Giustizia: amnistia. Pannella l’anticlericale inneggia al Papa, il cattolico Alfano lo critica di Giorgio Ponziano Italia Oggi, 6 settembre 2015 La strana coppia. Agli antipodi. Il primo, Marco Pannella, si dichiara anticlericale, anche se poi dialoga e condivide l’operato del Papa, il secondo, Angelino Alfano, è cattolico praticante e non manca occasione che non lo ribadisca, ma ha rimandato al mittente l’ultima proposta del Pontefice, quella dell’amnistia in occasione del Giubileo. I due si trovano così a capo di due fronti contrapposti. Pannella alza la bandiera dell’amnistia, si fa forte delle parole di papa Francesco e dietro ha una truppa formata dalla sinistra radicale, da una parte del Pd e dai cattolici sociali. Alfano è invece in trincea e assicura che l’amnistia non passerà: con lui c’è tutto (o quasi) il centrodestra, una fetta del Pd, la Lega. Quest’ultima è rimasta spiazzata dall’immediatezza e dal tono fermo della sua risposta, tanto che Matteo Salvini ha preferito cavarsela con una frase di circostanza e continuare a occuparsi di immigrazione. Alfano lo ha bruciato sul tempo e l’onta non è di poco conto perché il ministro degli Interni è considerato da Salvini il suo nemico numero uno, il traditore del centrodestra che ha scelto di stare al governo col Pd. Con l’arrivo del Giubileo e il prevedibile moltiplicarsi degli interventi pubblici del Vaticano quello dell’amnistia sarà uno dei temi caldi del tardo autunno. Anche perché Pannella è notoriamente uomo d’azione (e di marketing politico) che neppure gli 85 anni compiuti a maggio e la stancante cura di un tumore hanno ammansito. Partirà quindi una sua campagna pro-clemenza, che potrebbe provocare una nuova frattura all’interno del Pd. "Dobbiamo prendere atto che potendolo, rispetto a tutti quelli che lo potevano", dice Pannella, "solo papa Francesco ha riproposto quanto già l’ex-presidente Giorgio Napolitano aveva formalmente chiesto alle istituzioni, che però sono rimaste sorde. Evviva Papa Francesco. Stavo per chiedergli di essere coraggioso, ma avevo un po’ di pudore, invece è arrivata la sua perorazione e quindi domanderò di essere ricevuto in Vaticano per ringraziarlo. Il Papa ha avuto coraggio e quando il coraggio si esprime per dare forza alla legge che invece viene umiliata, negata da coloro che hanno la funzione di farla vivere, è davvero un gran bel momento. Questa amnistia è una speranza per tanti a cui va ridata una speranza". Pannella in Vaticano. Proprio lui che sostiene che "nel nostro Paese più che in ogni altro, il tentativo di definire i termini dei rapporti tra democrazia e clericalismo e forze religiose si è tradotto non in un ammodernamento ma in una serie di espedienti che si sono sempre rivoltati contro la sinistra italiana. L’anticlericalismo è una chiave di interpretazione moderna e attuale". Ma con papa Francesco sembra esservi molto feeling. E sul tema dell’amnistia marceranno insieme. Ha detto il Papa: "Il Giubileo ha sempre costituito l’opportunità di una grande amnistia, destinata a coinvolgere tante persone che, pur meritevoli di pena, hanno tuttavia preso coscienza dell’ingiustizia compiuta e desiderano sinceramente inserirsi di nuovo nella società portando il loro contributo onesto". Da parte sua, Pannella aggiunge: "Sono pronto a un nuovo sciopero della fame se non saremo ascoltati". Proprio per supportare (inutilmente) una richiesta di amnistia egli attuò il più lungo dei suoi scioperi, dal 20 aprile al 19 luglio 2011. Nonostante l’età e gli acciacchi potrebbe ripeterlo. Mettendo in difficoltà il suo contraltare, il ministro Alfano, che dice: "Dobbiamo fare in modo che le carceri siano luoghi di rieducazione ma chi è condannato resti in carcere fino all’ultimo giorno. E se i posti non bastano ne costruiamo di altri. Il Santo Padre fa il pastore di anime, io come ministro dell’Interno non posso non ricordare che dietro ogni condannato c’è almeno una vittima a cui lo Stato deve rispetto. Le risorse per costruire nuovi istituti penitenziari si possono trovare, anche col contributo dei privati. Quando ero ministro della Giustizia lanciai il piano carceri perché di fronte al sovraffollamento carcerario non si risponde mandando i delinquenti in strada ma costruendo nuove carceri". Il cattolicissimo Alfano sarà un osso duro per l’anticlericale Pannella. Anche perché il ministro può contare su un largo appoggio e il silenzio di Matteo Renzi sulla questione la dice lunga. Ha parlato il ministro della Giustizia Andrea Orlando: "a un provvedimento straordinario preferirei un cambio strutturale riguardo l’esecuzione della pena che deve essere uno strumento di rieducazione del detenuto. Di solito quando si parlava di amnistia e indulto lo si legava al sovraffollamento delle carceri, un problema che ora è stato risolto". Sulla stessa lunghezza d’onda Rosy Bindi ("c’è da fare molto prima dell’amnistia") e il capogruppo Pd in commissione Giustizia alla Camera, Walter Verini ("non ci sono le condizioni per proporre e approvare l’amnistia. Il parlamento deve se mai raccogliere l’appello di papa Francesco come uno sprone per continuare sulla strada che abbiamo adottato, facendo sì che la pena detentiva non sia una sorta di vendetta ma un passaggio che aiuti chi ha sbagliato a ravvedersi e a reinserirsi definitivamente nella società e nel lavoro"). Ma nel Pd si registrano anche voci opposte come quella del presidente del Senato, Pietro Grasso: "Penso che sia venuto il momento in cui il parlamento possa affrontare questo tema. Il parlamento decida se questa legittima aspirazione della Chiesa possa diventare anche un fatto politicamente rilevante". Aggiunge il senatore Pd Luigi Manconi: "Mi colpisce il fatto che tutt’ora non vi sia stata sulle parole del Papa una riflessione nel merito, né una replica documentata. Non un’argomentazione razionale, né una proposta alternativa". Da quando, nel 2013, la corte di Strasburgo condannò l’Italia per il sovraffollamento carcerario nei 198 istituti italiani (la cui capienza è di 49.655 posti) si è passati da 66 mila a 52mila detenuti. L’ultima amnistia risale al 1990, dopo ci sono stati alcuni indulti e un alleggerimento di pena previsto nel decreto svuotacarceri del governo Renzi. Chi vincerà nella tenzone Pannella-Alfano? Anche se forse sarebbe più opportuno mettere tutto nel calderone: carceri a livello civile e funzionanti, certezza della pena, invio in comunità per i reati minori, riforma dei codici cancellando i cavilli e l’amnistia chiesta da papa Francesco. Giustizia: l’Osservatorio Camere penali promuove un’indagine sulla custodia cautelare camerepenali.it, 6 settembre 2015 La lettera inviata dal Presidente Migliucci ai Presidenti delle Camere Penali. Messi a punto dopo molti mesi di lavoro gli strumenti operativi, la ricerca passa ora alla fase esecutiva della raccolta dati al cui successo devono contribuire tutte le Camere Penali consapevoli dello straordinario contenuto politico di questa nuova iniziativa. Ai Presidenti delle Camere Penali. Loro Sedi Caro Presidente, sono lieto di renderti partecipe - e per Tuo tramite, tutti gli iscritti alla Camera Penale da Te presieduta - di una nuova iniziativa politica che l’Unione ha deliberato di assumere, alla quale io e la Giunta che ho l’onore di presiedere annettiamo grande importanza, e che richiede, per la sua riuscita, la diretta e fattiva partecipazione di tutte le Camere Penali italiane. È infatti giunta l’ora di raccontare - all’ opinione pubblica, alle istituzioni parlamentari, alle forze politiche - la verità sull’uso che quotidianamente viene fatto nel nostro Paese, nella concreta amministrazione della giustizia penale, dell’istituto della custodia cautelare. È una verità che i penalisti italiani, beninteso, conoscono alla perfezione, grazie alla propria quotidiana esperienza professionale; ed è la verità di un abuso ordinario e sistematico di uno strumento che invece legge e Costituzione impongono categoricamente come eccezionale e residuale. Ma, appunto, il problema politico che ci siamo posti è: come la possiamo raccontare, questa verità, in modo che non possa essere liquidata come un punto di vista, fazioso ed interessato, degli avvocati penalisti, ma sia invece disvelata nella sua rigorosa, non controvertibile oggettività? L’UCPI già raggiunse con successo, nel 2008, un analogo obiettivo politico: la ricerca sull’udienza dibattimentale, realizzata insieme all’Istituto Eurispes con la decisiva collaborazione di un gran numero di Camere Penali, demolì una volta per tutte la menzogna che pretendeva di attribuire ad un supposto eccesso di garanzie difensive la irragionevole durata dei processi penali. E noi vogliamo - o almeno, questa è la nostra ambizione- esattamente replicare quel successo politico, questa volta in tema di abuso della custodia cautelare, e di malfunzionamento dei meccanismi procedimentali deputati al controllo della legittimità delle misure custodiali. Per tali ragioni, sin dal suo insediamento questa Giunta ha ritenuto prioritario dotarsi di uno strumento deputato proprio alla raccolta dei dati statistici sul funzionamento e sulla amministrazione della giustizia penale in Italia: l’Osservatorio Dati, affidandone la responsabilità a Gian Domenico Caiazza, che già aveva organizzato e coordinato la "ricerca Eurispes" nel 2007-2008. Ebbene, in questi mesi i (numerosi) Colleghi componenti di quell’Osservatorio (espressione di tutte le 24 Camere Penali residenti nelle città sede delle Corti di Appello), hanno con grande impegno lavorato alla predisposizione degli strumenti indispensabili per la realizzazione di questa grande indagine nazionale, che si realizzerà mediante due distinti, ma ovviamente convergenti, strumenti di acquisizione dei dati. Il primo nasce dalla collaborazione tra l’Osservatorio e l’Ufficio Statistica del Ministero di Giustizia, che ha prodotto la condivisa elaborazione di un complesso catalogo di query, cioè di interrogazioni in tema di custodia cautelare e di procedimenti cautelari, che verranno ora poste ai sistemi informatici ed agli uffici statistici degli uffici giudiziari territoriali, prima nelle sedi-pilota di Palermo e Milano, e poi su tutto il territorio nazionale. Il secondo nasce grazie alla collaborazione scientifica, preziosa ed ovviamente indispensabile, con il Dipartimento di scienze statistiche dell’Università "Sapienza" di Roma, e consiste nella realizzazione di un sofisticato questionario on line, destinato alla interrogazione di un preciso campione statistico di avvocati penalisti italiani. Il questionario, la cui davvero complessa articolazione ha richiesto molti mesi di lavoro, costituisce ora lo straordinario strumento scientifico attraverso il quale gli avvocati italiani, ricostruendo le vicende cautelari direttamente patrocinate negli anni 2013 e 2014, potranno raccontare non un innocuo punto di vista, ma la deflagrante, oggettiva verità di questo ormai non più tollerabile scandalo della giustizia penale italiana, dal momento della richiesta della misura, alla sua esecuzione, alle esigenze che l’hanno motivata, a tutte le successive vicende procedimentali (Riesame, Appello, Cassazione, istanze di revoca e di sostituzione), fino all’esito (se nel frattempo intervenuto nell’arco di tempo considerato), del giudizio di merito, quantomeno del primo grado. Come puoi constatare, caro Presidente, si tratta di una autentica impresa, considerata la mole monumentale dei dati che intendiamo raccogliere ed elaborare con rigore scientifico non controvertibile, e poi analizzare politicamente; ed è una impresa le cui possibilità di successo sono interamente nelle nostre mani. Qui, a differenza che nella ricerca Eurispes 2008, la natura dei dati che ci proponiamo di raccogliere non è pubblica, e dunque la raccolta non può che derivare dallo scrutinio accurato e rigoroso dei fascicoli, di studio o di ufficio, relativi alle vicende cautelari da noi patrocinate. Dunque il successo di questa nostra iniziativa politica dipenderà, senza dubbio alcuno, dall’impegno che ciascuna Camera Penale italiana (coordinata, per distretto di Corte di Appello, dal rispettivo componente dell’Osservatorio), saprà assicurare per garantire le risposte al questionario da parte del numero di avvocati che a ciascuna di esse sarà assegnato di raggiungere. Anche per questa ragione, nel corso del Congresso straordinario che si terrà a Cagliari dal 25 al 27 settembre 2015, effettueremo una presentazione della ricerca ed una dimostrazione delle modalità di compilazione del questionario on line. Confidiamo dunque molto nel forte impegno della Tua Camera Penale, non solo per il raggiungimento dell’obiettivo politico immediato di questa ricerca, ma ancor più per vedere definitivamente affermata e riconosciuta ai penalisti italiani una ulteriore ragione di forza ed autorevolezza politica, cioè quella -ci auguriamo - di avere finalmente sconfitto il monopolio della Magistratura italiana sulla raccolta e la conoscenza dei dati relativi al funzionamento della giustizia penale italiana. Gli avvocati penalisti italiani, caro Presidente, sono - letteralmente - seduti su una miniera di dati e di verità sul processo penale: noi vogliamo finalmente portarli alla luce, per costringere politica, istituzioni ed opinione pubblica a conoscerli, ed a misurarsi con essi. Ringraziandoti per l’attenzione, formulo i miei più cordiali saluti. Beniamino Migliucci Giustizia: aboliamo il Tribunale dei minori, è un centro di potere pericoloso di Vincenzo Vitale Il Garantista, 6 settembre 2015 Da tempo giace in Parlamento una proposta di legge firmata da diversi deputati per l’abolizione del Tribunale dei Minori. Perché lo si vuole abolire? Perché esso ha sostanzialmente tradito il suo compito, lo scopo che gli era stato affidato. Nato a metà degli anni trenta allo scopo di calibrare l’esercizio della giurisdizione per i minori, sia dal punto vista penale che civile, destinato cioè a fare da giudice specializzato anche con l’ausilio di componenti non togati, esso avrebbe dovuto costituire l’esempio di un giudice capace di giudicare, per dir così, con il regolo Lesbio, quello che si commisura in modo perfetto alle curve esistenziali della vita, quelle tipiche di un ragazzo ancora non maggiorenne. Tuttavia, col passare del tempo la natura del Tribunale ha fatto denunciare una sorta di mutamento genetico, in modo che invece che l’interesse del minore - che dovrebbe esserne la stella polare - a volte il Tribunale sembra aver perseguito altri scopi, altre mete. In particolare, ciò che assolutamente non è accettabile è il fatto che la procedura è spesso segreta; che il contraddittorio non viene garantito; che i provvedimenti non sono sufficientemente motivati; che in certi casi non sono portati a conoscenza dei destinatari, benché questi siano tenuti a subirne gli effetti. È ovvio che a tali difficoltà si potrebbe ovviare attraverso la "prudentia iuris", cioè la virtù che contrassegna il giurista la quale potrebbe essere utilissima per bilanciare le cose che non vanno, usando della discrezionalità di chi è chiamato a giudicare. Però, il più delle volte, ciò non accade, per sciatteria, per incomprensione del proprio compito, per innamoramento del potere, per scarsa sensibilità umana e giuridica. Ne viene che il Tribunale dei minori appare come un centro di potere tanto pericoloso quanto inossidabile e che purtroppo non è affatto consapevole di esserlo ormai divenuto: insomma, latita la capacità di autocorreggersi. Non a caso, Piero Tony, già Procuratore generale di Firenze e per anni Presidente del Tribunale dei Minori, ha recentemente pubblicato un volumetto in cui, analizzando proprio le gravi e ripetute disfunzioni del Tribunale, lo invita a "camminare con i piedi sulla terra", cioè a smetterla di rincorrere gli schemi ideologici preferendo la autenticità della realtà. Questa autenticità ci dice che dal momento che i destinatari dei provvedimenti del Tribunale sono appunto i piccoli o addirittura i piccolissimi, massima dovrebbe essere la prudenza da usare, anche a costo di forzare, ove occorra, le maglie della legge. D’altra parte la legge non può tutto prevedere e tutto disciplinare, per cui è ovvio che molto è lasciato alla capacità dei giudici, i quali, spesso, son mal consigliati dagli assistenti sociali. Su queste figure ci sarebbe tanto da dire e a volte di assai critico, ma ci riserviamo di farlo ad una prossima occasione in modo più specifico. Giustizia: la lezione di Obama. Il carcere non risolve, investiamo in assistenza e istruzione Il Garantista, 6 settembre 2015 Il Presidente degli Stati Uniti vuole cambiare il sistema penitenziario e giudiziario: "ogni anno spendiamo 80 miliardi di dollari…. li potremmo investire per gli asili". Lo scorso 16 luglio Obama ha visitato l’El Reno Federal Correctional Institution in Oklahoma, un istituto considerato "di media sicurezza" con 1.300 detenuti. Le telecamere lo hanno seguito durante tutta la visita, la prima di un presidente Usa in carica in un penitenziario. Ha avuto un colloquio con 6 detenuti per fatti di droga. Il Presidente è poi entrato nella cella 123 (vuota), e al termine della visita ha rilasciato alle telecamere alcune dichiarazioni. La più importante forse è quella in cui dice: "Quando hanno descritto la loro giovinezza e la loro adolescenza… queste sono persone che da giovani hanno commesso errori che non sono poi tanto diversi da errori che ho fatto io, errori che hanno fatto anche molti di voi (riferendosi ai giornalisti che lo accompagnavano)". "La differenza è che loro non hanno avuto quel tipo di strutture di supporto, le seconde occasioni, le risorse che avrebbero permesso loro di sopravvivere ai loro errori. Credo noi abbiamo la tendenza a volte a dare per scontato o considerare normale che così tanti giovani finiscano intrappolati nel nostro sistema giudiziario. Ma non è normale, non è quello che succede in altri paesi". "Quello che è normale è che gli adolescenti facciano cose stupide. Quello che è normale è che i giovani commettano errori, e noi dovremmo imparare a distinguere tra gli individui veramente pericolosi che devono essere neutralizzati e carcerati, e i giovani che risentono del fatto che cercano di adattarsi all’ambiente in cui vivono, ma che se avessero opportunità diverse, una diversa visione della vita, potrebbero svilupparsi, e diventare come noi. Credo sia qualcosa sulla quale dobbiamo tutti riflettere". Riassumendo l’incontro con i 6 detenuti (che in autunno sarà riversato in un documentario che sta preparando la Hbo), Obama ha detto: "Ognuno di loro ha riconosciuto di aver fatto qualcosa di sbagliato, e si assumono la responsabilità delle loro azioni, ma ci chiedono anche di valutare se non c’erano altri modi in cui la società poteva occuparsi di loro, entrare in contatto con loro nelle fasi precedenti della vita, in modo che potessero tenersi fuori dai guai". "Dobbiamo domandarci se sia questo il modo più intelligente di affrontare la questione, di controllare i reati e riabilitare le persone. Dobbiamo domandarci se condannare a 20, 30 anni, o all’ergastolo persone che non hanno commesso reati di sangue sia il modo migliore di risolvere i problemi". Obama ha visitato il carcere accompagnato da Charles Samuels, direttore dell’Amministrazione Penitenziaria federale (negli Usa le carceri sono distinte nettamente tra carceri federali e di stato, che si chiamano prison o penitentiary, e le carceri di contea o locali, dove gli imputati vengono tenuti prima del processo o in caso di pene inferiori ad un anno, che si chiamano jail) e un agente penitenziario, Ronald Warlick. Obama si era occupato di carcere anche nei giorni precedenti. Il 13 luglio aveva firmato 46 provvedimenti di clemenza per altrettanti detenuti accusati di reati non di sangue legati alla droga, 14 dei quali erano stati condannati all’ergastolo. Sono 95.000 i detenuti per reati di droga che stanno scontando la pena nelle carceri federali, il 48,6% dell’intera popolazione detenuta federale. L’80% è di origine ispanica o afroamericana. Dalla primavera 2014 ad oggi, in 35.000 hanno fatto richiesta di una riduzione di pena, che nel sistema federale deve essere approvata dal Presidente. Con quelle concesse il 13 luglio, Obama ne ha firmate 89, un numero piccolo, ma che è comunque più di quante ne hanno firmate gli ultimi 4 Presidenti messi assieme. Il 14 luglio Obama ha tenuto un discorso davanti al 106° congresso nazionale della Naacp, che si è tenuto a Philadelphia. La National Association for the Advancement of Colored People è la più importante associazione americana per i diritti civili, alla quale a suo tempo ha appartenuto anche Martin Luther King. Molti presidenti hanno tenuto discorsi davanti all’assemblea annuale della Naacp, ma è sicuramente la prima volta che un presidente in carica tocca tanti temi legati alla giustizia, e tanto in profondità. Il Presidente ha auspicato cambiamenti praticamente in ogni settore, dal primo contatto con gli agenti di polizia, al potere discrezionale dei procuratori nello scegliere i capi d’imputazione e dei giudici di determinare la lunghezza delle pene, all’uso eccessivo del regime di isolamento in carcere, alla necessità di fornire una formazione professionale ai detenuti nell’imminenza del loro rilascio. Di seguito, alcuni passaggi del Presidente, che secondo gli osservatori influenzeranno certamente la riforma della giustizia in discussione davanti al Congresso nelle prossime settimane. Sull’uso della forza da parte della polizia. "Negli ultimi anni, gli occhi di molti americani si sono aperti su questa verità. In parte a causa delle telecamere, in parte a causa delle tragedie, in parte perché le statistiche non possono essere ignorate. Non possiamo più chiudere gli occhi, e la buona notizia, e questa è veramente una buona notizia, è che le persone per bene di tutte le convinzioni politiche stanno iniziando a pensare che abbiamo bisogno di fare qualcosa per questo". Sulle condanne troppo alte nei confronti di reati di droga di basso livello: "In veramente troppi casi, semplicemente la condanna è sproporzionata al reato. Se sei un piccolo spacciatore, o se hai violato le norme sulla libertà condizionale, hai sicuramente un debito da saldare con la società. Ma non può essere una condanna a 20 anni. Non può essere una condanna all’ergastolo. Condanne del genere sono sproporzionate rispetto al prezzo che è giusto pagare. E tra l’altro, sono sproporzionate anche per il costo che viene imposto a chi paga le tasse per mantenere i detenuti". "Ogni anno spendiamo 80 miliardi di dollari per tenere la gente in carcere. 80 miliardi. Rendiamoci conto: con 80 miliardi potremmo dare l’asilo gratis su tutto il territorio Usa ai tutti i bambini di 3 e 4 anni. Con 80 miliardi potremmo raddoppiare gli stipendi di tutti i professori di liceo, oppure potremmo finanziare nuove strade, ponti, e aeroporti, formazione professionale, e finanziare la ricerca scientifica… con quello che spendiamo in un anno per mantenere il regime di carcerazione di massa che è in vigore nel nostro paese, potremmo eliminare tutte le rette e le tasse in tutti i nostri college e nelle università pubbliche". Come ha detto Rand Paul, senatore repubblicano e candidato alle prossime presidenziali, tenere in carcere tanto a lungo tante persone condannate per reati non violenti di droga costa tanto ai contribuenti, e non aumenta per niente il loro livello di sicurezza. Oggi circa un terzo del budget del ministero della giustizia è speso nelle carceri. Un terzo… ma ogni dollaro speso per tenere dentro decine di migliaia di piccoli spacciatori, è un dollaro in meno che si può spendere per dare la caccia ai grandi narcotrafficanti, ai capi dei cartelli, ai terroristi, o un dollaro in meno che non si può spendere per assumere nuovi poliziotti e dare così una protezione più efficace alle comunità". Sulle disparità legate alla razza. "E poi, naturalmente, ci sono i costi che non possono essere misurati in dollari e centesimi. Perché le statistiche su chi viene incarcerato dimostrano che, con ampio margine, l’impatto sulle comunità di colore è sproporzionato. Afro-americani e ispanici costituiscono il 30 per cento della nostra popolazione; essi costituiscono il 60 per cento dei nostri detenuti .... La linea di fondo è che in troppi luoghi, ragazzi neri e uomini neri, ragazzi ispanici e uomini ispanici provano l’esperienza di essere trattati in modo diverso davanti alla legge. Questo non è solo aneddotica. Queste non sono solo chiacchiere da bar". "Una delle conseguenze di questa cosa è che circa un milione di padri sono dietro le sbarre. Circa un bambino su 9 tra gli afroamericani ha un genitore in prigione… la nostra nazione viene sistematicamente derubata di uomini e donne che potrebbero essere dei lavoratori, e dei contribuenti, che potrebbero partecipare più attivamente alla vita dei loro figli, che potrebbero essere d’esempio nei loro ruoli, che potrebbero essere leader nelle loro comunità. E invece sono rinchiusi per reati non violenti. È evidente che il nostro sistema giudiziario non è intelligente come dovrebbe essere, né ci garantisce sicurezza come dovrebbe". Sulle modifiche da apportare al potere discrezionale dei procuratori federali. "Sotto la direzione degli Attorney General Eric Holder, e ora Loretta Lynch, abbiamo adottato una linea di condotta che abbiamo chiamato "smart on crime" ossia "furbi contro il crimine", che vuol dire concentrare l’attenzione e le risorse contro i criminali peggiori. Il ricorso alle sentenze minime obbligatorie è calato del 20% rispetto all’anno precedente. L’idea è che non c’è sempre bisogno di condannare una persona al massimo della pena. Un buon procuratore deve essere proporzionato. E alla fine, si scopre che stiamo risolvendo lo stesso numero di casi, che stiamo ottenendo lo stesso numero di dichiarazioni di colpevolezza. Il sistema funziona, stiamo semplicemente eliminando gli eccessi". Sull’effetto che la riforma della giustizia dovrebbe avere sulle comunità: "Credo che il crimine sia come una qualsiasi altra epidemia: la cosa migliore è fermarla prima che inizi. Ripeterò quello che ho già detto centinaia di volte… se investiamo sui nostri bambini, alla fine avremo meno bisogno di arrestarli. Uno studio ha dimostrato che per ogni dollaro che abbiamo speso in progetti di prevenzione, ne abbiamo risparmiati almeno due in quella che è una generale riduzione del crimine, e delle spese ad esso collegate, compreso il carcere. Trovare un lavoro estivo per un adolescente costa una frazione di quanto costa invece tenerlo carcerato 15 anni". Sul percorso troppo breve dalla scuola al carcere: "Quello che non ha senso è trattare interi quartieri come poco più che "zone pericolose"… posti come West Philly (Philadelphia, ndt) o West Baltimore, o Ferguson, Missouri, sono anche loro America. Non sono separate. Fanno parte dell’America come qualsiasi altro luogo, i figli lì sono figli americani, esattamente come lo sono i vostri figli e i miei figli. Dobbiamo garantire che i ragazzi e le ragazze di quelle comunità siano amati, e ricevano affetto, supporto, nutrimento, e qualcuno investa su di loro". "E dobbiamo avere gli stessi standard per questi ragazzi come li abbiamo per i nostri propri figli. Se sei un genitore, lo sai che ci sono delle volte in cui un figlio si comporta male a scuola. E la domanda è: i problemi di alcuni studenti li facciamo risolvere a genitori e presidi, quelli di altri figli invece li facciamo risolvere dalla polizia. Non è la cosa giusta da fare. Dobbiamo essere sicuri che il nostro sistema di giustizia minorile si ricorsi che i ragazzi sono diversi, non bisogna semplicemente etichettarli come futuri criminali, ma trattarli come futuri cittadini". Sulla riforma delle pene: "Sui reati di droga che non implichino l’uso di violenza dobbiamo abbassare le pene minime obbligatorie, o eliminarle del tutto. Dare ai giudici il potere della discrezionalità sui reati non violenti, in modo che potenzialmente possano indirizzare una persona che ha commesso un errore verso una direzione migliore… dobbiamo chiedere ai procuratori di utilizzare la discrezionalità che già hanno affinché perseguano la punizione migliore, cioè quella che avrà effetti migliori, non semplicemente la pena più lunga. Dovremmo investire in alternative al carcere, come ad esempio sezioni di tribunale dedicate ai reati di droga, e su programmi di trattamento, e programmi di libertà provvisoria, tutte cose che tra l’altro farebbero risparmiare migliaia di dollari l’anno per ogni detenuto ai contribuenti. Sulla riforma carceraria: "Alcuni criminali devono sicuramente andare in carcere. E come ci ricorda il senatore repubblicano John Cornynhas, virtualmente tutte le persone detenute nelle nostre carceri prima o poi finiranno di scontare la loro pena, e dovranno essere rilasciate. Questo è perché dopo le riforme nella comunità e nel sistema giudiziario, la terza riforma di cui abbiamo bisogno è la riforma delle carceri. Le persone che sono in carcere hanno commesso degli errori, a volte errori grandi, ma sono anche degli americani. E dobbiamo essere sicuri che mentre scontano la loro pena, e saldano il debito con la società, aumentino per loro le possibilità che possano dare una svolta alla loro vita… non dovremmo tollerare condizioni di detenzione che non hanno equivalenti nel mondo civilizzato. Non dovremmo tollerare prigioni sovraffollate, non dovremmo tollerare le attività delle gang all’interno delle carceri, non dovremmo tollerare gli stupri in carcere, e su cose del genere la nostra cultura non dovrebbe creare barzellette. C’è poco da scherzare. Queste cose sono inaccettabili". Sul regime di isolamento: "Ho chiesto al mio Procuratore Generale di avviare una revisione dell’uso eccessivo del regime di isolamento che si fa nelle prigioni americane. Le scienze sociali sanno che in un ambiente del genere i detenuti di solito non migliorano, ma diventano più alienati, più ostili, potenzialmente più violenti. Pensiamo davvero che abbia senso chiudere così tante persone da sole in piccole celle per 23 ore al giorno, per mesi, a volte per anni? Una cosa del genere non aumenterà la nostra sicurezza, non ci renderà più forti, e se quelle persone saranno mai rilasciate, come potranno mai adattarsi. Le nostre carceri dovrebbero essere posti dove possiamo formare le persone per mestieri che possano aiutarle a trovare un lavoro, e invece li formiamo a diventare criminali più duri". Sulla formazione professionale per i detenuti e sulle opportunità per gli ex-detenuti: "In alcuni posti le cose vanno meglio che in altri. La Montgomery County, in Maryland, ha aperto un centro di formazione professionale all’interno del carcere per aiutare le persone a iniziare pensare cosa potrebbero fare invece che commettere altri reati. È una buona idea. Un’altra buona idea, che sta avendo supporto bipartisan al Congresso: concediamo sconti di pena ai detenuti se completano programmi che rendano meno probabile una loro recidiva. È meglio investire in nuovi approcci innovativi che creino un collegamento tra detenuti e datori di lavoro, e aiutino i detenuti a rimanere nei binari". "Facciamo come stanno facendo un numero crescente di nostri stati, e città, e imprese private che hanno deciso di eliminare dal modulo per chiedere un posto di lavoro la voce sui precedenti penali. In questo modo gli ex detenuti che hanno terminato di scontare la pena e stanno tentando di reinserirsi nella società non vengono fermati già al momento del colloquio di lavoro. E se hanno finito di scontare la loro pena, e sono rientrati nella società, dovrebbero essere messi in grado di votare". Giustizia: Mafia Capitale, sui funerali di Casamonica Marino attacca Alfano di Eleonora Martini Il Manifesto, 6 settembre 2015 "Compito del Viminale controllare lo spazio aereo sui funerali di Casamonica, e ai tempi del primo Giubileo dell’era Isis". Padoan nomina all’Eur Spa l’ex ad di Atac, licenziato dal sindaco. "In una città in cui lo Stato non ha saputo garantire la sicurezza dello spazio aereo, con l’intrusione di oggetti volanti non identificati, credo sia giusta la decisione di responsabilizzare prefetto e Governo". Ignazio Marino torna, incalzato dai giornalisti, sul punto più dolente della vicenda dei funerali-show di Vittorio Casamonica - l’elicottero non autorizzato che spargeva petali sulle strade del quartiere Cinecittà - già messo in rilievo dallo stesso prefetto di Roma. Franco Gabrielli, infatti, appena scoppiato il caso mediatico internazionale e subito dopo aver fatto il punto con il comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza, accusò i servizi di intelligence di mancata prevenzione, rimandando al ministro Alfano l’eventuale decisione di "far saltare le teste" dei responsabili. E così ieri, dopo il botta e risposta di venerdì con il leader di Area Popolare su Mafia capitale, il sindaco dem di Roma è tornato all’attacco: "La responsabilità della sicurezza di spazi aerei e terrestri, soprattutto ai tempi del primo Giubileo nell’era dell’Isis - ha sottolineato - spetta al Governo e al Viminale". Il ministro dell’Interno stavolta non replica. D’altronde sul punto era già stato molto evasivo, limitandosi a comunicare che "sono in corso accertamenti". È evidente però che l’ascia di guerra politica tra il governo bipartisan e l’attuale inquilino del Campidoglio non è stata completamente sotterrata: ha subito semmai un passaggio dalle mani del premier/segretario a quelle - più congeniali agli equilibri interni del Pd - del sempre più stretto alleato, Angelino Alfano. È stato proprio il ministro centrista, infatti, secondo rumors di Palazzo Chigi, ad "orchestrare" la nomina di Roberto Diacetti a nuovo presidente di Eur Spa - la società immobiliare proprietaria degli edifici pubblici del quartiere Eur partecipata al 90% dal ministero dell’Economia e al 10% dal Comune di Roma - nell’assemblea degli azionisti del 30 agosto scorso, mentre il sindaco era in vacanza negli States. Marino, appena rientrato, ha protestato formalmente con il titolare del Mef, Pier Carlo Padoan, per quella che sembra davvero l’ennesima beffa dell’esecutivo. Roberto Diacetti, infatti, chiamato da Gianni Alemanno ad amministrare l’Atac, l’azienda dei trasporti romana, venne destituito nel luglio 2013 dalla giunta di centrosinistra appena insediatasi. Fu uno dei primi atti del sindaco "marziano", deciso dopo un duro confronto con il super manager. Anche il vicesindaco Marco Causi, che ha tenuto il timone del Comune durante l’assenza di Marino, si è detto stupito di una nomina che fino a poche ore prima del voto dell’assemblea degli azionisti non sembrava probabile. E contro la quale non si è però opposto neppure il rappresentante del Campidoglio regolarmente autorizzato a votare da una delibera di giunta ("avrebbe dovuto fare una scelta politica, difficile in quel frangente", spiegano a Palazzo Senatorio. Nel cda di Eur Spa - la società che ha difficoltà a trovare i soldi per completare i lavori della "Nuvola" di Fuksas (Pierluigi Borghini, il confermato presidente, smentisce però che ci sia stata una lievitazione dei costi dell’opera) e per la quale si stanno studiando forme di salvataggio e di finanziamento "pubblico", come l’acquisto di edifici storici da parte dell’Inail - è entrato anche Enrico Pazzalli, ex ad di Fiera Milano, storicamente "feudo" del centrodestra. E così il sindaco si è tolto ieri un altro sassolino dalla scarpa, insistendo proprio sul nodo della sicurezza. Con Alfano il giorno prima c’era stato il botta e risposta sulla questione di Mafia Capitale, con il chirurgo dem che ricordava al ministro di aver riportato nella sua relazione "una fotografia del Campidoglio datata, che risale al 2014", e il leader di Ap che ribatteva: "Sì ma lui è stato eletto nel 2013". Nel mezzo, il prefetto Gabrielli che ha ammesso di aver rilevato un quadro amministrativo molto diverso rispetto alla prima relazione compilata dalla commissione prefettizia che ha avuto l’accesso agli atti comunali: "Ora si tratta di aggiornarla e verificare ciò che il Comune ha fatto da gennaio a settembre 2015". Giustizia: i baby criminali nella camorra senza più regole di Isaia Sales Il Mattino, 6 settembre 2015 Le madri di questi ragazzi che si atteggiano a boss o a camorristi devono sapere che chi delinque ha come sbocco il cimitero o la prigione". Difficile trovare parole più efficaci dal punto di vista pedagogico di quelle pronunciate in un’intervista al Mattino dal procuratore capo Giovanni Colangelo. Concetto ripreso dal procuratore generale Riello, il quale ha aggiunto una richiesta di maggiori pene sui reati predatori e ha insistito sulla forza dissuasiva che le pene effettivamente erogate hanno per i giovani che delinquono. Difficilmente si riconsidera una condotta sbagliata se nei fatti è garantita (attraverso le maglie larghe della giustizia penale) una sostanziale impunità per i reati predatori. E come dargli torto? Entrambi i vertici della magistratura napoletana insistono sul carattere sociale della criminalità che si trovano a fronteggiare. Essi sanno benissimo che svuotare di delinquenti e criminali il ventre di Napoli e del suo hinterland è un’impresa al limite dell’umano se tale azione repressiva non è accompagnata contemporaneamente da un’altrettanta, incisiva e quotidiana azione di contrasto delle ragioni economiche e sociali che portano ad infoltire di nuove leve l’esercito di riserva criminale, che è a tutti gli effetti (nelle attuali condizioni) un esercito permanente. Fino a quando la magistratura e le forze dell’ordine si comportavano con una sostanziale tolleranza per l’illegalità (com’è successo fino a Qualche decennio fai nella convinzione che essa potesse avere a suo modo una funzione equilibratrice del grandissimo disagio sociale della città, in molti si illudevano che una azione repressiva più continua potesse rappresentare l’elemento decisivo per scompaginare le forze criminali. Spingevano nella direzione repressiva molte forze politiche e intellettuali, comprese quelle alla guida della città. Ma oggi che un cambiamento sostanziale è avvenuto nei comportamenti dei tutori dell’ordine pubblico, si resta senza parole da parte di quelle stesse forze politiche e intellettuali che chiedevano "repressione innanzitutto". È inutile girarci attorno: la l’illegalità, la delinquenza e la criminalità organizzata a Napoli sono espressioni di un grandissimo malessere sociale, anzi sono le espressioni più evidenti del collasso sociale che sta investendo la città e la sua area metropolitana: ignorarlo vuol dire essere (o voler essere) ciechi. È del tutto evidente che la strategia di contenimento del crimine attraverso la tolleranza per le attività illegali non violente (e un ruolo di "ordine nel disordine" assegnato ai capi-camorra) non ha funzionato affatto. Così come non funziona la sola repressione dell’illegalità. Perché da noi la presenza della camorra (cioè di un’élite criminale) si è accompagnata sempre ad un altissimo numero di reati comuni, oltre che di omicidi. La spiegazione è semplice. La criminalità organizzata di tipo camorristico-mafioso da un lato deve frenare gli eccessi dei delinquenti comuni per legittimarsi verso i poteri costituiti, ma dall’altra parte non può controllare tutto e ha bisogno di nuove leve, anche di killer che si sperimentano nei reati predatori, di un vivaio delinquenziale da cui attingere. I reati predatori sono l’università del crimine. A Napoli da tempo è saltato ogni confine, ogni recinto, tra illegalità di strada, delinquenza comune e criminalità organizzata. Classificarli come forme illegali e criminali distinte è un artifizio. La camorra, che pure era nata all’inizio dell’Ottocento come setta segreta centralizzata, sembra essere oggi assolutamente refrattaria a qualsiasi strategia comune, a qualsiasi modalità di federarsi per bande, a qualsiasi comando unitario. Essa non ha una "cupola" né su base comunale né provinciale né tanto meno regionale; non ha nessuna struttura verticale di comando, di coordinamento o di condizionamento sulle singole bande; non ha modalità per dirimere controversie, per affrontare eventuali pericoli comuni, o per rispondere unitariamente ad una eventuale azione repressiva dello Stato. Ogni tentativo di unificazione sotto forma di un unico comando (tentativo fatto da Raffaele Cutolo) o sotto forma di una guida plurima (tentativo fatto dalla cosiddetta "Alleanza di Secondigliano") è degenerato in una carneficina. L’anarchia criminale sembra coincidere con il termine camorra, con il quale si prova a dare un significato unificante a qualcosa che unito non è e che si rifiuta strutturalmente di esserlo. Ma questa non deve essere considerata una debolezza dal punto divista di un criminale napoletano; rappresenta invece un elemento di maggiore pericolosità sociale della camorra. Infatti ciò che le consente il suo lungo durare non è l’agire unitario, ma proprio la sua anarchica frammentazione. La frammentazione si è dimostrata più congeniale a farla aderire a tutte le ampie, diffuse e stabili forme di illegalità che, variamente, hanno caratterizzato e caratterizzano la vita economica e sociale della città di Napoli e del suo hinterland. In altri contesti i figli di un boss non vanno a fare rapine, come è invece successo, al supermercato di Castello di Cisterna dove ha generosamente perso la vita Anatolij Korol. In nessuna altra città dell’occidente anche i parcheggiatoli abusivi sono parte di una catena criminale lunga. La verità è che siamo di fronte a cose che andrebbero ristudiate, perché (su questo punto ha ragione Gigi Di Fiore). Il sommarsi di una illegalità diffusa a forme di gangsterismo giovanile e di criminalità urbana organizzata rappresenta un impatto sociale devastante. Vogliamo tornare ad occuparcene? Giustizia: Officina Giotto a Expo, l’esperienza padovana del lavoro in carcere padovaoggi.it, 6 settembre 2015 La testimonianza, giovedì 3 settembre, è stata una delle più seguite e applaudite delle quindici presentate al seminario "Le quattro potenze dell’enogastronomia italiana" nell’auditorium di Palazzo Italia. Giovedì 3 settembre l’esperienza delle lavorazioni carcerarie padovane, che dagli inizi degli anni Novanta ad oggi ha avviato al lavoro oltre cinquecento detenuti, è stata una delle più seguite e probabilmente anche la più applaudita delle quindici testimonianze presentate al seminario "Le quattro potenze dell’enogastronomia italiana" nell’auditorium di Palazzo Italia all’Expo di Milano. "Tra i lavori che favoriscono, che si prestano di più a redimere, a recuperare, a rieducare il detenuto troviamo in prima fila quelli che hanno a che fare con il cibo: cucina e pasticceria". Il pubblico convenuto nell’auditorium del Padiglione Italia ad Expo ha ascoltato con grande attenzione. Al microfono Nicola Boscoletto, presidente di Officina Giotto, il consorzio che nel carcere di Padova occupa più di 140 detenuti: "Mani che hanno ucciso, che hanno fatto tantissimo male diventano mani in grado di sfornare ottimi panettoni e non solo. Una vera e propria trasformazione. Per questo trovo convincente l’idea di Expo, molto italiana, di presentare il limite come una potenza, una leva per lo sviluppo. La nostra esperienza con i detenuti del carcere di Padova, come di molte altre in Italia, ne è un esempio". La relazione di Boscoletto è iniziata con un video in cui si descrivono i fattori principali del metodo applicato dal consorzio per accompagnare al lavoro le persone detenute. E se il lavoro (quello vero, fatto di diritti e doveri, non sicuramente i lavori domestici) è condizione necessaria per far riscoprire alla persona detenuta il suo valore, altrettanto peso ha uno sguardo di simpatia e di accoglienza nei suoi confronti, che non riduca l’uomo al reato commesso ma ne intuisca le potenzialità. Boscoletto ha raccontato l’esempio di un detenuto evaso da varie carceri brasiliane e poi accolto in un’Apac, un circuito penitenziario senza guardie e senza armi gestito dalla società civile con il coinvolgimento dagli stessi detenuti sotto il totale controllo dei magistrati di sorveglianza. Interrogato perché non fosse fuggito da questo carcere praticamente "senza filtro" verso l’esterno il detenuto con le lacrime agli occhi rispose: "Nessuno fugge dall’amore" (in portoghese "Do amor ninguém foge"). Una scritta che ora campeggia nella stessa Apac ad Itauna, nel Minas Gerais, ma anche in uno spazio ricreativo della casa di reclusione di Padova. Giustizia: il destino del piccolo Achille, condannato a sopravvivere alla follia dell’acido di Carlo Verdelli La Repubblica, 6 settembre 2015 Il neonato concepito da Martina Levato e Alex Boettcher nel periodo delle aggressioni è ora al centro di una contesa giudiziaria. Ma l’esito più probabile resta l’adozione. Achille è un neonato sano, bellissimo come tanti, sfortunato come pochi. I genitori, quelli dell’acido, stanno in cella, con accuse tremende e una condanna di 14 anni a testa, per adesso. Ma l’ombra che si allunga su questo minuscolo Achille viene anche dalla gestazione che ha subìto, i rischi di salute che ha corso mentre stava nel grembo che doveva proteggerlo, la cascata di dolore che gli ha fatto da liquido amniotico durante l’approdo in questa scheggia di Milano bene e di giovani vite strapazzate. Non basteranno a compensare le babbucce bianche che il magistrato Marcello Musso, lo stesso che ha incastrato chi l’ha concepito, gli ha portato di persona alla clinica Mangiagalli, insieme a un cartoncino scritto a mano: "Con infinita tenerezza, per un lungo cammino". Achille Levato, in un futuro prossimo Levato-Boettcher o solo Boettcher, in un futuro appena più remoto chissà, dipende se verrà dato in affido o in adozione, ha un ciuffetto di capelli neri, come la madre Martina (il padre, Alexander, è biondo). Vive in una casa famiglia fuori città e almeno fino a tutto settembre si sobbarcherà una quarantina di minuti di macchina una volta la settimana per raggiungere i genitori nel carcere di San Vittore di Milano e rimanere con loro, separatamente, un’ora a testa o poco più. La prima volta è successo venerdì scorso, il 28 agosto, ed era anche la prima volta che Achille rivedeva sua mamma: il giorno di Ferragosto, con una decisione del Tribunale dei minori molto drastica e altrettanto dibattuta, era stato separato da lei subito dopo il parto, senza neanche il conforto di un minimo contatto. Un’apparente crudeltà, motivata dai giudici con l’esigenza di evitare al piccolo l’illusione biologica di un legame, e il primo attaccamento al seno pare fondamentale, che ancora non si sapeva, e non si sa, che esito avrà. L’incontro, comunque, pur presidiato da guardie, psicologi, educatori e assistenti sociali, è andato bene. Martina gli ha dato un biberon, con dentro un po’ del latte che le "tirano" ogni giorno e poi congelano per passarlo, mischiato con altre sostanze, al figlio; l’ha carezzato, lui s’è addormentato e poi lei ha pianto, cosa che non le succede spesso almeno da quando è stata arrestata, la notte del 28 dicembre, dopo la devastazione di Pietro Barbini. Tra le infinite scempiaggini scritte e ascoltate sul tema, che in tv è ormai un appuntamento fisso del pomeriggio, ce ne sarebbe una che le batte tutte. La Levato che dice: "Se qualcuno buttasse dell’acido su mio figlio, lo ammazzerei". Non esattamente la frase migliore per convincere dei giudici, già piuttosto dubbiosi, a lasciarle il bambino. I plotoni di avvocati che si stanno schierando per difendere lei (plotoni anche per Alexander; più misurata, in tutti i sensi, la tutela giuridica del terzo uomo, Andrea Magnani) si sono affrettati a smontare la bestialità ma senza una vera smentita ufficiale. Il che è molto coerente con l’andamento incoerente di questa tragedia criminale, che non ha precedenti per qualità (premeditazione, pedinamenti, esecuzione) e serialità dei delitti, dove non c’è un movente umanamente comprensibile per nessuno dei quattro casi a giudizio, dove i carnefici, fino all’altro ieri, erano bravi o bravissimi ragazzi, ancora oggi difesi dai loro genitori come se la colpa fosse tutta di quell’altro o di quell’altra, e dove le vittime, quattro, avrebbero potuto essere cinque o forse più. La lista degli obiettivi da punire non era ancora stata spuntata per intero. Per esempio, l’ha scampata un ragazzo inglese, Amir, che vive a Londra, reo di un flirt con la Levato a Ibiza. La notte che la polizia preleva Martina dalla casa dei suoi a Bollate, lei ha appena finito di chattare proprio con Amir, per perfezionare la trappola in cui attirarlo. Il che è doppiamente angosciante se si considera che solo qualche ora prima la stessa Martina aveva gettato due secchiate di acido muriatico in faccia a Pietro, l’ex compagno del liceo Parini, stessa colpa di Amir. Con lei, durante la mattanza, l’idolatrato fidanzato Alexander Boettcher, che insegue la vittima già ustionata con un martello, e il complice Andrea Magnani, impegnato nelle retrovie a curare la logistica. "L’acido lo usano in India i mariti per impedire che la moglie vada con altri, un po’ quello che è successo all’avvocato Lucia Annibali, con il suo compagno che si è preso 20 anni come mandante dell’aggressione. L’acido lo usa la mafia, come con il bambino Giuseppe Di Matteo, figlio di un pentito, per cancellare corpi e tracce. Ma il perché della scelta dell’acido da parte di Levato e Boettcher, lo confesso, non l’abbiamo capito". Anna Introini è il giudice che ha celebrato il primo processo per direttissima ai due amanti (Magnani finisce in carcere solo a febbraio): 21 anni a ciascuno, ridotti di un terzo per via del rito abbreviato. "Lei ha continuato a ripetere di aver fatto tutto da sola, che Alex non c’entra niente e che l’idea di usare lo sfregio liquido gliel’aveva data Magnani. Mah, quello che risulta è che Martina e Alex, l’estate prima, vanno in vacanza in Grecia insieme a un’amica, Elena. Lui sta con tutte e due, è il padrone. Alla fine chiede a questa Elena nomi e indirizzi di tutte le relazioni precedenti della Levato. E nell’elenco c’è Barbini". Sotto gli occhi azzurri e svelti del giudice Introini, capaci di commuoversi alle lacrime davanti alle prime foto di Pietro Barbini dopo l’agguato, passa solo l’ultima stazione di questa surreale via Crucis, e su quella sentenzia. Ce ne sono altre tre, tutte riguardanti ragazzi che hanno o avrebbero fatto sesso con Martina, riunite in un solo processo diviso in due (abbreviato per Levato e Magnani, ordinario per Boettcher), inizio a metà settembre, quando Achille compirà il suo primo mese di vita. La prima stazione risale al 19 maggio, tentata evirazione di Antonio Margarito con un coltello: la Levato dirà di aver subito violenza, lui la denuncerà per calunnia e tentata evirazione. Si ricomincia, stavolta con l’acido, il 2 novembre: ne fa le spese uno studente della Bocconi, Stefano Savi, che nemmeno sa chi sia Martina ma ha il torto di somigliare proprio tanto a Giuliano Carparelli, che invece con lei c’è stato sì, anche se non la ricorda bene, in una notte alcolica, sul divano di un prive. Savi viene sfigurato per uno scambio di persona, ma la sentenza per Giuliano è solo rimandata. Il 15 novembre, infatti, tocca a lui, solo che piove, Carparelli ha un ombrello, si ripara, si salva. Poi Barbini, 28 dicembre. Martina Levato, 23 anni, fuoriclasse del liceo Parini, master in Bocconi, partorisce con taglio cesareo il 15 agosto. Se si tolgono i 280 giorni della gravidanza, il concepimento di Achille dovrebbe risalire ai primi di novembre. Il che significa che almeno in due assalti con l’acido, se non in tre, Martina è incinta, sa di esserlo, probabilmente lo sa anche il signor Boettcher, gestore di un discreto patrimonio immobiliare di famiglia (lei dice che è un "amministratore delegato"), scadente negli studi ma abilissimo nei rapporti, il superuomo di 30 anni che ha conquistato corpo, cuore e testa di Martina, senza però prendersene cura. Posto che lui non abbia nessun ruolo nei delitti (lo ripete, inascoltato e inascoltabile, dal giorno dell’arresto in flagrante davanti al corpo martoriato di Barbini), niente fa per impedire che la madre del suo primo e unico figlio metta a rischio se stessa e il feto. Tutta la saga del coltello e dell’acido nascerebbe da qui, dai veleni di un amore tossico e sbilanciato, con Alex che può permettersi ogni licenza (è anche sposato e continua a vivere, non separato, con una meravigliosa ragazza croata, Gorana) e con Martina che invece si convince di dover espiare ogni peccato per essere finalmente pura al cospetto del suo immenso amato. Ma invece di chiudersi un convento, si emenda cancellando letteralmente il volto, e quindi l’identità, di chi l’ha toccata, baciata, carezzata. Nessuno è ancora riuscito a stabilire chi sia il dominus tra i due, neanche la perizia psichiatrica che li ha comunque giudicati capaci di intendere e volere al momento dei crimini, e anche dopo. Difficile non solidarizzare con la signora Gorana che, scoppiato lo scandalo, si è presentata in Questura con una delicata piantina grassa in mano: "Grazie per avermi liberato di lui". Anche l’altra moglie coinvolta, la bielorussa Yuliya, da due anni signora Magnani, sembra aver preso atto che qualcosa si è rotto e non si aggiusterà. Da quando il suo Andrea è stato rinchiuso a febbraio a Opera, sarà andata a trovarlo un paio di volte; adesso che è stato trasferito a Monza, nemmeno quelle. L’allievo di ginnastica estrema del maestro Boettcher, impiegato modello con la fissa di essere troppo grasso, travolto dal fascino del leader, pur di compiacergli si è infilato in una vicenda molto più pesante di lui, ha acquistato dell’acido con una carta prepagata su Internet, è stato il telefonista con la parrucca che ha contattato Barbini, ha prestato la macchina e forse anche qualcosa di più nei momenti dell’azione. Ha anche confessato molto, il che ha trasformato la "coppia dell’acido" in un terzetto, sul quale l’infaticabile dottor Musso, 63 anni e due lauree (una in filosofia), ha caricato pure l’imputazione di associazione a delinquere, il 416, possibile solo in presenza di 3 persone o più. Proprio l’ex bancario Magnani, ormai licenziato e con la casa ancora sotto mutuo pignorata, l’ha fatto scattare. "La pena che si delinea nel secondo processo, se nel primo è stata di 14 anni per un episodio solo, non dovrebbe discostarsi tanto da altri 20 o 25 anni ", ipotizza Musso, sommerso da torrette di carte nella sua stanza al Tribunale di Milano, dove passa più tempo che a casa. E quelle babbucce per Achille? "Per dare un segnale che la giustizia è fatta di uomini, che pur nel rispetto assoluto della legge, hanno dei sentimenti. La Levato viene dalla periferia, è una vittima sociale di se stessa, divorata dal bisogno di autoaffermazione, nello studio come nel privato". Quanto alle altre vittime, e non di se stessi, Pietro Barbini è al quindicesimo intervento chirurgico, lo aspettano altri 15 nei prossimi due anni per recuperare una fisionomia che adesso non ha, ha sospeso gli studi di finanza a Boston e con loro il sogno di un lavoro di immagine a contatto con la gente. Gli piace la musica, "magari cercherò un posto dove si mixa, nell’angolo buio di una discoteca". Stefano Savi, altrettanti interventi subiti e da subire, le palpebre bruciate, la perdita dell’80% di funzionalità dell’occhio sinistro, cerca di uscire qualche sera, con un capellino e degli occhiali appena comprati; anche lui ha smesso di studiare, non riesce a leggere né a capacitarsi di quel che gli è accaduto. Lo specchio dove ogni mattina Pietro si guarda e rivive il suo incubo, Stefano ce l’ha accanto, vivente: un gemello monozigote, che l’aiuta a combattere il terrore di rimanere uno che fa ribrezzo agli altri. Nessuno dei due, né Pietro né Stefano, ha ricevuto ancora una riga di scuse o una richiesta di perdono. Ormai da otto mesi Levato e Boettcher stanno a San Vittore, lei al femminile, lui al quinto raggio. Nessun eccesso, nessun problema con gli altri detenuti. Dispongono di sei ore di colloquio al mese: lei ne riserva 4 a lui e 2 ai genitori. Per il resto, freddezza e distacco assoluti verso il resto del mondo, qualche "mi dispiace" di circostanza in prossimità dei processi. Quanto al figlio, all’inizio Alex scriveva: "Vedremo se tenerlo, magari se è maschio". Poi, dopo la nascita, è come se improvvisamente la scena fosse cambiata per entrambi. Dicono di volere a tutti i costi quel bambino, protestano perché le visite concesse sono troppo poche e troppo brevi. Indicano nei loro genitori, due insegnanti per Martina oppure la signora Patrizia, lasciata dal marito tedesco, che ha cresciuto Alex da sola, le persone a cui affidare Achille in attesa di potersene fare carico loro (altri parenti, entro il quarto grado, non ce ne sarebbero). Il Tribunale dei minori non sembra, per ora, dello stesso avviso: con un decreto provvisorio di 4 pagine, di cui tre dedicate a demolire la supposta capacità genitoriale di Martina e Alex, ha stabilito di nominare il Comune di Milano tutore provvisorio di Achille e di affidare un’indagine ai servizi sociali per valutare se i nonni siano adatti a occuparsi del neonato. Scadenza del mandato: 30 settembre. Dopo, due strade. O si proroga l’incarico al Comune almeno fino a fine anno o si decide subito. E in questo caso, viste le premesse, le condanne, i processi, l’ago sembra pendere verso l’ipotesi di dichiarare Achille adottabile, il che significherebbe un colpo di spugna sul suo breve passato, nome e cognome compresi. Significherebbe un colpo anche per Martina, soprattutto, che proprio attraverso la consapevolezza di Achille sembrerebbe nell’ultimissimo periodo avere scheggiato il tabernacolo dove ha collocato Alex. "Adesso ho un bambino, e viene prima di tutto". Achille, forse, aiuterebbe la mamma a rinascere. Ma la mamma aiuterebbe Achille a crescere in armonia? Il neonato col ciuffetto nero doveva chiamarsi Edoardo, come il nonno materno di Alexander, per altro da lui mai conosciuto, un’altra figura maschile mancante dopo quella del padre. Ma Edoardo Boettcher non suonava. Si è pensato a Cesare. Poi ha vinto Achille, nessun parente nei rispettivi alberi genealogici di famiglia. L’ira di Achille, che infiniti lutti addusse agli Achei. Achille il vendicatore (di Patroclo). Achille come il Brad Pitt di Troy, bello e imbattibile, salvo il dettaglio del tallone. Il piccolino trasportato in auto a San Vittore per incontrare un’ora a settimana i suoi genitori, e mai insieme, si merita già adesso un destino meno eroico. Due babbucce bianche e la banalità di un po’ di bene. Giustizia: caso Chiatti, il "mostro di Foligno" è arrivato nella Rems di Capoterra La Nazione, 6 settembre 2015 Finisce la pena detentiva ma l’uomo, che ha ucciso due bambini negli anni Novanta, continua a essere socialmente pericoloso. Per questo è stato trasferito nella struttura in provincia di Cagliari. È arrivato nella residenza per l’esecuzione misure di sicurezza (Rems) di Capoterra Luigi Chiatti, il cosiddetto Mostro di Foligno. È giunto a bordo di un furgone della Polizia penitenziaria, scortato da un’auto del corpo. Ha varcato i cancelli della struttura alle 11:20. Fuori non c’era nessuno a protestate o a manifestare contro il trasferimento dell’uomo in Sardegna. Nella struttura sanitaria, dove Chiatti dovrà stare. Luigi Chiatti, noto come "il mostro di Foligno", è uscito all’alba di stamani dal carcere di Prato per trasferirsi nella Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza di Capoterra in provincia di Cagliari. Chiatti era a bordo del furgone blindato della polizia penitenziaria che alle 6,35 ha varcato i cancelli del carcere della Dogaia e nell’oscurità delle prime ore del mattino ha raggiunto la strada che collega il penitenziario con Prato. Chiatti sta raggiungendo Cagliari in aereo per trasferirsi nella residenza di recente costruzione considerata della massima sicurezza e al riparo da possibili tentativi di fuga. Chiatti ha terminato ieri di scontare nel carcere della Dogaia a Prato la pena per l’assassinio di Simone Allegretti, 4 anni, e Lorenzo Paolucci, 13 anni, e dovrà trascorrere almeno tre anni in una residenza attrezzata per l’esecuzione delle misure di sicurezza in quanto considerato ancora socialmente pericoloso. Ieri si era diffusa anche sulle agenzie di stampa la notizia - poi rettificata - che Chiatti era già stato trasferito a Cagliari ma l’uscita è avvenuta soltanto stamani dopo che nei giorni scorsi l’amministrazione penitenziaria aveva individuato la struttura idonea ad accoglierlo dopo avere esaurito la pena detentiva. Giustizia: Consolo (Dap) "Chiatti caso da non demonizzare, non è questione di sbarre" di Silvia Barocci Il Messaggero, 6 settembre 2015 "Non è una questione di sbarre o pistole ma di trattamento adeguato". Santi Consolo è il Capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ed è stato lui che, per conto del ministero della Giustizia, assieme al Ministero della Salute e alle Regioni, ha gestito la transizione dagli Opg alle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza che dal primo aprile hanno soppiantato i vecchi manicomi giudiziari. Da ieri Luigi Chiatti è nella Rems di Capoterra, in provincia di Cagliari. Doveva essere assegnato in una struttura dell’Umbria o della Toscana, ma entrambe le regioni non hanno ancora inaugurato alcuna Rems. E altrettanto vale per Piemonte, Veneto, Abruzzo, Molise e Calabria. Per questo motivo i vecchi Opg di Aversa, Napoli, Barcellona Pozzo di Gotto e Montelupo Fiorentino non possono chiudere definitivamente i battenti e ancora ospitano 265 internati, contro i 689 presenti al 31 marzo scorso. Presidente, sono in molti a dirsi scettici sul livello di sicurezza delle Rems, Si tratta pur sempre di malati psichiatrici che, come Chiatti, hanno commesso crimini efferati. Condivide il timore? "Non dobbiamo demonizzare questo caso, così come altri analoghi che sono stati gestiti in questi mesi senza alcun problema. Il legislatore ha previsto che le nuove strutture debbano assomigliare più a una casa che a un carcere. Ma gli sbarramenti di sicurezza restano, anche se meno visibili, come i vetri blindati. All’esterno, poi, c’è sempre un servizio di vigilanza, garantito dalla prefettura". Sì, però non c’è la polizia penitenziaria che, anche dentro gli Opg, interveniva in caso di aggressività di alcuni internati. "La Polizia penitenziaria nel corso di questi anni ha dato buona prova di sé, che ne dica Ignazio Marino (l’ex sindaco di Roma tra i promotori della chiusura degli Opg, ndr). Col tempo aveva raggiunto un buon livello dì specializzazione, lavorando a fianco dei medici. Detto questo, la penitenziaria di certo non girava con le pistole, così come d’altronde avviene in tutti gli altri istituti". D’ora innanzi, però, gli ospiti delle Rems, come Chiatti, sono affidati unicamente alle cure di psicologi, psichiatri e infermieri. Non ci sarà alcun agente a vigilare all’interno delle strutture. "Guardi, il legislatore ha stabilito che i nuovi centri debbano essere piccoli, con non più di venti posti, lo sono convinto che non sia una questione di sbarre né di presenza di agenti all’interno. Con un’assistenza sanitaria completa e concepita con criteri all’avanguardia si possono riconoscere i sintomi di chi dà sta per dare in escandescenze, tanto da intervenire tempestivamente con le necessarie cure mediche e farmacologiche. In questi mesi d’altronde, coloro che sono stati trasferiti dagli Opg alle Rems non hanno dato alcun problema. E sono convinto che nei prossimi mesi sarà altrettanto. Piuttosto, la questione è un’altra. Quale? "Molte regioni sono inadempienti nella realizzazione delle Rems. Fintato che sarà così, molti vecchi internati non potranno lasciare gli Opg" Per quanto tempo Chiatti rimarrà nella Rems di Capoterra? "Il periodo di tre anni relativo alle misure di sicurezza è stato deciso dall’autorità giudiziaria. Che tornerà ad esprimersi sulla sua pericolosità". Sì ai domiciliari per il detenuto che ha una bimba da accudire, se la moglie è malata di Marina Crisafi studiocataldi.it, 6 settembre 2015 Cassazione, sentenza n. 35806/2015. I giudici hanno cassato la sentenza del Tribunale della libertà che si era adeguato, acriticamente, alle conclusioni della Ctu. Ha diritto ai domiciliari il detenuto che ha una bimba piccola da accudire, data l’impossibilità della moglie, gravemente ammalata. Lo ha stabilito la sesta sezione penale della Cassazione, con la sentenza n. 35806/2015, depositata l’1 settembre scorso (qui sotto allegata), bacchettando il tribunale della libertà di Reggio Calabria che aveva rigettato l’istanza del detenuto di sostituzione della custodia cautelare in carcere con altra misura meno afflittiva, solo sulla base della relazione della Ctu alle cui conclusioni si era "acriticamente" adeguato. È vero che il comma 3 dell’art. 275 c.p.p. impone la custodia cautelare in carcere laddove si proceda per determinati reati, ha affermato la Corte, ma su questo prevale "per ineludibile scelta del legislatore" il comma 4 dello stesso articolo, che "esclude l’applicabilità della custodia cautelare in carcere nei confronti di chi versi nelle particolari condizioni, tassativamente indicate dalla norma stessa, sempre che non ricorrano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, ravvisabili là dove il pericolo di recidiva sia elevatissimo e tale da formulare una prognosi di sostanziale certezza che l’indagato, se sottoposto a misure di carattere extramurale, continuerebbe a commettere delitti". Ed è dovere irrinunciabile del giudice, chiamato a decidere sulla misura cautelare applicata, descrivere e valutare sul caso concreto, escludendo ogni automatismo collegato al titolo dei reati per i quali la custodia è disposta, tranne per ipotesi tassative di "presunzione" peraltro non assoluta (cfr. Corte Cost. n. 265/2010). Poiché sulla esigenza processuale della coercizione intramuraria, ricordano gli Ermellini, deve prevalere la tutela degli interessi correlati ai fondamentali diritti della persona, imposti dall’art. 2 e 31 della costituzione, e cioè la particolare tutela che il costituente riconosce all’infanzia, la regola juris da tenere presente è quella per la quale "sussiste il divieto di disporre o mantenere la custodia in carcere, ai sensi dell’art. 275, comma 4, c. p. p., nei confronti di un imputato padre convivente di prole di età inferiore ai sei anni, qualora la madre sia impossibilitata a dare assistenza al bambino, versando in precarie condizioni di salute". Nel caso specifico, anche se il perito aveva affermato che la donna (pur gravemente malata di cancro) non era nell’assoluta impossibilità di badare alla figlia di quattro anni, la vicenda "non avrebbe potuto essere risolta solo con la perizia". Per cui ricorso accolto e ordinanza annullata con rinvio per nuovo esame. Toscana: 15 milioni per l’Opg di Montelupo, ma dopo cinque mesi è ancora tutto fermo radicali.it, 6 settembre 2015 Si è svolta sabato 5 settembre, di fronte all’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Montelupo Fiorentino, una manifestazione dei radicali fiorentini per ricordare gli impegni presi dalla Regione Toscana sul fronte del superamento dell’Opg così come previsto dalla legge 81. Sono trascorsi, infatti, cinque mesi dalla data del 31 marzo, giorno in cui gli Opg dovevano essere chiusi per legge, e nulla ancora è stato fatto. La Regione Toscana è ancora priva di una Rems, la struttura sanitaria per l’esecuzione delle misure di sicurezza, e l’Opg di Montelupo è ancora attivo con circa una settantina di internati. A nulla sono valsi gli sforzi di associazioni, enti e movimenti per aiutare il difficile percorso di superamento degli ospedali giudiziari, e la struttura di Montelupo rischia così di rimanere attiva ancora per molti anni, pur senza accettare nuovi ingressi. Solo la settimana prossima dovrebbero partire i lavori a Volterra per una Rems provvisoria per 22 posti letto in attesa di quella definitiva, lavori che hanno già registrato cinque mesi di ritardo prima ancora di iniziare. La Rems provvisoria di Volterra, infatti, avrebbe dovuto essere consegnata a fine agosto, così come riportato nella delibera n. 666 della Regione Toscana del 25 maggio. I Radicali hanno inoltre criticato gli oneri di spesa previsti dalle tre delibere regionali. Solo per la Rems di Volterra sono stati stanziati dieci milioni e trecentomila euro di spesa (94 per cento provenienti dal ministero e 6 per cento dalla Regione), mentre altri 5 milioni sono previsti per numerose altre voci, tra cui 300 mila solo per garantire l’accertamento delle "condizioni psichiatriche all’interno della apposita sezione nel reparto detentivo di Sollicciano". È stato calcolato che per ognuno dei circa 40 internati toscani e umbri la spesa per il superamento dell’Opg si aggira sui 386 mila euro. Dichiarazione di Massimo Lensi e Maurizio Buzzegoli, presidente e segretario dell’Associazione per l’iniziativa radicale Andrea Tamburi: "La risposta delle istituzioni regionali alle richieste contenute nella legge 81 è stata oltremodo inadeguata e pasticciona. Il rischio che Montelupo rimanga attivo per un lungo periodo di tempo è molto alto, per non parlare delle spese previste che potrebbero, con un adeguato lavoro di ricerca delle opzioni sul territorio, ridursi di molto: è infatti strano che per spostare circa 40 internati si debba prevedere a Volterra un inter così complesso, che prevede addirittura la realizzazione della Rems in due fasi (prima nel Padiglione Morel e poi nel Padiglione Livi dell’area ospedaliera di Volterra). A noi stanno a cuore non solo le sorti degli internati di Montelupo, ma soprattutto il rispetto della legge, in questo caso della legge 81". Sassari: carenza di "braccialetti elettronici", primi detenuti scarcerati senza apparecchi di Nadia Cossu La Nuova Sardegna, 6 settembre 2015 Due detenuti hanno potuto lasciare ieri Bancali, gli avvocati avevano presentato istanza al giudice. Alcuni avvocati sassaresi avevano sollevato il problema e a distanza di qualche giorno ecco arrivare i primi provvedimenti di scarcerazione. Il caso riguarda alcuni detenuti ai quali erano stati concessi i domiciliari - dopo un periodo di permanenza in carcere - ma che da mesi sono costretti a restare in cella per via della carenza di braccialetti elettronici. Ieri mattina le prime scarcerazioni disposte dal giudice delle indagini preliminari. Una per Giovanni Furesi, 68 anni, al quale era stata applicata, con ordinanza del 13 luglio scorso, la misura degli arresti domiciliari subordinata alla disponibilità del braccialetto elettronico. "Ma di fatto - aveva sostenuto il suo avvocato Danilo Mattana nell’istanza presentata al gip - nei suoi confronti è applicata la misura cautelare più grave, cioè la custodia in carcere". Immediato il riferimento alla recente sentenza della Cassazione (n. 35571 del 25 agosto) "che in contrasto con precedenti provvedimenti - spiega Mattana - ha disposto l’immediata scarcerazione di un detenuto che, pur avendo ottenuto dal tribunale del Riesame gli arresti domiciliari con il controllo del dispositivo elettronico, era rimasto in carcere, perché non c’era la disponibilità del braccialetto (duemila i contratti di fornitura commissionati alla Telecom dal Ministero ndc). Nella decisione si è ritenuto che se il giudice decide di adottare il mezzo elettronico e questo strumento manchi, il detenuto deve essere ugualmente scarcerato, in quanto il magistrato, con la sua decisione, ha applicato una misura diversa dal carcere che non può essere subordinata alle esigenze di spesa dalla Pubblica Amministrazione". E ieri il giudice ha accolto la richiesta del legale. Stessa cosa è accaduta per un altro detenuto, Ananio Mesina. Lo scorso 28 luglio il gip Elisa Marras, così come chiesto dagli avvocati Antonio Secci e Sara Luiu, aveva sostituito nei confronti del giovane orgolese la misura cautelare della custodia in carcere con quella degli arresti domiciliari. E anche in questo caso, però, mancando il braccialetto il detenuto era rimasto in cella. Ieri mattina il gip Spanu ha autorizzato nei suoi confronti l’esecuzione dell’ordinanza applicativa degli arresti domiciliari. "Scarcerazione immediata - scrive il gip - prima del reperimento del braccialetto elettronico che sarà applicato non appena disponibile". Modena: Ferraresi (M5S) visita carcere "ok gestione, ma manca magistrato sorveglianza" Ansa, 6 settembre 2015 "Oggi abbiamo effettuato un’ispezione a sorpresa nel carcere di Modena per accertare il livello di sicurezza e il rispetto dei diritti dopo le problematiche segnalate dai sindacati di polizia penitenziaria legate ad atti di violenza tra detenuti e tra detenuti e polizia penitenziaria". Lo sottolinea il deputato Vittorio Ferraresi, capogruppo M5s in Commissione Giustizia, riconoscendo "una buona gestione del carcere che ha aperto ad esperienze verso la città con produzione di ortaggi e miele e volontariato. Inoltre il numero dei detenuti è 341 nel rispetto dei limiti regolamentari (372) e ci sono già esempi di sorveglianza dinamica". Il carcere di Modena, ricorda la nota del deputato, è punto di riferimento regionale per i detenuti che hanno compiuto reati a sfondo sessuale, con un percorso attivato in collaborazione con il servizio dell’Ausl esterno per gli uomini violenti. Ci sono però anche "note dolenti", prosegue: "Dopo la nostra interrogazione, il Ministro si era attivato per sopperire alla mancanza del magistrato di sorveglianza indispensabile per rispondere alle richieste e denunce dei detenuti, che però attualmente è in maternità. Ci faremo quindi risentire immediatamente a Roma per far sì che le richieste e denunce dei detenuti siano prese in adeguata considerazione soprattutto per cure e lavoro, abbiamo infatti colloquiato con detenuti che ci hanno riferito di forti disagi. Inoltre rileviamo un deficit per chi in carcere ci lavora, mancano infatti adeguati spazi e organico per il lavoro della polizia penitenziaria. Nel nuovo padiglione inoltre, abbiamo rilevato problemi di mancanza di acqua calda nelle docce che sembrano perdurare a causa della mancata manutenzione dell’impianto idraulico". Il deputato conclude assicurando che come componente della Commissione Giustizia continuerà a monitorare e a farsi carico "di chi vive l’esperienza carceraria, che sia detenuto o agente". Genova: carcere Chiavari riaprirà l’1 ottobre, al restauro hanno lavorato anche detenuti primocanale.it, 6 settembre 2015 Riapre il primo ottobre la Casa di reclusione di Chiavari al restauro della quale hanno lavorato anche 4 detenuti che stanno scontando la loro condanna attraverso la pena alternativa. Il carcere potrà ospitare fino a 50 detenuti. Il provveditorato del Ministero per la Liguria in una nota ha ringraziato le associazioni, che collaborano con la casa di reclusione e che potranno riprendere la loro attività: in particolare, sono in programma il progetto "La rete che unisce", il sostegno alla genitorialità e i lavori socialmente utili con i Comuni del territorio. Trapani: Uil-Pa, violenze in carcere, agenti aggrediti dai detenuti a Favignana di Luigi Todaro Giornale di Sicilia, 6 settembre 2015 Momenti di tensione, poi il recluso è stato bloccato ai due agenti che nella colluttazione hanno riportato ferite medicate nell’infermerie dell’istituto penitenziario. Due episodi di violenza, nel giro di poche ore, alle carceri di Favignana hanno spinto la Uil ha richiedere al ministero della Giustizia una ispezione. Il primo si è verificato venerdì mattina intorno alle 10. Vittime, due agenti di polizia penitenziaria, entrambi assistenti-capo, che sarebbero stati aggrediti da un detenuto che si era rifiutato di ritornare in cella. Momenti di tensione, poi il recluso è stato bloccato ai due agenti che nella colluttazione hanno riportato ferite medicate nell’infermerie dell’istituto penitenziario. Nel pomeriggio un altro caso. Protagonisti, questa volta, due detenuti che, per cause che sono ancora in corso di accertamento, sono venuti alle mani. Il tempestivo intervento degli agenti ha scongiurato che la situazione potesse degenerare ulteriormente. "L’aumento esponenziale delle aggressioni a danno degli agenti - sottolinea Gioacchino Veneziano, segretario regionale della Uil-Penitenziari - e l’ormai quotidiana intolleranza alle regole da parte dei detenuti reclusi a Favignana, confermano che forse nelle carceri qualcosa non funziona. Richiederemo ai vertici del Dipartimento e del Ministero della giustizia una ispezione". Roma: fuochi d’artificio sotto le mura per festa di compleanno di detenuta, 5 denunciati Corriere della Sera, 6 settembre 2015 Volevano festeggiare il compleanno, facendo esplodere il materiale pirotecnico sotto le mura del carcere: fermate le due sorella e la figlia della donna, e altre due persone. Per un compleanno importante come il 50esimo, cosa c’è di meglio di un bel po’ di fuochi d’artificio: solo che la neo cinquantenne è una detenuta di Rebibbia: le sue due sorelle e la figlia, con altre due persone, volevano festeggiare esplodendo fuochi d’artificio all’esterno delle mura carcerarie. Erano arrivate a bordo di un’auto in via Giovanni Battista Manzella nelle vicinanze del muro perimetrale dell’Istituto di detenzione. Ad individuarle e bloccarle sono stati gli agenti della polizia di Stato. Dopo aver identificato le cinque persone a bordo - quattro donne e un uomo - gli agenti hanno ispezionato l’autovettura notando la presenza di una scatola contenente del materiale esplodente. Le donne hanno riferito ai poliziotti che era il compleanno di una loro parente - precisamente sorella e madre di alcune di loro - detenuta a Rebibbia (per una condanna inerente violazioni in materia di armi), e di volerla festeggiare con i fuochi d’artificio. Al temine degli accertamenti gli artifizi pirotecnici sono stati sequestrati, mentre per le 5 persone identificate è scattata la denuncia per la detenzione illegale di materiale esplodente. Commenta Massimo Costantino, Segretario generale aggiunto Cisl Fns: "Un comportamento discutibile e penalmente rilevante quello di voler festeggiare il cinquantesimo compleanno di una detenuta del carcere di Rebibbia da parte dei suoi familiari con fuochi d’artificio. Probabilmente il richiamo di necessari interventi per agevolare le condizioni detentive meno afflittive hanno fatto pensare ai familiari della detenuta che era possibile festeggiare con fuochi di artificio davanti ad un carcere, sbagliando. Purtroppo si dimentica che gli istituti penitenziari sono luoghi detentivi al fine di far espiare l’effettività della pena ai detenuti e non certo per festeggiare con tali modalità". Immigrazione: le proposte populiste sono tali prima di tutto perché impraticabili e inutili di Massimo Mazza Giornalettismo.com, 6 settembre 2015 Muri, respingimenti ai confini, e "aiutiamoli a casa loro": le proposte populiste sono tali prima di tutto perché sono impraticabili e inutili. C’è chi propone di costruire muri e chi di aiutarli a casa loro, poi ci sono quelli che vorrebbero mandarli via o, alla peggio, scegliere quali migranti tenere e quali allontanare. Tutte idee che hanno un unico comun denominatore, quello di essere inutili e irrealizzabili nella pratica. I muri non servono a niente Il dato principale che sfugge a chi s’oppone in qualsiasi maniera all’arrivo di migranti o rifugiati è che le persone che arrivano per i canali più avventurosi non sono pirati all’assalto dell’Eldorado, ma i più disperati, gente che accetta di mettersi con tanto di bambini su un gommone o un barcone malmesso e di provare la traversata dall’Africa o dall’Asia verso l’Europa o verso qualsiasi altra meta rischiando la vita, la loro e spesso quella dei loro familiari. Non ci sono muri o espedienti capaci di fermare queste persone, arrivare negli Stati Uniti per i centramericani è un obiettivo che vale il rischio, per le donne, di essere stuprate durante il percorso e per gli uomini di essere derubati e uccisi. Attraversano paesi pericolosissimi, nei quali la vita umana vale pochissimo, nei quali si può essere uccisi dai membri di una gang per qualsiasi futilissimo motivo, nei quali le donne si mettono in viaggio verso l’America del Nord assumendo anticoncezionali prima di partire perché hanno quasi la certezza che saranno stuprate. Non si possono fermare con un muro o con le leggi queste persone, come non si possono fermare quelli in fuga dagli orrori d’Africa e Asia, e infatti non le fermano e non fermano i loro compagni, padri e fratelli, neppure le leggi e le durezze americane, ogni anno ne entrano a centinaia di migliaia e ovviamente solo una piccola parte lo fa attraverso le vie più pericolose. Negli Stati Uniti come in Europa basta un visto turistico per entrare e stare, agire per ostacolare i flussi che scelgono le vie più impervie serve solo ad aggiungere sofferenze a quelli che soffrono di più, ma ha ben poca influenza sul numero complessivo di quelli che poi entreranno negli Stati Uniti come in Europa o altrove. Muri e blocchi fermano solo una parte dei migranti e ovviamente creano le condizioni perché un sacco di gente campi sfruttando il loro stato di bisogno indotto da una frontiera difficile da superare. Succede nel Mediterraneo con gli organizzatori dei barconi, succede in Messico con chi organizza i passaggi per gli Stati Uniti, dove i pericoli per i migranti sono enormi perché il mare che devono attraversare è il territorio dominato dai sanguinosi cartelli criminali. Di tutti i passaggi per l’Europa quello che punta all’Italia dalle coste dell’Africa è il più pericoloso, molto peggio di un muro, eppure sono migliaia le persone che rischiano la vita per affrontarlo, persone che per arrivare lì hanno a volte attraversato l’Africa a tappe, cercando di guadagnare a ogni fermata i soldi per il passaggio successivo o spendendo i soldi raccolti dalle famiglie vendendo un pezzo di terra o mandati da chi li ha preceduti con successo. Rimpatriare i migranti è inutile, irrealizzabile e costoso I muri tirano tantissimo in politica, ma sono strumenti poco utili e creano occasioni per i criminali, resta quindi da concentrarsi sul che fare di quelli che arrivano e una delle idee di maggior successo è quella di respingerli, rimandare a casa loro quelli che arrivano senza aver titolo per restare. A parte che molti la casa non ce l’hanno più o che tornarci significherebbe la morte, la pratica dei respingimenti è costosa e spesso impossibile da realizzare anche nei confronti degli immigrati che rimandati al loro paese rischierebbero "solo" la miseria, che spesso dimentichiamo avere una dimensione ben più tragica della versione europea di miseria. Per respingere il cittadino di un altro paese con efficacia bisogna accompagnarlo fin là, il che spiega perché in Europa come negli Stati Uniti i respingimenti siano solo poche migliaia all’anno e perché quelli che abbondano inutilmente nella pratica siano appesantiti da conti pesantissimi senza ricavarne reale beneficio. Secondo dati del Viminale nei primi sette mesi del 2015 sono stati rimpatriati 8.497 migranti irregolari, se anche diventassero 20.000 alla fine dell’anno sarebbero una goccia nel mare e una spesa enorme. Rinchiuderli è un controsenso Concettualmente inutile è poi incarcerarli perché non vogliono andar via di loro volontà una volta colpiti da un provvedimento d’espulsione, si carica di lavoro inutile il sistema giudiziario e penale e anche in questo caso i costi sono altissimi e la capienza delle carceri comunque al limite. Poi quando escono, perché prima o poi usciranno, saranno di nuovo qui, più vecchi, più imbruttiti e più italiani di prima. Senza criminalizzarli però non si possono nemmeno rinchiudere applicando altre forme di detenzione, perché non possono privare le persone della libertà mentre lo stato decide che farne e perché l’esperienza dei Cie è stata più che rivelatrice. Inutile poi illudere gli elettori raccontando di pene da scontare nei paesi d’origine, dove non sono colpevoli di nulla e quindi non possono essere incarcerati. Pensate se nel dopoguerra i paesi del Nord Europa ci avessero rimandato i nostri immigrati irregolari chiedendoci di incarcerarli, quale governo avrebbe accettato? In cambio di cosa e in ossequio a quale principio? Dettagli che non interessano chi butta letteralmente l’osso ai cani rabbiosi, la platea che sbava odio xenofobo verso gli immigrati è di bocca buona e ripete questa ricetta senza chiedersi come e perché o cosa significhi veramente la proposta di "aiutarli a casa loro". Come si fa? Mandare soldi a regimi dalla dubbia affidabilità non sembrerebbe popolare, mandare militari è gradito ad alcuni, che però non sanno far di conto e non hanno idea di quanto costerebbe umanamente e finanziariamente e nemmeno del fatto che non è poi si possa invadere un altro paese e dettarvi legge impunemente perché da lì passano le migrazioni. Altre proposte da scartare e non solo perché comunque occorrerebbe la collaborazione di governi impotenti o di regimi criminali. Aiutarli a casa loro Stesso discorso si può fare per altre idee simili, come quella di aprire dei centri d’identificazione in Nordafrica e garantire poi a chi ci arriva e a chi ha diritto un passaggio sicuro per l’Europa. Se si fosse voluto fare si sarebbe già fatto, ma non sono proposte che hanno lo scopo genuino di aiutare i rifugiati e chi ha diritto all’asilo e non fermerebbero chi non ne ha diritto, che continuerebbe a rivolgersi ai padroni dei barconi. La Germania lo fa già e ha accolto 20.000 profughi selezionati tra i più deboli e bisognosi nei campi profughi in Libano. E lo stesso farà la Gran Bretagna di Cameron, che ha deciso di accoglierne qualche migliaio per fare penitenza per dichiarazioni che hanno eccitato gli xenofobi di tutta Europa. È là ed è in Giordania e in Turchia, paesi con risorse modeste che ne ospitano milioni, che bisognerebbe andare ad aiutare o ad accogliere i profughi siriani, se mai si volesse andare loro incontro. E lo stesso bisognerebbe fare in Africa, con il rischio di riconoscere con troppa evidenza che dittature come quella Eritrea, dalla quale scappano tutti anche se non c’è una guerra, sono le principali fonti d’immigrazione di necessità verso l’Europa. Oppure di chiederci come mai i paesi del Golfo, nostri alleati che bombardano in Libia, Siria e Yemen non abbiano accolto neppure un profugo tra i tanti fratelli arabi che hanno gettato nel bisogno. L’unica soluzione è assisterli Non ci sono soluzioni che possano fermare i migranti e i rifugiati, ci sono solo soluzioni che possono mitigare e gestire i problemi posti dal loro arrivo nei paesi di destinazione nell’attesa che i loro paesi tornino vivibili in un tempo ragionevole, perché le probabilità che un profugo torni a casa sono inversamente proporzionali al tempo trascorso lontano dal suo paese. L’approccio più razionale ed economico sarebbe quello di cercare di regolarizzare e integrare al più presto tutti i nuovi arrivati che vogliono restare e dove vogliono stabilirsi. Un sistema di quote europee che imponga destinazioni a caso e non concordate sarebbe una pena per loro, che quasi sempre si muovono per raggiungere affetti o comunità affini, e un fallimento per tutti. Senza regolarizzazione non potranno mai arrivare a farsi una vita e a mantenersi da soli, resteranno invece a carico del welfare o esposti allo sfruttamento, si sceglie invece di fare il contrario, al punto di voler negare la cittadinanza ai giovani nati e cresciuti nel nostro paese e che magari parlano solo la nostra lingua, spesso meglio di molti italiani. Un’altra misura "contro" gli immigrati che ha poco senso e che infatti non ha frenato per niente l’immigrazione, ha solo contribuito a far sentire diversi e meno italiane un buon numero di persone che sono invece italiane a tutti gli effetti. Finzioni e falsità ad uso degli xenofobi Buona parte del dibattito sull’immigrazione è quindi appoggiato su una finzione ad uso di xenofobi, razzisti o semplici ignari, che si lasciano spaventare e manipolare dalla vulgata razzista. Persone alle quali vengono offerti muri, respingimenti e soluzioni medievali quanto inutili o irrealizzabili in cambio del voto, persone che fondamentalmente sono ingannate da quanti sfruttano la loro intolleranza verso il diverso o semplicemente le loro paure. Rassicurare i timorosi è una specialità della politica muscolare che da sempre affascina la destra italiana, buona parte della quale è ancora genuinamente convinta del valore delle soluzioni di forza o ripete come un automa le solite quattro cose contro gli immigrati, denunciando invasioni di bruti che non esistono e quindi proponendo di trattarli come tali, come una minaccia. Fino a quando la destra italiana non raggiungerà le sponde della moderna Europa democratica, queste pulsioni irrazionali sono destinate a manifestarsi ancora e ancora senza soluzione di continuità, ferendo i migranti non meno di quanto inquinino il dibattito, ma all’orizzonte non si scorge alcun leader intenzionato a intraprendere questa meritoria e necessaria opera di modernizzazione dell’arcaica e rozza destra italiana. Toccherà tenerci tutto il circo e tutte le geniali proposte dei razzisti ancora a lungo, molto a lungo. Immigrazione: la nuova strategia tedesca e la perdente chiusura ideologica sui rifugiati di Anna Maria Merlo Il Manifesto, 6 settembre 2015 Crisi dei profughi. Qualcosa si muove (ma ci voleva la morte di Aylan) anche nelle mentalità: manifestazioni in Francia a favore dell’accoglienza. Una chance per la sinistra, che può rompere l’egemonia culturale dell’estrema destra. Una conseguenza rischiosa: la Francia potrebbe decidere di intervenire con i Mirage in Siria, a fianco di Usa, Gran Bretagna e Canada. C’è fretta di prendere decisioni e dalla Germania il vice-cancelliere, Sigmar Gabriel, approva la proposta del primo ministro austriaco, Werner Faymann, che vuole tagliare i fondi ai paesi recalcitranti della Ue che rifiutano le quote: "Penso che il cancelliere austriaco abbia assolutamente ragione quando dice che i soldi devono cessare di circolare se non arriviamo a una politica comune sui rifugiati". I paesi del gruppo di Visegrad (Polonia, Ungheria, Slovacchia, Repubblica Ceca), che hanno il chiaro appoggio dei Baltici, sono ormai sotto pressione. L’Europa socchiude la porta, permette solo ai rifugiati da zone di guerre di mettersi in coda e ribadisce che respingerà con determinazione tutti coloro che pretendono di entrare provenendo da "paesi sicuri". Ma qualcosa si sta muovendo, dopo mesi di blocco. I cittadini europei cominciano a muoversi, come se il muro ideologico dietro il quale in cui si erano volontariamente chiusi, stesse anch’esso aprendo delle brecce. Ieri, in Francia - dove un sondaggio (fatto però prima della foto di Aylan che ha scosso le coscienze) dice che il 52% non vuole profughi - ci sono state varie manifestazioni a favore dell’accoglienza. A Parigi (con la bandiera siriana sulle statue a place de la République), Tolosa, Bordeaux, Montpellier, Nantes, Strasburgo dei cittadini sono scesi in piazza per chiedere un cambiamento di politica, "welcome", "aprite le frontiere". Migliaia di persone hanno risposto agli appelli delle organizzazioni umanitarie, pronti ad accogliere dei profughi a casa, per qualche giorno o settimana. Jean-Claude Mas, segretario generale della Cimade, spera: "forse ci sono le condizioni emotive e politiche per un elettrochoc". In altri termini, una breccia sembra essersi aperta nell’egemonia ideologica dell’estrema destra, che sembrava aver preso i sopravvento. I Repubblicani, il partito di Sarkozy, si arrocca sulla linea dura, accusa Hollande di "voltafaccia" per aver accettato il "meccanismo di redistribuzione", cioè le quote, mostra un volto triste ma già alcuni (persino François Fillon) cominciano a prendere le distanze da una posizione che non fa che ricalcare quella del Fronte nazionale, nel frattempo riunito per la sua Università d’estate, impantanato nella querelle famigliare dei Le Pen. Il primo ministro, Manuel Valls, riprende qualche colore respingendo tutta la destra in un "blocco reazionario". La sinistra sembra respirare di nuovo un po’. Il Ps organizza martedì un "grande meeting" a Parigi "in sostegno della città solidali con i rifugiati", che offrono ospitalità. Martedì ci sarà un’altra manifestazione della sinistra per il diritto d’asilo. Sono dei primi segnali. La legislazione della Ue permette la protezione temporanea in caso di afflusso massiccio di persone che chiedono asilo. Il governo francese potrebbe trovare qui la possibilità di recuperare nel proprio elettorato, più che deluso dalle scelte di politica economica, non distinguibili da quelle della destra. In Austria e in Germania dei cittadini hanno mostrato solidarietà, come mai nel recente passato. A Lussemburgo, i ministri degli esteri, in una riunione che Mrs.Pesc Federica Mogherini ha definito "difficile", hanno cercato di trovare una soluzione per la redistribuzione dei rifugiati. Il clima è stato "pesante", riassume un diplomatico. La spaccatura tra est e ovest dell’Europa resta, il gruppo di Visegrad, in un lungo comunicato, la vigilia ha rifiutato quote e solidarietà. La crisi dei rifugiati potrebbe però portare anche a decisioni estremamente rischiose. Se ne saprà di più domani, alla conferenza stampa di François Hollande, ma secondo Le Monde la Francia si prepara a intervenire in Siria. Finora, l’aviazione francese era solo presente nei cieli dell’Iraq e in Siria forniva un modesto sostegno ai democratici, contro Isis e contro Assad. Ma, da ottobre, i Mirage 2000 potrebbero partecipare a missioni in Siria, a fianco degli Usa, Gran Bretagna e Canada, che già intervengono in quell’area. Immigrazione: la Gb non parteciperà al piano profughi Ue ma accoglierà 15mila migranti La Repubblica, 6 settembre 2015 Prelevati direttamente dai campi ai confini con la Siria. E a ottobre darà il via ad una campagna di raid aerei sul territorio siriano contro lo Stato Islamico. Mobilitazione dell’Intelligence britannica contro i trafficanti di uomini. Cresce il sentimento anti-Ue nel Regno Unito. La Gran Bretagna conferma che non parteciperà al piano Ue di suddivisione pro-quota dei profughi ma accoglierà fino a 15.000 migranti, prelevati direttamente dai campi ai confini con la Siria. Non solo. Per risolvere il problema alla radice vuole iniziare entro ottobre una campagna di raid aerei contro l’Is in Siria oltre a lanciare un’azione di intelligence contro i trafficanti di esseri umani. Per questo ai primi del prossimo mese chiederà ai Comuni l’autorizzazione a bombardare le postazioni dello Stato Islamico in Siria, oltre che in Iraq dove i Tornado della Raf stanno già partecipando ai raid aerei della coalizione internazionale a guida Usa dallo scorso anno. È quanto riferisce il Sunday Times aggiungendo che Cameron vuole anche lanciare un’offensiva e usare la National Crime Agency, l’Fbi britannica, e il Gchq, l’agenzia di spionaggio elettronico (omologa dell’Nsa americana) contro le organizzazioni di trafficanti di esseri umani. Un contingente della prima sarà dispiegato nel Mediterraneo per neutralizzare i capi di queste bande, individuate dalla seconda, e smantellare le loro reti. Inorriditi dalle migliaia di profughi siriani in fuga dal loro Paese,dal canto loro, il 52% dei britannici vuole che il governo la smetta di tergiversare e dia l’ordine alle forze armate di intervenire in Siria per porre fine alla guerra, in corso da oltre 4 anni, e porre fine alla crisi dei migranti. È quanto emerge da un sondaggio dell’edizione domenicale del Sun secondo il quale solo il 22% si oppone. Il testo della rilevazione lascia però spazio ad ambiguità: non è chiaro se si parli di iniziare raid aerei contro Is in Siria, come quelli già in corso in Iraq, come vorrebbe il governo, o addirittura di inviare truppe di terra. Il sondaggio, effettuato dalla società di rilevazione YouGov evidenzia anche che il 36% degli intervistati vorrebbe accogliere più profughi, il 14% è contrario, ed il 24% vorrebbe lasciare le cose come stanno. Il sondaggio del Sun, di proprietà di Rupert Murdoch, a differenza di uno pubblicato oggi dal Mail on Sunday, critica aspramente la gestione della crisi da parte del premier David Cameron: per il 45% lo boccia, il 21% lo promuove mentre per il 27%% nè l’uno nè l’altro. Il cancelliere dello Scacchiere (il ministro delle Finanze) George Osborne annuncerà oggi come il governo intenda spostare fondi risparmiati col lo spendig review sul fronte dell’assistenza ai migranti, su cui ha già speso 1 miliardo di sterline, costruendo campi profughi nella regione. La notizia del nuovo impegno diretto di Londra segue quella diffusa nel pomeriggio dal quotidiano francese Le Monde secondo il quale anche il presidente Francois Hollande sta valutando di iniziare a colpire l’Is in Siria. Secondo il Mail on Sunday oggi in edicola, invece, in Gran Bretagna cresce il sentimento anti-europeo. La paura di un’invasione di migranti , complice la disastrosa gestione della crisi degli mesi, è riuscita a far pendere per la prima volta la bilancia a favore della Brexi, l’uscita del Regno Unito dall’Ue, su cui nel 2017 si terrà un referendum. Secondo questo sondaggio, Il 51% dei sudditi di Sua Maestà vuole lasciare l’Unione europea mentre il 49% vuole restare. Ma tra questi ultimi, ancora affezzionatì all’idea di un Europa comune, moltissimi hanno chiarito che potrebbero cambiare idea se la crisi dei migranti dovesse peggiorare. Il risultato, tenendo conto dei margini di errore statistici è di fatto un testa a testa, ma comunque manifesta un netto spostamento dell’opinione pubblica: lo stesso sondaggio ai primi di luglio vedeva il 54% favorevole a restare tra i Ventotto mentre il 45% voleva abbandonare Bruxelles. In particolare dal sondaggio emerge un Regno Unito ancor più isolazionista. Tra il 49% che voterebbe per restare nell’Ue, nel caso che la crisi dei migranti peggiorasse, il 68% confermerebbe la sua scelta ma il 22% ci ripenserebbe. La netta maggioranza promuove il premier David Cameron per come sta gestendo la crisi, prendendo le distanze dall’Ue: per il 64% ha fatto benissimo a non accettare le quote di redistribuzione dei profughi che Bruxelles vuole imporre ai Ventotto. Il sondaggio mostra anche un accentuato egoismo dei sudditi di Sua Maestà: il 29%, la maggioranza, non vorrebbe che neanche un profugo siriano fosse accolto, il 15% ne accetterebbe 10.000 ed il 12% 3.000. Il sondaggio non prevede il caso dei 15.000 che Cameron intende invece ospitare sul suo britannico. Immigrazione: se nella vicenda dei profughi l’Italia ha dato una lezione all’Europa di Nico D’Ascola Il Garantista, 6 settembre 2015 La drammatica vicenda dei profughi rivela un inedito versante. Inedito, almeno con riferimento alla diffusa disistima degli italiani verso la politica nazionale e al contrapposto mito della serietà di quella degli altri paesi europei. In particolare di quella tedesca. "Avessimo noi quella classe politica", è un ritornello che certamente ha animato le riflessioni di chissà quanti italiani nel constatare i tanti errori e i ritardi della politica nazionale. Il dramma dei migranti, nella sua epocale dimensione, estende infatti questo sconfortante giudizio a tutta la classe politica europea. Anzi, in un certo senso lo ribalta in una inattesa affermazione di superiorità, questa volta, dell’Italia. Superiorità politica per avere, inascoltata, denunciato l’enorme problema umanitario. Problema che i tanti oracoli dei destini europei hanno finto di non vedere nascondendolo - in maniera del tutto infantile - sotto una coperta. Alcuni di loro avendo addirittura contribuito al disastro migratorio. Basterebbe al riguardo pensare agli errori fatti da francesi e inglesi in occasione della crisi libica. Superiorità sul piano del rispetto dei diritti umani e della solidarietà che costituiscono una non trascurabile componente di un agire politico davvero eticamente orientato. Superiorità sul piano delle scelte economiche se è vero, per come è vero, che l’Italia per prima - già con il governo Letta e poi con quello Renzi - ha rotto un vero e proprio coro di ottusa vocazione alla recessione di pretta marca tedesca. Se è vero - per come è vero - che l’unico ad avere contrastato efficacemente la crisi economica, scompaginando i piani di quasi tutte le cancellerie europee, è stato un grande italiano che si chiama Mario Draghi. All’Italia che ha sempre difeso la vita come priorità e la necessità di una soluzione collettiva, i politici europei hanno risposto con plateali manifestazioni di egoismo nazionale e con una generalizzata prova di inconsistenza politica. D’ altronde, la soluzione di un problema epocale generato da guerre non può essere che di tipo bellico. Ma è giustificato dubitare che un Occidente così diviso, incerto ed egoista sia in grado di potervi utilmente provvedere. Non a caso gli inglesi sono tornati a rinchiudersi nel loro splendido isolamento insulare. Così negando addirittura Schengen, quindi voltando le spalle, non solo ai migranti, ma alla stessa Europa. I francesi non si riesce nemmeno a capire cosa pensino. I paesi dell’est europeo, infine, si sono già dimenticati della solidarietà che sino a qualche anno fa esigevano a loro vantaggio. Delle pur significative ma recentissime aperture dell’Ungheria, più che la sincerità dovrà essere verificata la perduranza. Passando poi agli Stati Uniti le cose addirittura peggiorano. Basti pensare a quello che sono riusciti a fare affamando la guardia presidenziale di Saddam dalla quale è nato l’Isis. La Merkel - quando si parla di Germania si parla inevitabilmente di lei - oscilla pericolosamente tra tentazioni isolazionistiche e tardive - quindi poco credibili aperture umanitarie. Il mito dell’efficienza e del rigore tedeschi, che in realtà risalgono alla infallibilità bellica della Wehrmacht e non certo alla infallibilità politica dei socialdemocratici o dei cristiano sociali di oggi, sembra così trasformarsi in un clima fatto di incertezze e ambiguità. Forse la percezione di non essere in grado di difendere fino in fondo le proprie vere posizioni in politica e in economia, ha suggerito aggiustamenti. Né può trascurarsi il piano della coscienza collettiva di una grande Nazione che però non ha mai fatto i conti con il proprio passato, soprattutto con quello più recente. Come non rendersi conto che la freddezza manifestata dinanzi alla strage di tanti innocenti evoca ombre di fantasmi mai esorcizzati. Ma allora come si può attendibilmente condannare il Nazismo se oggi tolleriamo comportamenti che lo ricordano?. Insomma, è vero che occorre distinguere chi scappa da guerre o persecuzioni dai migranti economici, ma la vita non può essere così disprezzata. Se l’Europa è questa, non c’è persona seria alla quella possa piacere. Con queste ultime riflessioni, seguendo un percorso perfettamente circolare, siamo tornati al punto di partenza. La evidente modestia del panorama politico europeo se non altro può servire agli italiani per riprendere fiducia in se stessi. In realtà non siamo peggiori degli altri. Immigrazione: in Ungheria la situazione si è sbloccata, primo giorno senza frontiere di Massimo Congiu Il Manifesto, 6 settembre 2015 La situazione si è sbloccata dopo che Budapest e i paesi confinanti hanno fatto i conti con una realtà sempre più difficile da sostenere. La svolta nella notte della marcia a piedi verso l’Austria. Orbán cede e "accompagna" in bus i profughi alle frontiere. Berlino e Vienna aprono. I profughi che due giorni fa hanno deciso di lasciare la stazione Keleti e di mettersi in marcia verso Vienna hanno sbloccato una situazione sempre più difficile da sostenere. L’apertura delle frontiere da parte dell’Austria e della Germania ha consentito loro di avvicinarsi al sogno di cambiare vita e di stare al sicuro, lontano da violenze, guerre e miseria. Se ne sono andati in molti verso la destinazione prescelta, molti altri sono arrivati alla stazione orientale che continua ad essere un presidio portato avanti all’insegna dell’attesa quotidiana di poter lasciare il paese. Ieri la televisione ungherese ha riferito di nuovi momenti di nervosismo verificatisi di mattina alla stazione con i migranti accalcati tra i binari. E sempre ieri una nuova marcia: diverse centinaia di migranti hanno lasciato la stazione verso le 11,30 sulla scorta di quanto avvenuto il giorno prima. Ma le dichiarazioni delle autorità ungheresi sono state poco incoraggianti: "Non ci saranno altri bus, quella presa in precedenza è stata una misura eccezionale concertata dal primo ministro ungherese Viktor Orbán con il cancelliere austriaco Werner Faymann". Nella serata di ieri si sono rincorse diverse voci, c’è stato qualcuno che inaspettatamente ha detto che ci sarebbero stati dei bus. Voci incontrollate, nient’altro. Poi, durante la marcia, a una ventina di chilometri dalla capitale, forse anche di più, si sono sentiti un boato e un battimani generale. Ciò è avvenuto quando si è saputo che probabilmente, alla stazione ferroviaria di Biatorbagy sarebbe giunto un treno della Máv, la compagnia ferroviaria ungherese, e poi forse altri per portare i migranti al confine con l’Austria. Erano partiti in mattinata perché consideravano che non fosse più il caso di aspettare treni che non partano. "Se nessuno ci porta in Austria ci andiamo noi, da soli, con le nostre gambe", avevano detto alcuni. Quanti di loro hanno già camminato a lungo? Un giovane afghano dice di essere arrivato in Ungheria a piedi dall’Iran per seguire quella rotta balcanica di cui da tempo parla la stampa internazionale. Quasi cinquanta giorni di viaggio di fronte ai quali il cammino che separa i migranti riuniti in corteo potrà sembrare poca cosa, ma ci sono anche i bambini e non sono pochi. Meno male che si è attivata fra diversi ungheresi una solidarietà tale da rendere meno duro il percorso. È avvenuto già col primo gruppo: auto che si fermavano lungo la strada per offrire acqua ai migranti, per accompagnarli per un tratto, se possibile fino al confine, almeno le donne con i bambini. Ieri lungo il percorso c’erano un po’ qua e un po’ là degli ungheresi fermi con confezioni di acqua minerale, una ragazza reggeva una cassetta di mele da distribuire, altri offrivano cioccolato, barrette di cereali e miele e quant’altro potesse essere di conforto a queste persone in marcia. Vicino ai migranti delle volontarie di Migration Aid, un gruppo della società civile ungherese, che si è impegnato nella raccolta di tutto ciò che può essere utile ad aiutare chi sta ancora accampato a Keleti e chi decide di andare via: cibo, acqua, pannolini, indumenti, prodotti per l’igiene personale e altro. Migration Aid è tra le organizzazioni che hanno concepito le manifestazioni svoltesi nel centro di Budapest con lo slogan "Not in my name - Az én nevemben ne" per dimostrare solidarietà ai migranti e criticare la rigidità del governo anzi, la sua mancanza di approccio umano al problema, come dicono quanti hanno aderito alle iniziative di piazza. La situazione si è sbloccata, la marcia verso l’Austria, i cento autobus forniti dalle autorità ungheresi hanno fatto sfogare un po’ il flusso di gente strozzatosi a Keleti. Del resto Budapest, Vienna e Berlino hanno dovuto fare i conti con la realtà, con una realtà sempre più difficile da sostenere. L’esempio dello scalo ferroviario della capitale ungherese è emblematico di questa situazione che è poco definire critica. È un’emergenza umanitaria, lo dicono chiaramente le immagini catturate in questi giorni a Keleti: tende, donne sedute sul pavimento con i bambini in braccio, gente che va avanti e indietro, gente che cerca di riposare dove può, file ai wc chimici, file ai rubinetti per lavarsi, l’acquisto di un kebab, di una pizza o di un panino al fast-food. Di questi chioschi, di questi punti di ristoro ce ne sono tanti nel sottopassaggio della stazione e in superficie. "Ogni giorno che passa conosco nuova gente qui, mi faccio nuovi amici", dice un ragazzo afghano di 18 anni che ha lasciato la famiglia a Kabul. Le sue parole descrivono un contesto vissuto all’insegna della condivisione dei disagi, delle attese, delle speranze e delle decisioni drastiche, come dimostrano le marce di questi giorni. Finora pochi treni hanno portati i migranti via dallo Stato danubiano; ieri, secondo quanto riferito dall’agenzia di stampa Mti, il primo treno speciale con a bordo con circa cinquecento richiedenti asilo è arrivato a Monaco di Baviera. Ma è un caso tutt’altro che frequente. Intanto la politica è al lavoro, in una nota del partito governativo ungherese Fidesz si afferma che al posto della politica delle quote serve un serio ed efficiente controllo delle frontiere di Schengen. L’Ungheria, la Slovacchia, la Repubblica Ceca e la Polonia si trovano allineate in questo senso. Questi paesi fanno parte del Gruppo di Visegrád i cui primi ministri si sono incontrati venerdì scorso per fare il punto della situazione e rinsaldare il fronte del no. Il documento da essi redatto esprime cordoglio per i migranti morti in viaggio e sottolinea la necessità di proteggere a dovere le frontiere di Schengen attraverso un impegno comune e di affrontare i problemi laddove si verificano. Del resto, nel questionario "sull’immigrazione e il terrorismo" inviato a maggio dal governo ungherese alla popolazione si chiede ai destinatari se non sia il caso di aiutare i paesi situati nei quadranti di crisi e quindi i loro abitanti piuttosto che trovarsi a dover fronteggiare flussi migratori come quelli che stanno sfiancando l’Europa. Il discorso sarebbe quindi di prevenire nei limiti del possibile, il fenomeno, con aiuti in loco e con una rigida sorveglianza delle frontiere. Ma veramente basterebbe? Le persone che arrivano a frotte in Ungheria accettano di viaggiare in condizioni spesso disumane e rischiano la vita pur di prendere le distanze dal loro paese d’origine e dalla guerra. I siriani che ieri hanno intrapreso la marcia verso l’Austria raccontano che da loro non è più possibile vivere: "Guerra, violenza, bombe tutti i giorni". Uno di loro mostra i graffi che si è fatto passando attraverso il filo spinato della barriera che il governo ha voluto al confine con la Serbia ma che deve essere ancora ultimata. Ha i polpacci, le caviglie e il collo graffiati, mima il modo in cui è entrato strisciando in territorio ungherese. "Non per stare qui - dice - ma per andare in Germania". Interpellati su come sono stati finora in Ungheria dicono che la gente è brava, i poliziotti no e neppure il governo. Si va avanti e si incontrano ancora, fino alla curva per andare alla stazione e forse anche oltre, gente del posto che offre da mangiare. Non tutti però accettano. Alcuni rifiutano quasi offesi, altri accettano di buon grado, se non altro per i bambini che loro malgrado devono marciare ancora. Stati Uniti: nel 2014 le Forze dell’ordine hanno ucciso 1.106 persone… qualcosa non va radicali.it, 6 settembre 2015 I dati forniti della rivista online americana "Mic" consentono un’ ulteriore riflessione su ciò che sta accadendo negli Stati Uniti con le forze dell’ordine - e più in generale con il suo "apparato di sicurezza". "Mic" riporta l’impressionante differenza tra il numero di persone uccise dalle forze dell’ordine negli Usa: 1.106 nel 2014 - e la Norvegia, 2 morti nell’intero periodo tra 2002-2014. Si legge nell’articolo: "È adeguato affermare che la polizia americana uccide un impressionante numero di individui comparata con la Norvegia, pur considerando le principali differenze socioeconomiche tra i due paesi. In un giorno nel 2015, gli agenti della polizia di Cleveland hanno sparato più di 135 colpi durante una corsa ad alta velocità per la cattura di due motociclisti non armati, entrambi i quali sono morti - durante il periodo di 12 anni mostrato nel grafico, la polizia norvegese ha sparato solo 33 colpi". Parte della responsabilità per le uccisioni della polizia ricade sull’alto tasso di armi negli Stati Uniti ma eguale responsabilità dovrebbe ricadere su ciò che "American Prospect" (rivista americana, n.d.r.) definisce una "miseramente inadeguata" formazione degli agenti delle forze ordine statunitensi sull’uso della forza letale e tecniche di distensione. […] Una recente ricerca di Amnesty International ha trovato che ogni singolo stato (e Washington, D.C.) non rispettano gli standard per l’uso della forza letale. Quando la polizia degli Stati Uniti uccide più persone nel corso di un singolo weekend rispetto a quanto molti paesi facciano in più di una decade, è davvero il tempo di esaminare cosa quei paesi compiono nel modo giusto. Molte vite sono in gioco". Medio Oriente: Mordechai Vanunu in tv, il nucleare segreto di Israele in prima serata di Michele Giorgio Il Manifesto, 6 settembre 2015 Venerdì sera su "Canale 2" l’ex tecnico della centrale di Dimona, che nel 1986 rivelò al "Sunday Times" i segreti del nucleare israeliano, dopo 29 anni ha potuto di nuovo denunciare pubblicamente i pericoli legati alle armi di distruzione di massa in possesso del suo Paese. Perché governo e servizi segreti lo hanno lasciato parlare? È facile incontrare casualmente Mordechai Vanunu per le strade di Gerusalemme Est, la zona palestinese della città, dove l’ex tecnico della centrale di Dimona vive da quando fu liberato nel 2004, dopo 18 anni trascorsi nella prigione di Shikma (11 dei quali in isolamento totale), per aver rivelato nel 1986 i segreti dell’atomica israeliana al giornale britannico Sunday Times. L’ultima volta è stata il mese scorso, dalle parti di via Salah Edin. "Hello" (Vanunu dal 1986 si esprime solo in inglese, non usa più l’ebraico), qualche battuta veloce sulle cose che cerca di fare, sul suo desiderio di abbandonare Israele, un sorriso sobrio a commento del suo recente matrimonio con una docente universitaria norvegese, Kristin Joachimsen, e un "goodbye". Tutto qui. In pubblico si comporta così con tutti. Vanunu - che per i servizi segreti israeliani resta detentore di importanti segreti di stato, anche se vecchi di 30 anni - non può parlare ai cittadini stranieri, in particolare ai giornalisti. È una delle tante restrizioni stabilite dai giudici al momento della scarcerazione. Non può riferire particolari, anche agli israeliani, del lavoro che svolgeva Dimona. Violando queste disposizioni il tecnico nucleare si espone all’arresto e alla detenzione, anche per mesi. Gli stranieri invece all’espulsione immediata da Israele. Per questo motivo ha fatto scalpore l’intervista con l’ex tecnico nucleare di Dimona trasmessa venerdì in prima serata dalla rete televisiva israeliana Canale 2. È stato un evento eccezionale. Nonostante domande e risposte non siano sempre andate sugli aspetti più interessanti delle rivelazioni fatte 30 anni fa da Vanunu - le finalità della produzione di plutonio per ordigni atomici nella centrale di Dimona -, l’uomo che gran parte del Paese considera un "traditore" ha potuto ugualmente parlare del programma atomico segreto israeliano e condannarlo. Israele non ha firmato il Trattato di non-proliferazione nucleare e non ha mai ammesso (e neanche smentito) di possedere bombe atomiche (tra 100 e 200 secondo esperti internazionali). Da decenni Israele mantiene la cosiddetta "ambiguità nucleare". L’interrogativo perciò è d’obbligo. Perché i servizi segreti e il governo hanno dato il via libera all’intervista in un momento delicato, in cui il premier Netanyahu è impegnato in uno scontro accesso con gli alleati americani per il via libera che è stato dato a Vienna al programma atomico dell’Iran? Il racconto di Vanunu a Canale 2 in apparenza è controproducente per gli interessi israeliani. Forse Netanyahu, lasciando parlare il "traditore", ha voluto mandare un messaggio all’esterno. Ad esempio avvertire Tehran di non dimenticare che Israele le bombe le possiede già e potrebbe usarle se necessario. Ma le spiegazioni probabilmente sono più di una. Vanunu venerdì sera ha raccontato il processo graduale che lo portò nei nove anni di lavoro a Dimona alla decisione, anzi "all’obbligo", come ama dire lui, di rivelare "ai cittadini di Israele, del Medio Oriente e del mondo", la natura della "polveriera" di Dimona. "Ho visto quello che stavano producendo e il suo significato", ha detto. Ha aggiunto di aver portato nella struttura una normale macchina fotografica, "una Pentax", e di aver scattato segretamente 58 foto, nascondendola poi nel suo zaino che gli uomini della sicurezza non controllavano più perché la sua era una presenza abituale. Ha negato di aver fatto le sue rivelazioni in cambio di un compenso da parte del Sunday Times e ha ripetuto più volte che il nucleare è un pericolo, un’arma terribile, per tutti, anche per Israele e non soltanto per i suoi nemici. Ha infine ribadito di voler andare via, per ricongiungersi a suo moglie. Vanunu, 60 anni, membro di una famiglia religiosa ortodossa, giunse dal Marocco quando era ancora bambino. Cominciò a formarsi una coscienza politica soltanto all’inizio degli anni Ottanta. In precedenza aveva svolto con diligenza il suo lavoro nella centrale di Dimona, costruita ufficialmente per la produzione di energia elettrica ma che il laburista Shimon Peres con l’aiuto del padre della atomica francese Francis Perrin, trasformò in un centro segreto. Vanunu cominciò a riflettere su ciò che avveniva a Dimona quando fu trasferito nel Machon 2, un complesso di sei piani sotterranei della centrale atomica dove venivano prodotti annualmente una quarantina di kg di plutonio. Nel 1985 Vanunu venne costretto a dimettersi per "instabilità psichica". Con uno zaino pieno di informazioni partì per l’Australia dove si mise in contatto con il Sunday Times. Giunto a Londra nell’agosto del 1986, si recò al giornale riferendo per due intere settimane i suoi segreti. Il direttore del giornale però esitò a pubblicare il racconto. Sospettava che Vanunu fosse un agente del Mossad che, per conto del suo governo, intendeva far sapere ai paesi arabi che Israele è in possesso di un arsenale nucleare in grado di incenerire l’intero Medio Oriente. Il servizio giornalistico verrà pubblicato solo il 5 ottobre, quando si seppe della scomparsa dell’israeliano. Vanunu cadde in una trappola preparata alla fine dell’estate da una donna affascinante, Cindy, al secolo Cheryl Ben Tov, un’agente del Mossad per la quale perse la testa. Il sequestro non avvenne a Londra (i britannici non vollero) ma Roma (sempre disponibile) dove Cindy lo attirò proponendogli un weekend romantico, come Gregory Peck e Audrey Hepburn. Invece appena arrivato in Italia, gli agenti del Mossad lo rapirono e lo portarono in un appartamento nella periferia della capitale, poi lo trasferirono a La Spezia e, imbarcandolo sul mercantile israeliano Tapuz, lo rispedirono (in una cassa) in Israele. Vanunu si rivide in pubblico il 7 ottobre, solo per qualche attimo, a Gerusalemme, durante il processo per direttissima, quando con uno stratagemma - scrivendo sul palmo della mano che mostrò ai fotografi fuori dall’aula - fece sapere di aver raggiunto Roma il 30 settembre con il volo 504 della British Airways e di essere stato rapito. L’altra sera ha ammesso di non aver capito, anche dopo il rapimento, che Cindy era stata la protagonista del piano del Mossad e di averlo compreso solo dopo parecchi giorni mentre navigavano verso il porto di Haifa. L’Italia, come fa spesso quando agisce il Mossad, finse di non accorgersi della violazione della sua sovranità territoriale e del rapimento a Roma. Le indagini avviate dal sostituto procuratore Domenico Sica non portarono a nulla, nessuno aveva visto e sentito. Vanunu per anni ha chiesto invano un intervento delle autorità italiane su Israele. Roma non ha mai risposto ai suoi appelli. Mauritania: appello per salvare la vita a Mohamed, condannato a morte per blasfemia camerepenali.it, 6 settembre 2015 Il 24 dicembre 2015, nella tarda serata, a conclusione di un processo durato poco più di un giorno, la Corte Criminale di Nouadhibou ha condannato Mohamed Cheikh Ould Mohamed Ould M’kheitir alla pena di morte per blasfemia. Un Pubblico Ministero e sette avvocati di parte civile hanno sostenuto l’accusa contro l’imputato, difeso da due soli difensori di ufficio, dopo che l’avvocato di fiducia aveva rinunciato al mandato per paura della piazza. L’imputato è svenuto alla lettura del dispositivo. La condanna è stata salutata da concerti di clacson e cortei di auto, che hanno sfilato in segno di esultanza a Noukachott, la capitale della Mauritania, e a Nouadhibou. Mohamed Ould M’Kheitir è un giovane contabile di 29 anni. Era stato arrestato un anno prima, il 23 dicembre 2014, a causa di un articolo pubblicato su un blog, ritenuto offensivo nei confronti del profeta Maometto. Prima dell’arresto e durante il processo, Mohamed M’Kheitir ha ritrattato, ma la Corte non ha applicato il perdono previsto dalla legge in questi casi, ritenendo che il pentimento fosse insincero. Aninettou Ely, nota militante mauritana per i diritti dell’uomo, è stata una delle pochissime persone a prendere posizione in favore del condannato. Per questo motivo è stata colpita da una fatwa di morte, e oggi è sotto la protezione di Amnesty International. Il processo contro Mohamed M’Kheitir è stato un processo politico. Egli appartiene infatti ad una casta disprezzata, quella dei maalemine, che negli ultimi tempi ha osato alzare la testa e chiedere pari dignità. La Mauritania è un paese in cui vige una rigida gerarchia sociale, dove resistono numerosi casi di schiavitù. La schiavitù è stata legalmente abolita solo nel 1986 e addirittura si è dovuti arrivare al 2007 perché fosse considerata un reato. Oggi schiavi e caste inferiori hanno cominciato a reclamare i loro diritti: la condanna a morte di Mohamed M’Kheitir è un monito contro ogni pretesa di cambiare l’ordine sociale. L’Osservatorio Internazionale per i diritti (OSSIN) ha organizzato una missione di giuristi per seguire il processo di appello. Durante un recente soggiorno in Italia, Aisha M’Kheitir e Aminettou Ely sono stati ricevuti dalla Commissione per i diritti umani del Senato, presieduta dal sen. Manconi. Inoltre il sindaco di Napoli, Luigi De Magistris, ha conferito al condannato una simbolica cittadinanza onoraria di Napoli. Il sen. Manconi ha lanciato una petizione su change.com, che ha raggiunto già quasi 19.000 adesioni. È importante che anche tu dia il tuo contributo. È facile, basta cliccare sul link che segue e seguire le istruzioni: https://www.change.org/p/mohamed-condannato-a-morte-per-apostasia-non-lasciamolo-solo-paologentiloni-federicamog. Ma Mohamed M’Kheitir ha anche bisogno di un sostegno materiale. È solo, abbandonato da tutti ed ha bisogno di soldi per organizzare la sua difesa legale nel processo. È necessario un contributo da parte di tutti per dargli una mano. Per contribuire, occorre cliccare sul link e seguire le istruzioni. http://buonacausa.org/cause/mohamed-libero. Cina: pena di morte abolita per nove reati, inasprite le condanne per la costruzione nessunotocchicaino.it, 6 settembre 2015 La Cina ha modificato il suo codice penale, inasprendo le condanne per la corruzione, ridefinendo il rapporto sessuale con prostitute minorenni come stupro ed eliminando la pena di morte per nove crimini, hanno riportato media di stato. Il Comitato Permanente del Congresso Nazionale del Popolo ha stabilito che le persone riconosciute colpevoli di gravi accuse di corruzione e che sono state condannate a morte con pena sospesa per due anni riceveranno la commutazione in ergastolo dopo un periodo di due anni, ha detto la Xinhua. Il cambiamento serve a "salvaguardare l’equità giudiziaria" ed evitare che " i criminali più corrotti scontino pene detentive più brevi per mezzo della commutazione", ha detto il Congresso, riportato dall’agenzia di stampa ufficiale. Ruan Qilin, professore presso l’Università della Cina di Scienze Politiche e Giurisprudenza, ha detto che il cambiamento delle condanne per corruzione è stato pensato per i funzionari che utilizzano mezzi illegali per beneficiare della commutazione della pena o per accedere alla libertà condizionale o pene non detentive, ha scritto l’agenzia. Il presidente cinese Xi Jinping ha lanciato una grande campagna per reprimere la corruzione nel Paese, promettendo di colpire funzionari ad ogni livello. I critici, tuttavia, dicono che non ci sono garanzie riguardo all’uso della campagna per scopi politici e che nessuna riforma di sistema è stata introdotta per combattere la corruzione. La Cina ha anche abrogato il reato di sesso con prostitute minorenni, che è stato ridefinito come stupro, un reato soggetto a punizione più dura, ha detto la Xinhua. Precedentemente, a norma di legge le persone che avevano rapporti sessuali con prostitute di età inferiore a 14 anni rischiavano al massimo 15 anni di prigione, secondo l’agenzia. Chi viene riconosciuto colpevole dello stupro di un minore può invece essere condannato a morte. Il Congresso ha inoltre approvato l’eliminazione della pena di morte per nove reati, ha reso noto la Xinhua. Questi includono il contrabbando di armi, munizioni, materiali nucleari e moneta falsa; la contraffazione di valuta; raccolta fraudolenta di fondi; aiutare o forzare una persona a praticare la prostituzione; ostacolare l’adempimento del dovere di un poliziotto; e la creazione in tempo di guerra di voci finalizzate ad ingannare persone. La Xinhua ha precisato che la pena massima per questi crimini sarà l’ergastolo.