrebbero dare loro è che nella vita non si può avere nulla, ma proprio nulla, senza pagare un prezzo. Poi, naturalmente, gli operatori delle istituzioni che accolgono persone devianti o a rischio avranno il compito di personalizzare rispetto a ciascun vissuto individuale il loro discorso volto alla promozione umana, all’allargamento di orizzonti troppo ristretti, all’empowerment dei singoli in modo che possano affrontare la società più attrezzati. E in questo senso le Istituzioni deputate alla gestione di questa criticità: Regione Campania, Assessorato alle Politiche Sociali e Giustizia Minorile hanno il dovere di uscire fuori dal torpore che li avvolge e organizzare gli "stati generali" dei minori e dei giovani adulti dell’area penale, per affrontare questa emergenza. Una prima risposta che sommessamente ci permettiamo di segnalare il recupero della dimensione educativa della sanzione e del disciplinamento. Associazione Jonathan Silvia Ricciardi, Vincenzo Morgera, Giovanni Salomone Lettere: invito a riunione con Marco Pannella e Rita Bernardini su carcere e amnistia radicali.it, 8 settembre 2015 Cari amici, mercoledì prossimo 9 settembre (dopodomani - e vi prego di scusare lo scarso preavviso!) alle 18.30, vi invitiamo a partecipare a una riunione con Marco Pannella e Rita Bernardini per discutere e cercare di decidere un possibile da farsi, dato lo stallo istituzionale in cui giacciono le proposte che mirano a porre fine a quel vulnus di legalità in cui versano carceri e tribunali. Sono passati alcuni giorni dall’importante messaggio di Papa Francesco in cui richiama l’amnistia come uno dei principi dell’Anno Santo. Nel frattempo, nelle carceri si continua a morire, l’ultimo se ne è andato impiccandosi in una cella del carcere di Como, è il trentaduesimo detenuto che si toglie la vita dall`inizio dell`anno, l’ennesimo, nell’indifferenza delle nostre istituzioni. Da ogni dove ci giungono notizie allarmanti del totale stato di abbandono che riguarda sia i detenuti sia tutto il personale che opera nelle carceri. Alla riunione invitiamo le associazioni, i direttori penitenziari, gli agenti di polizia penitenziaria e le loro rappresentanze sindacali più attive oltre che le realtà che più si adoperano sul fronte della giustizia e delle carceri, e grazie alla cui mobilitazione abbiamo già ottenuto prima il dibattito al Senato nel luglio scorso, con l’importante messaggio alla Camere del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e poi la convocazione straordinaria del Senato, anche se tristemente conclusasi con un nulla di fatto. Per questo, riteniamo che occorra da subito reagire prima che la nostra battaglia rischi di essere definitivamente compromessa. Sembrerebbe, infatti, che della "prepotente urgenza" non resti, nei fatti, che l’irresponsabile negarla. Preghiamo chi può di essere presente fisicamente nella sede del Partito Radicale a Roma in Via di Torre Argentina 76 (3° piano con ascensore). Per chi proprio non può raggiungere la sede, è possibile collegarsi telefonicamente (ma abbiamo linee solo per 4 persone) oppure seguire la riunione su Internet (www.radioradicale.it) e fare il proprio intervento per telefono. La vostra partecipazione è fondamentale perché vi sappiamo costantemente impegnati sul fronte difficilissimo degli ultimi, dei dimenticati, e perché, insieme, dobbiamo chiedere alla politica e alle istituzioni l’urgente interruzione della violazione in corso di diritti umani fondamentali universalmente acquisiti. Vi preghiamo di risponderci con la massima urgenza. Maurizio Turco, Tesoriere del Partito Radicale Irene Testa, Segretaria Associazione Detenuto Ignoto Rovigo: un super carcere finito e mai aperto... dicono non sia più una priorità di Marco Bonet Corriere del Veneto, 8 settembre 2015 Il governo teme per i costi di gestione. L’appello per la "grande amnistia" lanciato da Papa Francesco in occasione del Giubileo ha rianimato una volta di più l’irrisolto dibattito sulle (pessime) condizioni delle carceri italiane: sovraffollate, inadeguate, "disumane" secondo la Corte europea dei diritti dell’uomo ("Rischiamo di dover pagare multe per 100 milioni l’anno" avvertì nel marzo 2014 il ministro per la Giustizia Andrea Orlando). Da destra, ma anche da ampia parte del Pd, il niet è stato immediato e granitico (c’è da capirli: secondo un sondaggio il 71% degli italiani è "assolutamente contrario") e come ogni volta prima di questa immancabile è ripartito il refrain sulla costruzione di nuovi istituti: se ci sono troppi detenuti, si alzino più sbarre e fine della questione. Il punto è che le celle ci sono già, a centinaia. Sono costate milioni. Ma sono vuote. Come a Rovigo, dove da due anni è bell’e che finito il nuovo carcere, costato 29 milioni di euro (dovevano essere 20 ma il prezzo è via via lievitato per via delle immancabili "modifiche in corso d’opera") e realizzato dalla Sacaim su un’area di 26 mila metri quadri alle porte della città. Era il 2007 quando l’allora Guardasigilli Clemente Mastella, in un’afosa mattina di luglio, planò in Polesine per posare la prima pietra: "Non possiamo correre il rischio che quest’opera resti incompiuta" ammonì fissando severo i presenti. E infatti. "L’intervento fu finanziato in due tranche - racconta Livio Ferrari, consigliere comunale ed ex garante dei detenuti. La prima, di 29 milioni, è stata utilizzata per la costruzione del complesso principale, terminato con 3 anni di ritardo nel luglio del 2013, mentre a fine 2014 erano pronti i 90 alloggi per gli agenti di polizia penitenziaria e i due super attici da 160 metri quadri ciascuno riservati al direttore e al comandante". La seconda, di altri 20 milioni, era invece destinata alle opere secondarie e agli arredi che però, a tutt’oggi, mancano. "La strada di collegamento alla Regionale 43 non è asfaltata (sono sì e no 100 metri, ndr), così come la viabilità interna - spiega Giampietro Pegoraro, coordinatore regionale del Dap Cgil - non ci sono i parcheggi, i climatizzatori, gli arredi per i detenuti e il personale, non è stata completata la sezione per i semiliberi. Detto questo, il carcere è finito". E potrebbe ospitare fino a 408 detenuti. Quanto costerebbe chiudere il cerchio? "Fonti ufficiose parlano di 7-8 milioni" abbozza il deputato Pd Diego Crivellari e certo dopo averne spesi (buttati?) 29 non si tratta poi di una gran cifra. E allora perché non si apre, come ribadito in una lettera del provveditore alle carceri di Padova Felice Bocchino dopo un sopralluogo a luglio? Il ministero inizialmente aveva giustificato l’impasse con l’impossibilità di assumere nuovi agenti e a Rovigo ne servirebbero almeno 150 da aggiungere alla cinquantina già in servizio nella vecchia casa circondariale in centro città. "Un falso problema - replica Pegoraro - a dicembre si chiude un concorso per 370 posti ed è già pronto un nuovo bando per altri 440". La vera ragione pare allora averla rivelata il prefetto Francesco Provolo, secondo il quale "l’avvio di nuove strutture detentive non è tra le priorità del governo, visto che si sono risolti alcuni problemi delle vecchie carceri in altre maniere". Ad esempio con la depenalizzazione dei reati minori (come quelli puniti dalla Fini-Giovanardi), il ricorso alla detenzione domiciliare, una riduzione della custodia cautelare che pure resta altissima (vedi alla voce "decreto svuota carceri") e soprattutto i risarcimenti milionari ai detenuti costretti in meno di 3 metri quadri, considerati dall’Ue "lo spazio minimo vitale". Se le parole del prefetto trovassero conferma in via Arenula, il nuovo carcere di Rovigo si candiderebbe a diventare l’ennesima cattedrale nel deserto. "Non possiamo permetterlo, mercoledì presenterò un’interrogazione al ministro - assicura Crivellari. La situazione è esplosiva, per Rovigo quello è stato un investimento pazzesco". Anche in termini di consumo del suolo. Ma Ferrari non sembra crederci più di tanto: "In giro per l’Italia ci sono almeno una quarantina di strutture così, nuove e già vecchie, abbandonate. Un business utile solo a chi le ha costruite, nell’attesa che la politica torni a gridare: "Apriamo nuove carceri!". Aprite quelle che ci sono, dico io. È la Grande Bugia". Come l’istituto di Codigoro, appena di là del Po, lontano da Rovigo appena 50 chilometri, in provincia di Ferrara. Costruito nel 1989 e costato 3 milioni, è stato aperto un anno e mezzo ed è chiuso ormai da 15. Oggi è di proprietà del Comune, che sta pensando di farne un magazzino. Benevento: è morto l’anziano di San Leucio del Sannio detenuto per mesi in carcere di Enzo Spiezia ottopagine.it, 8 settembre 2015 Si è fermato il cuore dell’ultranovantenne di San Leucio del Sannio. La storia, purtroppo, è arrivata al capolinea. E, ora, non servono più udienze e magistrati. Perché è morto l’ultra novantenne di San Leucio del Sannio finito alla ribalta della cronaca negli ultimi mesi. Dopo oltre tre mesi di detenzione in carcere, venerdì scorso era tornato a casa. In attesa di essere trasferito presso un centro di riabilitazione per ricevere le cure di cui aveva bisogno dopo l’operazione al femore, conseguenza di una caduta. L’anziano, secondo una prima ricostruzione, non si sarebbe sentito bene e per questo, dopo le prime cure, sarebbe stato trasportato in ospedale, dove il suo cuore ha cessato di battere. È l’ultimo capitolo di una storia cominciata lo scorso 23 giugno, quando il pensionato era stato arrestato dalla squadra mobile sulla base di un ordine della Procura generale di Napoli. Doveva scontare 8 anni per una vicenda di abusi sessuali risalenti al periodo 2000 - 2001: assolto in primo grado era stato condannato in appello con una sentenza non impugnata in cassazione. Pena definitiva, dunque, di cui il suo attuale difensore, l’avvocato Eugenio Capossela, aveva chiesto il differimento al Tribunale di sorveglianza (udienza a dicembre) e poi al magistrato di Sorveglianza di Avellino. Quest’ultimo aveva detto no ritenendo compatibili le condizioni dell’uomo con il regime carcerario: un dato emerso dalla relazione dei sanitari. Mentre era in infermeria, ad agosto il detenuto era rimasto vittima di una caduta dalla sedia a rotelle. Per questo era stato operato al Fatebenefratelli: qualche giorno di degenza, poi il rientro presso la casa circondariale di contrada Capodimonte. Che aveva, come detto, lasciato venerdì quando il magistrato di sorveglianza aveva concesso il differimento dell’esecuzione della pena per l’ultranovantenne, per consentirgli le terapie riabilitative. Di cui, ora, purtroppo, non ha più bisogno. Pisa: suicida in carcere, il corpo resta 20 giorni in cella frigorifera per un fax non inviato di Francesca Gori Il Tirreno, 8 settembre 2015 Dalla procura non è stato trasmesso il nullaosta La rabbia dei familiari: "Nessun rispetto per questa morte". Non l’hanno potuta vedere nemmeno quando la salma è stata loro riconsegnata. Non hanno potuto baciare quel piccolo volto che hanno visto l’ultima volta a fine luglio, prima di essere portata al carcere don Bosco di Pisa. Ramona è morta lì. Suicida, hanno detto gli agenti della penitenziaria. Ma secondo i suoi familiari, quello che è successo nella cella dove la ventisettenne era rinchiusa, è ancora tutto da chiarire. Due giorni fa c’è stato il funerale a Follonica. La cassa di legno non è stata riaperta e nessuno ha potuto poggiare le proprie labbra sul volto della ragazza. Perché Ramona è rimasta in una cella frigorifera del santa Chiara per venti giorni. Un tempo infinito, un tempo di dolore che si è protratto a causa di un disguido. "Il sostituto procuratore aveva dato l’ok per la sepoltura di Ramona il 19 o il 20 agosto, dopo l’autopsia - dice la sorella della ragazza, Consuelo - ma il fax non è mai stato trasmesso. Che la situazione era stata sbloccata lo abbiamo saputo qualche giorno fa dall’impresa funebre che ha organizzato il funerale di mia sorella. È stata tenuta venti giorni in una cella frigorifera. le hanno fatto male in vita e anche da morta". Consuelo trattiene a stento le lacrime. Non ha potuto vedere Ramona se non per un solo minuto, all’obitorio del santa Chiara di Pisa, subito prima che si svolgesse l’autopsia. E quando la piccola bara bianca che conteneva il corpo della ventisettenne ha cominciato la sua marcia dall’abitazione della ragazza fino al camposanto di Follonica, non c’era nemmeno un vigile a regolare il traffico. "In tanti si sono stupiti per questa assenza - dice la mamma Manola - Sono stati gli addetti delle pompe funebri a rallentare le auto per permetterci di arrivare al cimitero. E nemmeno nessuno del Comune, tranne alcuni operai, si è fatto vivo con noi. Né il sindaco, né un assessore. Le istituzioni sono state completamente assenti nonostante che nostra figlia sia morta in una struttura dello Stato". I tanti ricordi della ragazza sono tutti conservati nella sua casa. Ci sono i suoi vestiti, i suoi oggetti. I suoi scritti. C’era tutta la sua vita, in quell’appartamento dove ieri sua madre e sua sorella sono entrate un’altra volta. "Ora aspettiamo la risposta dell’autopsia - aggiunge Consuelo - e non ci arrenderemo fino a quando non sapremo tutta la verità. Ci sono troppi punti oscuri in questa vicenda, troppe cose che non tornano". Verità, giustizia. Ma anche rispetto. Rispetto per una ragazza di 27 anni che ha avuto una vita difficile. "Rispetto che è mancato quando non è stato trasmesso il nullaosta per la sepoltura di mia sorella - dice ancora Consuelo - che era pronto ma che è arrivato a Pisa con venti giorni di ritardo. Gli addetti delle pompe funebri non l’hanno nemmeno potuta vestire, i suoi abiti le sono stati poggiati sopra. È stata sempre il parafulmine di tutti i guai di Follonica, e purtroppo ha pagato anche dopo la sua morte". Parma: un giorno "in famiglia" per i detenuti della Sezione di Alta Sicurezza La Repubblica, 8 settembre 2015 "Un giorno per ricominciare", colloquio collettivo e pranzo con i familiari in una grande sala. "Forse basterebbe la parola entusiasmo per dirvi ciò che proviamo, poiché è proprio quello il sentimento con il quale noi, detenuti condannati a lunghe pene e in prigione da più di vent’anni, ci siamo avvicinati a questo appuntamento": i 31 detenuti della sezione AS1 (appartenenti alla criminalità organizzata di tipo mafioso) del carcere di Parma riassumono così, in un passaggio di una lettera aperta, l’esperienza della prima "Giornata in famiglia". Si è trattato - spiega Dires - Redattore Sociale - di un colloquio collettivo di quattro ore, in una grande sala nella quale ciascuno di essi ha avuto modo di avere vicino i familiari e con loro dividere il pranzo: tavoli da giardino, uno per nucleo. Un evento eccezionale, già messo in pratica per i detenuti comuni ma all’esordio assoluto nel caso di detenuti AS1, in carcere da 25, 30 anni, molti dei quali condannati all’ergastolo ostativo (e con colloqui molto più ridotti: quattro ore al mese). "Una ragazza di 23 anni, studentessa in farmacia, mi ha chiesto di ringraziare la direzione e gli operatori del carcere perché è stata l’occasione di pranzare, per la prima volta nella sua vita, con suo padre condannato all’ergastolo. La sua testimonianza, le sue parole, mi hanno molto colpito", racconta alla Dires Roberto Cavalieri, Garante per i detenuti di Parma. Prossimo obiettivo, passare dalla straordinarietà all’ordinarietà: "Ho detto al direttore che momenti come questo possono dimostrarsi più utili di tanti corsi di formazione. Eravamo preoccupati per la sicurezza, ma tutto si è svolto nella più totale tranquillità. Mi piacerebbe riproporlo, magari sotto Natale". "Giornata in famiglia", resa possibile anche grazie alla collaborazione con l’associazione di volontari penitenziari "Per ricominciare", si inserisce in un più ampio percorso verso un progressivo miglioramento delle condizioni di vita dei detenuti del carcere di Parma della sezione AS1: "Sono stati loro a consegnarmi una lettera firmata per ringraziare pubblicamente l’amministrazione penitenziaria e il lavoro di tutti coloro che hanno reso possibile l’iniziativa", continua Cavalieri. "Il progetto di una giornata dedicata all’incontro tra papà, nonni, zii con i loro figli e nipoti è l’evento che abbiamo coltivato con grande entusiasmo e nel quale ci siamo proiettati con sguardo curioso ed emozionato", si legge nella lettera, che continua: "L’incontro è divenuto atto di allegra passione, trasmesso e poi vissuto con i nostri familiari, anche per coloro tra noi le cui figlie o figli hanno ormai superato l’età dell’infanzia. In ogni caso parliamo di chi per noi rappresenta il futuro e porta con sé il futuro, poiché ogni incontro è stupore, è diritto alla affettività, è forte sentire del senso di appartenenza". I detenuti ringraziano i volontari di "Per ricominciare" che hanno offerto il cibo: "Abbiamo gioito, giocato, dato corpo alla fantasia e osservato che la sensazione palpabile di oppressione che il carcere innegabilmente porta con sé, per qualche ora, era sparita e quei frenetici e semplici gesti infantili hanno riconquistato il diritto al rumore, hanno lasciato il segno, hanno parlato con il nostro tenace desiderio di costruire il ritorno". Tra i firmatari, anche due detenuti recentemente trasferiti a Parma da Padova (per la chiusura dei reparti di massima sicurezza), una decisione che numerose polemiche - da entrambe le parti - aveva suscitato: "Il fatto che anche loro, che nel carcere emiliano erano arrivati decisamente malvolentieri, abbiano gradito l’iniziativa ci dà grande soddisfazione: speriamo di continuare su questa strada", conclude Cavalieri. Belluno: Francesca Vianello (Antigone) "detenuti dimezzati e celle aperte per 8 ore" di Irene Aliprandi Corriere delle Alpi, 8 settembre 2015 L’associazione Antigone visita il carcere di Baldenich e trova una situazione decisamente migliorata rispetto a due anni fa grazie ad alcune norme recenti. Una situazione buona, decisamente migliorata rispetto a un paio di anni fa, senza sovraffollamento e con una maggiore "libertà". È questo il primo resoconto della visita dell’Associazione Antigone del carcere di Baldenich, avvenuta giovedì 27. Ad illustrare l’esito del sopralluogo è Francesca Vianello, del dipartimento di psicologia e sociologia dell’Università di Padova e membro dell’associazione che si interessa della tutela dei diritti e delle garanzie nel sistema penale. Antigone raccoglie e divulga informazioni sulla realtà carceraria, cura la predisposizione di proposte di legge e promuove campagne di informazione e di sensibilizzazione. L’ultima volta che Vianello aveva visitato Baldenich risale a due anni fa, prima dell’entrata in vigore di una serie di norme che hanno ridotto drasticamente la popolazione carceraria, grazie alla possibilità di ricorrere a misure alternative. "Il problema del sovraffollamento non esiste più", spiega la dottoressa Vianello. "In passato il carcere di Baldenich si trovava ad ospitare più persone di quanto fosse il suo potenziale, mentre oggi sono molte di meno. Le leggi introdotte a partire dal 2011 prevedono sanzioni alternative per le pene più modeste e alla fine in carcere ci vanno in pochissimi. La tendenza vista a Belluno è generale". Questo ha permesso anche di realizzare un nuovo orientamento dell’amministrazione penitenziaria, quello delle "porte aperte", cioè delle celle lasciate aperte per otto ore al giorno: "Inizialmente c’era qualche dubbio sull’efficacia e sulle conseguenze di queste scelte. Il personale della polizia penitenziaria temeva che le celle aperte sarebbero state difficili da gestire. Oggi sono proprio loro, invece, ad affermare che l’effetto è stato positivo e ha in qualche modo rasserenato la situazione", spiega ancora Vianello, che aggiunge le numerose attività di formazione professionale, lavoro e svago organizzate per i detenuti da varie realtà. Alla data del 27 agosto, dunque, i detenuti presenti nel carcere di Baldenich erano 58 (i posti disponibili sono quasi il doppio), dei quali 41 stranieri, 17 italiani, 11 transgender per lo più brasiliani e colombiani, 18 tossicodipendenti e 7 alcol dipendenti. Sotto il profilo strutturale, il carcere risulta più vivibile del passato perché sono terminate le operazioni di ristrutturazione già avviate diversi anni fa e oggi le celle "che sembravano delle grotte" sono decisamente più decorose, ciascuna dotata di servizi igienici minimi e cucinino. "Attualmente i detenuti mangiano nella propria cella chiusa, ma l’obiettivo con il tempo è di farli mangiare insieme in una mensa comune". In Italia, infatti, non si usano i refettori, praticamente nessun carcere ha la mensa comune (come nei film americani) ma l’amministrazione penitenziaria ha anche questo progetto. Antigone ha potuto parlare con la direttrice Tiziana Paolini, con il comandante della polizia penitenziari e con il responsabile degli educatori: "Ci sono sembrati tutti relativamente soddisfatti della condizione attuale, compresa l’apertura delle celle che ha reso le cose migliori di prima. Da un punto di vista sanitario, il carcere ha a disposizione almeno una volta a settimana un infettivologo, un dentista, un addetto del Sert e uno psichiatra". Proprio le patologie psichiatriche (oltre che quelle fisiche) in aumento sono il problema più rilevante segnalato dal personale. Il progetto futuro, per il carcere di Baldenich, è quello di destinare una sezione ai malati psichiatrici in stato di semi infermità mentale successivo alla carcerazione. "Non sarà una sezione che ne sostituirà un’altra e in questo periodo se ne sta ancora parlando perché ovviamente va associata a personale specializzato attraverso il servizio sanitario. È più probabile che la nuova sezione sarà meno "specifica" e quindi meno problematica". In conclusione, in attesa di dicembre quando sarà pubblicato il rapporto Antigone ufficiale, Vianello afferma: "La fine del sovraffollamento ha portato una svolta positiva a Baldenich. Devo ringraziare il personale che, a volte, ci vede come un’intrusione, mentre a Belluno abbiamo trovato grande disponibilità e possibilità di visitare tutte le sezioni che volevamo". Massa: il Sottosegretario Ferri visita il carcere in occasione dell’apertura della Sezione B Agenparl, 8 settembre 2015 Il Sottosegretario del Ministero della Giustizia Cosimo Maria Ferri ha visitato la Casa di Reclusione di Massa in occasione dell’apertura della sezione B della Casa di Reclusione di Massa. Erano presenti anche la dott.ssa Michela Mencattini, magistrato di Sorveglianza presso il tribunale di Massa, il dott. Carmelo Cantone, Provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria, e la dott. arch. Maria Lucia Conti, Provveditore interregionale alle opere pubbliche per la Toscana, le Marche e l’Umbria, l’ing. Buonanno, sempre del Mit, responsabile per la Provincia di Massa, il Procuratore della Repubblica del Tribunale di Massa cons. Aldo Giubilaro, i medici dell’ASL dott. Alberti, dott. Bianchi, il direttore della struttura dott. ssa Maria Martone. A margine della visita Ferri ha dichiarato: "si volta pagina, con un gioco di squadra tra tutti gli operatori e tra le due amministrazioni quella penitenziaria e quella delle infrastrutture, si è resa funzionale ed operativa una parte della struttura che era chiusa da anni. Un traguardo importante perché rappresenta un segnale positivo di efficienza, di buona amministrazione, che rappresenta quello spirito di una politica del fare, propositiva che vuole dare risposte concrete. Sono molto soddisfatto perché abbiamo dimostrato in questa realtà territoriale che vogliamo far ripartire il Paese, che siamo in grado di attuare lo spirito propositivo del Governo, sbloccando le opere pubbliche che erano ferme. Questo significa buona politica e credere nei progetti da realizzare. Abbiamo chiuso positivamente una vicenda che si è prolungata per troppi anni e vede finalmente aprire questa struttura costata oltre tre milioni di euro". I lavori sono iniziati il 4 luglio 2006 e sarebbero dovuti durare 480 giorni, ma per una serie di problematiche, anche giudiziarie, sono stati rallentati e si è giunti alla fine dei lavori il 24 novembre 2009. L’opera è stata collaudata ufficialmente da un documento del Provveditore interregionale in data 24 luglio 2012, ma fino ad oggi è rimasta ferma per ritardi inaccettabili e per alcuni problemi di adattamento della struttura alla sua funzione di detenzione. Il Sottosegretario ha visitato varie volte la struttura nei mesi scorsi e ha stimolato tutte le parti affinché si sbloccasse, "ringrazio il Ministro Orlando per il suo impegno e tutti coloro che hanno messo impegno nel progetto grazie al quale negli ultimi due mesi sono state eseguite alcune opere ritenute indispensabili per procedere all’apertura (impermeabilizzazione delle coperture e modifica porte delle celle). Sono certo che con questi nuovi spazi si possano perseguire ancora più seriamente le finalità della detenzione e possa proseguire la politica di umanizzazione del carcere. Anche il personale avrà vantaggi dalla nuova situazione perché potrà utilizzare spazi che fino ad oggi erano inutilizzabili e migliorerà la vivibilità per tutti. Vengono migliorati i servizi sanitari e la struttura costituirà un punto di riferimento a livello nazionale per la degenza da operazioni chirurgiche per i detenuti. Quando si inaugurano opere pubbliche che hanno visto la luce grazie ai soldi dei cittadini c’è sempre molta soddisfazione e lavoriamo affinché possano velocizzarsi i tempi e non ci si imbatta in una. La Casa di Reclusione di Massa costituirà, anche grazie alla nuova struttura, un punto di partenza e di riferimento per creare un modello di detenzione che possa dare davvero l’opportunità di reinserimento nella società ai detenuti. All’interno di questa struttura sono state predisposte alcune stanze per la degenza dei detenuti affetti da disabilità fisica che sono sottoposti a terapie di recupero. La struttura massese potrà essere, insieme a Busto Arsizio, Parma e Bari, un punto di riferimento per la detenzione di soggetti che necessitano di determinate cure e costituirà quindi un centro di eccellenza nelle cure sanitarie con celle in linea con le norme nazionali ed europee in materia." Ferri ha aggiunto: "Ora dobbiamo lavorare per far si che si risolva il problema della carenza di personale, di fronte alla cui criticità l’amministrazione ha dato una prima risposta distaccando fino ad ottobre 10 unità, ora l’obbiettivo è cercare di stabilizzare nuovo personale. Oggi ho incontrato con piacere le rappresentanze sindacali e abbiamo parlato con franchezza e in modo costruttivo. Sono consapevole del problema e voglio ringraziare e valorizzare per quanto ha fatto tutto il personale, con la presentazione di un serio e condiviso progetto trattamentale. Ho voluto poi incontrare i detenuti e dare atto anche della loro partecipazione al progetto offrendo anche la loro disponibilità nel risistemare l’area aperta. Insomma tutti si devono sentire protagonisti per aver consentito di realizzare quest’apertura". Catania: problemi nella Rems di Caltagirone. M5S "immobilismo all’Asp di Catania" cataniatoday.it, 8 settembre 2015 Così denunciano i due deputati del Movimento 5 Stelle, alla Camera Gianluca Rizzo e all’Ars Francesco Cappello: "Nonostante le numerose e ripetute aggressioni subite dagli operatori, nonostante i tentativi e le riuscite evasioni da parte dei pazienti della Rems, l’Asp 3 di Catania, rimane inerte". "Nonostante le numerose e ripetute aggressioni subite dagli operatori, nonostante i tentativi e le riuscite evasioni da parte dei pazienti della Rems, l’Asp 3 di Catania, la stessa che ha voluto a tutti i costi ed in barba al rispetto di tutte le normative stabilite dalla legge istitutiva delle Rems aprirne una a Caltagirone in un luogo ed in una struttura assolutamente inidonea all’ospitalità degli ex detenuti dell’Opg di Barcellona Pozzo di Gotto, rimane inerte e nessuna decisione è prevista nell’immediato". Così denunciano i due deputati del Movimento 5 Stelle, alla Camera Gianluca Rizzo e all’Ars Francesco Cappello. "Che fine ha fatto, ad esempio, - chiede Cappello - la graduatoria degli psichiatri, approvata con delibera 1283 del 18 giugno 2015?". E ancora: "quali sono le ragioni per le quali l’ASP pare abbia deciso il congelamento della graduatoria e quindi la consequenziale assunzione del personale necessario alla Rems come previsto dalla legge?". Tutte domande alle quali i vertici dell’Asp saranno chiamati a rispondere dinanzi la commissione Sanità non appena l’interrogazione a risposta orale, già depositata il 20 giugno scorso, verrà calendarizzata. Interviene anche il deputato alla Camera Gianluca Rizzo che ha presentato una risoluzione in commissione Difesa per la riapertura della stazione dei Carabinieri in loco. "Del tutto inidonee, infatti, - afferma Rizzo - le soluzioni proposte dall’ASP quali "l’innalzamento di 90 cm della recinzione attorno all’area, il potenziamento delle guardie giurate e l’ampliamento del servizio di video sorveglianza". "È necessario, - aggiunge il parlamentare M5S - che l’Asp, la Prefettura, e l’assessorato regionale alla Salute rivedano il protocollo d’intesa siglato il 28 aprile del 2015. È necessario, però, che nelle more, il comitato per l’ordine e la sicurezza torni immediatamente a riunirsi per assumere tutte le necessarie misure per la garanzia della sicurezza". Reggio Calabria: Garante e Comune insieme per il reinserimento sociale dei detenuti strill.it, 8 settembre 2015 Un tramite tra carcere e società per il reinserimento sociale dei detenuti attraverso attività lavorative e di servizio in collaborazione con le istituzioni. L’iniziativa, promossa dal Garante per dei dritti delle persone private della libertà personale Agostino Siviglia, di concerto con il Comune di Reggio Calabria, è stata presentata stamani a Palazzo San Giorgio. "Il carcere è parte della società, non una società a parte". Ad accompagnare Siviglia nell’enunciazione delle linee guida del protocollo "per i nuovi processi di governance tra reclusione e inclusione sociale" c’erano il Sindaco Giuseppe Falcomatà ed l’Assessore alle politiche sociali Giuseppe Marino. Obiettivo della partnership è quello di promuovere, programmare e coordinare la realizzazione di progetti di sviluppo in ambito penitenziario e sociale. In particolare in una città come Reggio, fortemente pervasa dalla criminalità, il progetto di reinserimento sociale dei detenuti può rappresentare un’occasione per colmare la distanza tra il carcere e le pratiche positive. "Certamente è importante proseguire con l’attività repressiva nei confronti della criminalità organizzata - ha spiegato l’assessore alle politiche sociali del Comune Giuseppe Marino - ma dall’altra parte le istituzioni non possono rinunciare ad un percorso di rieducazione e reinserimento dei detenuti, naturalmente quelli selezionati dall’autorità giudiziaria. Chiaro che servirà un serrato lavoro di controllo al fine di promuovere azioni innovative e socialmente costruttive. Da questo punto di vista Reggio può diventare un modello". L’idea è quella di promuovere borse lavoro, tirocini formativi, per il reinserimento sociale dei detenuti. Non è un caso se nell’ambito dell’iniziativa "L’ottavo sacramento" il Comune ha chiesto la partnership della casa circondariale di Arghillà. Nei prossimi mesi saranno illustrate altre iniziative simili. Tra queste, annuncia il Garante Agostino Siviglia, "stiamo valutando la possibilità di collaborare con l’Università per Stranieri per favorire la mediazione culturale all’interno del carcere, in particolare per i detenuti stranieri che sono ormai sempre più numerosi. E tra le altre cose - aggiunge - promuoveremo progetti con le scuole e per la tutela e la cura del verde pubblico e dell’ambiente". "Siamo contenti di questa sinergia che si è creata - ha commentato il Sindaco di Reggio Giuseppe Falcomatà - da sempre sosteniamo che il governo della città non si può fare senza il contributo dei principali attori presenti sul territorio. Si tratta anche questa di un’iniziativa a costo zero per le casse del Comune che però contribuirà a rilanciare una nuova stagione dei diritti e dei doveri nella nostra città. Il garante può rappresentare una cinghia di trasmissione accorciando le distanze tra carcere e società". Avellino: Sappe; nel carcere di Bellizzi detenuto aggredisce un poliziotto penitenziario irpiniaoggi.it, 8 settembre 2015 Sembra senza fine la spirale di violenza che da alcuni mesi ormai caratterizza drammaticamente la quotidiana delle carceri della Campania. A pochi giorni dalle violenze nell’Opg di Aversa, questo pomeriggio si è registrata l’ennesima assurda aggressione di un detenuto contro un poliziotto penitenziario del carcere irpino, tanto violente da indurre il Basco Azzurro, colpito da due pugni al volto, a ricorrere alle cure dei medici dell’Ospedale cittadino S. Giuseppe Moscati. A darne notizia è Donato Capece, segretario generale Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, il primo e più rappresentativo della Categoria. "Sono stati momenti di alta tensione, gestiti al meglio dal personale di Polizia Penitenziaria che con grande professionalità ha impedito conseguenze più gravi all’interno della Casa Circondariale di Avellino, che alla data del 31 agosto scorso risultava affollata da 605 detenuti, ben 105 in più rispetto ai posti letto regolamentari. È uno stillicidio costante e continuo: i nostri poliziotti penitenziari continuano a essere picchiati e feriti nell’indifferenza delle autorità regionali e nazionali dell’amministrazione penitenziaria, che sono per altro costrette a confermare l’aumento delle violenze contro i Baschi Azzurri del Corpo nonostante il calo generale dei detenuti ma che nonostante ciò non adottano alcun provvedimento concreto perché queste folli aggressioni abbiamo fine, ad esempio sospendendo quelle pericolose vergogne chiamate vigilanza dinamica e regime penitenziario aperto", denuncia il leader nazionale del Sappe, che rivolge al poliziotto ferito "la solidarietà e la vicinanza del primo Sindacato dei Baschi Azzurri". Capece ricorda che il Sappe aveva reso pubblico, nelle scorse settimane, il dato allarmante delle aggressioni contro i poliziotti in Campania nei primi sei mesi del 2015: 325 colluttazioni e 55 ferimenti che, alla data di oggi, sono lievitati complessivamente a più di 400 episodi. Emilio Fattorello, segretario Regionale Sappe della Campania, evidenzia infine "la professionalità, la competenza e l’umanità che ogni giorno contraddistingue l’operato delle donne e degli uomini della Polizia Penitenziaria con tutti i detenuti per garantire una carcerazione umana ed attenta pur in presenza ormai da anni di oggettive difficoltà operative, le gravi carenze di organico di poliziotti, le strutture spesso inadeguate. Attenti e sensibili, noi poliziotti penitenziari, alle difficoltà di tutti i detenuti, indipendentemente dalle condizioni sociali o dalla gravità del reato commesso. Ma che corrono rischi e pericoli ogni giorno, in carcere, a Bellizzi e nelle altre strutture detentiva campane, per il solo fatto di essere rappresentanti dello Stato che garantiscono sicurezza e per questo pagano anche prezzi altissimi in termini di stress e disagi". Sondrio: il carcere apre le porte... pizzoccheri, note e parole La Provincia di Sondrio, 8 settembre 2015 Cena con jazz: tre detenuti prepareranno il piatto tipico con le cuoche dell’Accademia A seguire tavola rotonda. Il carcere apre le porte alla città per una serata dedicata a "Cibo, cultura, solidarietà", con un momento conviviale, un concerto e un dibattito con gli esperti sui temi legati alla pena e al reinserimento. L’iniziativa è in calendario per domani sera alla Casa circondariale di Sondrio e vedrà la partecipazione di una settantina di ospiti: le cuoche dell’Accademia del pizzocchero di Teglio prepareranno il piatto tipico insieme a tre detenuti nella cucina della struttura di via Caimi, poi inizierà la cena con l’accompagnamento del jazz dei musicisti Alfredo Ferrano, Sandro Di Pisa, Roberto Piccolo e Massimo Caracca. Seguirà una tavola rotonda con la docente Silvia Buzzelli dell’Università degli studi di Milano-Bicocca, il procuratore capo della Procura di Sondrio Claudio Gittardi e il presidente della cooperativa sociale Ippogrifo Paolo Pomi. "Gli autorevoli relatori - spiega la direttrice del carcere Stefania Mussio, le autorità che interverranno e il territorio partecipe con espressioni di alta qualità hanno permesso il patrocinio di Bicocca Expo. È anche un gesto di importante riconoscimento per l’Accademia di Teglio, da anni impegnata nel promuovere e nel non dimenticare una tradizione unica e radicata nella Valtellina". Qualche settimana fa il carcere sondriese aveva ospitato un momento di festa dedicato alle famiglie dei detenuti che hanno completato il corso di addetti alla panificazione. Libri: "Crime, Punishment, and Migration", di Dario Melossi recensione di Vincenzo Scalia Il Manifesto, 8 settembre 2015 L’ambivalente stigma della devianza, tra criminalizzazione e innovazione. Nella società contemporanea la tematica delle migrazioni si connota come un fiume carsico, che si inabissa e riaffiora in coincidenza coi momenti di crisi e di trasformazione delle società di accoglienza. La precarietà sociale dello straniero, al pari della sua eccentricità culturale e della marginalità economica, forniscono da sempre ai corifei della legge e dell’ordine sufficiente materiale a cui attingere per intessere discorsi xenofobici e intolleranti. Al di là delle isterie, del panico e della costruzione delle rendite politiche, sussistono tuttavia delle dinamiche storiche e sociali di lungo termine, all’interno delle quali è possibile inquadrare i fenomeni migratori come fenomeni fisiologici di ogni società, che ne riconfigurano la trama fondativa e ne guidano le trasformazioni, anche al prezzo di passaggi traumatici, come quelli prodotti dall’interazione tra migrazioni e sistema penale. Dario Melossi, nel suo ultimo lavoro Crime, Punishment, and Migration (pp.90, Sage, London), inedito in Italia, descrive e analizza questi processi attraverso le lenti della sociologia e della criminologia critica, adottando una prospettiva spazio-temporale che, partendo dalle origini del sistema capitalista, mette a confronto l’esperienza statunitense con quella europea. I migranti, spiega Melossi, si caratterizzano per la loro spinta innovativa, in senso mertoniano. In altre parole, l’ingresso sulla scena pubblica di soggetti individuali e collettivi, produce una discrepanza tra i fini condivisi dall’intera società e i mezzi a disposizione per raggiungerli. Già Karl Marx, nel Capitale, metteva in evidenza come la classe operaia discendesse dalla massa di manodopera agricola eccedente, affluita dalle campagne in seguito alle enclosures, e spesso costretta a vivere di espedienti in quanto il nascente sistema produttivo manifatturiero non era in grado di assorbirla tutta. È per loro, che a Londra e ad Amsterdam, nascono all’inizio del XVII secolo, le prime istituzioni punitive che, alla fine del Settecento, sfoceranno nelle istituzioni penali contemporanee, vere e proprie fucine disciplinari che plasmano il moderno proletariato. Le cronache odierne non stanno dunque registrando nessun fenomeno atipico o catastrofico. Si tratta, semmai, di un processo ciclico, che stavolta si articola su scala globale. Le nuove classi pericolose eccedono le guerre, la fame, la scarsità di risorse prodotte dalle trasformazioni del capitalismo contemporaneo. All’interno del cosiddetto "ciclo della canaglia", uno schema analitico che Melossi propone con efficacia da anni, si producono le trasformazioni all’interno della società di arrivo. Se le prime generazioni di migranti, in seguito alla scarsità di risorse simboliche a loro disposizione, si adattano alle condizioni di marginalità predisposte per loro nel loro nuovo Paese, la questione dell’innovazione si pone in tutta la sua criticità con le seconde generazioni. Una fascia sociale di persone nate e cresciute nella società di arrivo, della quale interiorizzano le norme e i valori, si trova a fare i conti con l’accesso sbarrato alle opportunità di mobilità sociale. Questa dinamica finisce per sfociare in un esito conflittuale nei periodi di crisi economica o di frammentazione sociale, oppure, come nell’Italia contemporanea, nella cornice economica del postfordismo, che fa della segmentazione e della precarietà la propria caratteristica peculiare. A questo punto, entra in gioco lo Stato, con le sue caratteristiche locali. Se negli Stati Uniti, paese di immigrazione, la blanda repressione dell’immigrazione clandestina produce bassi tassi di devianza tra i migranti, nei Paesi europei, e in particolare in Italia, il ruolo attivo dello Stato nella regolamentazione dei processi migratori sortisce l’effetto opposto. Privi di status legale, soggetti ad azioni repressive, i migranti si dibattono nella precarietà economica e nella marginalità sociale, finendo a volte per oscillare tra i le economie legali e quelle illegali. Inoltre, le forze di polizia, agiscono la loro azione preventiva e repressiva soprattutto su persone straniere, più facilmente identificabili per i loro tratti somatici e per le condizioni di segregazione residenziale in cui spesso versano. Ne consegue l’attivazione del processo di devianza secondaria, in seguito alla quale i migranti interiorizzano l’identità deviante come unica possibilità a loro disposizione per sopravvivere nella società di accoglienza. Come se ne esce? Melossi suggerisce che gli Stati dell’Unione Europea prendano atto del fatto che si sono trasformati in Paesi di immigrazione, e che, di conseguenza, adottino delle politiche di integrazione che abbassino la guardia sul piano dello status legale e mandino in soffitta le politiche neo-liberiste. L’Europa, d’altro canto, si trova con un apparato produttivo fatiscente e una popolazione sempre più "vecchia". Le masse di giovani con aspettative di una vita migliore rappresentano un’occasione da non perdere. Sempre che non ci contentiamo dei format di plastica alla Matteo Renzi. Migranti, quella lezione tedesca per la destra di casa nostra di Aldo Cazzullo Corriere della Sera, 8 settembre 2015 L’accoglienza dei profughi in Germania non è la scelta di un governo di sinistra. È la scelta del leader del centrodestra europeo, Angela Merkel. E l’organizzazione è gestita - nonostante qualche mugugno - dal governo bavarese, dominato da sempre dalla destra identitaria e dura del "toro" Strauss e di Stoiber. Ma la destra italiana, dov’è? È pronta a fare la propria parte, nelle regioni e nelle città che amministra, o è ferma alla propaganda? È per il modello tedesco, o per quello ungherese? L e immagini storiche dell’arrivo dei siriani a Monaco sono destinate a restare nella memoria per molte ragioni. Evocano un contrappasso della storia: i persecutori del secolo scorso che accolgono i perseguitati del nostro tempo. Sono anche il segno di un risveglio tardivo: per troppo tempo i Paesi più esposti al flusso migratorio - l’Italia, la Grecia, la stessa Turchia, che non fa parte dell’Ue ma ha retto finora il peso maggiore della crisi siriana - hanno chiesto invano agli altri Paesi europei di farsi carico di un’emergenza epocale. Se Berlino e Bruxelles si fossero mosse prima, si sarebbero evitati lutti ed esasperazioni. Ma lo scatto della Germania rappresenta per l’Italia una lezione politica. La Merkel ha saputo fronteggiare la xenofobia che ha visto montare alla propria destra. Le immagini degli attacchi ai centri di accoglienza sono state decisive per indurla alla svolta di questi giorni tanto quanto le fotografie che hanno percosso la coscienza del mondo. I cristiano sociali della Baviera hanno fatto il resto. E il conservatore Cameron per la prima volta non si chiama fuori. In Europa si affaccia, sia pure in ritardo, una destra della legalità e della responsabilità; ovviamente non disponibile ad accogliere chiunque, ma determinata a non respingere più chi fugge davvero dalla guerra. In Italia siamo ancora alla rissa, con Renzi che distingue tra esseri umani e bestie, Salvini che si sente chiamato in causa e gli dà del verme. E siamo alle diverse varianti del populismo, consolatorio o allarmista; al solito schema della sinistra buonista e della destra cattivista, dell’"accogliamoli tutti" e del "prendeteveli a casa vostra". Per fortuna, al di là di qualche scena di isteria dovuta più che altro alle carenze organizzative del governo e alle strumentalizzazioni politiche dell’opposizione, gli italiani si sono comportati in questi mesi con umanità, e nelle zone più esposte - a cominciare da Lampedusa - con una generosità di cui possiamo andare fieri. Adesso anche chi ha incarichi di governo deve fare altrettanto. La solidarietà non può essere disgiunta dalla sicurezza; e sarebbe il caso che Renzi desse ai familiari dell’orribile delitto di Palagonia quella risposta - con i fatti più che con le frasi fatte - che sollecitano invano da giorni. Ma l’evolversi della situazione europea implica che pure la destra italiana, in particolare dove ha responsabilità di governo, esca dalle logiche consuete e batta un colpo. Cosa ne pensano i "moderati" della Lega, gli Zaia e i Maroni, che legittimamente aspirano a un ruolo nazionale? Che ne dicono i sindaci delle grandi città del Veneto, i leghisti Tosi e Bitonci e il veneziano Brugnaro, che in laguna (a parte le polemiche retrograde su omofobia e Gay Pride) sembra portare avanti un interessante esperimento post-ideologico? Il loro punto di riferimento è la Csu bavarese o la xenofobia del governo di Budapest? E Forza Italia discute solo delle proprie polemiche interne? Con la Germania è giusto polemizzare, ma qualcosa ogni tanto sarebbe bene imparare. Oppure dobbiamo rassegnarci al fatto che la destra della legalità e della responsabilità non può passare le Alpi? L’accoglienza non basta, sconfiggiamo la disuguaglianza di Don Francesco Soddu (Direttore Caritas Italiana) Il Garantista, 8 settembre 2015 La morte di migliaia di persone scuote l’Europa che per tanto tempo si è definita solidale, ma che all’improvviso si è trovata divisa davanti all’incessante richiesta dei profughi. Le immagini delle traversate lungo il Mediterraneo e attraverso i confini terrestri dell’Europa appaiono come un monito agli stati affinché la sofferenza di milioni di persone che fuggono dalle guerre sia una responsabilità di tutti. Immagini da esodo, che richiamano le vicissitudini del popolo di Israele che ben conosce cosa significhi la permanenza in terra straniera, nella forma di persecuzione e oppressione in Egitto, di deportazione a Babilonia. Un’emorragia inarrestabile che è doveroso ma non sufficiente tamponare con accoglienza e solidarietà. Quell’accoglienza che sembra non fare più paura, soprattutto dopo i numerosi appelli del Santo Padre alla preghiera e a gesti concreti, come ha ripetuto anche all’Angelus del 6 settembre. Dobbiamo però prendere atto che la vera solidarietà richiede anche e soprattutto un’azione comunitaria, che ponga finalmente in cima alle priorità la difesa dei diritti e della vita. È ora che la comunità internazionale assolva ai compiti che le sono connaturati: l’Onu torni ad essere guardia della pace e custode dei diritti umani. Milioni di persone vivono nella parte sofferente del mondo e non possiamo far finta di niente. "Aiutarli a casa loro" è un ragionamento sensato, ma significa mettere chi soffre nelle condizioni di restare nella propria terra garantendo loro il rispetto dei diritti fondamentali per una vita dignitosa, in primis cibo, lavoro e pace. Chi rischia la pelle su un barcone lo fa perché viene calpestato il suo primo e inalienabile diritto: quello di restare a casa propria. Forti povertà e diseguaglianze caratterizzano la nostra famiglia umana, e la sete di potere così come la crescita avida e irresponsabile scavano solchi sempre più profondi. Non possiamo continuare a giustificare i lauti banchetti del ricco perché così resteranno avanzi per sfamare il povero (Luca 16,19-30), bisogna cambiare la distribuzione dei posti attorno al tavolo per fare di Lazzaro un commensale a pieno titolo. Questo è un momento storico che richiede dunque di ripensare e rimettere al centro le relazioni tra gli uomini, fondandole sul riconoscimento della dignità umana come codice assoluto, e che richiama ad una responsabilità, diretta e indiretta, nella cura di tali relazioni che dal micro deve allargarsi al macro. "Sappiamo - sottolinea Papa Francesco nell’Enciclica "Laudato sì" - che è insostenibile il comportamento di coloro che consumano e distruggono sempre più, mentre altri ancora non riescono a vivere in conformità alla propria dignità umana. La crisi finanziaria del 2007-2008 era l’occasione per sviluppare una nuova economia più attenta ai principi etici, e per una nuova regolamentazione dell’attività finanziaria speculativa e della ricchezza virtuale. Ma non c’è stata una reazione che abbia portato a ripensare i criteri obsoleti che continuano a governare il mondo". La sfida urgente è dunque quella di ridefinire le priorità per colmare lacune, ingiustizie e ritardi nella redistribuzione delle risorse, in primo luogo combattendo la povertà e l’esclusione sociale. Questo significa modalità diverse di pensare lo sviluppo complessivo del pianeta, globalizzazione compatibile con la solidarietà, maggiori quote di Pil dei paesi ricchi orientate alla crescita economica, sociale e culturale dei più poveri, rilancio della cooperazione internazionale, condono o forte riduzione del debito estero. Dal canto suo la Chiesa - raccogliendo l’appello di papa Francesco al n. 15 della Misericordiae Vultus, Bolla di indizione del Giubileo della Misericordia - continuerà "a curare queste ferite, a lenirle con l’olio della consolazione, fasciarle con la misericordia e curarle con la solidarietà e l’attenzione dovuta" per non cadere "nell’indifferenza che umilia, nell’abitudinarietà che anestetizza l’animo e impedisce di scoprire la novità, nel cinismo che distrugge". Il piano Ue: in Germania, Francia e Spagna la maggioranza dei profughi di Alberto D’Argenio La Repubblica, 8 settembre 2015 La nuova ripartizione delle quote :i tre paesi accoglieranno circa 70 mila richiedenti asilo. Dall’Italia andranno via 40 mila migranti. Saranno Germania, Francia e Spagna ad accogliere la maggioranza dei richiedenti asilo giunti negli ultimi mesi in Europa. Lo prevede lo schema per i ricollocamenti che oggi sarà sul tavolo della Commissione europea guidata da Jean-Claude Juncker. Il collegio Ue analizzerà il progetto nella sua riunione di Strasburgo, ma l’approvazione formale potrebbe slittare a domani mattina in modo da permettere a Juncker di presentarlo direttamente al Parlamento europeo nell’annuale discorso sullo stato dell’Unione. Il pacchetto sarà poi esaminato lunedì dai ministri degli Interni dei Ventotto e non si esclude che nei giorni successivi venga convocato un vertice straordinario dei leader per piegare le resistenze dei paesi dell’Est contrari alla solidarietà. Lo schema prevede una ripartizione obbligatoria tra tutti i soci dell’Unione di 120mila richiedenti asilo che si sommano ai 40mila la cui ricollocazione era stata proposta a maggio. Secondo i criteri della Commissione su un totale di 160mila migranti al momento arrivati in Italia, Grecia e Ungheria, 31.443 andranno in Germania - numero che si somma alle decine di migliaia di profughi giunti nelle ultime ore dall’Ungheria - 24.031 in Francia (Hollande, che fino a luglio nicchiava, ora ha confermato che accetterà la cifra) e 14.931 in Spagna. Secondo i criteri stilati dalla Commissione sulla base di Pil e disoccupazione la Polonia dovrebbe ospitarne circa novemila, ma Varsavia ha fatto sapere che si fermerà a duemila. Bruxelles ha ammorbidito le richieste per gli altri paesi dell’Est riottosi assegnando alla Repubblica Ceca 2.978 persone e alla Slovacchia 1.502. L’Irlanda, che gode di un opt out dal sistema, ha già fatto sapere che parteciperà. La Gran Bretagna, anch’essa esterna a Schengen, ha annunciato che ospiterà 20mila richiedenti asilo ma per indebolire il progetto europeo non parteciperà alle quote e preleverà i richiedenti dai campi profughi al di fuori del Continente. Dei 160mila migranti che godranno della protezione Ue 39.600 (24mila decisi a maggio più altri 15.600) verranno prelevati dall’Italia. Un totale in proporzione minore rispetto a quello stabilito prima dell’estate perché nelle ultime settimane la situazione si è appesantita in Grecia e in Ungheria che potranno rispettivamente ricollocare 66.400 e 54mila migranti. "È nostro dovere legale e morale proteggere chi fugge da guerra e morte, noi lo proponiamo da mesi", commenta l’Alto rappresentante per la politica estera dell’Unione Federica Mogherini. Per questa ragione la Commissione prevede di rendere obbligatorie le quote e i governi che non vorranno partecipare dovranno spiegarne il perché a Bruxelles. Se la Commissione riterrà valide le ragioni dell’impossibilità, esenterà il Paese che però dovrà versare una somma riparatoria alla Ue che verrà girata ai paesi che stanno fronteggiando l’emergenza. È la proposta più contestata dal blocco dell’Est e non è scontato che passi al Consiglio europeo, dove comunque si deciderà a maggioranza e dove questa volta oltre a Renzi anche Merkel e Hollande sosterranno apertamente il sistema. A rischiare è anche la proposta della Commissione di rivedere le regole di Dublino per rendere permanente il sistema delle quote. In parallelo Italia e Grecia saranno pressate affinché attivino gli hotspot dove registrare i migranti per mettere fine all’abitudine di farli scappare nel resto d’Europa, condizione necessaria per il funzionamento delle quote. Roma è intenzionata a dare seguito alla richiesta mano a mano che il sistema di solidarietà entrerà in vigore. Bruxelles approverà poi una lista dei paesi sicuri i cui cittadini arrivati in Europa saranno rapidamente rimpatriati da Frontex in modo da lasciare spazio ai richiedenti asilo. Ne faranno parte Turchia, Macedonia, Montenegro Kosovo, Serbia, Albania e Bosnia. Infine domani la Commissione approverà un pacchetto di aiuti da 1,7 miliardi per Sahel, Corno d’Africa e lago Chad: dovranno essere spesi anche per il contrasto all’immigrazione e la lotta ai trafficanti. Il nodo riconoscimenti dietro gli spot di Renzi di Luca Fazio Il Manifesto, 8 settembre 2015 I Centri per immigrati scoppiano, i leader si insultano. Salvini al premier: verme. Al prossimo vertice europeo l’Italia chiederà certezze sulla destinazione dei richiedenti asilo. Domenica, poco prima che Matteo Renzi strappasse l’applauso alla festa nazionale del Pd facendo il solidale con il cuore degli altri (Angela Merkel, non lui, ha spalancato le porte ai profughi), una donna nigeriana sbarcata a Lampedusa stava piangendo i suoi due bambini appena scomparsi in mare. Nessuno li ha fotografati, sono bambini che per gli europei non esistono, come quasi inesistente è la notizia dell’ultima tragedia che si è consumata a trenta miglia dalle coste libiche. Con la donna nigeriana, che ha perso anche un fratello, la nave della marina Dattilo ha soccorso 107 persone che erano a bordo di un gommone sgonfio. Secondo i racconti dei superstiti, almeno venti compagni di viaggio sarebbero scomparsi in mare. Li ritroveremo presto ad ingrossare la prossima statistica aggiornata sui morti nel Mediterraneo (due giorni fa eravamo fermi a 2.800 esseri umani). A raccogliere il racconto della donna sono stati gli operatori del progetto "Mediterranean Hope" della Federazione delle chiese evangeliche in Italia. Un altro ragazzo del Gambia ha detto di aver perso due amici. Ma questi (in Italia) sono giorni di confusione, proclami e accuse reciproche tra "umani"da una parte e "vermi" dall’altra, due categorie troppo distratte da se stesse per rendersi conto di ciò che continua ad accadere nel mare e sulla terraferma. Il centro di accoglienza di Lampedusa, per esempio, oggi ospita 530 migranti pur avendo una capienza di 250 posti. A Catania, tre giorni fa, sono sbarcati 344 migranti, mentre l’altro ieri a Pozzallo (Ragusa) ne sono sbarcati 327, tra cui uno scafista che ha portato con sé il figlio di dieci anni: "Non avevo soldi per farlo partire, così mi sono offerto di fare il pilota per dargli un futuro", ha confessato alla polizia. A tutte queste persone che continuano ad arrivare nonostante l’immagine shock del piccolo Aylan, bisognerà dare una risposta. Significa che Matteo Renzi non può continuare a cavarsela limitandosi ad esaltare la generosità della Germania e dei cittadini tedeschi. "È urgente che siano costruiti gli hotspot", ha ribadito ieri Angela Merkel in conferenza stampa a Berlino. Il messaggio è inequivocabilmente rivolto ai due paesi di primo approdo dei migranti, Italia e Grecia. Questa è la contropartita che l’accogliente Germania pretende dai suoi partner europei più esposti alle ondate migratorie: una stretta sul controllo e sulle identificazioni dei migranti che arrivano in Europa. Costruendo luoghi di internamento, i cosiddetti "hotspot", dove non si potrà far altro che limitare la libertà delle persone prima di stabilire chi avrà diritto alla protezione e chi invece dovrà essere rispedito indietro. Ma prima di procedere all’allestimento dei nuovi centri di identificazione (a Lampedusa, Pozzallo, Trapani, Taranto e Augusta) il governo italiano vuole che in Europa si arrivi a un accordo certo sulla distribuzione dei richiedenti asilo nei vari paesi. Questo è uno dei nodi principali da affrontare durante il vertice europeo della prossima settimana. Altra questione cruciale, da cui dipenderà la gestione degli "hotspot" che rischia una deriva concentrazionaria, è stabilire quali siano i paesi d’origine considerati pericolosi in modo tale da assicurare protezione solo ad alcuni migranti. Una scelta che non può che risultare arbitraria e che finirebbe per discriminare quei profughi che rischiano di essere respinti senza che venga valutata la loro personale vicenda. Infatti, come stabilisce la convenzione di Ginevra, qualunque persona può essere vittima di violenze e persecuzioni a prescindere dal paese di provenienza. Lavorano e fanno figli: così i migranti finanziano l’Europa di Maurizio Ricci La Repubblica, 8 settembre 2015 Per salvare le nostre pensioni servono 250 milioni di rifugiati entro il 2060. Ecco perché per gli economisti sono una risorsa. A dispetto di quello che dicono alcuni politici, l’immigrazione conviene. Perché chi arriva, produce e paga le tasse. In Italia, per esempio, senza il contributo degli stranieri il governo sarebbe a caccia di 7 miliardi per coprire la legge di Stabilità. I politici possono dire quello che vogliono. E anche i cittadini qualunque, al bar o in tram. Ma gli economisti non hanno dubbi: le dimensioni del fenomeno sono troppo grandi per liquidarle con gli aneddoti sui due ragazzi di colore fermi a non far niente sul marciapiede o sulle famiglia araba nell’alloggio di edilizia popolare. Sulla base dei grandi numeri, dunque, gli economisti concludono che gli immigrati che si rovesciano a ondate sulle frontiere europee non sono il problema. Sono la soluzione del problema. Bisogna trovare il modo di sistemarli e di integrarli: un compito inedito, immane, per il quale non ci sono soluzioni facili. Ma le centinaia di migliaia di uomini e donne, giovani, fra i 20 e i 40 anni, spesso con figli al seguito, che si affollano sulle barche, sui treni, sui camion dei disperati sono quello di cui l’Europa ha bisogno. Subito. Quando Angela Merkel apre le porte della Germania a 800 mila rifugiati, infatti, non spara troppo alto. Spara basso. Facendo un calcolo a spanne, Leonid Bershidsky, su Bloomberg, calcola che l’Europa avrebbe bisogno di 42 milioni di nuovi europei entro il 2020. Cioè domani. E di oltre 250 milioni di europei in più nel 2060. Chi li fa, tutti questi bambini? I 42 milioni di europei in più sono, infatti, quelli che servirebbero, subito, per tenere in equilibrio una cosa a cui - nonostante quello che hanno affermato in questi giorni leader politici, come l’ungherese Viktor Orbàn - gli europei qualunque tengono, probabilmente, più che alle loro radici cristiane: il generoso sistema pensionistico. Oggi, in media, dice un rapporto della Ue, in Europa ci sono quattro persone in età lavorativa (15-64 anni) per ogni pensionato. Nel 2050, ce ne saranno solo due. Ancora meno in Germania: quasi 24 milioni di pensionati contro poco più di 41 milioni di adulti. In Spagna: 15 milioni di over 65 a carico di soli 24,4 milioni di lavoratori. In Italia: 20 milioni ad aspettare ogni mese, nel 2050, l’assegno dell’Inps, finanziato dai contributi di meno di 38 milioni di persone in età per lavorare. Le soluzioni non sono molte. O si tagliano le pensioni, o si aumentano i contributi in busta paga o si trova il modo di aumentare il numero di persone che pagano i contributi. Sarà un paradosso, ma è più facile che, a pagare quei contributi, sia un immigrato, piuttosto che un cittadino italiano. Oggi, la percentuale degli italiani che lavora e porta a casa soldi è pari al 67 per cento della popolazione. Fra chi è venuto qui dall’Asia o dall’Africa, la percentuale è del72 per cento. Perché ha tolto il posto di lavoro a un italiano? Non parrebbe. Secondo l’Ocse - l’organizzazione che raccoglie i paesi ricchi del mondo - circa il 15 per cento dei posti di lavoro nei settori ad alto sviluppo è stato occupato da un immigrato. In altre parole, dove la concorrenza per il posto è forte, c’è un immigrato ogni 6-7 lavoratori. Nei settori in declino, invece, incontrare un immigrato è quasi due volte più facile: oltre un addetto su quattro non è nato in Italia. Detto più semplicemente, gli immigrati tendono ad occupare i posti di lavoro che chi è nato in Occidente preferisce abbandonare. Su quei lavori, pagano le tasse. Senza gli immigrati, il governo Renzi sarebbe, in questo momento, disperatamente alla caccia di quasi 7 miliardi di euro per tappare i buchi della legge di Stabilità. Gli stranieri hanno pagato, infatti, circa 6,8 miliardi di euro di Irpef nel 2014, su redditi dichiarati per oltre 45 miliardi di euro l’anno. La Fondazione Leone Moressa ha calcolato il rapporto costi-benefici dell’immigrazione è, per l’Italia, largamente positivo: le tasse pagate dagli stranieri (fra fisco e contributi previdenziali) superano i benefici che ricevono dal welfare nazionale per quasi 4 miliardi di euro. Più o meno, è quanto dicono i dati degli altri paesi europei. L’immigrazione deve essere inserita nella colonna dei più: in media, l’apporto netto all’economia, da parte di chi è giunto in Europa in questi anni, vale, secondo i calcoli dell’Ocse, lo 0,3 per cento del Pil, il prodotto interno lordo, ovvero la ricchezza creata in un anno nel paese. Se si tolgono le pensioni pagate agli stranieri residenti, l’apporto positivo supera lo 0,5 per cento del Pil. Era vero quando, negli anni scorsi, l’immigrazione era frutto di movimenti all’interno dell’Europa. Ed è vero anche oggi, che hanno assunto preminenza i flussi extraeuropei. "Il contributo degli immigrati all’economia è superiore a quanto essi ricevono a titolo di prestazioni sociali o di spesa pubblica" riassume Jean-Cristophe Dumont che guida il dipartimento dell’Ocse che si occupa specificamente di immigrazione e che ha studiato gli ultimi dati. La realtà si è incaricata di sgonfiare molte polemiche degli ultimi anni, a cominciare da quella sull’idraulico polacco che, sull’onda dell’allargamento dell’Unione, nel 2004, sarebbe stato pronto a sbarcare nei paesi della Ue a togliere lavoro ai suoi colleghi. L’Ocse ha studiato da vicino il caso dell’Inghilterra dove, negli anni immediatamente successivi al 2004, sono arrivati, in effetti, un milione di immigrati dai paesi est europei, Polonia in testa. Ma, secondo Dumont, queste centinaia di migliaia di immigrati "non hanno né aumentato il tasso di disoccupazione, né abbassato il livello medio dei salari". Difficile che un idraulico siriano, oggi, cambi quello che non ha cambiato, ieri, l’idraulico polacco. Piuttosto, ciò che colpisce, nelle cifre sull’immigrazione, è la loro esiguità. L’impressione di un’Europa scossa e sommersa da uno tsunami migratorio è frutto di un’allucinazione. In tutto, gli immigrati oggi presenti in Europa sono pari al 7 per cento della popolazione. Gli arrivi incidono positivamente sull’economia, ma per non più di qualche decimale. Il fisco ci guadagna: uno straniero in Lombardia dichiara più di un italiano in Calabria. Ma l’Irpef complessiva degli immigrati non arriva al 5 per cento del totale delle relative entrate. Anche le spese, nonostante le polemiche, sono ridotte. In media, nei paesi ricchi dell’Ocse, gli immigrati assorbono il 2 per cento dei fondi per l’assistenza sociale, l’1,3 per cento dei sussidi di disoccupazione, lo 0,8 per cento delle pensioni. L’Italia è in linea. Anzi sulle pensioni (pochi gli immigrati che, nel nostro paese, ci sono arrivati) la spesa per gli stranieri è dello 0,2 per cento. Piano a dire, dunque, che la Merkel è stata accecata dalla generosità. Gli 800 mila rifugiati che è pronta ad accogliere sono meno del milione di polacchi che ha assorbito l’Inghilterra di Blair e non creeranno, probabilmente, più sconquassi. Le ragioni della svolta tedesca di fronte all’emergenza dei profughi di Marco Bascetta Il Manifesto, 8 settembre 2015 Nel sottolineare più volte il fatto che la Germania è un paese forte e sano, Angela Merkel lascia intendere che solo l’esercizio ordinario del rigore permette l’esercizio straordinario della solidarietà. Può cambiare tutto nel giro di poche settimane o addirittura di pochi giorni? La stampa europea fa mostra di crederci. L’egemonia tedesca sull’Europa sembra essersi trasformata d’incanto in una luminosa guida morale. I "valori della cultura europea" mettono in ombra quelli della borsa, la responsabilità storica prende il sopravvento su quella contabile, dall’ultimo rifugiato siriano fino alla cancelliera Merkel tutti insieme intonano l’Inno alla Gioia. Per qualcuno la "pallida madre" avrebbe addirittura rispolverato lo spirito di Hoelderlin e Heine. L’esagerazione è il pane quotidiano dei media. Eppure qualcosa di nuovo è accaduto. Berlino, sia pure con molti distinguo di cui non è ancora chiara l’entità, ha rimesso in questione una delle sue creature più care: quell’accordo di Dublino che costringeva i richiedenti asilo a rimanere nel primo paese di approdo. Ha chiamato a un grande sforzo nazionale per fronteggiare l’emergenza dei profughi, ha dichiarato di voler investire sei miliardi dei suoi preziosi risparmi per la sistemazione e l’integrazione dei nuovi arrivati, indirizza l’Unione europea verso politiche responsabili di apertura e di accoglienza. Questa correzione di rotta è stata determinata da quattro fattori ben più razionali che emotivi. Il primo, decisivo, è la consapevolezza che la pressione migratoria era ormai inarrestabile. Il governo di Berlino ha dovuto infine prendere atto che non esiste barriera materiale o legislativa in grado di arginare la moltitudine in movimento. Si tratta, dunque, di una vittoria dei migranti, ottenuta a carissimo prezzo, di un risultato della loro straordinaria determinazione. Le frontiere non sono state semplicemente aperte dalla benevolenza dei "padroni di casa", ma travolte da decine di migliaia di persone che esercitavano, prima che qualcuno glielo avesse riconosciuto, il loro "diritto di fuga" e rivendicavano la libertà di movimento. Inoltre bisognava fare in fretta poiché tutto poteva accadere in quell’Ungheria dai tratti sempre più marcatamente fascisti che l’Europa tollera nel suo seno. Aprire la frontiera più che una scelta è stata una necessità. Il secondo elemento è la scoperta che i sentimenti xenofobi e razzisti non sono affatto maggioritari e neanche così ampiamente diffusi come si credeva. La straordinaria mobilitazione spontanea a sostegno dei rifugiati da Vienna a Monaco a Berlino ha dissipato le ombre disseminate in Germania dai patrioti antislamici di Pegida (ridotti a sparuti gruppuscoli assediati in ogni città tedesca) e dai nazionalisti solo un po’ meno impresentabili di Alternative fuer Deutschland. Di conseguenza il timore che l’apertura agli stranieri dovesse comportare un cospicuo costo elettorale a favore della destra è stato fortemente ridimensionato. Alla fine potrebbe addirittura tradursi in un guadagno per la Cdu di Angela Merkel. Il terzo fattore era la necessità di restaurare l’immagine della Germania in Europa, grandemente danneggiata dalla gestione della crisi greca. Il paese non doveva più essere identificato con il volto arcigno della Bundesbank. Tuttavia, nel sottolineare più volte il fatto che la Germania è un paese forte e sano, Angela Merkel lascia intendere che solo l’esercizio ordinario del rigore permette l’esercizio straordinario della solidarietà. Severa o sollecita che sia la leadership continua risiedere a Berlino. In ogni modo l’operazione di immagine, a giudicare dagli osanna che si levano in mezza Europa e tra le file più fotografate dei profughi, è perfettamente riuscita. Senza peraltro dovere ricorrere ai proclami bellici di Londra e di Parigi. Il quarto fattore è la consapevolezza del fatto che, debitamente governata, l’immigrazione, se a breve termine rappresenta un costo, sul lungo periodo costituisce una formidabile risorsa, soprattutto per un modello economico come quello tedesco. Si tratta allora di mettere a punto gli strumenti e i filtri necessari a questo governo e dunque un diritto di asilo europeo secondo schemi funzionali alla politica migratoria della Bundesrepublik. Il lavoro è appena cominciato e c’è intanto da fare i conti con i nazionalismi più o meno xenofobi dell’Est europeo lungamente coccolati da Berlino. Ma, soprattutto, ci sono da stabilire i criteri di ammissione e di esclusione. In un primo momento sembrava che le porte della Germania si dovessero aprire ai soli siriani. Una discriminazione rispetto ad altre aree di conflitto armato non ammessa dalla Costituzione tedesca. Tuttavia non è ancora chiaro chi avrà diritto allo status di rifugiato. Di certo non chi proviene dai paesi balcanici (Albania, Serbia, Kosovo, Bosnia) dichiarati sicuri. Il criterio è semplice: una volta dichiarato un paese "sicuro" il rimpatrio sarà immediato. Ma questa definizione si presta alle più arbitrarie e interessate semplificazioni. Tanto più che in molti paesi la "sicurezza" garantita alla maggioranza, spesso non lo è altrettanto per le minoranze. C’è da scommettere che, se questo sarà il discrimine, il mondo si scoprirà presto molto più sicuro di quanto non immaginasse. E, tuttavia, una disponibilità al cambiamento, al rinnovamento delle società europee con il contributo dei migranti sembra essersi ormai diffuso tra i cittadini del Vecchio Continente e trova una qualche eco perfino nelle parole della Cancelliera alquanto inebriata dal suo stesso, inatteso, successo di pubblico. Una breccia è stata aperta su entrambi i lati della frontiera, una breccia che investe l’intero spazio pubblico europeo e che, su questa scala, deve essere allargata. Albania: ministro Giustizia chiede assistenza all’Italia per una legge su depenalizzazione Nova, 8 settembre 2015 Il ministro di Giustizia albanese, Nasip Naco, ha chiesto l’assistenza dell’Italia per la preparazione della legge sulla depenalizzazione. "Per noi si tratta di un processo importante che richiede una normativa precisa, basata sui migliori modelli", ha dichiarato Naco al termine dei colloqui a Tirana con il ministro di Giustizia italiano Andrea Orlando. Sulla legge per la depenalizzazione in Albania ferve da tempo un lungo dibattito. Sia il governo di centro sinistra del premier Edi Rama, che l’opposizione di centro destra guidata da Lulzim Basha, hanno precisato che il modello italiano, la "legge Severino", è quello su cui dovrebbe essere basata la nuova normativa. Sia Naco che Orlando hanno riconosciuto che fra le due istituzioni esiste una stretta collaborazione che "va ulteriormente rafforzata". La giustizia è un capitolo che ha grande importanza e grande rilevanza e credo lo abbia ancora di più nel momento in cui l’Albania aspira ad entrare nell’Ue, causa che l’Italia condivide e sostiene". Il ministro italiano ha sottolineato che "nel corso degli anni si sono compiuti dei passi in avanti sul tema del riconoscimento delle sentenze e sul tema della cooperazione per l’esecuzione della pena. Abbiamo definito le possibili ulteriori azioni per sviluppare questi risultati". Da parte sua Naco ha ricordato che dal 2011 al 2015 "sono oltre 150 le persone estradate in Italia. L’Albania - ha precisato il ministro albanese - non potrà mai essere un rifugio per i criminali". Siria: Amnesty; i curdi moltiplicano arresti "arbitrari" di oppositori e sospetti islamisti Askanews, 8 settembre 2015 Le autorità curde nel nord della Siria stanno "moltiplicando gli arresti arbitrari" di oppositori e sospetti sostenitori dello Stato Islamico (Isis), privando i detenuti di processi equi. È quanto denuncia oggi Amnesty International. In un nuovo rapporto diffuso oggi, l’Organizzazione non governativa afferma di aver appreso di diversi casi di detenzione senza prove evidenti di persone che criticavano il partito dell’Unione democratica curda (Pyd). "Il Pyd non può utilizzare la sua lotta contro il terrorismo come pretesto per violare i diritti di persone che si trovano nella zona che controlla", ha affermato Fakif Lama di Amnesty. L’Ong afferma di aver intervistato 10 prigionieri in due località della Siria nordorientale, definendo le loro condizioni di detenzione "corrette", anche se in celle sovraffollate. L’Organizzazione, tuttavia, si rammarica, che alcune persone siano state detenute per oltre un anno senza processo, nel corso di procedure "profondamente ingiuste". "I detenuti sono privati dei loro diritti più elementari come quelli di assumere un avvocato o di avere accesso alle accuse a loro carico", ha aggiunto Amnesty. Gli abitanti arabi in aree controllate dalle autorità curde si lamentano di essere stati indicati come persone vicine all’Isis senza alcuna prova. Uno di questi ha sostenuto di essere stato detenuto per un mese per avere un nome simile a una persona ricercata e un altro per aver criticato il Pyd su Facebook. Amnesty ha detto che le autorità curde hanno anche "usato la legge anti-terrorismo per perseguire i gruppi di opposizione curdi". Egitto: nuova legge contro l’immigrazione clandestina, per i trafficanti possibile ergastolo Nova, 8 settembre 2015 Le autorità egiziane hanno stilato ieri sera il nuovo disegno di legge per la lotta contro l’immigrazione clandestina, che prevede l’ergastolo per i trafficanti di uomini. Lo riferisce l’agenzia di stampa statale "Mena" citando il ministro di transizione della Giustizia e degli affari della camera dei rappresentanti Ibrahim al Heneidy. Più nel dettaglio la nuova legge proposta dal Comitato per la sicurezza nazionale dell’Alto comitato per le riforme prevede la pena dell’ergastolo per i criminali che si occupano del trasporto degli esseri umani, se il traffico dovesse provocare la morte di una o più persone o se gli scafisti dovessero compiere atti di terrorismo. Negli altri casi, i trafficanti di uomini rischiano una pena detentiva fino a cinque anni e una multa variabile da circa 6 mila dollari a 25 mila. Il testo sarà ora esaminato dall’Alto comitato per le riforme giuridiche prima di essere approvato dal Consiglio dei ministri e varata dal presidente Abdel Fatah al Sisi. Panama: Mons. Ulloa incoraggia i detenuti "reclusione non è lo stesso di esclusione…" Agenzia Fides, 8 settembre 2015 "Reclusione non è lo stesso di esclusione, ci sono molti elementi che giocano contro i reclusi: il sovraffollamento, la lentezza della giustizia, la mancanza di una strategia occupazionale, la violenza. Fratelli e sorelle detenuti, le nostre azioni hanno delle conseguenze, e questa deve essere la grande lezione da imparare in questo luogo" ha detto l’Arcivescovo di Panama, Sua Ecc. Mons. José Domingo Ulloa, durante la Messa celebrata nel Centro di Detencion di Tinajitas domenica 6 settembre. Mons. Ulloa ha sottolineato che tutti i prigionieri devono fare parte di un processo di reinserimento nella società. Secondo la nota pervenuta a Fides, Mons. Ulloa ha inoltre invitato i detenuti di questa prigione a pentirsi e ad aprire il cuore a Dio: "Il peccato non è un male qualsiasi, il peccato è adorare l’idolo dell’orgoglio, della vanità, poi dobbiamo chiedere scusa sinceramente, di cuore, a quanti abbiamo fatto del male". "Il detenuto non è solo quello che sta dietro le sbarre" ha affermato ancora, ricordando che ci sono persone che vivono con vanità e avidità, infatti "ci sono quanti vivono dentro la prigione dell’orgoglio". La Chiesa, con la pastorale penitenziaria e la presenza dei religiosi nelle carceri, porta avanti un lavoro di reinserimento nella società di molti detenuti. Nei centri penitenziari sono impegnati anche numerosi volontari per l’educazione e l’assistenza sanitaria dei detenuti.