Giustizia: l’affondo di Violante per farla finita con il totalitarismo giudiziario di Marianna Rizzini Il Foglio, 7 settembre 2015 Se i partiti sono in crisi, la magistratura non sta meglio: Csm irresponsabile, clientele, obbligatorietà come feticcio. C’è Raffaele Cantone, presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, magistrato di sinistra e figura chiave della nouvelle vague moralistica di epoca renziana che, alla Festa dell’Unità di Milano, parla a tutto campo dei rapporti disfunzionali tra magistratura e politica sotto vari aspetti (Md, l’Anm, le correnti, il Csm, l’obbligatorietà dell’azione penale e sulla Trattativa stato-mafia). E c’è Luciano Violante, ex magistrato, ex presidente della Camera e della commissione parlamentare Antimafia, docente e a lungo parlamentare che invoca l’autoriforma della magistratura per motivi simili se non identici: rapporti squilibrati tra i due ordini, politico e giudiziario, dovuti soprattutto "alla crisi di sovranità della politica" che non riesce più a stabilire confini certi (già nel 2009 Violante ne parlava in "Magistrati", edizioni Einaudi, libro in cui affrontava il problema della perdita di credibilità della politica e della conseguente espansione della sfera di influenza del diritto). Sullo sfondo, c’è un altro libro, quello di Piero Tony, ex procuratore capo di Prato presente al dibattito di Milano con Cantone e autore di "Io non posso tacere" (sempre Einaudi), libro in cui mette sotto accusa la magistratura politicizzata e i processi a mezzo stampa. E già "si sarebbe a buon punto" sulla strada dell’autoriforma, dice Violante, se si cominciassero a mettere insieme questi tasselli, e magari anche "il libro di Aniello Nappi sulla sua esperienza al Csm" ("Quattro anni a Palazzo dei Marescialli - idee eretiche sul Csm", Aracne). E sì, ha ragione Cantone sul fatto che l’obbligatorietà dell’azione penale sia "una ipocrisia", dice Violante, ma c’è prima da fare tutta una riflessione "sullo spirito che pervade alcuni settori della magistratura che costruiscono inchieste giudiziarie indipendentemente da una specifica notizia di reato perché ritengono di avere un ruolo salvifico contro la politica, per cui tutto ciò che ha effetti scandalistici o spettacolari contro la politica, è un bene di per sé. Eppure la Repubblica concede alle magistrature poteri enormi sui beni e sulle libertà dei cittadini, solo sulla base di condizioni chiare ed entro limiti precisi, altrimenti si sconfina nel totalitarismo giudiziario, quella che alcuni studiosi americani chiamano Giuristocrazia (Juristocracy)". Da dove partire, per l’autoriforma, dunque? Violante pensa intanto che una riforma del Csm sia "assolutamente indispensabile e che bene abbia fatto il ministro Orlando a istituire un gruppo di lavoro sul tema". Sarebbe anche "opportuno", riguardo alla questione della responsabilità disciplinare per tutte le magistrature, una "istituzione diversa dagli organi di governo interno perché il giudizio dei pari non è più accettabile in un sistema democratico moderno". Secondo importante nucleo di riflessione, dice Violante, dovrebbe essere quello "dei doveri morali dei magistrati: innanzitutto il rispetto per chi ti sta di fronte, avvocato, imputato, parte privata di una controversia civile, e poi una maggiore attenzione al precedente: le sentenze incidono profondamente sulla vita dei cittadini, e il cittadino si regola sulla base di ciò che ritiene essere legittimo. Ma che fare se cambia in corso d’opera l’interpretazione della legge e che quello che era legittimo ieri diventa illegittimo oggi? Molte imprese straniere si affidano a grandi studi legali per prevenire il rischio giuridico". Non parla certo di obbligatorietà del precedente, Violante, ma, in termini di certezza del diritto, di "una certa vincolatività di quella che è stata l’interpretazione fino a quel momento prevalente, superabile soltanto sulla base di forti e ragionevoli argomentazioni: quello che conta non è tanto il diritto scritto nei libri ma il diritto che scorre nella vita della società e delle persone". Lungo la via dell’autoriforma, Violante non colloca la separazione delle carriere ("avremmo due corporazioni invece di una"), ma auspica (come Cantone) "una riflessione" sull’obbligatorietà dell’azione penale che è "comunque discrezionale". Ma è quando si viene al Csm che Violante è più netto: "Centro di potere vuoto, dice Cantone. Io dico piuttosto centro di potere pieno, oscuro e irresponsabile. Un potere di cui non si capiscono bene le logiche e che però incide direttamente, e in modo rilevante, sulla magistratura stessa". Quanto alle correnti che Cantone definisce "un cancro", Violante, che pure non userebbe lo stesso termine, dice che in seno al Csm "operano prevalentemente come garanzia delle clientele". Autoriforma della magistratura, allora, ma anche messa a fuoco di alcuni punti chiave dello squilibrio di rapporti magistratura-politica. Per esempio sulla Trattativa stato-mafia. A Cantone piacciono le parole di Tony sul tema ("… un pentolone all’interno del quale ho visto confluire molti degli ingredienti del processo mediatico… in questa storia alcuni magistrati si sono mossi più come giornalisti che come inquirenti…"). Violante dice: "Più che altro non si capisce bene dove si va a parare, nell’inchiesta sulla trattativa. Intanto fa pensare il fatto che dei due principali pm che hanno lavorato sul caso, Antonino Ingroia e Nino Di Matteo, uno si sia dato senza successo alla politica e l’altro abbia chiesto, pur senza esito, di entrare nella procura nazionale Antimafia. L’accusa è diventata più debole quando Mario Mori è stato assolto in primo grado da alcune accuse chiave per l’esito del processo. Senza contare che l’inchiesta è stata utilizzata strumentalmente da una serie di organi di stampa e da alcuni settori del mondo politico che poi devono essersi resi conto che poteva trattarsi di una scatola vuota". Risultato: "L’inasprimento dei rapporti tra i due mondi - quello politico e quello giudiziario - con una magistratura che ha ritenuto di assumersi la funzione di tutrice morale della nazione e rischia invece una drammatica delegittimazione". Giustizia: la proposta di Erede e Colombo per una gestione più manageriale dei tribunali di Giuliana Ferraino Corriere della Sera, 7 settembre 2015 La riforma della Giustizia civile e la lotta alla corruzione tornano al centro del dibattito per rilanciare il Paese. Partendo da un’analisi sull’efficienza dei tribunali italiani (solo 27 su 139 presentano indici allo stesso livello dei migliori casi internazionali, 16 sono su livelli medi, e 96 non sono sufficienti) il principe degli avvocati d’affari italiani, Sergio Erede, dello Studio Bonelli Erede, e l’ex magistrato di Mani Pulite, Gherardo Colombo, al Forum Ambrosetti lanciano una proposta per far cambiare marcia alla giustizia. Ad ascoltare (e commentare) c’è pure il vice presidente del Consiglio della magistratura, Andrea Legnini. Tra le azioni prioritarie Erede e Colombo indicano la valutazione della performance non solo dei tribunali ma anche dei singoli magistrati; criteri manageriali nella gestione, e l’adozione di misure e buone pratiche organizzative. Che "il Pil cresce se la giustizia funziona meglio", lo dice anche il ministro della Giustizia Andrea Orlando. Perciò il governo sta lavorando in questa direzione. Qualche risultato: quest’anno le pendenze civili sono diminuite del 20% e dovrebbero scendere sotto i 4 milioni e mezzo dai quasi 6 milioni del 2013. L’obiettivo è di "coinvolgere gli avvocati nella prevenzione dei contenziosi, anche con nuovi fondi per favorire il ricorso alle vie extragiudiziali", afferma. Mentre prosegue l’informatizzazione del processo, visto che la smaterializzazione delle carte processuali "ha già fatto risparmiare 60 milioni per lo stoccaggio". Saranno investiti 260 milioni in 3 anni, e per la prima volta arriveranno da fondi Ue 100 milioni per l’informatizzazione. Giustizia: De Filippo (Sott. Salute); Opg, commissariamento delle Regioni e ricorsi al Tar di Marianna Ferrenti lindro.it, 7 settembre 2015 Intervista al Sottosegretario Vito De Filippo, conferma: richiesto commissariamento delle Regioni inadempienti. Il trasferimento di soggetti affetti da patologie psichiatriche dagli ospedali giudiziari in strutture alternative è una questione di civiltà che sta interessando anche il mondo della politica. Molti vivono in condizioni precarie, al limite della sopravvivenza e non ricevono le cure assistenziali e terapeutiche di cui hanno bisogno. Secondo dati recenti, sono 698 gli internati in strutture psichiatriche a fronte degli oltre mille segnalati da Stop Opg negli anni scorsi. Una diminuzione che inizia ad essere sensibile. L’azione svolta dall’Organismo di Coordinamento istituitosi nel 2014 per superare definitivamente gli Opg è a metà dell’opera. Il confronto tra Ministeri e Regioni ha dato i suoi primi risultati. È aumentato il numero delle dimissioni cliniche delle persone ricoverate negli Opg, come emerge nella Terza Relazione Trimestrale giunta nel mese di aprile scorso alla Camera dei Deputati. C’è stata, inoltre, una riduzione degli ingressi e un potenziamento delle attività dei servizi territoriali. Tuttavia, come sempre è accaduto dall’abolizione della legge Basaglia, gli ostacoli che si frappongono alla chiusura definitiva degli Opg sono numerosi. A partire da una serie di ricorsi che alcuni amministratori locali hanno presentato al Tar. Questi si aggiungono alle procedure di commissariamento che il Ministero ha chiesto già da alcuni mesi. Ad oggi, tali procedure sono state avviate. Ce lo conferma il Sottosegretario alla Salute, Vito De Filippo, Presidente dell’Organismo di Coordinamento che ha il compito di monitorare la situazione. "Alcuni comuni dell’Abruzzo e delle Marche hanno chiesto la sospensione della legge. Le motivazioni sono legate, purtroppo, a un retaggio di inquietudine che in alcuni casi la politica si preoccupa di alimentare" commenta De Filippo. Auspica inoltre una rapida soluzione istituzionale anche se al momento c’è un contenzioso in corso. In ogni caso, il sottosegretario annuncia che, entro la fine del 2015, il trasferimento dei pazienti in strutture alternative sarà completato. Il 31 marzo 2015 era la data entro la quale le Regioni avrebbero dovuto organizzarsi per la chiusura definitiva degli OPG e le aziende sanitarie avrebbero dovuto farsi carico dell’assistenza e della salute mentale dei pazienti presenti in queste strutture. Che cosa è cambiato ad oggi? "La maggior parte delle Regioni hanno adempiuto alle prescrizioni della legge 81/2014, anche se vi sono stati alcuni ritardi difficilmente giustificabili, come risulta dalle relazioni che abbiamo trasmesso al Parlamento e dall’ampia documentazione disponibile anche in rete. La legge è molto ambiziosa, e questo me la rende particolarmente cara, proprio per questo nel suo complesso non sembra essere di facile attuazione. Appare infatti necessaria una volontà di collaborazione, che richiede il bilanciamento dei diritti essenziali di alcuni cittadini in situazione di infermità anche grave e la tutela della sicurezza collettiva. Si stanno inoltre fronteggiando una serie di incomprensioni da parte di alcuni comuni che hanno fatto ricorso al Tar temendo che le Rems potessero nuocere alle comunità locali, facendo così dilatare i tempi di attuazione". Quali sono i Comuni che hanno presentato ricorso al Tar? "Alcuni comuni dell’Abruzzo e delle Marche hanno chiesto la sospensione della legge. Le motivazioni sono legate, purtroppo, a un retaggio di inquietudine che in alcuni casi la politica si preoccupa di alimentare. Questa è una dinamica che fa parte di un processo antico e segmentato. Mi conforta sapere che la maggior parte della società civile abbia accolto e recepito bene il nostro lavoro". Secondo lei, ci sono pressioni partitiche nella decisione di alcuni amministratori locali di chiedere tale sospensione? "Non lo escludo, anche se non ho dati che me ne diano la certezza". Perché nonostante siano stati stanziati dei finanziamenti, le Regioni sono ancora molto indietro? La situazione è complessa, innanzitutto per l’esistenza di normative generali, ad esempio quelle sugli appalti, che rallentano oggettivamente il processo. Va anche sottolineato che la programmazione dei posti nelle Rems era basata sui trend epidemiologici delle presenze in OPG degli ultimi anni, che non lasciava prevedere un così alto numero di nuovi invii da parte della Magistratura, e che ha portato in alcuni casi a sottostimare il fabbisogno. Tuttavia diverse Regioni hanno adempiuto con efficienza e adeguato tempismo a quanto richiesto dalla legge. Al momento alcune situazioni sono ancora in via di definizione. Tra le diverse misure che abbiamo concordato all’interno dell’Organismo c’è la rilevazione dei flussi delle assegnazioni dei nuovi internati presso le Rems e la condivisione dei nominativi dei responsabili delle strutture, al fine di creare una rete avente lo scopo di far circolare le informazioni in tempo reale e favorire la corretta programmazione dei movimenti. Con quali tempistiche si intenderà procedere contro le Regioni inadempienti? "Il nostro Ministero ha già da tempo iniziato ad agire, in termini di legge con le procedure di commissariamento, contro chi si è dimostrato poco attento o addirittura totalmente inadempiente: si tratta di scarsa sensibilità istituzionale, e prima ancora civile, in poche situazioni residuali che non inficiano il lavoro efficace di molti. Mi auguro che il commissariamento avvenga nel più breve tempo possibile. Ritengo che l’organismo da me presieduto, che si è riunito anche con cadenza settimanale nel corso degli scorsi mesi, continui a rappresentare il necessario luogo di confronto tra i rappresentanti delle istituzioni nazionali e regionali, che provano a far fronte alle pressioni e agli stimoli che provengono dal Parlamento e dai cittadini. I rappresentanti delle diverse istituzioni presenti ai lavori dell’organismo hanno condiviso questa mia visione nel corso dei mesi, animando e facendo progredire i lavori dell’organismo stesso, com’è stato peraltro riconosciuto anche da associazioni come Stop Opg e da quasi tutti i mezzi di comunicazione". Quando si concluderà in tutte le Regioni il totale trasferimento dei pazienti dagli Opg in strutture alternative? "Posso dire, con le dovute cautele, che il processo si concluderà in tutte le Regioni, tranne forse per il Veneto, già per la fine del 2015. I motivi dei ritardi, oltre a quelle precedentemente elencati, sono anche di natura burocratica, come spesso accade. Tuttavia, posso dire che i cambiamenti verificatisi quest’anno sono stati straordinari. Gran parte di questi hospice sono stati affidati ai Rems. Sono stati chiusi gran parte dei luoghi di esecuzione delle pene. Un fatto estremamente positivo se si tiene conto che questi Opg erano delle vere e proprie ‘carcerì dove spesso i detenuti venivano chiamati a scontare pene anche lievi. Oggi invece sono in strutture sociali e vengono adeguatamente seguiti da un’equipe medica specializzata". Ad oggi il sistema sanitario nazionale è pronto ad occuparsi del reinserimento sociale di tali soggetti? "Da quanto mi risulta la situazione è a buon punto in quasi tutte le Regioni. Ove la condizione clinica lo consente i professionisti che operano nei Dsm hanno predisposto, come già detto, piani per il reinserimento sociale di queste persone che vivono una situazione di estrema delicatezza. Ancora una volta va ribadito che la collaborazione delle diverse istituzioni rappresenta lo strumento principale per la piena attuazione della riforma. Considerata la mancata apertura delle strutture provvisorie in alcune Regioni il Dap è stato costretto a realizzare assegnazioni temporanee fuori bacino di pazienti nell’ambito più prossimo e nelle regioni più disponibili, per poi trasferirli di nuovo nella regione di residenza. Ritengo che tale prassi debba essere interrotta prima possibile per tutelare il benessere delle persone, che sarebbe gravemente compromesso da continui spostamenti e per garantire quel percorso di reinserimento che tutti auspichiamo". Come le strutture sanitarie possono prendersi in carico adeguatamente questi pazienti? "Applicare misure innovative e rispettose della dignità delle persone con disabilità mentale grave è e sarà compito di chi ha maturato decenni di esperienza nei Dsm sui territori. Va comunque sottolineato che la legge 81 è parte di una più ampia transizione culturale, che richiederà anni per essere condivisa e applicata pienamente dai rappresentanti dei cittadini e dalla magistratura". Non c’è il rischio che gli Opg saranno sostituiti con altre strutture che dovranno garantire misure di sicurezza adeguate per i soggetti socialmente pericolosi? Insomma che si passi da una struttura all’altra, ma che alla fine non cambi nulla? "L’Organismo di Coordinamento del processo di superamento degli Opg da me presieduto vigilerà sull’adeguatezza delle procedure adottate all’interno delle Rems e come ho già più volte affermato auspico che la struttura di questo organismo possa essere riprodotta a livello regionale per una più efficace collaborazione tra le molte amministrazioni coinvolte. Dopo anni di discussione, da ultimo nell’intenso dibattito parlamentare precedente l’approvazione della legge 81, si è giunti a un consenso, a decenni di distanza dalla legge Basaglia, anche sul definitivo passaggio dalla gestione penitenziaria a quella sanitaria degli internati in Opg, che quindi divengono pazienti. Il Ministero dell’Interno, più volte convocato al nostro Organismo, ha rassicurato sulla particolare attenzione che Prefetture e Questure di riferimento riserveranno alla sorveglianza esterna necessaria". A che punto sono le misure alternative che assicurino progetti terapeutici e riabilitativi di tali soggetti? "Tutte le regioni hanno lavorato alla formulazione di progetti terapeutici e riabilitativi individuali, e in molti casi vi sono già stati diversi incontri dei dirigenti degli assessorati alla sanità con la Magistratura e le Procure per sviluppare ulteriormente le reti locali di assistenza ed evitare la misura di sicurezza provvisoria in Rems, utilizzando ove possibile misure alternative. È stata anche prestata doverosa attenzione alla formazione del personale, per la quale il Mef sta sbloccando progressivamente le risorse messe a disposizione dal Ministero della salute, previa formulazione di adeguato piano di utilizzo da parte delle Regioni". Quali misure le Asl dovranno intraprendere per portare avanti progetti terapeutici e riabilitativi alternativi agli Opg? "Stiamo seguendo con attenzione le iniziative regionali volte a sviluppare al più presto progetti terapeutici riabilitativi individuali a favore degli attuali internati, in modo tale che i Dipartimenti di salute mentale competenti per territorio di residenza possano prenderli in carico, attraverso le strutture e i servizi già oggi presenti e disponibili sul territorio. Nelle Rems è prevista la partecipazione di personale esterno dedicato a particolari progetti riabilitativi come la musicoterapia, l’arte-terapia, laboratori multimediali, giardinaggio e altre attività pratico-manuali. La sicurezza e la protezione per le strutture sono garantiti dalle Questure e dalle Prefetture, a volte la Regione ha voluto un servizio di guardie giurate. Occorre che il personale sia formato in maniera efficace a garantire la sicurezza dei cittadini e il benessere dei pazienti, utilizzando le molte competenze e le esperienze spesso d’avanguardia già presenti nelle Asl e nei Dsm". In definitiva, con quali interventi concreti si interverrà per garantire una migliore qualità della vita dei pazienti? "Una percentuale elevata di pazienti è stata già dimessa dagli Opg verso una presa in carico territoriale nei Dsm con programmi terapeutico riabilitativi sia residenziali, in strutture non detentive, che in regime non residenziale. Le Rems fino ad ora attivate non hanno ancora sufficiente capacità ricettiva per accogliere tutti i pazienti che devono essere trasferiti dagli Ospedali psichiatrici giudiziari e quelli provenienti dalla libertà nei confronti dei quali l’Autorità giudiziaria abbia disposto l’applicazione della misura di sicurezza detentiva: dovremo lavorare ancora più intensamente all’interno dell’organismo di coordinamento da me presieduto con le Regioni, il Ministero della Giustizia, la Magistratura e il Mef per garantire l’attuazione di quanto la legge giustamente prescrive. Le regioni e il Ministero della giustizia concordano con il Ministero della Salute nell’affermare che il ricorso ancora frequente alla misura di sicurezza detentiva provvisoria non è sempre appropriato". Giustizia: i "braccialetti elettronici" sono introvabili, detenuti costretti a rimanere in cella di Marco Preve La Repubblica, 7 settembre 2015 Braccialetti elettronici per il controllo a distanza dei detenuti introvabili. Il caso di Igor Markov, il dissidente filorusso in attesa di estradizione, consente di scoprire una situazione paradossale. Un apparato dal costo elevatissimo, che la Corte dei Conti ha stigmatizzato, registra in Italia ben 500 detenuti in lista d’attesa a causa della scarsa disponibilità. Sarebbe come svuotare in un giorno solo l’intero carcere di Marassi (o quasi, visto che rispetto alla capienza ufficiale i detenuti ospitati alle Case Rosse sono quasi il doppio). Tra l’altro riconoscendo ai diretti interessati un diritto e non un privilegio. Quello di poter lasciare la cella e andare ai domiciliari allacciandosi però alla caviglia il "braccialetto elettronico" per il controllo a distanza. La vicenda dell’ucraino filorusso Igor Markov, che in attesa di estradizione potrebbe essere rinchiuso in un albergo e invece resta in cella per l’assenza del braccialetto, permette di fare uno squarcio di luce su un caso di "malagiustizia" a proposito del quale la Corte dei Conti nel 2012 aveva rilevato "una notevole sproporzione tra gli elevati costi e il numero veramente esiguo dei bracciali utilizzati". Perché questa è la situazione: mentre il governo, sospinto anche dagli ordini professionali promette e annuncia piani di alleggerimento della popolazione carceraria, gli strumenti che servirebbero a questo scopo fanno registrare numeri alti soltanto se si guarda ai costi. In Italia sono disponibili in tutto appena 2 mila braccialetti elettronici gestiti direttamente dal Ministero a Roma. Ma sempre in tutta Italia sono attualmente 500 i detenuti in lista d’attesa per poter ottenere ciò che un giudice ha già loro riconosciuto come un diritto. Invece sanno già che nel migliore dei casi dovranno aspettare almeno un mese, mentre nel peggiore i tempi si dilatano ancora di più. E si sta parlando di una differenza sostanziale, in cui anche un’ora ha un suo peso specifico: la differenza che passa tra stare in galera oppure a casa propria, seppur impossibilitato a uscire. Lo sa bene l’avvocato Enrico Scopesi che difende Igor Markov e che in questi giorni ha sollecitato la Corte d’Appello a scarcerare il suo assistito in attesa della decisione sull’estradizione. Anche con il parere favorevole del sostituto procuratore generale Enrico Zucca la Corte aveva concesso a Markov la detenzione in un albergo di Quarto vincolandola però al braccialetto elettronico visto l’alto pericolo di fuga. Ma la mancata disponibilità del dispositivo ha spinto i legale a presentare una nuova istanza ricordando come una sentenza della Cassazione riconosca il diritto ad essere comunque scarcerati se il braccialetto non si trova. I giudici però hanno respinto la richiesta sempre per il pericolo di fuga troppo elevato. Una situazione analoga si era verificata all’inizio dell’anno quando Gino Mamone, l’ex patron della ditta Ecoge, arrestato nell’ambito dell’inchiesta per corruzione di un dirigente Amiu, aveva dovuto attendere un mese prima che il suo difensore, l’avvocato Andrea Campanile riuscisse ad ottenere il braccialetto per andare ai domiciliari. Sempre a riguardo del braccialetto elettronico e del giudizio poco lusinghiero dell’operazione formulata dalla Corte dei Conti val la pena registrare un documento del Senato: "Al di là dei profili di merito, quello che la Corte dei conti ha sottolineato è il dato della spesa di oltre 10 milioni all’anno per gli anni 2001-2011 a fronte dell’esiguo numero dei braccialetti utilizzati: solo 14". Alla scadenza, la convenzione con Telecom è stata rinnovata - senza gara pubblica - per altri 7 anni (fino al 2018) per servizi di comunicazione elettronica e relative forniture tra cui anche i duemila braccialetti. L’appalto (per complessivi 521 milioni di euro)era stato per altro oggetto di un ricorso da parte di Fastweb. Giustizia: "baby-killer" a Napoli, ecco perché la repressione senza un piano non basta più di Vittorio Del Tufo Il Mattino, 7 settembre 2015 Genny Cesarano, 17 anni compiuti a giugno. Ucciso da un colpo sparato ad altezza d’uomo, durante un raid di camorra, nel cuore del rione Sanità e della sua adolescenza. Abitava nella strada in cui è nato e cresciuto Totò, studiava all’istituto alberghiero, sognava di fare il pizzaiolo. Pregiudicato per una tentata rapina a mano armata, ma "aveva messo la testa a posto", giurano i familiari, e frequentava un’associazione di volontariato per il recupero dei minori a rischio. Il suo destino, forse, non era irredimibile, come non è irredimibile il nostro: non è scritto nel dna della terza città d’Italia il dover convivere con la ferocia dei nuovi boss, giovanissimi, che sparano nel mucchio e poi tornano a casa a strafarsi di coca, ansiosi forse di replicare, ma a modo loro, le gesta della vecchia camorra, quella dei loro padri e dei loro nonni. No, nessun destino è irreversibile: ma forse è giunta l’ora di prendere coscienza che la semplice risposta repressiva, l’unica finora messa in campo contro lo strapotere e la tronfia arroganza delle nuove bande criminali, finora non ha prodotto i risultati sperati. I due omicidi che hanno macchiato Napoli nelle ultime ore (la morte del diciassettenne alla Sanità e quella del pregiudicato di 30 anni ucciso sabato sera a Ponticelli) sono stati gli ultimi fuochi di una settimana da brivido, scandita da altri delitti, in agghiacciante sequenza, e da una violenza criminale che non si lascia minimamente impressionare, lo diciamo con amarezza, dalla reazione pur generosa dei poteri di contrasto. Un vero e proprio tsunami si è abbattuto su Napoli, e non sarà un comitato per l’ordine pubblico ad arginarlo. Né potrà, da solo, l’invio di altri uomini in divisa spezzare le gambe a questa nuova gioventù criminale che sembra aver fatto delle scorribande armate, delle azioni dimostrative e dei raid tra i passanti il suo lessico quotidiano. Sparare tra la folla, continuare a esibire in modo così spettacolare la propria potenza, nonostante gli arresti e il fiato delle forze dell’ordine sul collo, sembra essere diventato il tratto distintivo delle nuove paranze. Un elemento anarcoide, una devastante incoscienza, che rende i nuovi rampolli dei clan tanto più pericolosi - quanto diversi nelle modalità, per così dire, espressive - rispetto ai boss del passato. Questa guerra di camorra non ha i confini, le geografie e le categorie interpretative delle faide del passato, perché è una guerra di tutti contro tutti, liquida, pervasiva, che vede agitarsi sulla scena bande giovanili tutt’altro che piramidali. Con questo nuovo Medio Evo dobbiamo fare i conti e per questo dobbiamo - dovremmo - immaginare una bonifica a tutto campo: proprio ciò che finora è mancato. Un piano di bonifica non solo repressivo ma anche giudiziario, sociale e, non ultimo, urbanistico. Ben venga l’Esercito a presidiare le strade, ben vengano altri uomini in divisa a pattugliare i quartieri della mattanza. E già che ci siamo, si cominci una buona volta a pretendere che tutte le telecamere installate in città entrino in funzione: in interi quartieri la videosorveglianza non è mai partita e in altri funziona solo in parte o a singhiozzo. Si costringano i vigili urbani a lavorare di notte e a contribuire con la loro presenza al controllo ordinario del territorio. Si punti sulla prevenzione, sulla repressione e su un’azione giudiziaria adeguata al livello della sfida criminale, che vuol dire certezza della pena, tolleranza zero e, soprattutto, niente sconti. A tal proposito gli allarmi lanciati nei giorni scorsi dal procuratore capo Colangelo e dal procuratore generale Riello sulle condanne mai scontate sono un grido d’allarme che non può restare inascoltato. Sarebbe paradossale, solo per fare un esempio, che i due assassini di Anatolij, l’ucraino-eroe ammazzato nel tentativo di sventare una rapina, se la cavassero, grazie al rito abbreviato, con venti anni di galera. Ma poi bisogna alzare lo sguardo, in una torsione che finora è mancata: intervenire sulle cause che hanno reso possibile questo tsunami. Assumere la consapevolezza che la semplice azione repressiva, da sola, non può bastare è già un passo avanti: gli arresti operati dalle forze dell’ordine non sono riusciti a prosciugare il fiume sotterraneo di consenso da cui le bande criminali traggono ogni giorno nuova linfa. Questo fiume, nonostante l’azione repressiva, si ingrossa sempre di più, perché si nutre di desolazione e disagio sociale. La criminalità in troppe zone della città è una scelta di vita praticata fin dall’adolescenza, cultura pressoché egemone per molti strati della popolazione. Immaginare di prosciugare questo fiume solo a colpi di blitz e di arresti è come immaginare di svuotare l’oceano con un colino da te. Se la risposta repressiva, di fronte alla pervasività della nuova camorra, finora non ha dato i frutti sperati, è perché non è stata accompagnata da un’azione di risanamento di un territorio in troppi punti sventrato: il risanamento urbanistico dei quartieri ad alta densità abitativa e criminale è la grande incompiuta della città, insieme ai Grandi Progetti che da Napoli Est a Bagnoli ancora non prendono forma. La mancata riurbanizzazione - più volte annunciata, mai decollata - di interi pezzi di città a rischio è un vulnus di cui paghiamo oggi le conseguenze. Di tutto questo c’è bisogno per offrire, a una città sempre più impaurita e disorientata, decisioni e risposte che non siano solo di pancia, o dettate dall’emergenza. Un quadro di interventi che non possono esaurirsi in un comitato per l’ordine e la sicurezza ma che devono impegnare il paese intero e l’intera sua rappresentanza politica e governativa. Questo è il Piano di cui avrebbe bisogno e diritto la terza città d’Italia. E che finora è rimasto nel libro dei sogni. Giustizia: "Luigi Chiatti non può tornare in Umbria, sarebbe un affronto insostenibile" di Annalisa Angelici La Nazione, 7 settembre 2015 L’Assessore alla Sanità Luca Barberini: "Impossibile dimenticare". "Luigi Chiatti non tornerà in Umbria. Nella nostra regione non ci sono al momento strutture adatte ad ospitarlo e, anche se ce ne fossero, non potrebbe tornare qui. Sarebbe un affronto, uno schiaffo troppo grande per le famiglie di Simone e Lorenzo e per tutta la comunità". L’assessore regionale alla sanità Luca Barberini, folignate, non ha dubbi: il "Mostro di Foligno" (così come lo stesso Chiatti si definì durante il processo) non potrà mai essere di nuovo accolto in Umbria. "Siamo rispettosi della giustizia e della sentenza che lo riguarda - continua Barberini, ma la ferita soprattutto a Foligno, come nel resto della comunità regionale, è ancora aperta". Luigi Chiatti ha finito di scontare nei giorni scorsi la pena per gli orrendi omicidi di Simone Allegretti e Lorenzo Paolucci, barbaramente uccisi a quattro e tredici anni. Come previsto dalla sentenza, il geometra, ora 47enne, è stato sottoposto a perizie mediche dalle quali è emersa la sua pericolosità sociale: da qui la decisione dei giudici di un ulteriore periodo di custodia per Luigi Chiatti in una casa di cura. E, dopo l’abolizione degli Opg (gli ospedali psichiatrici giudiziari), il "Mostro di Foligno" è ospitato da sabato nella Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) di Capoterra, in provincia di Cagliari. L’arrivo di Chiatti ha sollevato non poche proteste, tanto che il sindaco della cittadina sarda ha cercato di placare gli animi assicurando che il geometra folignate tornerà presto nel Continente, in due o tre mesi al massimo. La nuova destinazione di Chiatti dovrebbe essere la Toscana. "Non l’Umbria, questo è certo", ribadisce l’assessore Barberini. Che ripercorre i mesi del dolore, quando uno dopo l’altro Simone e Lorenzo caddero nella trappola mortale del "mostro di Foligno". "Ricordo la sofferenza di quei giorni, la tensione e l’atmosfera di tragedia che vivevamo - racconta l’assessore. Nel tempo ho conosciuto le famiglie delle due vittime, il loro dolore e le loro battaglie. Non si può dimenticare, nessuno può dimenticare. È una cicatrice che mai potrà guarire. E ospitare Chiatti in Umbria mi sembrerebbe un affronto insostenibile, tanto più che, ripeto, al momento non ci sono strutture adeguate a garantire il percorso di riabilitazione e cura necessario a Chiatti né la sicurezza della comunità". Il Ministero risponde del decesso in carcere per overdose di Maria Anna Cappelleri filodiritto.com, 7 settembre 2015 Corte di Cassazione - Terza Sezione Civile, Sentenza 27 marzo 2015, n. 12705. Sussiste il nesso di causalità tra l’evento morte di un detenuto per overdose e la condotta omissiva colposa dell’amministrazione penitenziaria, per non aver adottato le misure idonee a controllare l’ingresso degli stupefacenti nella struttura e non aver effettuato adeguati controlli sanitari al soggetto. Ha così statuito la Corte di Cassazione, pronunciandosi sul ricorso presentato dal Ministero di Giustizia, per la condanna a suo carico al risarcimento in favore dei congiunti di un detenuto, trovato in stato di coma all’interno della cella e deceduto in ospedale due giorni dopo. Secondo il Ministero della Giustizia, non essendo stato provato in che modo il detenuto sia venuto in possesso delle sostanze stupefacenti, sarebbe insussistente il nesso di causalità tra la condotta omissiva e l’evento morte. Inoltre, poiché nell’ordinamento penitenziario non esiste uno specifico obbligo di controllo sull’introduzione di sostanze stupefacenti in carcere, la Corte territoriale avrebbe affermato "una sorta di responsabilità oggettiva": infatti, il generale obbligo di vigilanza posto in capo alla struttura circondariale sarebbe da solo insufficiente a riconoscere il concorso di colpa per condotta negligente. Pertanto, secondo l’amministrazione ricorrente, la Corte d’Appello avrebbe errato nell’escludere la responsabilità esclusiva del detenuto che, non essendo incapace di intendere e di volere, non necessitava di un controllo stringente. Sulla base di quanto dedotto e in virtù di un proprio precedente giurisprudenziale (Cassazione, 6 febbraio 2007, n. 8051), la Cassazione argomenta che l’assunzione di stupefacenti, pur determinando indubbiamente un’assunzione del rischio, non è da sola sufficiente a determinare l’evento, o meglio, a neutralizzare "la causalità risalente al soggetto che ha causato il rischio". La Cassazione ha pertanto confermato la sussistenza del nesso di causalità tra la condotta omissiva del Ministero di Giustizia e l’evento morte del detenuto e per queste ragioni ha rigettato il ricorso. Per le droghe leggere ricalcolo della pena senza vincoli pregressi di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 7 settembre 2015 Il giudice che deve ricalcolare la pena, in base alla Jervolino Vassalli, per un reato connesso alle droghe leggere, non è vincolato alla misura minima adottata dal giudice che ha deciso seguendo la Fini Giovanardi, ma incontra il solo limite del divieto di reformatio in peius. La Cassazione (sentenza 35980 depositata ieri) continua a fornire indicazioni operative sulla corretta applicazione della disciplina sanzionatoria degli stupefacenti dopo la nota sentenza (32 / 2014) con cui la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità della legge Fini-Giovanardi, determinando per le droghe "leggere", il ritorno alla più favorevole previgente normativa contenuta nella legge Vassalli-Iervolino. Ebbene, non è dubbio che coloro che siano stati condannati per fatti relativi a droghe "leggere" prima dell’intervento del Giudice delle leggi, abbiano diritto a vedersi applicata la disciplina più favorevole. Esattamente, però, precisa qui la Cassazione, il giudice chiamato a determinare la pena, anche dopo l’ annullamento con rinvio della Cassazione, non è vincolato nei propri poteri valutativi dall’apprezzamento del giudice che, in precedenza, ha applicato la pena più grave prevista dalla disciplina dichiarata incostituzionale, nel senso che non è tenuto a procedere solo ad una operazione di ricalcolo matematico e proporzionale della pena. L’unico limite che incontra il giudice, a ben vedere, è quello del divieto di reformatio in peius, nei limiti di cui all’articolo 597, comma 3, del Cpp quanto alla pena complessiva. In altri termini, deve ritenersi che il giudice di appello chiamato ad applicare per gli illeciti relativi a droghe "leggere", a seguito della sentenza della Consulta, la più favorevole normativa, prevista dalla Jervolino Vassalli (Dpr 309/1990) nel testo anteriore alle modifiche introdotte dalla legge Fini-Giovanardi (l49/2006) non trova alcun vincolo derivante dalla pena precedentemente irrogata se non quello del divieto di reformatio in peius. Il giudice non può dunque irrogare una pena superiore nel quantium finale ma ha, per il resto, una piena cognitio per quanto riguarda la quantificazione. Ne deriva che legittimamente il giudice di appello, nel rideterminare la pena complessiva in modo più favorevole all’imputato, applicando i limiti edittali previsti dalla disciplina anteriore a quella introdotta dalla legge Fini-Giovanardi, potrebbe decidere di non applicarli nel "minimo", come aveva invece fatto il giudice precedente chiamato ad valutare in base alla disciplina poi dichiarata incostituzionale. Tale principio, a ben vedere, la Corte lo trae dalla motivazione esauriente e puntuale della sentenza delle Sezioni unite (33040/2015) laddove si è chiarito che è compito del giudice, chiamato a "rimodulare" la pena, a seguito della declaratoria di incostituzionalità, quello di procedere ab imis ad una "nuova" commisurazione della pena che assuma come parametro edittale quello stabilito dalla disciplina oggetto della reviviscenza determinata dalla declaratoria di illegittimità costituzionale. Vittima da reato: diritti al convivente in caso di morte di Marina Castellaneta Il Sole 24 Ore, 7 settembre 2015 Un rafforzamento dei diritti delle vittime di reato e un completamento del quadro normativo italiano in linea con il diritto Ue. Con quest’obiettivo, il Consiglio dei ministri, ieri, su proposta del presidente del Consiglio, Matteo Renzi, e del ministro della Giustizia, Andrea Orlando, ha dato il via libera preliminare al decreto legislativo per recepire la direttiva 2012/29/Ue del 25 ottobre 2012, che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato e che sostituisce la decisione quadro 2001/220/Gai. L’attuazione era stata già prevista nella legge di delegazione europea del 2013. Lo sprint finale servirà a evitare procedure d’infrazione, rispettando il termine ultimo per il recepimento della direttiva del 15 novembre 2015. La direttiva è stata adottata nell’ambito della cosiddetta "tabella di marcia di Budapest", per assicurare l’attuazione dell’articolo 82 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea che fissa una specifica competenza di Bruxelles in materia di protezione delle vittime per garantire un quadro armonizzato nello spazio Ue. In questa direzione, oltre alla direttiva 2012/29, è stata adottata la 2011/36/UE sulla prevenzione e la repressione della tratta di esseri umani e la protezione delle vittime, già attuata in Italia con il Dlgs n. 24/2014. In linea con la direttiva, che fornisce una nozione di familiare autonoma, è previsto che se la vittima muore in conseguenza del reato, i diritti fissati nell’atto Ue siano esercitati dai congiunti, compreso il coniuge, nonché "dalla persona che alla vittima sia stata legata da relazione affettiva e con essa abbia stabilmente convissuto". Per assicurare immediatamente una protezione e un’effettiva informazione è previsto che la vittima che non conosce la lingua italiana riceva subito notizia sui suoi diritti. La direzione generale giustizia della Commissione europea ha già adottato e messo a disposizione degli Stati una guida che contiene dei modelli standard per le informazioni alle vittime. Con l’attuazione della direttiva, la vittima ha diritto di essere assistita da un interprete e ottenere una traduzione gratuita almeno degli atti necessari per la tutela dei propri diritti. È poi assicurato il diritto della vittima a ricevere informazioni anche se non si costituisce parte civile. Tutela a largo raggio e senza confini con la possibilità, per la vittima, nei casi in cui subisca un reato in uno Stato diverso da quello della residenza, di denunciarlo nel proprio Paese se non ha potuto farlo nel primo. Riconosciuto il diritto della vittima a non avere alcun contatto con l’autore del reato e ad essere informata nei casi in cui l’autore del reato evada o esca dal carcere per altri motivi. Per evitare casi di vittimizzazione secondaria e ripetuta, sono previste modalità di protezione della vittima-testimone. L’aggressione sporadica del coniuge non equivale a maltrattamenti di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 7 settembre 2015 Tribunale di Padova - Sezione penale - Sentenza 16 febbraio 2015 n. 352. In tema di reati contro la famiglia e, nello specifico, di reati commessi contro il coniuge, occorre verificare se la condotta posta in essere dall’un coniuge verso l’altro assuma connotati di gravità tale da costituire per il soggetto passivo fonte abituale di sofferenze fisiche e morali (572 del Cp), oppure si concreti nell’inosservanza cosciente e volontaria dell’obbligo di assistenza morale (570 del Cp), o, ancora, abbia carattere estemporaneo e occasionale. Quest’ultimo caso ricorre quando l’aggressione è espressione reattiva di uno stato di tensione, come quello immediatamente successivo alla decisione di un coniuge di chiedere la separazione. In tale ipotesi la condotta va inquadrata nei reati di minaccia, ex articolo 612 del Cp, e in quello di percosse, ex articolo 581 del Cp. Questa ricostruzione è data dalla sentenza 352/2015 del Tribunale di Padova. I fatti - I protagonisti della vicenda sono due coniugi sposati da 15 anni che, in seguito ad alcuni trasferimenti cui erano stati costretti per motivi di lavoro, avevano vissuto alcuni contrasti sfociati nella decisione della donna di chiedere la separazione, seguita da alcuni fatti di aggressione fisica e verbale dell’uomo nei confronti della moglie e dei figli. Di qui la denuncia della donna e il processo a carico del marito per il reato di maltrattamenti in famiglia. Le motivazioni - Il Tribunale ricostruisce la vicenda per mezzo di varie testimonianze e procede ad una riqualificazione giuridica dei fatti contestati all’uomo. Per il giudice, infatti, nel caso di specie, non si è di fronte ad una ipotesi di maltrattamenti in famiglia, prevista dall’articolo 572 del Cp, né tantomeno ad una ipotesi di violazione degli obblighi di assistenza familiare, prevista dall’articolo 570 del Cp, bensì si è dinanzi a episodi di aggressione fisica e verbale posti in essere dal marito nei confronti della moglie che "appaiono del tutto sporadici e conseguenti alla forte conflittualità tra i coniugi in relazione alla decisione della moglie di separarsi". Si tratta, in sostanza, di atti "espressione reattiva di uno stato di tensione, che comunque può sempre verificarsi nella vita di coppia, nel qual caso si dovrà eventualmente fare richiamo a figure criminose estranee ai delitti contro la famiglia e rientranti tra quelli contro la persona", come appunto il reato di minaccia, di cui all’articolo 612 del Cp e quello di percosse, di cui all’articolo 581 del Cp, riconosciuti nel caso di specie. Lettere: il papa e le indulgenze… a casa o in cella, ci riguarda tutti di Nicola Boscoletto* tracce.it, 7 settembre 2015 La lettera di Francesco in vista del Giubileo della Misericordia. E quel pensiero ai detenuti. Parole "preziose e che fanno respirare", rilette da chi "dietro le sbarre" ci lavora da tanti anni. Ho incontrato in questi due giorni molti amici detenuti e voglio anch’io dire come ho reagito alla lettura della Lettera del Papa all’arcivescovo Rino Fisichella. Sorpresa, stupore, gioia, gratitudine. Che papa Francesco abbia alcune predilezioni e che una di queste sia il carcere ormai lo sappiamo benissimo. Quello che ha fatto fin dall’inizio del suo pontificato per le persone detenute non ha paragoni, ha dato speranza dove speranza sembrava non esserci più. Ha guardato, ascoltato, parlato, incontrato, toccato, baciato, abbracciato, confortato, pregato, scritto, telefonato, lavato ed asciugato i piedi a molti di loro. Lo ha fatto ad alcuni facendolo a tutti, arrivando a tutti in tutto il mondo, arrivando anche a me che detenuto non sono. Ha colmato un vuoto. Tutto questo, in così poco tempo, ci ha testimoniato. La sua esperienza ci ha raggiunto, ha raggiunto tutti quei cuori, carcerati e non, bisognosi di un abbraccio gratuito, assetati di significato, ancora in cerca di senso, desiderosi di felicità. Se tutto questo non bastasse: "Ogni volta che passeranno per la porta della loro cella, rivolgendo il pensiero e la preghiera al Padre, possa questo gesto significare per loro il passaggio della Porta Santa, perché la misericordia di Dio, capace di trasformare i cuori, è anche in grado di trasformare le sbarre in esperienza di libertà". Semplice, disarmante, incredibile. Non so perché ma mi vengono in mente i pastorelli di Fatima, Lucia, Giacinta e Francesco, Bernadette di Lourdes, santa Teresina del Bambin Gesù. Gente semplice, povera, con un cuore puro da saper accogliere il mistero della felicità vera, quella che è per tutta la vita, per sempre. Caro papa Francesco, pur non essendo anagraficamente un bambino, lo sei per Gesù. Ma c’è una seconda riflessione che emerge dagli incontri di questi due giorni con molti carcerati. La tentazione di scivolare, di concentrarsi e sperare solo su una parola: amnistia. "Speriamo che sia la volta buona, che ascoltino almeno questo Papa, d’altronde è dal 1990 che in Italia non c’è un’amnistia". Certo, speriamo che chi governa, in Italia come agli altri Paesi del mondo a cui il Papa si rivolge, possa prendere sul serio un gesto di umanità, di civiltà. Questo, però, non è tutto, non è la parte più importante. L’amnistia se ci sarà (ma avete visto subito le prime reazioni…) riguarderà alcuni e non tutti. Quello che invece ci indica e ci offre papa Francesco può riguardare tutti! Ecco che tutte le parole contenute nel messaggio diventano preziose, ogni sfumatura apre a qualcosa, fa riflettere, fa respirare subito. Con un gruppetto di amici mi fermo a discutere, ci aiutiamo ricordando una bellissima pagina del Vangelo, la guarigione del paralitico calato dal tetto della casa. "Si recarono da lui con un paralitico portato da quattro persone. Non potendo però portarglielo innanzi, a causa della folla, scoperchiarono il tetto nel punto dov’egli si trovava e, fatta un’apertura, calarono il lettuccio su cui giaceva il paralitico. Gesù, vista la loro fede, disse al paralitico: "Figliolo, ti sono rimessi i tuoi peccati". Seduti là erano alcuni scribi che pensavano in cuor loro: "Perché costui parla così? Bestemmia! Chi può rimettere i peccati se non Dio solo?". Ma Gesù, avendo subito conosciuto nel suo spirito che così pensavano tra sé, disse loro: "Perché pensate così nei vostri cuori? Che cosa è più facile: dire al paralitico "Ti sono rimessi i peccati", o dire "Alzati, prendi il tuo lettuccio e cammina"? Ora, perché sappiate che il Figlio dell’uomo ha il potere sulla terra di rimettere i peccati, ti ordino - disse al paralitico - alzati, prendi il tuo lettuccio e vai a casa tua". Quegli si alzò, prese il suo lettuccio e se ne andò in presenza di tutti e tutti si meravigliarono e lodavano Dio dicendo: "Non abbiamo mai visto nulla di simile"". Nei volti, negli occhi e nel cuore dei carcerati con cui discutevo era evidente che, pur essendo desiderabili tutte e due le cose (amnistia e remissione dei peccati), la cosa più importante era ciò che li "libera" da subito e per sempre, ciò che mette realmente il loro cuore in pace. Occorre essere veramente peccatori, avere la coscienza di esserlo e sentirsi sinceramente bisognosi per poter cogliere ed accogliere un così tenero e dolce abbraccio. Ecco perché vorrei che la porta di casa mia fosse come la quella della cella dei miei amici detenuti. Per me, per la mia famiglia, per i miei amici, per le persone care. Per tutti. *responsabile della cooperativa Giotto, che dal si occupa del lavoro in carcere dei detenuti del carcere "Due Palazzi" di Padova Lettere: sulla riforma del Tar il presidente del Consiglio rischia uno scivolone di Roberto Vitanza (Magistrato) Il Tempo, 7 settembre 2015 Nella importante platea di Cernobbio il Presidente del Consiglio ha avuto modo di anticipare la imminente riforma dei Tar. Nella sintetica e telegrafica comunicazione il Presidente del Consiglio si è limitato a precisare che è necessario ridurre il campo di azione dei predetti Tribunali "che non possono decidere su tutto". Quindi non una cancellazione dei Tar, ma solo un loro ridimensionamento funzionale. Questa la notizia. Che il Presidente del Consiglio abbia diversi conti aperti con la giustizia amministrativa (ed ora anche con quella contabile) non è un mistero. In realtà è un principio di logica elementare accessibile anche al Presidente del Consiglio il fatto che non è tanto il plesso giudiziario chiamato a scrutinare la eventuale azione illegittima della pubblica amministrazione, che fa la differenza. Non è sufficiente riformare i Tar quanto piuttosto modificare l’intero impianto sistematico che presiede alla definizione ed alle prerogative della stessa azione pubblica. Il giudice, ordinario o amministrativo, fa il giudice, ossia applica la legge secondo scienza e coscienza. Allora c’è da chiedersi quale è il senso e la ragione di una tanto superficiale quanto generica proposta politica. Una ragione tecnico-giuridica non c’è, proprio perché ridotta la competenza e quindi la ridotta giurisdizione del giudice amministrativo comporta un ampliamento della giurisdizione del giudice ordinario, come è accaduto nel pubblico impiego in cui una parte delle vertenze sono transitate al predetto giudice, né può ragionevolmente sostenersi che tale "scambio" abbia comportato una minore tutela per i cittadini: è solo cambiato il giudice, anzi al cittadino è stata fornita una ulteriore possibilità perché il giudizio sull’atto si è trasformato in un giudizio sul rapporto, con significative possibilità giudiziarie di intervenire nel merito dell’azione pubblica. Diverso è se il disegno che l’esecutivo ha in mente riguarda il ritorno, più o meno camuffato, alle mai rimpiante Giunte Provinciali Amministrative, ossia l’attribuzione non più al giudice terzo, ma un organo amministrativo la tutela dei diritti e degli interessi legittimi dei cittadini. Tale operazione risulterebbe contraria ai principi elementari della nostra Costituzione formale e materiale e nessuna riforma potrebbe mai superare il vaglio del giudice delle leggi, proprio perché non è possibile logicamente e giuridicamente equiparare l’azione amministrativa in funzione giustiziale con la effettiva e reale azione giudiziaria che significa controllo in termini di autonomia e questo il Presidente del Consiglio lo sa benissimo. Calabria: se il pm Cantone chiede la "squalifica" del governatore Pd Mario Oliverio di Pietro Mancini Il Garantista, 7 settembre 2015 Reggio Calabria - che fu fatale a Peppe Scopelliti, travolto dopo la stangata dei giudici per il caso-Fallara - rischia di rendere ancora più precaria la navigazione della barca, con al timone un nocchiero esperto come Mario Oliverio, del Pd, ma non renziano. E, ancora una volta, i fulmini sulla debole politica sono scagliati da ex un alto magistrato, Raffaele Cantone. Secondo il capo dell’anticorruzione, mancavano i requisiti di legge e Santo Gioffré non poteva essere nominato commissario dell’Asp di Reggio. La promozione era stata contestata dai Cinque Stelle, il Governatore ha tirato dritto, finendo a sbattere contro Cantone, che ha chiesto sia la rimozione del manager che la sospensione di ogni decisione, per tre mesi, da parte di Oliverio. È già il pronto il ricorso. La "squalifica" è un provvedimento, inedito, che danneggia non solo l’immagine del politico di lungo corso, ex Pci, ma, soprattutto, quella dell’aspra Calabria, fanalino di coda in tutte le graduatorie degli indicatori socioeconomici. E il quadro della regione è ancor più preoccupante in quanto non esiste, nell’attuale classe politica calabrese, un’alternativa, seria e credibile, ai governanti, insediatisi dopo lo sfratto del centrodestra, deciso, nelle "gabine" elettorali, nel novembre scorso. Né la società civile ha gli strumenti e la capacità di modificare l’attuale, stagnante situazione. In questo tutt’altro che incoraggiante contesto, come lo definirebbe Sciascia, si inserisce l’ordine giudiziario che, senza al suo vertice un Presidente del Csm, saggio e autorevole, come si rivelò Giorgio Napolitano, assume decisioni, talvolta, scarsamente comprensibile. Di recente, per un ex assessore regionale del Pd, indagato ma presunto non colpevole, è stato confermato l’obbligo di risiedere fuori dalla Calabria e lontano dalla sua famiglia. Spesso, si ha l’impressione che i giudici considerino il passato, o il presente, in politica, di un indagato come un’aggravante: giustizia giusta o accanimento? Ovviamente, le invasioni di campo delle toghe, da frenare, non possono far dimenticare le gravi responsabilità dei governanti, in Calabria e nel Sud. Anzi, si fa sentire, sempre di più, l’assenza di una classe dirigente, non solo in politica, seria, credibile e stimata, a Roma, a Torino e in sede locale. Matteo Renzi continua a sottovalutare le urgenze e i drammi delle regioni meridionali. Il giovane premier dovrebbe aiutare a crescere, sotto il Garigliano, una nuova e più preparata generazione di politici e amministratori. Non dando spazio, come hanno fatto i suoi predecessori, a notabili, che assicurino di avere, al seguito, pletore di famigli e clienti, pronti a fare da grancassa alla loro, modesta e senza qualità, attività parlamentare. Caro Renzi, i problemi del Sud non si risolvono con un nuovo ministero. E neppure creando una "Lega del Mezzogiorno". Forse, a tale ipotesi, avevano pensato i Governatori delle regioni meridionali, tutti del Pd, ma scarsamente ascoltati a Roma. Come il coraggio, di cui scrisse il Manzoni, quanti non hanno il carisma e il prestigio non possono darseli. Intanto, i Governatori comincino a farsi ascoltare, se non a Palazzo Chigi, nei ministeri importanti per le regioni del Sud, non postulando elemosine, con il cappello in mano, e non accontentandosi di conferire soltanto con qualche distratto burocrate. Si tratterebbe dell’ennesima... cantonata. Enna: violenze in cella, la Procura dispone una serie di approfondite visite mediche di Josè Trovato Giornale di Sicilia, 7 settembre 2015 Un giovane sarebbe stato stuprato da 5 detenuti. I controlli avrebbero evidenziato le sevizie. L’allarme dato dalla madre. Una serie di approfondite visite mediche, per verificare il decorso di ferite e lesioni, anche se rimarginate per via del tempo intercorso; e accertare quanto, le condizioni di salute attuali della vittima, siano compatibili con il contenuto del suo drammatico racconto. È già cominciato l’accertamento tecnico irripetibile disposto dalla Procura di Enna nell’inchiesta sulle violenze di gruppo e le sevizie che un detenuto trentenne del Catanese, in cella alla Casa circondariale ennese per il furto di un motorino, avrebbe subito in carcere da altri cinque detenuti, provenienti anch’essi dal territorio etneo. Il titolare dell’inchiesta, il sostituto procuratore Francesco Rio, ha designato per gli accertamenti il medico legale Cataldo Raffino, la cui consulenza tecnica sarebbe giunta già in dirittura d’arrivo. È stata una vera e propria mossa a sorpresa quella della Procura. L’atto istruttorio mira a compiere un’attività di riscontro, verificando la compatibilità tra il racconto del giovane - che ha riferito di essere stato violentato e rinchiuso all’interno di una cella da altri detenuti, che lo avrebbero reso vittima di indicibili abusi - e le lesioni di cui porterebbe ancora le tracce. Pavia: "Vivere con lentezza" e le agende create dai detenuti nella legatoria del carcere La Provincia Pavese, 7 settembre 2015 Agende per il nuovo anno, realizzate a mano con la copertina in ecopelle, prodotte nel laboratorio di legatoria artigianale nato all’interno della casa circondariale di Pavia. È la nuova proposta che arriva da Torre del Gallo nell’ambito del progetto di rieducazione al lavoro dei detenuti e anche di chi ha già scontato la sua pena. Dopo il laboratorio di panificazione e quelli di falegnameria è partito anche quello di legatoria, un’iniziativa della cooperativa sociale Sharing in collaborazione con "Vivere con lentezza". Scopo del progetto è promuovere la rieducazione al lavoro, la formazione professionale e culturale di chi sta scontando una pena o di chi l’ha già scontata. Per sostenere il laboratorio la cooperativa propone due formati di agenda 2016 che verranno realizzati a mano da persone detenute nel carcere di Pavia. Formato 10,5 centimetri per 15 e 15 per 21 al costo rispettivo di 12 euro e 15 euro. Le copertine sono realizzate in ecopelle arancione con quattro differenti stampe. Per ordini superiori a 20 pezzi è possibile personalizzare la grafica. Gli ordini devono essere indirizzati a segreteria@sharingcoop.it entro il 30 settembre. "Sharing", ovvero "condivisione" in inglese, è il nome della cooperativa sociale mista nata da una costola dell’associazione vigevanese "Vivere con Lentezza", che si occupa tra le altre cose della riabilitazione dei detenuti. Vivere con Lentezza ha avviato da tempo anche la redazione di un mensile, "Numero Zero", scritto da una redazione composta da 15 detenuti diTorre del Gallo con il sostegno del direttore responsabile Bruno Contigiani, dei volontari dell’associazione e della direzione della casa circondariale pavese. Venezia: Mostra del Cinema; Celestini alla Casa di Reclusione Femminile della Giudecca Ristretti Orizzonti, 7 settembre 2015 Balamòs Teatro - Progetto teatrale "Passi Sospesi". Prosegue la collaborazione di Balamòs Teatro con la Mostra del Cinema di Venezia nell’ambito del progetto teatrale "Passi Sospesi" attivo negli Istituti Penitenziari di Venezia dal 2006. La collaborazione con la Mostra di Venezia ha avuto inizio nel 2008 con la presentazione dei documentari di Marco Valentini relativi alle attività teatrali svolte sotto la direzione di Michalis Traitsis, regista e pedagogo di Balamòs Teatro. Da allora ogni anno Traitsis invita un regista o un attore ospite della Mostra per un incontro con i detenuti e le detenute degli Istituti Penitenziari veneziani, preceduti dalla presentazione dei film più rappresentativi dei registi o attori invitati. In questi ultimi anni hanno visitato i carceri veneziani Abdellatif Kechiche, Fatih Akin, Mira Nair, Gianni Amelio, Antonio Albanese e Gabriele Salvatores. Quest’anno visiterà la Casa di Reclusione Femminile di Giudecca l’attore e regista Ascanio Celestini, ospite della Mostra di Venezia con il film "Viva la sposa". L’incontro con le donne detenute della Casa di Reclusione Femminile di Giudecca è previsto per Martedì 8 Settembre 2015 alle ore 11.00 ed è riservato agli autorizzati. Ascanio Celestini, autore e attore teatrale e cinematografico è considerato uno dei rappresentanti più importanti del nuovo teatro di narrazione. I suoi spettacoli, preceduti da un approfondito lavoro di ricerca, hanno la forma di storie narrate in cui l’attore-autore assume il ruolo di filtro con il suo racconto, fra gli spettatori e i protagonisti della messa in scena. Nato a Roma nel 1972, dopo essersi diplomato al liceo classico, si iscrive alla facoltà di lettere con indirizzo in antropologia a Roma. Avvicinatosi al teatro intorno agli Anni Novanta, collabora come attore ad alcuni spettacoli del Teatro Agricolo. Il cammino teatrale continua con testi di sapore pasoliniano: "Cicoria, In fondo al mondo, Pasolini" (1998), "Milleuno" (1998-2000), "Scemo di guerra" (2002), "Cecafumo" (2002), "Fabbrica" (2002), "Scemo di guerra. 4 giugno 1944" (2004), "La pecora nera - Elogio funebre del manicomio elettrico" (2005), "Live - Appunti per un film sulla lotta di classe" (2007), "Le nozze di Antigone" (2003). È inoltre l’autore della rubrica "Viaggi della memoria" sul quotidiano La Repubblica e partecipa alla trasmissione "Parla con me" condotta da Serena Dandini. Molti dei suoi spettacoli sono poi diventati libri e dagli stessi sono state tratte canzoni che hanno poi formato il disco "Parole sante" (2007), anche se il suo più grande successo rimane il romanzo "Lotta di classe" (2009). Nel 2007, debutta cinematograficamente nel film di Daniele Luchetti Mio fratello è figlio unico, ma ha anche partecipato al cortometraggio di Silvia Mattioli Le Eumenidi a Corviale (2001). Nel 2010 c’è il suo primo lungometraggio, La pecora nera, tratto dall’omonimo spettacolo teatrale, racconto sull’esperienza dei manicomi e sull’alienazione nella società contemporanea, mentre è stata edita nel 2011 la raccolta di racconti "Io cammino in fila indiana". Nel 2012 Ascanio Celestini ha pubblicato Pro patria, ambientato nella Repubblica Romana del 1849. Nel 2015 ha scritto, diretto e interpretato la pellicola cinematografica Viva la sposa che sarà presentato alla Mostra di Venezia, tante piccole storie di periferia italiana e in mezzo una bellissima donna bionda tra le vite di poveri cristi. Una sposa che fa voltare tutti. Guardare la sposa li aiuta a sopravvivere, ma poi la vita vera è un’altra. La collaborazione di Balamòs Teatro con gli Istituti Penitenziari di Venezia e la Mostra del Cinema ha come obiettivo quello di ampliare, intensificare e diffondere la cultura dentro e fuori gli Istituti Penitenziari ed è inserita all’interno di una rete di collaborazioni che comprende anche il Coordinamento Nazionale di Teatro in Carcere, l’Associazione Nazionale dei Critici di Teatro, il Teatro Stabile del Veneto, il Centro Teatro Universitario di Ferrara e la Regione del Veneto. Per il progetto teatrale "Passi Sospesi", Michalis Traitsis ha ricevuto nell’Aprile del 2013 l’encomio da parte della Presidenza della Repubblica e nel Novembre del 2013 il Premio dell’Associazione Nazionale dei Critici di Teatro. Quei fantasmi alle nostre porte di Marek Halter La Repubblica, 7 settembre 2015 Le colpe dell’Europa sono enormi perché non ha fatto niente per questi popoli. Salvo l’eccezione tedesca, il comportamento dell’Europa nella tragedia dei migranti è incomprensibile. O, peggio, profondamente autolesionistico. Ci siamo mobilitati quando una singola persona chiedeva aiuto all’Occidente. E penso a Nelson Mandela carcerato o a Andrej Sakharov perseguitato dagli sbirri del Kgb. Ma adesso che ci sono immense folle che fuggono dalla guerra o dalla carestia siamo incapaci di reagire. Credo, invece, che dovremmo anzitutto valutare quali possano essere i vantaggi provenienti dai profughi, per poi stabilire con quali procedure creare uno scambio alla pari tra noi e loro. È un po’ quello che sta facendo la cancelliera Angela Merkel: spalancare le porte ai migranti, i quali occuperanno il vuoto demografico tedesco e finiranno per pagare le pensioni alla Germania. Purtroppo nel Vecchio Continente non esiste una legge sulla generosità. Non c’è nessuno in grado di imporre quanto dovrebbe fare ogni Paese, e ogni individuo, per le migliaia di migranti che continuano ad arrivare. C’è perfino chi critica il trattato di Schengen, e penso al ministro dell’Interno britannico, Theresa May, la quale ha sostenuto che è responsabile delle stragi in corso. Come se la libera circolazione delle persone stesse diventando un’utopia. Tutto ciò per la paura ritrovarsi invasi da popoli portatori di altre culture, tradizioni e religioni. Terrorizza l’idea che questi popoli possano insediarsi e diventare maggioritari in alcune aree dei nostri Paesi. E spaventa, inoltre, il razzismo di classe: infatti, sono soprattutto i poveri quelli che si oppongono più tenacemente all’arrivo dei migranti, con i quali sono spesso costretti a contendersi lo spazio e l’impiego. Eppure le colpe dell’Europa sono enormi, perché non ha fatto nulla per prevenire la miseria che affligge questi popoli. Ora, le ondate migratorie diventeranno sempre più travolgenti, e presto alle nostre porte arriveranno milioni di persone. Tutto ciò era prevedibile, da quando, per esempio, dopo esser stati padroni dell’Africa l’abbiamo lasciata nelle mani degli africani dicendo loro "da ora in poi, vedetevela da soli". Adesso siamo solo capaci di costruire muri. Eppure, soltanto pochi anni fa, celebrammo nella gioia la caduta di quello di Berlino. Mi chiedo chi avrà il coraggio di suonare Bach per celebrare la costruzione delle nuove barriere europee, come fece Rostropovich quando s’infranse quella che separava in due la Germania. Mi chiedo soprattutto cosa faremo quando contro questi muri andranno a sbattere e moriranno decine di migliaia di persone, e come riusciremo a sopportare la presenza di questa massa di disgraziati che già preme alle porte di casa nostra nella speranza che qualcuno gli lasci un piccolo spiraglio per farli entrare. Anche perché è impossibile costruire la propria felicità sulla sventura degli altri. Tra le conseguenze più nefaste che può generare la paura che in questi mesi attanaglia l’Europa c’è quella di renderci tutti più insensibili, o più cattivi, e di corrompere i valori con cui i nostri padri e i nostri nonni hanno forgiato la società democratica in cui viviamo. Dobbiamo invece smetterla di considerare i migranti come degli invasori. Basterebbe guardare a ciò che accadde in passato. Nel V secolo, per esempio, i barbari che entrarono a Roma divennero anch’essi romani soltanto dopo pochi decenni. E se si potesse risalire l’albero genealogico di Leonardo da Vinci o di Michelangelo non mi stupirei di trovare un loro antenato unno o visigoto. Oppure, basta pensare ai Galli, che erano indiscutibilmente un popolo barbaro, ma i cui discendenti hanno costruito i palazzi di Versailles e del Louvre. L’appello del Papa alle diocesi d’Europa: tutte le parrocchie ospitino rifugiati di Orazio La Rocca La Repubblica, 7 settembre 2015 "Ogni prete accolga una famiglia, anche la Santa sede farà la sua parte" In Italia posto per oltre 100mila migranti, nel continente per almeno 400mila. L’Onu: 2.800 morti in mare nel 2015. "Ogni parrocchia, ogni convento, ogni monastero ospiti una famiglia di profughi". È papa Francesco che lo vuole. Lo ha chiesto con un appassionato appello ieri alla preghiera dell’Angelus in piazza San Pietro, prendendo in contropiede i diretti interessati, i vescovi ed i parroci, e persino le due parrocchie vaticane dai lui invitate ad aprirsi ai rifugiati. Non è la prima volta che il Pontefice lancia appelli del genere. Ma ieri Bergoglio è stato ancora più incisivo e dettagliato, chiedendo un impegno concreto per il Giubileo a ogni parrocchia europea, "a partire dalle due parrocchie vaticane e dalla mia diocesi di Roma". Quasi una sfida a quei politici europei contrari all’accoglienza, come il premier ungherese Viktor Orbàn che ha vietato ogni forma di aiuto ai profughi, pena l’arresto immediato. Il Papa invece sollecita proprio "i fratelli vescovi d’Europa perché sostengano questo mio appello". Spinta da Bergoglio, la Chiesa, dunque, potrà così accogliere oltre 100 mila migranti nelle 26 mila parrocchie italiane, e altri 400 mila in Europa, dove le comunità religiose superano le 100 mila strutture. Sarà possibile? Il portavoce papale, padre Federico Lombardi, non ha dubbi: "L’appello del Papa è un invito alla corresponsabilità. Toccherà alle singole realtà trovare i modi migliori per accogliere una famiglia, ospitandola in parrocchia o presso altre strutture, col sostegno della comunità". Tra i primi a rispondere, l’arciprete della basilica vaticana, il cardinale Angelo Comastri ("Accoglieremo 2 famiglie con assistenza sanitaria e materiale") e il vescovo George Gaenswain, segretario del papa emerito Benedetto XVI, che da Ancona ha riferito che "la tragedia dei profughi è nel cuore" di Ratzinger, "che prega molto, sa della situazione e si sente ogni giorno con papa Francesco". La tragedia dei migranti continua intanto a mietere vittime: secondo l’Onu dall’inizio dell’anno sono morte in mare già 2.800 persone. Ma il bilancio è destinato ad aggravarsi: un gruppo di migranti soccorso ieri dalla Guardia costiera ha parlato ieri di almeno 20 persone disperse tra le onde. La società multietnica che divide l’Europa, ecco perché l’Est non vuole i migranti di Bernardo Valli La Repubblica, 7 settembre 2015 Mentre la Merkel spinge l’Ue alla solidarietà, in Polonia, Repubblica ceca, Slovacchia e soprattutto Ungheria cresce il fronte anti-profughi. Un paradosso perché quei paesi sono stati in un recente passato simboli dell’emigrazione. Nella storia, con la maiuscola, ci inciampi sempre. Quando meno te l’aspetti. In particolare in questa parte d’Europa dove è sempre presente anche se ormai remota. Arrivi in Polonia o in Slovacchia o nella Repubblica ceca o in Ungheria alla ricerca dei motivi che spingono questi paesi a rifiutare i profughi, venendo meno ai principi civili universali evocati da Angela Merkel come legame irrinunciabile tra i paesi dell’Unione europea, e cominci a frugare negli egoismi d’oggi, nello sciovinismo, nella mancanza di solidarietà umana. Non ti discosti dalla cronaca, da quel che sta accadendo, ti spingi al massimo fino alla memoria che la precede. Non vai oltre a ritroso e ti accorgi che le stesse caratteristiche, in misura variabile, più frantumate ma non meno sfacciate le puoi trovare nell’Europa dell’Ovest ricca di populismi. I Salvini e i Le Pen non sono da meno. Finché i tuoi interlocutori ti sbattono in faccia la vera ragione della ripulsa. E ti accorgi, che senza assolvere, giustificare i vizi, essa ha una radice storica decisiva. Molti polacchi, cechi, slovacchi, ungheresi, assecondati con più o meno vigore dai loro rispettivi governi, respingono l’idea di una società multiculturale. Questo è il demonio da respingere: è quel che spiega la profonda divisione tra Est e Ovest. L’Unione europea ha attirato i paesi dell’Est perché farne parte era una promozione democratica, e per i vantaggi economici. L’Ue è inoltre un’organizzazione attigua alla Nato, ritenuta un irrinunciabile scudo di fronte alla prepotenza della Russia di Putin. Ma quella stessa Europa occidentale, un tempo tanto attraente, li turba, li spaventa per i milioni di musulmani che ha integrato o che ospita, e dai quali scaturiscono rivolte (le periferie francesi) o attentati (Charlie Hebdo). L’apertura delle frontiere, in particolare l’accordo di Schengen, non è stata accompagnata dall’accettazione di una società multiculturale, che pare implicita. Il problema non è stato affrontato e ora spacca l’Europa. Un professore di storia, Mark Maskover, ricorda che fino al XX secolo il Vecchio Continente nel suo complesso ha vissuto in una specie di "purificazione etnica", ed è soltanto negli anni Sessanta che il versante occidentale ha imboccato il senso inverso con l’ arrivo in massa degli immigrati, resi necessari dall’industria in espansione. Il fenomeno è avvenuto in un clima di progresso economico, come del resto oggi gli imprenditori della Germania opulenta sono favorevoli all’accoglienza dei profughi che colmeranno la scarsità di mano d’opera nel paese e al tempo stesso il deficit demografico che invecchia la popolazione. I paesi dell’Europa centrale hanno invece raggiunto un’omogeneità etnica in modo drammatico. Non in seguito al progresso ma alle guerre e agli sconvolgimenti politici che hanno ritracciato i confini. E ne sono adesso gelosi. Nelle loro storie nazionali quell’omogeneità è una conquista. L’esempio più vistoso è la Polonia, un tempo terra di grande emigrazione e di profonde divisioni interne, che ha da poco raggiunto un’unità etnica e linguistica cui non vuole o stenta a rinunciare. All’origine della spaccatura tra le due Europe di fronte al grande movimento migratorio ci sono dunque esperienze storiche diverse. L’Unione multiculturale, di cui Angela Merkel è la pacifica e audace condottiera, si basa su dei nobili valori che non corrispondono ai valori difensivi della parte di Unione gelosa della omogeneità etnica conquistata. La scomposta associazione dei popoli europei si basa su principi la cui diversità può diventare drammatica e forse irreparabile se l’arrivo di migranti e rifugiati fosse destinato a durare anni, come sembra. L’opinione pubblica polacca è meno compatta nel rifiuto dei profughi degli altri paesi del gruppo di Visegrad (Slovacchia, Repubblica Ceca e Ungheria), e senz’altro anche delle tre repubbliche baltiche. Il primo ministro, Ewa Kopacz, si è detta disposta ad accettare almeno duemila rifugiati, a condizione che esistano i mezzi finanziari e il clima politico lo consenta. E quest’ultimo non è favorevole. Il suo partito, liberal conservatore, affronta il mese prossimo elezioni difficili, perché il movimento populista Legge e Giustizia domina i sondaggi, anche grazie alla posizione anti-immigrati. A Praga, sabato scorso, il gruppo di Visegrad ha rifiutato in una sbrigativa riunione d’emergenza la spartizione dei rifugiati con il criterio delle quote o di meccanismi simili. Questa linea intransigente potrebbe essere sostenuta il 14 settembre alla riunione dei ministri degli Interni, e al Consiglio europeo di metà ottobre. Bohuslav Sobotka, il primo ministro ceco, ha escluso di poter accettare più di millesettecento rifugiati. Il suo collega slovacco, Robert Fico, è disposto ad accoglierne duecento (soltanto siriani cristiani). In un momento di generosità, il governo di Bratislava aveva proposto di allog- giare cinquecento profughi in un edificio abbandonato di Garcikovo, sulla sponda del Danubio, al confine ungherese. Ma i cinquemila abitanti di quel piccolo centro si sono espressi al 97 per cento contro l’accoglienza. Nonostante i propositi espressi in loro favore, gli stessi profughi cristiani non sono sempre ospiti graditi. La società di San Vincenzo da Paola ha dovuto rinunciare a dare asilo ad alcune centinaia di loro in un convento abbandonato perché i duemila duecento abitanti del luogo hanno protestato, benché il settanta per cento si dichiarino cattolici praticanti. Del resto ottanta slovacchi su cento rifiutano i migranti. Nella Repubblica ceca sono ancora di più: il 93 per cento. Il presidente Milos Zeman anima l’ostilità, al punto da non escludere il dispiegamento di forze dell’esercito lungo il confine. Il parlamento di Budapest ha già preso iniziative in proposito, ha approvato un piano che prevede l’uso dei militari sulla frontiera con l’Austria e una condanna di tre anni per gli immigrati clandestini. Se protette dall’anonimato, personalità vicine al governo di Varsavia non esitano a rimproverare la cecità occidentale nella guerra civile siriana che riversa adesso profughi nel Vecchio continente. L’Europa Orientale non c’entra. Bisognava intervenire all’inizio per estinguerla. Inoltre si parla della massa di migranti come un rigurgito del colonialismo che ha disegnato il Medio Oriente che adesso si sta disgregando. Ma l’ Europa ha bisogno di principi comuni che la tengano unita, non del passato storico che l’ha disunita. E quei principi non ci sono. Vienna sfida l’Ungheria: cortei di auto al confine per trasportare i profughi di Andrea Tarquini La Repubblica, 7 settembre 2015 Il passaparola parte in Rete e alla frontiera arrivano centinaia di macchine. "So che rischiamo di essere arrestati dalla polizia di Orbán come se fossimo trafficanti di clandestini, ma non mi importa nulla: dieci bambini sono stati ricoverati nella notte, dopo ore a piedi da Budapest al nostro confine. Non hanno cibo né medicine né abiti puliti a sufficienza, per quanto facciano i nostri militari e la nostra Croce rossa. E allora quanto poco vale il mio rischio di poche ore in galera a fronte del rischio della vita di quei bimbi e di loro tutti?". Kurto Frantz, uno dei capi delle Ong austriache nate online in poche ore sui social forum, non ha dubbi. E allora al diavolo lavoro o impegni di tempo libero per il weekend, la carovana è partita. Agli stadi di Vienna, e alla mitica ruota del Prater, si sono dati appuntamento poco dopo le 11, e dopo ore di viaggio sono arrivati fin qui. Ne hanno caricati a centinaia. Addio alla terra ostile di Orbán, addio alle sue prediche sulla "Europa pura, bianca e cristiana": con viaggi a catena, su vecchie Golf arrugginite, grossi camper e minibus o lussuose Bmw a dodici cilindri, sono corsi in convoglio a portarne tanti in salvo. Fino a Vienna, o fino alla prima stazione da dove partono i treni veloci per la Germania dalle braccia aperte. E prima che l’Austria, come ha fatto sapere il governo, riprenda a chiudere gradualmente le frontiere. È tornato un po’ di sole a Hegyeshalom, dopo pioggia e vento che l’altro ieri rendevano ancor più fangosi e duri a percorrere quegli ultimi metri verso la libertà. I poliziotti ungheresi non si fanno vedere, stanno comodi nelle loro garitte. Pochi metri a ovest del nuovo muro caduto, crocerossine, infermieri e soldati austriaci sono ancora là, iperattivi, con overdose di caffè da cucina da campo e qualche sigaretta di troppo si tengono svegli da giorni. "Non sappiamo se siamo autorizzati dalle leggi a farlo o no, ma i volontari delle carovane li facciamo passare, qui ne va di vite che possono ancora essere salvate", dice un ufficiale della polizia stringendosi nella sua uniforme blu scura per affrontare improvvise folate di vento. "Ho preso congedo per motivi familiari", spiega Heinz, un giovane banchiere. "Per fortuna avevo ancora vacanze", aggiunge Karl, operaio all’aeroporto. L’Austria Felix dove i nazionalpopulisti xenofobi volano nei sondaggi si scopre improvvisamente diversa, solidale, generosa: "Quasi 300 auto già impegnate nell’operazione, sono in marcia verso Hegyeshalom e Gyoer, altri minivan suv e grosse limousine in arrivo dalla Germania", dicono su Facebook i bollettini di guerra dei volontari. "Chi ha sedili per bambini li porti a bordo, possono servire, se potete portate anche aspirina, altri analgesici, e abiti caldi", chiede online a tutti la brava Erzsébet Szabò, giovane ungherese di talento che dopo la svolta del 2010 ha detto addio alla patria pallida madre e vive a Vienna. È a fianco delle ong anche lei. Racconta: "Alcuni dei nostri volontari hanno raccolto spontaneamente profughi incontrati ancora in marcia a piedi ai margini dell’autostrada o della ferrovia". Weekend di fuga in massa verso la libertà, almeno 14mila sono già passati, quasi tutti sono già in Germania, decine di treni speciali e bus delle ferrovie austriache e tedesche danno il cambio alle carovane d’auto dei volontari, dalle stazioni di Vienna fino a Salisburgo. "Siamo in contatto costante coi volontari delle carovane d’auto, con cellulari e e-mail, ci adattiamo alle loro informazioni per calcolare quanti altri treni speciali per la Germania organizzeremo nelle prossime ore", dicono alla Oebb, le ferrovie della Repubblica alpina. Mani tese ovunque, giocattoli coperte e caramelle per quei bimbi che fino all’altro ieri, nei sotterranei della stazione Keleti di Budapest, temevano persino d’incontrare neonazisti in giacca nera con le rune cercando una toilette. "Happy end", è scritto su molte T-shirt che i guidatori del rally della carovana della salvezza si sono fatti stampare in fretta in qualche copy- center. Brigitte Pirker, un’altra leader della carovana, ha caricato il suo Suv con matite, quaderni, pennarelli e giocattoli: "Così nel lungo viaggio fino alla Germania che hanno ancora di fronte potranno passare meglio il tempo, riprendersi da stress che come traumi infantili poi ti restano nell’animo per una vita". E poi aggiunge: "Importantissimo portare loro vestiti nuovi, le crocerossine austriache hanno ordinato ai migranti di lasciare al confine abiti e coperte vecchi e sporchi, e subito gruppi ungheresi filo-Orbán diffamano migranti e crocerossine come insudiciatori della Patria". "Thank You Austria", gridano tanti siriani, afgani e dannati della terra d’ovunque altrove, ispirati da uno di loro, il siriano Majed Trabisi, salendo sulle vecchie Golf e le grandi 12 cilindri della carovana interclassista dei samaritani del Danubio. Poi arrivano alla stazione di Vienna, un altro europeo dal volto umano li aiuta: Ahmed Merabet, collega della tv austriaca, ex siriano, ha chiesto giorni liberi subito concessi per spiegare, tradurre, guidare i disperati verso il treno giusto per la Germania. E a ogni sosta della carovana delle 300 auto in questa o quella stazione, la gente della strada viene loro incontro, e stringe nelle mani dei migranti qualche banconota, poche o tante ma è segno d’aiuto e affetto. La tragedia continua, potrebbe ancora riprendere una brutta piega: a Berlino Angela Merkel affronta dura e decisa i no della Csu (il partito fratello bavarese arci conservatore e filo-Orbán) che grida contro "l’assurda decisione di lasciarli entrare". A Dortmund i neonazisti scendono in piazza, attaccano la polizia, gli agenti rispondono e ne arrestano quattro, ma nello scontro incassano feriti gravi. L’esodo continua, i rischi dei samaritani al volante crescono. In Ungheria chi soccorre i migranti rischia ora fino a 5 anni, "state attenti" scrive Erzsébet sul social forum. Quattro volontari viennesi sono stati già fermati dalla polizia di Orbàn, denunciati per "traffico illegale di clandestini", poi rilasciati. Ma presto la vendetta rabbiosa del regime sconfitto dal crollo del suo Muro potrebbe trovare nuove vie più crudeli. Oggi vincono le carovane dei volontari e la Germania merkeliana delle braccia aperte, lo scontro tra due idee d’Europa continua. Convivenza interreligiosa e meno migranti, il modello albanese di Maurizio Caprara Corriere della Sera, 7 settembre 2015 Non è detto che nel Mediterraneo adesso ferito da guerre civili in Siria, in Libia e da focolai di pericoli altrove la storia debba per forza andare all’indietro. L’Albania non il migliore dei mondi possibili, è un Paese affaticato come altri dalla corruzione, spesso inquieto sotto la superficie a causa di vicinanza e familiarità con i principali fattori di crisi balcaniche. Però a quanti lo visitano di tanto in tanto fa ogni volta impressione vedere quanto sia distante dalle condizioni miserabili e plumbee dei primi anni Novanta, quando il suo popolo si era messo alle spalle quasi mezzo secolo vissuto sotto l’oscurantismo di un regime filo-maoista. A Tirana i palazzi moderni dai vetri lucenti hanno superato in altezza quelli del vecchio regime. L’aeroporto della capitale albanese è ben più sfavillante di quello di Fiumicino. Molte strade sono più ordinate di vie del nostro Mezzogiorno. Non è detto che nel Mediterraneo adesso ferito da guerre civili in Siria, in Libia e da focolai di pericoli altrove la storia debba per forza andare all’indietro. Non soltanto dal punto di vista dei consumi. Nella domenica in cui ha chiesto a ogni parrocchia di "accogliere una famiglia di profughi", Papa Francesco ha apprezzato che la Comunità di Sant’Egidio abbia organizzato a Tirana il suo convegno annuale di dialogo interreligioso. "È una scelta che condivido", ha scritto il Pontefice in un messaggio all’incontro internazionale intitolato "La pace è sempre possibile" che riunirà fino a domani oltre 400 tra leader religiosi - cristiani, musulmani, ebrei, ma anche buddisti e persone di altre fedi - con rappresentanti di istituzioni e testimoni dei conflitti e delle aggressioni in corso in Libia, Siria, Iraq, Nigeria. "Capitale di un Paese diventato simbolo della convivenza pacifica tra religioni diverse, dopo una lunga storia di sofferenza", è la definizione data dal Papa per Tirana, città che ha visitato un anno fa. Attualmente si sa che la popolazione albanese, 3 milioni di abitanti, è composta all’incirca per il 57% da musulmani, il 10% da cattolici, il 7% da cristiani ortodossi, il 2% dai bektashi e da una somma di altre componenti. Nel 1967 l’Albania fu dichiarata il primo Stato ateo. La dittatura di Enver Hoxa demolì chiese, incarcerò ed eliminò sacerdoti e altri religiosi. Forse tanti partecipanti al convegno ignorano che strumenti di supplizio impiegati allora contro cristiani e dissidenti detenuti si trovano a due passi dal principale albergo impiegato per gli ospiti da Sant’Egidio. In un museo. "Non è un caso che a Durazzo finiscano nella stessa prigione e nella stessa tomba il muftì, Mustafà Varoshi e l’arcivescovo cattolico Prendushia", ha fatto presente Riccardi nella prima giornata del convegno. Indicativo della condizione esemplare attribuita adesso al Paese ospitante è che da Tirana il fondatore della Comunità, detta "L’Onu di Trastevere" per le sue mediazioni tra parti in conflitto e la sua collocazione a Roma, abbia lanciato un appello rivolto a tutte le religioni. È a ricordare la "lezione di speranza" albanese per superare "la diffusa rassegnazione" a reputare guerre e terrorismo "fenomeni inarrestabili". Su questo le domande poste da Riccardi danno da riflettere: "Dove sta un movimento per la pace in Siria? Dove nei Paesi arabi? Dove in Europa? La passione per la pace sembra esaurita. Eppure ci fu impetuoso nel 2003 un movimento per la pace contro la guerra in Iraq". A governo italiano e Unione europea il professore, ex ministro dell’Integrazione, ha offerto una sorta di consulenza su come dar seguito all’esortazione del Papa sui rifugiati: ricorrere alla cosiddetta sponsor-ship, ossia consentire a cittadini, associazioni e parrocchie "di farsi garanti dell’accoglienza", poter ospitare quanti sono già in Europa e invitarne altri "dalle zone a rischio" riducendo le traversate con pericoli di naufragi. Per il momento, alcuni degli invitati al convegno sono ex migranti ed ex profughi stranieri integrati in Italia arrivati a Tirana dopo un viaggio in nave da Bari a Durazzo: una rotta inversa rispetto a quella che negli anni Novanta folle di poveracci percorrevano su relitti galleggianti. Traversate che, dall’Albania, non partono più come allora. Cittadinanza più aperta ai minori di Rossella Cadeo Il Sole 24 Ore, 7 settembre 2015 Giorno dopo giorno l’emergenza immigrazione si aggrava, in attesa di soluzioni efficaci. Intanto c’è un’altra piccola platea di stranieri che sta facendo qualche passo in avanti nel processo di integrazione. Si tratta di quei soggetti, tra i regolarmente residenti in Italia, che sono arrivati a una tappa importante, almeno dal punto di vista giuridico: l’acquisizione della cittadinanza, un tema che a breve tornerà alla ribalta con la riforma dell’attuale disciplina, la legge 91/92. A fine luglio è stato infatti depositato alla commissione Affari costituzionali della Camera il testo unificato, che raccoglie le 24 proposte di legge presentate finora, e lunedì 14 settembre sarà il termine ultimo per il deposito degli emendamenti. Poi inizierà l’iter parlamentare: valutazione dell’ammissibilità degli emendamenti, approvazione del nuovo testo, calendarizzazione della discussione prima alla Camera, poi al Senato. Alla fine del 2014 gli stranieri (Ue ed extra-Ue) registrati all’anagrafe in Italia hanno superato i cinque milioni (8,2% della popolazione). Ma c’è un altro dato importante: nel corso del 2014 hanno acquisito la cittadinanza quasi 130mila stranieri (+29%), un numero superiore agli ingressi di migranti registrati in Italia nei primi otto mesi di quest’anno (116mila circa). Il tasso di naturalizzazione (calcolato ogni mille stranieri residenti a inizio 2014, pari a 4,92 milioni) si aggira sul 26 per mille, con divari sul territorio: si va dai picchi del 52 e 40 per mille di Valle d’Aosta, Trentino-Alto Adige e Veneto ai valori risicati di Campania o Basilicata (intorno a 10 per mille). Numericamente sono invece le regioni con la maggiore presenza di stranieri a spiccare, con la Lombardia al primo posto (quasi 36mila riconoscimenti), seguita da Veneto, Emilia-Romagna e Piemonte; all’opposto, Molise, Basilicata e Valle d’Aosta non raggiungono le 500 unità. Il tasso di naturalizzazione nazionale è ancora lontano da quello svedese (poco meno di 80 per mille), ma si avvicina a quello della Francia (tra i primi Paesi a essersi aperto al cosiddetto ius soli) e supera quello tedesco (ultimi dati Eurostat riferiti al 2013, si veda il grafico a fianco). Ma i valori numerici riservano qualche sorpresa: sul milione circa di stranieri diventati cittadini in uno dei 28 Paesi Ue nel 2013, spiccano Spagna e Regno Unito (oltre 200mila), seguiti da Germania (115mila). Subito dopo, però, viene l’Italia, che con la Francia si colloca tra i cinque principali Paesi per numero di cittadinanze concesse. Un risultato ragguardevole, nonostante i limiti della legge attualmente in vigore, per esempio "il requisito dei tempi di residenza in Italia per la presentazione della domanda e il complicato meccanismo procedurale che rischia di dilatarli ulteriormente - osserva Marilena Fabbri (Pd), relatrice del testo unificato di riforma. Alcuni progressi sono comunque stati fatti, come la possibilità di presentare online la domanda, con un’accelerazione del primo screening". Profughi nell’isola-carcere di Pianosa? se ne parla stasera a Porta a Porta La Nazione, 7 settembre 2015 La questione profughi e l’ipotesi dell’ex colonia penale di Pianosa come luogo per accogliere i migranti, lanciata dal sindaco di Capoliveri (e già commissario del parco Nazionale Arcipelago Toscano) Ruggero Barbetti: anche di questo si parlerà stasera, nel corso della puntata di "Porta a Porta", il programma di approfondimento condotto su Rai Uno da Bruno Vespa. Un dibattito che prevede collegamenti con il presidente del Parco Arcipelago, Giampiero Sammuri, con il direttore del carcere di Porto Azzurro Francesco D’Anselmo e con il sindaco di Campo nell’Elba Lorenzo Lambardi, contrario, fin da subito all’ipotesi di fare del paradiso naturale di Pianosa, che sta rinascendo, anche sotto il profilo turistico, proprio grazie all’opera dei detenuti della Cooperativa San Giacomo, la Ellis Island italiana. Ed è delle scorse ore il botta e risposta a mezzo Facebook tra lo stesso Lambardi e Ruggero Barbetti. Quest’ultimo, provocatoriamente, rilancia la proposta di utilizzare l’isola piatta - e le sue strutture ancora presenti, come il carcere di massima sicurezza o la caserma degli agenti, per accogliere profughi e migranti. Il primo cittadino di Campo, ribatte, dichiarandosi disponibile ad accogliere migranti sul territorio comunale, ma chiamando fuori Pianosa. "Grazie al buon lavoro che stiamo facendo come Comune assieme a Parco e Amministrazione penitenziaria - scrive il primo cittadino di Campo nell’Elba, Comune sotto cui ricade l’isola nell’isola - sta risorgendo dall’abbandono e dall’incuria di anni. Il lento ma giusto recupero di questi spazi si tiene insieme con equilibri ambientali e antropici delicatissimi. Non a caso a Pianosa possono andarci un massimo di 250 persone al giorno. I costi di un’eventuale "gestione" di questa tragedia umana su Pianosa sarebbero elevatissimi. Solo per fare un esempio: il pane (non bistecche, pasta o chissà cosa ma il semplice pane) viene portato dalla nostra isola d’Elba a Pianosa con il servizio di linea. Non ci sono punti medici né farmacie. L’acqua è garantita da un unico pozzo, mancano infrastrutture importanti come illuminazione pubblica, fognature idonee e molto altro. Inoltre - aggiunge Lambardi - sotto il profilo puramente umanitario perché confinare questa gente a Pianosa? Per fare cosa? Lavori forzati? E a che titolo? Con quale scopo? Vuoi fare di Pianosa la nuova Ellis Island? Io no, per nulla. Quello che ho detto è tutt’altro: noi sindaci dobbiamo incontrarci con tutta la società civile, le associazioni e tutti coloro che vogliono dare una mano e provare a dare un contributo elbano ad un tema nazionale che è quello dell’accoglienza. Proviamo per una volta a dare una voce elbana unica e unita su una questione molto complessa e delicata. Non credo affatto di avere la soluzione in tasca ma vorrei costruirla insieme agli altri. Punto. Se poi la vogliamo buttare sulla provocazione politica io su questo terreno non ti seguo". E stasera lo ripeterà anche in diretta a Porta a Porta. India: caso marò, Girone dimesso dall’ospedale "non sto bene, mandatemi a casa" Il Tempo, 7 settembre 2015 Il fuciliere della Marina detenuto in India con l’accusa di aver ucciso due pescatori. "Sono stato dimesso ma sono ancora ammalato. I valori del mio sangue non sono perfetti come lo erano prima di contrarre la febbre dengue. Ho ancora bisogno di cure, convalescenza e riposo a casa mia, come spetterebbe ad ogni dipendente statale militare. Ma purtroppo non posso visto il mio stato detentivo illegale". Così, il marò Salvatore Girone, ai microfoni dell’agenzia di stampa Ansa, che lo ha raggiunto telefonicamente a Nuova Delhi. Girone, ricordiamo, è uno dei due fuciliere della Marina accusati dall’India di aver colpito a morte due pescatori - Valentine e Ajeesh Pink, imbarcati su un peschereccio indiano - il 15 febbraio del 2012 al largo della costa del Kerala, stato dell’India sud occidentale. I due marò erano a bordo, insieme ad altri 4 militari del 2° reggimento San Marco, della petroliera italiana Enrica Lexie, per una missione di protezione proprio in seguito a numerosi attacchi da parte di pirati alle navi cargo nelle acque dell’oceano indiano. Il compagno Massimiliano Latorre rimarrà in Italia almeno fino a gennaio 2016 proprio per curarsi. Il permesso dell’India che gli ha concesso di curarsi in Italia, scade il 15 gennaio. Gran Bretagna: tornano in patria i due giornalisti di Vice News detenuti in Turchia Reuters, 7 settembre 2015 I due giornalisti britannici di Vice News, detenuti in Turchia sulla base di accuse di "terrorismo" prima di essere liberati giovedì, sono in buone condizioni di salute e di ritorno nel Regno Unito. Lo ha annunciato il portale di informazione americano. "Due dei nostri giornalisti, Jake Hanrahan e Philip Pendlebury, sono stati rilasciati e sono di ritorno nel Regno Unito. Sono in buona condizione di salute fisica e morale. Ma restano estremamente preoccupati per la sorte del nostro terzo collega, Mohammed Ismael Rasool, che è ancora detenuto", ha indicato Vice News in una nota. I due giornalisti e Mohammed Ismael Rasool, il loro interprete di nazionalità irachena, erano stati arrestati il 27 agosto mentre seguivano intorno a Diyarbakir, la grande città a maggioranza curda del sudest turco, le violenze che contrappongono da oltre un mese i militanti del Pkk (Partito dei lavoratori del Kurdistan) alle forze di sicurezza turche. La magistratura di Ankara gli rimproverava di aver intrattenuto contatti con organizzazioni come lo Stato Islamico (Isis) e il Pkk. Sono stati formalmente incriminati lunedì, sulla base di accuse di terrorismo", e nei loro confronti era scattata la carcerazione preventiva, prima che un tribunale di Diyarbakir ne ordinasse la rimessa in libertà giovedì scorso. Vice News, che ha categoricamente smentito queste accuse, "continua a lavorare senza con tutti i governi e le parti legali coinvolte per assicurare la liberazione" dell’interprete, ha sottolineato oggi il portale.