Giustizia: Orlando "cambiare sistema penale, meno carcere e più sanzioni patrimoniali" Agi, 5 settembre 2015 "Dobbiamo cambiare profondamente, e lo stiamo facendo, le modalità di esercizio della pena: abbiamo una pena che è molto legata al carcere, per molto tempo si è raccontato che il carcere era la soluzione di tutti i mali. Dobbiamo invece virare verso sanzioni di carattere patrimoniale perché un mafioso o un corrotto ha relativamente poco paura di farsi un mese di carcere se si riesce a mettere in tasca qualche milione di euro, ha paura se si minaccia di portargli via i soldi che ha magari anche la casa: io credo che dobbiamo virare in questa direzione": lo ha spiegato il ministro della giustizia Andrea Orlando intervenendo a un dibattito alla Festa dell’ Unità di Modena dedicato alla riforma della giustizia. "Oggi abbiamo deciso di prevedere la confisca dei terreni a chi utilizza il caporalato ma non solo il proprietario del terreno - ha spiegato ancora il ministro - anche quelli che lungo la filiera utilizzano quel prodotto, perché c’è una economia criminale e una economia che utilizza quella criminale, che non necessita di capi ndrine e mafiosi ma è fatta di persone in apparenza anche assolutamente rispettabili". Orlando ha poi spiegato: "al Senato c’è una norma di cui sono molto convinto, che avrà un effetto significativo e che prevede la confisca per sproporzione, ti confisco il patrimonio quando non sai dimostrare come lo hai accumulato". Una misura, ha detto ancora il ministro, per andare anche a cercare generazioni che hanno accumulato beni illeciti dai padri e dai nonni". Sappiamo benissimo - ha chiosato - che una larga parte del bottino di tangentopoli non è mai stato restituito". Il ministro ha poi citato alcuni dati positivi. "Dalla fine di ottobre ha spiegato - arriveranno negli uffici giudiziari mille dipendenti di personale amministrativo, altri 2.000 arriveranno entro la prima metà dell’ anno prossimo: erano 25 anni che non c’erano immissioni di personale amministrativo nella giustizia. Abbiamo fatto partire il processo civile telematico con l’informatizzazione entro il primo grado di giudizio siamo l’unico paese in Europa - ha concluso - che ha azzardato una cosa come questa". Giustizia: il Sottosegretario Ferri “da Papa Francesco stimolo per umanizzare carceri” Agi, 5 settembre 2015 “La lettera di Papa Francesco deve costituire uno stimolo per aprire un serio dibattito tra le forze politiche teso ad umanizzare sempre più la pena. Che deve essere sì giusta e rigorosa ma anche orientata alla rieducazione del reo, cosi come vuole la nostra Costituzione”. Così Cosimo Ferri, sottosegretario alla Giustizia, interviene a “Voci del mattino”, su Radio 1, in merito sulla lettera inviata da Papa Bergoglio a Monsignor Fisichella che caldeggia un’amnistia per il Giubileo straordinario. “Chi accede alle misure alternative alla detenzione, quindi progetti, affidamenti alle comunità, servizi sociali, è dimostrato, dati alla mano, che è più avviato sulla via del recupero - ricorda il sottosegretario - incorre meno nella recidiva, rispetto ai detenuti che invece scontano la pena interamente all’interno della struttura penitenziaria. Quindi questo strumento è anche garanzia per l’intera società civile che chi ha sbagliato, una volta ritornato nell’ambito sociale, non cada di nuovo in comportamenti illeciti. Pertanto, a quel punto verrebbe del tutto espletata la funzione rieducativa, che è propria del mandato costituzionale”. Il governo Renzi “è molto attento alle questione carceri - ha aggiunto Ferri - da maggio è partito il progetto “Stati generali delle carceri”, che ha voluto il ministro Orlando, proprio per riformare il sistema penitenziario, su temi fondamentali: la valorizzazione del volontariato, molto attivo in questo settore; l’affettività; i progetti di reinserimento nel tessuto sociale del detenuto. Questo complesso di interventi al fine di realizzare un’idea di carcere sempre più basata sui principi dell’umanità, della rieducazione e del reinserimento. È questa la nostra linea guida verso una spinta riformatrice - conclude il sottosegretario - e va nella stessa direzione auspicata da Papa Francesco: una pena che non dimentichi la commissione del reato ma che vada anche verso il recupero di chi ha sbagliato”. Giustizia: Stati Generali Esecuzione Penale, Orlando convoca tutti i direttori delle carceri www.oua.it, 5 settembre 2015 Dopo averlo annunciato nelle settimane scorse, prima della pausa estiva, il Ministro Orlando ha convocato a Roma tutti i direttori delle carceri italiane per raccogliere opinioni, pareri e suggerimenti sugli Stati Generali dell’Esecuzione Penale. "Pur essendo positivo il calo del numero dei detenuti - aveva detto - la qualità della vita all’interno delle carceri rimane sotto agli standard costituzionali. C’è molto da fare". Per questa ragione, in queste ore, tutti i direttori degli istituti penitenziari italiani si sono visti recapitare la convocazione a Roma da parte del Dap su ordine diretto del Ministro della Giustizia. Il Guardasigilli vuole sentire il parere dei direttori e misurare il polso della situazione delle carceri prima di richiudere la "finestra" degli Stati Generali dell’Esecuzione Penale, aperta a maggio e da chiudere il 15 ottobre. Giustizia: Mauro Palma nominato Presidente dell’Autorità Garante nazionale dei detenuti Adnkronos, 5 settembre 2015 Il Consiglio dei ministri ha deliberato, su proposta del ministro della Giustizia Andrea Orlando, l’avvio della procedura per la nomina di Mauro Palma a presidente, nonché di Francesco D’Agostino e di Emilia Rossi a componenti del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale. Giustizia: l’Anm contro Cantone "offensivo e ingiusto dire che pensiamo alle ferie" di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 5 settembre 2015 Sabelli al capo dell’Anticorruzione: critiche superficiali. Dall’altra parte dell’Oceano, il presidente dell’Associazione nazionale magistrati Rodolfo Sabelli legge con qualche ora di ritardo le considerazioni del collega Raffaele Cantone, chiamato da Renzi al vertice dell’Autorità anticorruzione, pubblicate ieri su "l Foglio". Riassunte così nel titolo: "Cantone choc sulla magistratura. Le correnti? Un cancro. Csm? Centro di potere vuoto. L’Anm? Non mi sento rappresentato". Nell’articolo, la critica al "sindacato dei giudici" è spiegata con un "faccio fatica a pensare di essere difeso da un soggetto che si batte per tenere il numero di ferie a 45 giorni". Lì per lì il presidente dell’Anni ritiene di non replicare, anche perché si tratta di frasi pronunciate alla presentazione di un libro molto critico verso la magistratura associata e altri presunti vizi delle toghe (scritto da un ex procuratore in pensione e dal direttore del Foglio, autore dell’articolo sul giornale), certamente "estrapolate dal contesto complessivo". Poi però ci ripensa e decide di reagire. 0 meglio, puntualizzare. "Perché viviamo una fase - dice - in cui siamo passati dagli insulti a una più sottile ma sistematica delegittimazione, della magistratura e dell’associazione che la rappresenta. Questo può dispiacermi ma non mi sorprende, perché conferma quanto possa essere scomodo il ruolo anche critico che l’Anni ha il diritto e il dovere di svolgere, difendendo le prerogative costituzionali, ragionando su ciò che accade e offrendo le proprie valutazioni". Così, in attesa di salire sull’aereo per l’Italia, Sabelli risponde ad alcune "dichiarazioni attribuite a Cantone". La prima, sull’Anni: "Sono francamente stupito da una descrizione tanto riduttiva quanto offensiva della nostra attività. Ridurci a un gruppo che si lamenta per il taglio delle ferie è oltraggioso, perché noi abbiamo contestato non il merito ma il metodo di un provvedimento contrabbandato come soluzione al problema della giustizia lenta. Cantone sa bene che cosa fa l’Anni, e non solo in quanto iscritto. Perché non ha parlato del protocollo che abbiamo firmato con lui, la Procura nazionale antimafia e il ministero dell’Istruzione per la diffusione della cultura della legalità nelle scuole? Lui conosce le iniziative in difesa dell’indipendenza del nostro ruolo, gli interventi tecnici sui temi di nostra competenza nelle sedi istituzionali, e in tante occasioni è stato in sintonia con noi; mi colpisce che la sua critica si fondi su un presupposto tanto banale quanto falso, per come viene propagandato". Il secondo affondo dell’ex pm passato all’Anticorruzione riguarda le correnti, e pure su questo Sabelli ha qualcosa da ridire: "È un altro giudizio troppo superficiale, non si può ridurre tutto alla degenerazione delle correnti, problema che esiste e che anche noi abbiamo denunciato da tempo. Ma non sono le correnti né tantomeno il Csm ad aver inventato i centri di potere, evidenti e occulti; siamo ben consapevoli che non tutto funziona come dovrebbe però dipingere tutto come un sistema marcio è ingiusto, oltre che sbagliato. Soprattutto da parte di chi ricopre ruoli istituzionali". Quanto all’azione penale obbligatoria, principio "bellissimo ma inattuabile" secondo Cantone, Sabelli ribatte: "Le difficoltà ad attuarlo derivano da problemi organizzativi e di regole processuali; perché non si pensa a intervenire efficacemente su quelli prima di mettere in discussione il principio?". A sentire Sabelli, sembra che l’ex pm si sia prestato a contribuire, consapevolmente o meno, a una campagna contro la magistratura associata condotta da altri. Quasi accettando di essere strumentalizzato. È l’opinione del presidente dell’Anm? "No, non penso questo. Però certe visioni distorte rischiano di contribuire a quella delegittimazione continua e strisciante nei nostri confronti che invece oggi si percepisce chiaramente. E non è un bel segnale". Anche il Movimento per la giustizia, la corrente a cui è iscritto Cantone, esprime stupore: "Gli improvvisi e violenti attacchi, se confermati, sarebbero un ulteriore vulnus alle istituzioni". Giustizia: Mafia Capitale. Il sindaco Marino contro Alfano "il suo dossier è datato" di Giovanna Vitale La Repubblica, 5 settembre 2015 La replica del ministro al sindaco: tu sei lì già dal 2013. Iniziata la "coabitazione" tra primo cittadino e prefetto. Prove tecniche di coabitazione forzata. Dopo giorni di polemiche, frizzi a distanza e telefonate intercontinentali "tra una immersione e l’altra" (copyright Franco Gabrielli), il primo faccia a faccia tra il sindaco e il prefetto di Roma sul commissariamento soft del Campidoglio - sfuggito par un soffio allo scioglimento per mafia - fila via all’insegna della concordia Almeno apparente. Che al di là delle parole pronunciate in pubblico, il tutor nominato dal governo non ha alcuna intenzione di fare il passacarte: "Intanto ho chiesto di mandarmi subito tutti gli atti varati fino a oggi", confiderà più tardi ai suoi, "e noi li controlleremo uno ad uno". Lo dice con enfasi Ignazio Marino, al termine dell’ora e mezzo di colloquio allargato all’assessore alla Legalità Alfonso Sabella, l’ex pm ormai assurto al ruolo di salva-vita (politica) "Abbiamo avuto un confronto lungo e costruttivo e ho avuto la possibilità di illustrare il lavoro compiuto in questo ultimo anno. Quanto ò stato presentato dal ministro Alfano il 27 agosto (nel corso del Cdm che ha chiuso ‘il caso Roma", ndr) è una fotografia del Comune datata al 2014". Lo ribadisce l’ex capo della Protezione civile, esaltando il rapporto di "leale collaborazione con l’amministrazione iniziata non adesso, ma il 3 aprile, quando mi sono insediato", e ciò "al di là della volontà di rappresentare contrapposizioni, scontri e discese in campo, in una città in cui purtroppo è morta anche l’ironia". Una frecciata neanche troppo velata al sindaco che ora gli annuisce accanto, ma che in privato gli aveva fatto notare - con il suo solito sorriso irridente - come "il giorno che ci siamo sentiti non stavo a fare immersioni". Sottinteso: quella battuta, rimbalzata su tutti i Tg, te la potevi pure risparmiare. Un minuetto consumato in favor di telecamere, in un Palazzo Senatorio che ha bandito le domande: i cronisti trasformati in semplici spettatori, senza la possibilità di chiedere alcunché. Che però non passa inosservato. Perché se anche Gabrielli conferma, addolcendolo, come "le indicazioni del ministro Alfano fanno riferimento alla storiografia di un tempo che non è più quello attuale", l’inquilino del Viminale spedisce al sindaco-chirurgo un telegramma al vetriolo: "Marino ha assolutamente ragione, la mia foto su Roma è datata al 2014, mentre gli ricordo che lui è stato eletto nel 2013". Chiaro il messaggio: solo l’inchiesta del procuratore Pigliatone ha interrotto il malaffare in Campidoglio, fiorente anche nel primo anno di centrosinistra. Ha perciò poco da vantarsi il sindaco che - con Gabrielli affianco - aveva appena rivendicato come "questa amministrazione sia cambiata rispetto alla giunta di Alemanno", elencando tutte le contromisure finora adottate, dal regolamento sugli appalti alla centrale unica degli acquisti, per contrastare la corruzione. Provvedimenti che comunque "fanno ben sperare", sospira il prefetto, augurandosi di poter dare, alla fine dei severi controlli già concordati con Alfano, "una sorta di bollino di qualità all’amministrazione", necessario "per affrontare con serenità gli innumerevoli problemi ed eventi planetari" che attendono la capitale. Prerogativa - l’ultima parola sugli atti della giunta Marino - che dunque Gabrielli reclama come sua. "Sopire e troncare, troncare e sopire", eccola la strategia che l’ex capo del Sisde mutua dai Promessi Sposi per sopravvivere alla tempesta romana. Non a caso "sorrido amaro quando sento parlare di duopoli, commissariamenti, consolati o superpoteri", scandisce nel tentativo di tranquillizzare un Marino indisponibile a farsi rappresentare come un sindaco dimezzato. "Ci sono solo i poteri in capo al prefetto sulle procedure che devono essere verificate, sapendo che ci troviamo in una città dove è avvenuto un fatto molto grave e c’è un’inchiesta importante in corso". Ma, al di là delle tattiche, l’irritazione di Palazzo Chigi resta Come pure la preoccupazione del Vaticano circa i ritardi accumulati dal Campidoglio sul Giubileo. Cosi se ieri il sottosegretario De Vincenti apriva alla possibilità di reperire risorse aggiuntive, monsignor Rino Fisichella sospirava "Ci sono ancora tante istanze da realizzare, dall’accoglienza dei pellegrini alla mobilità e al traffico, ma confido che l’8 dicembre Roma e l’Italia saranno pronti a questo grande appuntamento mondiale". Per Marino, vietato sbagliare. Giustizia: il Pg di Napoli, Riello "si abbassa l’età del crimine e le pene non si scontano" di Leandro Del Gaudio Il Mattino, 5 settembre 2015 Il punto centrale di ogni nostro ragionamento è sempre quello: l’efficacia della pena, la sua effettiva capacità di sanzionare una condotta sbagliata. A Napoli, ma anche in altri contesti italiani, il punto è questo: la pena, la sua esecuzione, i suoi effetti su chi delinque. Tornato in città dopo anni in forza alla Procura generale della Corte di Cassazione, il procuratore generale Luigi Riello ha le idee chiare su quanto sta avvenendo a Napoli e sulle possibilità di invertire la rotta in tema di contrasto al crimine organizzato e alle tante illegalità che si registrano sul territorio. Procuratore generale, un’estate difficile, qual è il suo punto di vista? "Condivido la tesi del procuratore Colangelo, c’è un pericoloso abbassamento dell’età di chi delinque, ormai appare chiaro. Uno scenario contro il quale lavoriamo con fiducia e tenacia, nella coscienza che ogni problema può essere risolto, anche sul presupposto che la parte buona della società napoletana è molto più ampia di quanto si possa pensare e va incoraggiata a collaborare con lo Stato e a denunciare i reati che subisce". Rispetto agli anni Novanta, meno clan strutturati, più baby gang, da cosa dipende questa mutazione del fenomeno criminale? "Un punto essenziale è l’effettività della pena, le sanzioni non scoraggiano, è un problema di norme". In che senso? "Faccio qualche esempio: il carcere non si sconta fino a una condanna a tre anni di reclusione; un anno penitenziario è più breve di un anno scolastico, non è mai di 12 mesi, ma di sette mesi; poi esistono altri snodi procedurali che consentono di uscire con largo anticipo dal carcere grazie a sconti e benefici. È come se il legislatore avesse puntato l’attenzione solo su alcuni reati (quelli di criminalità organizzata o comunque aggravati dalla finalità mafiosa), rendendo spuntata l’azione giudiziaria su altre condotte, come quelle predatorie (scippi e rapine), che invece incidono molto sulla vivibilità. Va ricordato che accanto al rispetto del cittadino imputato occorre una maggiore attenzione dei diritti delle persone offese dai reati". Scusi se la interrompo, ma al di là di quanto stabilito in Parlamento, va detto che i provvedimenti vengono stabiliti di volta in volta dai magistrati nei rispettivi distretti: insomma, se un minore o uno scippatore incassano benefici che annacquano l’azione giudiziaria dipende in larga parte da suoi colleghi giudici. Non crede che occorre una maggiore se verità da parte dei suoi colleghi? "Non mi risulta che qui a Napoli esista un atteggiamento buonista, posso solo ricordarle che da Bolzano a Mazzara del Vallo il sistema è lo stesso, c’è uniformità ai principi normativi nazionali". Sì, ma qui a Napoli, la realtà è più complessa, anche perché tra reati predatori e crimine organizzato spesso non c’è un distacco radicale. Come intervenire in uno scenario così complesso? "I benefici non vanno cancellati, ma vanno previsti a coloro che davvero li meritano, non possono essere dispensati all’ingrosso. Il carcere non è sempre la sola risposta, lo dico anche pensando alle condizioni delle nostre case circondariali che necessitano investimenti concreti, ma le sanzioni devono essere reali. Faccio qualche esempio: lavori socialmente utili, condotte riparatori e pene pecuniarie, insomma le sanzioni alternative al carcere non devono avvenire solo sulla carta, ma devono essere momenti concreti e necessari a ripensare una condotta sbagliata. Solo in questo modo, un minorenne ha la possibilità di comprendere il disvalore della propria azione, solo così si può sperare in un’inversione di rotta". Il procuratore Giovanni Colangelo si è rivolto alle mamme dei più giovani, chiedendo una loro assunzione di responsabilità diretta: condivide questo tipo di riflessione? "Ovviamente sì, anche perché il solo approccio penale non può bastare. Tutti, qui a Napoli più che altrove, sono chiamati ad assumersi le proprie responsabilità, a partire dalle famiglie e dalle scuole, ma penso anche ai servizi sociali e alle altre realtà in grado offrire un contributo". Procuratore, domenica notte una rissa al San Paolo ha riproposto il tema della sicurezza sugli spalti di Fuorigrotta: possibile tollerare zone franche in materia di legalità? "Ovviamente no, ma le posso assicurare che il questore sta facendo un lavoro enorme e che quando si verifica una rissa in uno spazio occupato da ventimila persone non è facile intervenire". Già, ma dopo quelle immagini del San Paolo, lei la chiuderebbe la curva A? "Non sta a me dirlo, bisogna aspettare le conclusioni degli organi di polizia". Giustizia: il Pm di Napoli Colangelo "il carcere o il cimitero nel futuro dei vostri figli" di Leandro Del Gaudio Il Mattino, 5 settembre 2015 Colangelo alle madri dei baby boss: intervenite. Rendere effettiva la pena, più spedito il processo, uscire da una logica di emergenza e ragionare sulle cause del crimine: con un approccio complesso, su più livelli. Eccoli i punti cruciali nella lotta alle tante forme di illegalità a Napoli e provincia, secondo il capo della Procura di Napoli Giovanni Colangelo. Vuoi che si parli di camorra, di paranze di baby boss, vuoi che si ragioni sulle risse al San Paolo, lo scenario napoletano è oggettivamente complesso. Procuratore Giovanni Colangelo, è stata un’estate difficile sul fronte della repressione del crimine: anche ad agosto ci sono stati omicidi e scene di violenza. Che sta succedendo a Napoli? "L’ho detto di recente anche in commissione parlamentare antimafia, il quadro è chiaro: abbiamo arrestato i padri, i nonni, gli zii, per cui si registra un pericoloso abbassamento dell’età criminale. Restano in circolazione i più giovani, che approfittano dei vuoti ed entrano nel sistema criminale. Sono sfrontati e impuniti, sono oggettivamente pericolosi". Uno scenario poco rassicurante... "Guardi, tutti i boss più importanti sono agli arresti, anche latitanti che sembravano imprendibili sono stati assicurati alla giustizia, la caccia ai patrimoni criminali non è mai cessata. Intanto, tutti in Procura lavoriamo con la migliorare le cose; stessa fiducia si registra nei ranghi delle forze dell’ordine, ma qui la realtà è complessa e va affrontata con un approccio strutturato, che richiede anche altri strumenti. Insomma, solo con l’intervento penale, certi quartieri non vengono bonificati, ci vuole un’assunzione di responsabilità da parte di tutti". A cosa si riferisce? "Prendiamo le madri di questi ragazzi che si atteggiano a boss o a camorristi: loro, le mamme, devono sapere che chi delinque ha come sbocco il cimitero o la prigione. Poi prendiamo anche le zone in cui vengono commessi questi omicidi, parlo della Sanità o di Forcella, spaccati cittadini pieni di storia e di monumenti che andrebbero valorizzati dalle istituzioni e salvaguardati dai residenti. Lo ripeto, ci vuole un approccio ampio, modulato su più livelli, solo con arresti e sequestri il male non viene estirpato". Un mantra, quello del capo dei pm napoletani, che ha visto confermata l’analisi tracciata lo scorso giugno, dopo l’ultima maxi retata messa a segno a Forcella. Ricordate? Sessanta arresti contro la paranza dei bimbi, tutti riconducibili al cartello Amirante-Brunetti-Giuliano-Sibillo, che lasciavano ben sperare. Due mesi prima era stato lo stesso pool anticamorra napoletano a sgominare i Mazzarella, in uno scenario metropolitano che sembrava pacificato. Eppure, allora il Procuratore avvisò tutti: solo con gli arresti, non arriverà l’inversione di rotta. E non a caso, a carte rimescolate, la storia recente del centro storico è stata ancora segnata da violenza e omicidi, come in una sorta di liturgia criminale. E in altre zone della città, le cose non sembrano andare meglio, come raccontano le immagini del San Paolo, nel corso della prima partita casalinga del Napoli: una curva spaccata, decine di hooligan che si azzuffano, genitori e figli costretti a lasciare gli spalti. Procuratore una brutta immagine, ma sono ancora possibili zone franche? Possibile che in una città come Napoli si debbano tollerare zone off limits per lo Stato? "In astratto non è concepibile alcuna zona franca, in concreto esistono esigenze di ordine pubblico che rendono difficile un intervento in una curva popolata da ventimila persone. Da parte di prefetto e questore c’è attenzione altissima verso questi fenomeni, ma ogni intervento deve fare i conti con esigenze di tutela dell’ordine pubblico". Eppure in Inghilterra il fenomeno hooligan è stato debellato. "Anche in questo caso il problema è più ampio e va ricondotto agli strumenti di cui disponiamo". Qual è il caso italiano? Quali sono i punti deboli dei nostri interventi? "Io mi limito a far rispettare le regole, anche se credo che sia necessario intervenire sui tempi del processo penale e sull’effettività della pena: due punti che possono segnare la svolta quando si tratta di intervenire contro camorra e violenza". Giustizia: caporalato, attacco all’area grigia di Gianmario Leone Il Manifesto, 5 settembre 2015 Nuove misure allo studio. Il governo punta a colpire i patrimoni illecitamente accumulati attraverso lo sfruttamento dei lavoratori agricoli. Il governo continua nell’operazione di stringere il cerchio attorno al fenomeno del caporalato, seguendo la strada tracciata con gli annunci di qualche settimana fa: ovvero aggredire i patrimoni illecitamente accumulati attraverso lo sfruttamento dei lavoratori agricoli. È questa la linea su cui si muoverà l’esecutivo, illustrata dai ministri della Giustizia, Andrea Orlando e delle Politiche agricole Maurizio Martina in una conferenza stampa a via Arenula. "La reclusione ha un effetto negativo, l’aggressione ai patrimoni fa più paura di qualche mese di detenzione - ha spiegato il ministro Orlando - nell’ambito dell’area grigia che sta tra economia e organizzazioni criminali funziona molto di più l’aggressione patrimoniale". Le misure saranno contenute in emendamenti che confluiranno nel provvedimento sulle misure di prevenzione che è all’esame della Commissione Giustizia della Camera. "Colpire i patrimoni è il presupposto per generare spazi di vita per le imprese agricole che vogliono vivere nella legalità e nel rispetto delle regole", ha aggiunto il ministro Martina. Orlando ha sottolineato come il fenomeno del caporalato sia "una piaga della storia del lavoro nel nostro Paese, che è stata combattuta negli anni ma che conosce adesso la recrudescenza allarmante" complice "la crisi economica e la forte disoccupazione". Per il ministro Martina "il caporalato ha radici antiche ma è riemerso con grande evidenza. Le misure indicano un cambio di passo del governo che preso in carico una lotta senza quartiere al fenomeno. Lo dobbiamo a chi lavora nei campi e alle tante imprese che lavorano rispettando le regole. La legalità deve diventare un elemento di competitività". Le misure proposte prevedono la confisca obbligatoria del profitto del reato e dei beni utilizzati per commetterlo, e la confisca per equivalente di altri beni di cui il condannato abbia la disponibilità. Nell’elenco dei reati per cui scatteranno questi provvedimenti ci sarà anche l’intermediazione illecita e lo sfruttamento del lavoro. Il reato di caporalato viene inoltre inserito tra quelli per i quali sono previste la responsabilità amministrativa da parte degli enti e l’indennizzo per le vittime. È bene però ricordare che il caporalato è soltanto un anello della catena dello sfruttamento del settore agro-industriale, che vede in primo piano sia la grande distribuzione organizzata che le industrie di trasformazione e gli commercianti. Del resto, per chi si arricchisce dalla filiera agro-alimentare, il caporale è niente di più che uno strumento, certamente importante, per il reclutamento e il controllo dei lavoratori e delle lavoratrici, così come lo sono le vie legali di intermediazione di manodopera, come ad le agenzie interinali o le cooperative, che operano in tantissimi settori oltre a quello dell’agricoltura. Il caporale non è e non può essere l’unico colpevole di quanto avviene ogni anno nelle campagne italiane e soprattutto in quelle del Sud, quest’anno tristemente funestate da ben quattro morti. Intanto proseguono serrati i controlli delle forze dell’ordine: nelle ultime ore la Guardia di Finanza ha identificato soltanto nel barese 500 lavoratori dei quali 43 assunti a nero e 11 irregolari. Sono, inoltre, in corso accertamenti riguardo alla posizione di altri 61 lavoratori nelle province Bari e Bat. Ben 36 le aziende agricole controllate. Riguardo ai lavoratori a nero, sono state avviate le procedure per l’irrogazione della sanzione che va da 1.950 euro a 15.600 euro per ogni posizione irregolare. Tra i lavoratori in nero sono stati identificati anche sei migranti con regolare permesso di soggiorno. Infine, due buone notizie. La prima arriva dalla provincia di Foggia, dove nei giorni scorsi la OP Mediterranea, sigla che sta per organizzazione di produttori, a seguito di una denuncia della Flai Cgil Puglia ha espulso un suo associato per non aver pagato quattordici braccianti avuti alle dipendenze per quattro giornate, "e cosa più importante - ha commentato commenta il segretario generale Daniele Calamita - stabilendo una sorta di responsabilità etica in solido con gli associati, la stessa OP ha provveduto essa stessa a rimborsare delle spettanze dovuto i lavoratori, tutti di origine centroafricana". La seconda arriva da Taranto dove è stato siglato un protocollo d’intesa per la nascita di una futura impresa agricola modello in grado di strappare terreni all’abbandono e offrire un’occupazione a lavoratori detenuti ed ex detenuti. L’iniziativa ha lo scopo di creare "opportunità di reinserimento sociale e lavorativo nel settore agricolo". A tal fine l’amministrazione penitenziaria si è impegnata "a cedere in comodato d’uso gratuito i terreni di propria pertinenza all’azienda agricola che verrà individuata". Piccoli segnali positivi per quella riconversione culturale oramai non più rinviabile per questo paese. Giustizia: lotta al caporalato, saranno confiscati i beni degli schiavisti di Silvia Barocci Il Messaggero, 5 settembre 2015 Non è una pena tra i cinque e gli otto anni di carcere a scoraggiare gli sfruttatori del lavoro di chi, per necessità o per vessazione subite, si spacca la schiena sui campi. Talvolta fino a rimetterci la vita, come è accaduto lo scorso luglio a Paola Clemente, la bracciante di 49 anni retribuita con appena 27 euro al giorno e morta dopo ore di estenuante fatica nelle campagne di Andria. Il governo ha deciso di intervenire contro la piaga del caporalato non tanto inasprendo le pene ma aggredendo i patrimoni dei nuovi schiavisti. "La reclusione è un deterrente relativo. Spaventa molto di più colpire la ricchezza accumulata con lo sfruttamento delle persone", hanno fatto notare il ministro della Giustizia Andrea Orlando e il responsabile delle Politiche Agricole Maurizio Martina. L’intervento preannunciato dal governo si concretizzerà in una serie di emendamenti al disegno di legge sulle misure di prevenzione ora all’esame in commissione alla Camera. Si è deciso di rendere obbligatoria la confisca del prodotto o del profitto del reato. In altre parole, in caso di condanna dei "caporali", il giudice ordinerà sempre la confisca, ad esempio, dei mezzi utilizzati per accompagnare i braccianti sul luogo di lavoro, degli immobili destinati ad accoglierli perla notte, come pure delle cose che ne costituiscono il prodotto o il profitto. La confisca potrà anche essere per equivalente, nel caso in cui non sia possibile attuare quella diretta dei beni del condannato. E ancora: il delitto di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro si aggiungerà all’elenco dei reati per i quali si può operare la confisca estesa e sarà aggiunto il reato di caporalato all’elenco dei reati per i quali alla vittima va riconosciuto il diritto all’indennizzo a carico dello Stato. Per il ministro Martina l’iniziativa del governo è "un cambio di passo" realizzato dai ministri della Giustizia e del lavoro con l’obiettivo di "andare oltre l’emergenza e costruire un piano articolato di contrasto che possa durare nel tempo". Il caporalato "è una piaga che ci fa vergognare. Nel corso degli anni è stata combattuta, ma ora, complice la crisi economica - fa notare il Guardasigilli Orlando - ha una recrudescenza preoccupante e contrastarla significa anche contribuire alla lotta alla criminalità organizzata". L’ultimo report che la Guardia di Finanza ha consegnato al governo delinea un quadro preoccupante: lo sfruttamento della manodopera, anche straniera, ha a che vedere con un’illegalità articolata su fronti che vanno dall’evasione fiscale e contributiva allo sfruttamento dell’immigrazione clandestina, fino alle frodi al sistema previdenziale. Solo nei mesi che vanno da giugno ad agosto le Fiamme Gialle hanno scoperto 2.745 lavoratori in nero e 1.972 irregolari. Di questi, ad essere impiegati nel settore dell’agricoltura e dell’allevamento sono rispettivamente 155 e 28. Sempre nello stesso settore, i datori di lavoro nero e irregolare scoperti sono stati 25 e 6. A scorrere i dati dall’inizio dell’anno ad oggi si scopre che alla magistratura sono stati segnalati o denunciati per manodopera irregolare ben 3.480 datori di lavoro. Giustizia: Cdm, sì a diritti dei conviventi se le vittime del reato sono morte Ansa, 5 settembre 2015 Con lo schema di decreto legislativo approvato dal Consiglio dei ministri, si completa un assetto di regole che assicura ancor più l’effettività dei diritti di partecipazione consapevole delle vittime al processo penale. Il Consiglio dei ministri di oggi, su proposta del presidente e del ministro della Giustizia, Andrea Orlando, ha approvato, in esame preliminare e in conformità alla legge di delega del 6 agosto 2013, il decreto legislativo di attuazione della direttiva 2012/29/Ue del Parlamento europeo e del Consiglio del 25 ottobre 2012 che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato e che sostituisce la decisione quadro 2001/220/Gai. Come è noto - prosegue il comunicato finale diffuso da Palazzo Chigi - l’Unione europea riserva una particolare attenzione ai diritti delle vittime dei reati ed è appena il caso di richiamare, tra i più atti normativi dell’Unione, la direttiva 2011/36/Ue (che sostituisce la Decisione quadro del Consiglio 2002/629/Gai), con cui sono state dettate norme minime relative alla definizione dei reati e delle sanzioni nell’ambito della tratta di esseri umani. Tale ultima direttiva è stata già attuata nel nostro ordinamento con il decreto legislativo n. 24 del 2014, e ciò concorre a dimostrare che la legislazione interna offre già una adeguata tutela alle vittime dei reati. Ora, con lo schema di decreto legislativo approvato dal Consiglio dei ministri, si completa un assetto di regole che - si legge ancora - assicura ancor più l’effettività dei diritti di partecipazione consapevole delle vittime al processo penale. Si pone in evidenza che, in attuazione di una precisa direttiva di delega, si arricchisce il sistema processuale interno così: si prevede che, ove la persona offesa sia deceduta in conseguenza del reato, le facoltà e i diritti previsti dalla legge siano esercitati, oltreché dai prossimi congiunti, ivi compreso il coniuge, dalla persona che alla vittima sia stata legata da relazione affettiva e con essa abbia stabilmente convissuto; si prescrive che, sin dal primo contatto con l’autorità procedente, la vittima abbia precisa informazione sui diritti che la legge le riconosce e le sia assicurata, per il caso in cui non conosca la lingua italiana, la possibilità di essere assistita da un interprete e di poter ottenere una traduzione gratuita di atti processuali essenziali all’esercizio dei suoi diritti; si prevede poi che la vittima di delitti commessi con violenza alla persona sia informata dell’eventuale scarcerazione o dell’eventuale evasione dell’imputato o del condannato; si dettano infine disposizioni per l’adozione con modalità protette della testimonianza della vittima che risulti, ad apprezzamento discrezionale del giudice, particolarmente vulnerabile, quale che sia il reato per il quale si procede. Giustizia: Luigi Chiatti esce di cella, tra le polemiche di Giuseppe Caporale La Repubblica, 5 settembre 2015 Il serial killer di Foligno uccise due bimbi, dopo 21 anni è ricoverato in una residenza sanitaria vicino a Cagliari. Per i periti è ancora "altamente pericoloso e non si è mai pentito". I giudici: "Ma non c’erano alternative". Niente più carcere, né polizia penitenziaria. Da oggi, quello che separa il mostro di Foligno dal resto del mondo è soltanto un muro. Il muro della struttura sanitaria dì Capoterra, vicino a Cagliari. È qui che Luigi Chiatti, 46 anni, dopo aver scontato appena 21 annidi carcere per l’omicidio di due bambini (Simone Allegretti, 5 anni e Lorenzo Paolucci, trascorrerà altri tre anni, sotto le cure di un’equipe di medici e infermieri. È stato un pasticcio all’italiana a spalancargli ieri mattina le porte del carcere di Prato: ergastolo in primo grado, condanna a 30 anni in appello e a seguire una serie di sconti dì pena (indulto e legge Gozzini). E sebbene Chiatti sia "un soggetto ad altissima pericolosità sociale" ed abbia "minacciato" gli operatori del carcere e un giudice - come si legge nel provvedimento del tribunale di Sorveglianza di Firenze notificato poco più di un mese fa - l’unica soluzione possibile è una struttura sanitaria, in quanto gli ospedali psichiatrici giudiziari dal mese di marzo, in base alla riforma della sanità penitenziaria, sono stati aboliti. "Chiudere gli Opg è stato di certo un gesto di civiltà" commenta uno dei magistrati che ha seguito la vicenda Chiatti "ma è indubbio che ora la sfida in casi come questi si trasferisce dal piano detentivo a quello sanitario. Si tratta di una scommessa... Del resto non abbiamo avuto scelta. Non ci sono altre vie praticabili in base alla nuova norma, seppure nel caso del mostro di Foligno siamo davanti a una vicenda di eccezionale gravità". E a descrivere l’attuale "altissima pericolosità sociale dì Chiatti" sono stati i periti incaricati dalla corte d’Appello di Firenze. "Nonostante il trascorrere del tempo si rileva ancora un forte rischio di recidiva" scrivono i medici. "In Chiatti di recente è emerso uno stato di frustrazione e dì solitudine che potrebbe gestire in modo imprevedibile. Nei vari incontri che si sono succeduti non è stato riscontrato in lui mai nessun cenno di rimorso o un minimo dolore per ì fatti commessi". "Si tratta" sostengono nella loro relazione inviata al tribunale di Sorveglianza dì Firenze "di un disturbo delirante" con "una quota di aggressività repressa e la totale mancanza di un contatto con il proprio mondo interiore". "La vicenda Chiatti è il risultato di un pasticcio dietro l’altro del nostro sistema giudiziario" commenta amaro l’avvocato Giovanni Picuti, legale dei genitori delle vittime, "nessuno oggi può dirci cosa succederà. Eppure", ricorda il legale, "contestammo tutto da subito. Prima lo sconto a 30 anni per la seminfermità: per noi era evidente che Chiatti era lucido, consapevole delle sue azioni, altro che matto. Per capirlo è sufficiente leggere i file del suo computer dove annotava i pedinamenti dei bambini di Foligno. Poi provammo ad opporci anche al beneficio dell’indulto. Ma è stato sempre tutto inutile, E ora, c’è anche la beffa dell’assenza di strutture idonee". Preoccupato anche il commento di Alberto Speroni, poliziotto ora in pensione che nel 1993 arrestò il mostro di Foligno. "Chiatti mi disse che aveva fatto l’omicidio perfetto. Ancora provo rabbia per la freddezza messa in mostra da quello che all’epoca era un ragazzo di appena 20 anni. Sono convinto che non debba mai più tornare libero perché non può guarire, ma sarà la legge a decidere". Sardegna: 1.446 su 1.996 concentrati in 5 Istituti, Colonie penali occupate solo al 43,5% Ristretti Orizzonti, 5 settembre 2015 "Su 1.996 detenuti presenti in Sardegna, 1.456 sono concentrati in 5 Istituti; 315 sono suddivisi nelle tre colonie penali, 225 tra Badu e Carros e Alghero. Nonostante i 2.730 posti regolamentari, tre strutture penitenziarie su 10 sono sovraffollate e due al limite della capienza, mentre le Case di Reclusione all’aperto, con 723 posti disponibili, sono occupate solo per il 43,56%. È evidente che c’è qualcosa che non funziona". Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme", con riferimento ai dati diffusi dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria che fotografano la realtà isolana al 31 agosto scorso. "Nel mese appena trascorso nell’isola 3 Istituti su 10 hanno registrato la presenza di ristretti oltre la capienza regolamentare. In maggiore sofferenza - sottolinea Caligaris - le strutture di Tempio (181 reclusi per 167 posti) e Oristano (274 per 266), due realtà destinate alla detenzione in regime di Alta Sicurezza e/o con condannati all’ergastolo ai quali peraltro non è garantita la cella singola. Situazione stabile con sovraffollamento seppur contenuto a Lanusei dove sono reclusi 38 sex offender per 33 posti regolamentari. Al limite invece la situazione a Sassari-Bancali con 414 cittadini privati della libertà su 455 posti-letto (compresi i 92 del regime al 41bis non ancora del tutto occupati essendoci attualmente circa 70 ristretti) e a Cagliari-Uta dove 549 reclusi, molti dei quali con problematiche legate alla tossicodipendenza e/o in doppia diagnosi, convivono in 649 posti, compresi però i 92 del Padiglione del 41bis chiuso perché non sono stati portati a termine i lavori in seguito al fallimento di "Opere Pubbliche". E mentre le mega-strutture continuano a crescere nei numeri, con difficoltà gestionali per Direttori con doppi e tripli incarichi, per gli Agenti Penitenziari e per gli operatori, le Colonie Penali non vengono utilizzate pienamente e rischiano di decadere. I progetti di valorizzazione richiedono investimenti e attenzione altrimenti figurano specchietti per allodole". "L’immagine di una Sardegna detentiva senza problemi di sovraffollamento è quindi del tutto fuorviante e non corrisponde alla realtà. Il Ministero della Giustizia - evidenzia la presidente di Sdr - non può ignorare che a Mamone con 392 posti sono presenti solo 148 detenuti-lavoratori, a Isili per 176 sono impegnati solo 90 e ad Arbus con 155 possibilità di accogliere reclusi ce ne siano 77. Né può dimenticare che nell’isola mancano Direttori e Vice Direttori con la conseguenza che chi ha la responsabilità di un Istituto con il 41bis non può curare una Colonia e chi gestisce un Penitenziario di Alta Sicurezza a Tempio non può essere costantemente a Nuoro". "L’auspicio è che il nuovo Provveditore regionale Enrico Sbriglia, per quanto di competenza, possa rappresentare la difficoltà oggettiva in cui il sistema isolano si trova anche per le distanze e la viabilità. Il recupero dei detenuti e la risocializzazione possono avvantaggiarsi attraverso l’agricoltura e la pastorizia praticate nelle Colonie Penali. Una riflessione su questo - conclude Caligaris - non guasterebbe e dovrebbe interessare anche il Consiglio regionale, altrimenti meglio chiudere i battenti e restituire i terreni alle amministrazioni locali che se non altro potrebbero utilizzare le aree di pregio naturalistico a fini produttivi e turistici". Abruzzo: penalisti; Tribunale sorveglianza in abbandono, urge nomina nuovo presidente Askanews, 5 settembre 2015 Penalisti aquilani preoccupati per le sorti del tribunale di sorveglianza. In una nota gli stessi specificano: "come Penalisti aquilani non possiamo nascondere la nostra preoccupazione per lo stato di sostanziale abbandono in cui viene lasciato un importante Ufficio Giudiziario quale quello del Tribunale di Sorveglianza. Esso solo, infatti, verrà mantenuto presso quella che non a torto definimmo la "baraccopoli giudiziaria" di Bazzano. Elementari e di facile intuizione sono i problemi - dal punto di vista della sicurezza dei Magistrati, del personale di Cancelleria e degli stessi Avvocati, ma non solo: si pensi, ad esempio, che una istanza di permesso dovrà fare il viaggio (in macchina, naturalmente) da Bazzano a L’Aquila e ritorno solo per il parere della Procura o, ancora, alle concomitanze tra udienze di Gup Tribunale, Corte di Appello e lo stesso Tribunale di Sorveglianza - che si verranno a creare in virtù dell’improvvida scelta di abbandonare a sé stesso, in quella che a breve tornerà ad essere una landa desolata, l’Ufficio che ha giurisdizione sui condannati reclusi negli 8 Istituti Penitenziari abruzzesi. Se a ciò si aggiunge la circostanza che è vacante il posto di Presidente del Tribunale di Sorveglianza e che la sua nomina avverrà con i tempi biblici ed anacronistici del Csm, si ottiene un quadro assolutamente allarmante ed una situazione cui è necessario porre immediato rimedio. L’auspicio, quindi, è che si trovi con la massima sollecitudine una adeguata soluzione logistica anche per questo Ufficio e che, al più presto, si provveda alla nomina del nuovo Presidente dello stesso, anche in considerazione della moltiplicazione delle competenze createsi in capo alla Magistratura di Sorveglianza in virtù della più recente legislazione, figlia di scellerate scelte di politica giudiziaria, le stesse che hanno portato al collasso la situazione delle carceri italiane. Come Avvocatura penalista non potremo che vigilare attentamente denunziando ogni abuso, disfunzione o carenza". Siena: Fp-Cgil; nel carcere di Ranza carenza di acqua e di personale e problemi logistici Ansa, 5 settembre 2015 "Come ogni anno, in questo periodo, da troppi anni ormai torniamo a denunciare all’opinione pubblica e alle istituzioni le carenze strutturali del Carcere di Ranza a San Gimignano (Siena), in attesa di una riforma carceraria a tutela del personale e dei detenuti. Carenza di acqua, di acqua potabile, di personale, problemi logistici. Oggi il carcere ospita quasi 400 detenuti, tre quarti dei quali di massima sicurezza tra ergastoli, 416 bis (reati di mafia), ecc. e un altro centinaio di media sicurezza, persone che devono scontare reati comuni. Se la nuova "identità" del carcere, mutato lo scorso anno con detenuti in prevalenza di alta sicurezza - ed è di fatto l’unico carcere di massima sicurezza in Toscana - ha abbassato la percentuale di incidenti gravi e abbattuto i dati sull’autolesionismo, provando ad avviarsi ad essere un carcere modello, non mancano le difficoltà di gestione e soprattutto quelle lavorative del personale". Sono queste le parole che la Fp-Cgil di Siena utilizza in una nota stampa per puntare i riflettori su una questione vecchia ma non dimenticata, ovvero le attuali condizioni di dipendenti e detenuti della casa di reclusione sangimignanese. "Ora i dipendenti effettivamente in servizio sono circa 140 poliziotti penitenziari - continua - con diversi ruoli, ma dovrebbero essere 248. Per garantire i turni l’Amministrazione si gira dall’altra parte e non applica neppure la normativa che prevede l’esenzione dal turno notturno per gli ultra cinquantenni con trent’anni di servizio. Presto sarà in scadenza il Direttore, che era stato assegnato a Ranza dopo anni di carenze e nomine "fantasma", quindi nei prossimi mesi potrebbe essere a rischio anche la continuità di una direzione stabile". "Il 1° settembre - denuncia Fp-Cgil - un poliziotto è stato nuovamente aggredito da un detenuto. Un "ex camorrista", dopo episodi di resistenza passiva (si gettava a terra dopo la doccia per non rientrare in cella) e ripetute minacce ha "preso a manate" un poliziotto. È prontamente intervenuta la Commissione disciplinare mettendo in isolamento il detenuto, non avallando atteggiamenti del genere tenuti solo per ottenere un trasferimento od altri favori". "Questo episodio - conclude - però rappresenta le difficoltà di tutti giorni nel "gestire" la giusta pena da scontare per chi ha commesso reati, anche gravi come i reati per mafia. A chi si fa garante della giustizia e al poliziotto che ha subito l’ultima aggressione va tutta la nostra solidarietà ed appoggio affinché tutto ciò non accada ancora". Lamezia Terme: Comitato Riapriamo il Carcere "ormai scaduti i termini per il ricorso" lametino.it, 5 settembre 2015 "Scaduti anche i termini per il ricorso straordinario al Capo dello Stato per opporsi al decreto che il 22 aprile 2015 ha sancito la chiusura del carcere di Lamezia Terme". Così scrivono in una nota il Comitato Riapriamo il Carcere. "Nonostante il nuovo primo cittadino avesse risposto alle note di questo Comitato che: "In sinergia con tutta la Giunta, si è attivato cercando di porre rimedio alla stasi dell’Amministrazione precedente, analizzando la estrema possibilità di risolvere il problema, inoltrando un ricorso straordinario al Capo dello Stato, per il quale, non sono ancora spirati i termini decadenziali". Dichiarazioni rese il 25 agosto che hanno sortito l’unico effetto di mettere una pezza su due mesi dall’insediamento della nuova giunta, arco temporale più che sufficiente a non far "spirare" i termini e a presentare il ricorso straordinario senza stare tanto ad elucubrare sul risultato dello stesso. Si sarebbe evidenziata, in tal caso, la buona volontà di portare avanti la lotta per il nostro carcere laddove, per oltre un anno, sono stati latitanti i maggiori esponenti politici della nostra città e che anzi hanno avuto l’unico merito di strumentalizzare tale chiusura a fini esclusivamente elettorali. Poi il silenzio più scrosciante. Scrollatasi quindi di dosso la forse fastidiosa iniziativa di presentare ricorso, posta in essere dalla Giunta Speranza, ci si auspica che la Nuova Giunta, come dichiarato nella lettera del 2 settembre del Sindaco Mascaro, reclami il ripristino della Casa Circondariale con i mezzi che riterrà più validi e opportuni, perché se è vero che in due mesi non possono avvenire miracoli è altrettanto vero che i problemi di questa città sono gli stessi da decenni e le strategie da mettere in campo, altrettanto stagionate e risapute, necessitano della giusta ratio politica e dell’accordo tra le parti per metterle finalmente in atto. In questa sede il Comitato chiede ufficialmente un incontro con la Nuova Giunta comunale e il Signor Sindaco per discutere insieme le linee da adottare e le iniziative da intraprendere per ridare alla città il suo carcere, consapevoli che questo presidio di legalità non può esserci stato tolto grazie a "condivisioni inesistenti" e promesse "pateracchio", considerato che sarebbe come credere che gli asini volano, pensare che il Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria, che ha sede per legge nel capoluogo catanzarese, possa essere trasferito nell’ex carcere di Lamezia Terme, come promesso in piena campagna elettorale dal Capo del Gabinetto del Ministro della Giustizia Andrea Orlando". San Gimignano (Si): Fp-Cgil; poliziotto penitenziario aggredito da un detenuto Agi, 5 settembre 2015 Un poliziotto in servizio nel carcere di Ranza a San Gimignano è stato aggredito lo scorso primo settembre da un detenuto. È quanto denuncia in una nota la Cgil Funzione pubblica di Siena secondo la cui ricostruzione il responsabile sarebbe un "ex camorrista", che dopo episodi di resistenza passiva (si gettava a terra dopo la doccia per non rientrare in cella) e ripetute minacce ha "preso a manate" un poliziotto. Dopo l’intervento della commissione disciplinare del carcere il detenuto è stato messo in isolamento. Un episodio che va inquadrato nelle difficoltà che la struttura carceraria senese attraversa da tempo. Secondo la Cgil i problemi più evidenti sono carenza di acqua, acqua potabile, problemi logistici, carenza di personale. Oggi il carcere ospita quasi 400 detenuti, tre quarti dei quali - circa 300 - di massima sicurezza tra ergastoli, 416 bis (reati di mafia), e un altro centinaio di media sicurezza, persone che devono scontare reati comuni. Mentre i poliziotti penitenziari effettivamente in servizio sono circa 140 con diversi ruoli, ma dovrebbero essere 248. Torino: Osapp; detenuto sale su tetto del carcere e minaccia il suicidio La Presse, 5 settembre 2015 Un detenuto di nazionalità senegalese di 25enne si è arrampicato sul tetto del cortile del carcere di Torino, avvolgendosi un lenzuolo al collo e minacciando di impiccarsi per protestare contro il sistema giudiziario e penitenziario. Il fatto è accaduto questa mattina alle 10.45. Sul posto sono intervenuti, oltre alla polizia penitenziaria, i vigili del fuoco. A dare notizia è il segretario generale Leo Beneduci del sindacato Osapp (Organizzazione sindacale autonoma polizia penitenziaria). "Nel giro di due mesi è il terzo detenuto che nel carcere di Torino assume analoghe iniziative salendo sui tetti dell’istituto - prosegue Beneduci - a riprova del disagio che da mesi grava sulla struttura, compromettendone sia la vivibilità lavorativa e sia le condizioni di detenzione". Tra l’altro non a caso come Osapp avevamo denunciato che anche il lassismo e il permessivismo posto in essere dalla locale direzione per quanto riguarda i procedimenti disciplinari intrapresi dal personale di polizia penitenziaria nei confronti dei detenuti responsabili di gravi atti e mai conclusi avrebbero comportato un pericoloso scadimento delle condizioni generali della struttura e quanto colà accade ogni giorno ci rende facili profeti", aggiunge Beneduci. Taranto: detenuti al lavoro nei campi "nasce così un’impresa agricola modello" Giornale di Puglia, 5 settembre 2015 Sporcarsi le mani restando "puliti". Un apparente paradosso spiega il senso del protocollo d’intesa firmato questa mattina nella Casa Circondariale "C. Magli" di Taranto, punto di partenza per la nascita di una futura impresa agricola modello in grado di strappare terreni all’abbandono e offrire un’occupazione a lavoratori detenuti e, in una fase successiva, anche ad ex detenuti. Al tavolo, per la sigla, il direttore dell’istituto di pena Stefania Baldassari e il presidente di Confagricoltura Taranto Luca Lazzaro. Il protocollo getta le basi per un progetto che prenderà corpo in tempi brevi, appena ricevuta l’approvazione e i finanziamenti da Cassa Ammende e dai competenti uffici ministeriali. L’idea che sta all’origine del protocollo, in continuità con l’intesa fra il Ministero della Giustizia - Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria - e Confagricoltura nazionale, è quella di far nascere un’impresa agricola nei terreni della Casa Circondariale, che dispone di circa due ettari inutilizzati all’esterno del muro di cinta e di "manodopera" cui offrire, per così dire, una seconda chance durante la detenzione. Il progetto, infatti, è destinato a lavoratori detenuti in modo - così si legge nel protocollo - da "creare opportunità di reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti nel settore agricolo, prevedendo l’assunzione di almeno alcuni detenuti coinvolti nel progetto da parte dell’azienda". A tal fine l’Amministrazione penitenziaria si impegna "a cedere in comodato d’uso gratuito i terreni di propria pertinenza all’azienda agricola che verrà individuata e a mettere a disposizione i detenuti in regime di art. 21 Op nel numero che sarà quantificato dall’azienda rilevatrice per lo svolgimento dell’attività agricola e l’eventuale inserimento lavorativo". Detto del ruolo e della disponibilità della Casa Circondariale, toccherà a Confagricoltura Taranto offrire "un’assistenza mirata nel campo legale, fiscale, previdenziale e tecnico-economica", oltre che "fornire ogni utile contributo per l’individuazione di partner imprenditoriali idonei al perseguimento degli obiettivi" del protocollo d’intesa e "attuare ogni intervento utile a convertire i terreni di pertinenza della Casa Circondariale al fine di renderli produttivi". "È il primo protocollo del genere in Italia siglato da Confagricoltura - spiega il presidente Luca Lazzaro - ed è un motivo d’orgoglio per noi, anche perché s’inserisce nell’ottica della funzione sociale oltre che economica dell’agricoltura, un punto qualificante dell’azione della nostra organizzazione sul territorio. Saremo al fianco della Casa Circondariale di Taranto seguendo da vicino il progetto e mettendo a disposizione le nostre competenze e professionalità". Il lavoro nei campi, insomma, come strumento di riabilitazione e formazione professionale nella direzione indicata dall’art. 27 comma 3 della Costituzione: "Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato". "Ci muoviamo pienamente nello spirito della Costituzione - afferma Stefania Baldassari, direttrice dell’Istituto Penitenziario - e in linea con i contenuti del protocollo d’intesa siglato a livello nazionale dal ministro della Giustizia Orlando e dalla Confagricoltura. Si tratta di dare un’ulteriore opportunità alla struttura per poter operare nell’ottica di rieducazione e socializzazione della popolazione detenuta". Il progetto, per quanto utile al reinserimento sociale, è però pensato anche per "funzionare" economicamente, visto che l’impresa agricola dovrà sostanzialmente sostenersi da sola. Le parti, infatti, si impegnano "a promuovere la commercializzazione dei prodotti mediante vendita agli Istituti Penitenziari anche della Regione non escludendo la commercializzazione sul libero mercato". "Nella fase di coltivazione - aggiunge il direttore - saranno coinvolti i detenuti in regime di articolo 21, ma non escludo che nella commercializzazione siano utilizzati anche ex detenuti". L’obiettivo finale non è solo raccogliere i buoni frutti che verranno dalla terra ma anche trasformare detenuti in persone migliori. Grazie al lavoro che, come recita un adagio che non passa mai di moda, è ancora in grado di nobilitare l’uomo. Roma: Baby Book-Cycle, testi scolastici riciclati a centri per rifugiati e carceri minorili Adnkronos, 5 settembre 2015 Far sì che i libri arrivino alle comunità che non se li possono permettere. Questa è la missione di Baby Book-Cycle, un progetto dell’associazione no profit Book Cycle che da quattro anni raccoglie i testi scolastici nelle scuole romane e da privati per spedirli ai Centri per rifugiati e richiedenti asilo in tutta Italia e nelle carceri minorili. Libri di storia, geografia, educazione civica e grammatica italiana, assieme a romanzi in lingua straniera o con traduzione a fronte, dizionari monolingue e bilingue, tutto il necessario perché le persone accolte nei Centri possano imparare l’italiano gratuitamente. Ma anche libri di tecnologia, di cucina, fumetti, testi religiosi. Lo scopo è permettere il riutilizzo di testi ben conservati, altrimenti destinati al macero o inutilizzati, rendendo partecipe il sistema scolastico di un progetto sociale ed educativo. "Abbiamo messo delle scatole di raccolta libri in cinque scuole del VI Municipio di Roma e andiamo a svuotarle ogni due o tre mesi - spiega la volontaria Angela Processione - ma a inizio settembre ci sono molte donazioni anche da privati, soprattutto lettori forti che, svuotando le loro biblioteche, hanno il piacere di sapere che i loro libri possono avere un’utilità sociale. I libri non destinati ad essere spediti li vendiamo a offerta libera per finanziare le spedizioni, perché la nostra associazione non ha finanziamenti esterni". Una volta arrivati a destinazione, sono gli operatori dei Centri a occuparsi di organizzare le biblioteche e di distribuire i volumi ai ragazzi: "A riceverli sono laureati, bambini, analfabeti, persone di tutte le classi sociali - continua Processione - non abbiamo un conteggio preciso, ma nei quattro anni avremo inviato circa 20mila libri". L’ultima spedizione a luglio 2015, quando Book Cycle ha spedito grammatiche, testi di matematica, vocabolari e fumetti alla cooperativa "La vita è adesso" di Caltagirone: a riceverli sono stati 50 minori provenienti da Senegal, Sierra Leone, Guinea, Costa d’Avorio, Gambia, Nigeria, Egitto e Mali". "A maggio 2015, Book Cycle - grazie alla collaborazione dell’associazione Antigone e della casa editrice L’Asino d’oro - è riuscita ad ampliare il suo raggio d’azione e a spedire 20 colli di libri nei carceri minorili di Roma, Torino, Pontremoli e Bari. "Abbiamo mandato libri scolastici per istituti superiori, molti nuovi grazie alle donazioni di alcuni insegnanti che ci hanno regalato le loro copie omaggio", spiega la volontaria. Tra le altre destinazioni, i Centri Sprar di Roma, Prato, Arezzo, Parma, dell’Isola di Capo Rizzuto e di Forlì. Immigrazione: l’immagine del bambino che ribalta la xenofobia di Carlo Freccero Il Manifesto, 5 settembre 2015 A partire dal dopoguerra, l’opinione pubblica non è più condizionata dalla pagina scritta, ma piuttosto da immagini che, poste una dopo l’altra, raccontano la storia del Novecento. Pensiamo al fallimento da parte degli Usa della guerra in Vietnam a causa delle crude immagini di guerra. Da cui la censura visiva totale che ha colpito la prima Guerra del Golfo, denominata perciò "la guerra che non ha mai avuto luogo" ed infine ai fotografi embedded nella seconda, che dovevano conferire al conflitto una valenza eroica e patriottica. Chiunque poi si interessi di propaganda, sa che l’argomento "strage di bambini" sia per immagini, che per testimonianza scritta, rappresenta l’argomento infallibile per piegare l’opinione pubblica alla propaganda di guerra. Strage di bambini sono state attribuite a Sadam Hussein e, più recentemente ad Assad, per giustificare interventi bellici, altrimenti difficili da giustificare. In breve tempo abbiamo ricevuto due immagini che ribaltano la xenofobia contro i profughi, sino ad oggi prevalente. La prima è l’immagine della signora greca che piange abbracciata al profugo che ha appena salvato, raccogliendolo in mare. Lo schema è quello di una moderna pietà dove, come nella prima Pietà di Michelangelo, una donna giovane e bella sostiene il corpo abbandonato del figlio coetaneo. Ma è la seconda immagine che ha influito più profondamente sul nostro immaginario. È l’immagine del bambino profugo morto sul bagnasciuga, inquadrata a partire dalle scarpette da bambolotto. Questa immagine è estremamente straziante perché ritrae un bambino iper-infantile secondo gli schemi della psicologia visiva. Qui l’efficacia non passa attraverso il disgusto e l’indignazione che un corpo martoriato di bambino non può non comunicare. Il corpicino è integro e sembra dormire. È vestito all’occidentale e sembra uno di noi. Quello che provoca è tenerezza e desiderio di accudimento. Siamo annientati perché non possiamo fare più niente per lui, prenderlo in braccio, cullarlo, portarlo in salvo come il nostro inconscio vorrebbe. È un raro caso di messaggio progressista. Immigrazione: Zagrebelsky "i diritti umani non sono più il cemento dell’Europa" di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 5 settembre 2015 La foto del piccolo Aylan, cadavere sulla spiaggia di Bodrum, ha risvegliato sentimenti di commozione e di umana pietà e al tempo stesso ha imposto di guardare alle guerre degli Stati intorno al Mediterraneo, che di quel mare hanno fatto un cimitero, nonché alle pesanti responsabilità occidentali. Tuttavia, quello scatto evoca anche un sano senso di colpa, di vergogna, per l’incapacità dell’Europa di garantire accoglienza e, soprattutto, rispetto della dignità umana. Come si concilia, infatti, l’Europa dei fili spinati, che alza muri e marchia in modo indelebile uomini, donne, bambini, con l’Europa dei diritti umani? Com’è possibile che le Corti europee stiano a guardare impotenti ciò che accade in Ungheria? E che gli Stati siano sordi al richiamo di quelle Corti al rispetto dei diritti fondamentali? Dove sono finiti - se ci sono mai stati - gli anticorpi contro il razzismo, in un’Europa che aveva scelto il motto: "uniti nella diversità"? "C’è un progressivo disfacimento dell’idea dei diritti umani come cemento dell’Europa, perciò comprendo lo smarrimento", dice Vladimiro Zagrebelsky, per anni giudice italiano alla Corte europea dei diritti dell’uomo. "La mia principale preoccupazione - aggiunge - è soprattutto il riemergere di nazionalismi, di una contrapposizione tra "noi" e "gli altri" sempre più crescente e pericolosa tra gli Stati". Se ne è avuta una rappresentazione plastica a Ventimiglia, con le polizie italiana e francese schierate contro nel far passare la frontiera ai migranti o nel bloccarli. E così anche a Calais. Zagrebelsky premette che quando si parla di migranti bisogna distinguere la dimensione sociale, politica e umanitaria da quella individuale. Quanto alla prima, "manca un comune sentire tra gli Stati", ciascuno dei quali pensa a se stesso, cavalcando umori e sentimenti dell’opinione pubblica, da cui dipende la sopravvivenza dei governi. La dimensione individuale, invece, è quella che investe le Corti. Le quali, però, non nascono "per tutelare la violazione dei diritti", come si sarebbe portati a credere, ma "per risolvere specifiche controversie". Ciò spiega perché non è dalla contabilità delle condanne che si può misurare il tasso di aderenza degli Stati ai principi che essi stessi hanno sottoscritto, poiché le sentenze dipendono dai ricorsi che vengono presentati. Detto questo, si ha la sensazione che Strasburgo abbia via via ceduto alla pressione dei governi, consentendo la deroga di alcuni divieti (lasciata, ad esempio, all’apprezzamento nazionale). "Il che - osserva Zagrebelsky - significa ammettere un’Europa che sui diritti è un po’ a macchia di leopardo, laddove l’obiettivo iniziale era invece l’armonizzazione dei diritti. Obiettivo al quale si è, di fatto, rinunciato". "Ormai è in corso il disfacimento dell’idea dei diritti umani come cemento dell’Europa" prosegue Zagrebelsky. I governi "remano contro", spinti come sono da un’opinione pubblica che non si è nutrita dei valori sanciti nei patti sottoscritti dagli stessi governi. I quali, peraltro, poi si mostrano insofferenti a quei principi e alle sentenze della Corte. Ad aprire il varco è stato il Regno Unito, protagonista di uno scontro violentissimo conia Corte europea sulle espulsioni (negate) nei confronti di terroristi originari di Paesi in cui non vi è tutela dei diritti umani. Sulla stessa scia si sono poi mossi altri governi, che non volevano andare in rotta di collisione con l’opinione pubblica impaurita, e perciò critica verso quelle decisioni. La Corte europea dei diritti umani ha mantenuto ferma la sua giurisprudenza che non ammette che persone (qualunque sia la loro condizione) siano esposte al rischio di tortura e trattamenti inumani o degradanti. Certo è che, a fronte dei principi giustamente ribaditi nelle sentenze della Corte (comprese le due recenti condanne dell’Italia proprio in tema di migranti), si resta basiti per la disinvoltura con cui in Europa si alzano muri, si imprimono marchi sulla pelle, si impedisce di partire a chi ha documenti e biglietti, si nega accoglienza ai rifugiati politici. "Purtroppo, pur con tutte le critiche che merita l’Europa, sull’immigrazione c’è almeno una forte dialettica che invece non c’è in altre parti del mondo. Basti pensare a cosa avviene in Australia o tra Messico e Usa", dice Zagrebelsky. Che però teme i "crescenti nazionalismi": Italia, Germania, Finlandia, Ungheria... ciascuno ha una propria posizione e fa da sé. E se si pensa che i terreni su cui nascono le guerre sono l’economia e la paura, "gli ingredienti di una guerra ci sono tutti. L’Unione europea, nata per impedirla per sempre, dovrebbe rassicurarci". "Per fortuna - conclude - fra i giudici della Corte la cultura dei diritti ignora le frontiere. E questo, almeno, dovrebbe essere confortante". Immigrazione: Austria e Germania aprono i confini, vertice nella notte tra i due Paesi Corriere della Sera, 5 settembre 2015 La lunga marcia dei migranti si è, per il momento, interrotta. Austria e Germania hanno dato il via libera, nella notte di sabato, all’ingresso nel loro territorio ai migranti e i rifugiati in arrivo dall’Ungheria e durante la notte il governo ungherese ha predisposto un centinaio di pullman e ha offerto il trasporto per i migranti che si erano messi in cammino a piedi verso l’Austria, che in tarda serata avevano raggiunto il 27esimo chilometro dell’autostrada per Vienna. Altri sono stati presi alla stazione Keleti a Budapest. Il primo autobus è arrivato sul confine austriaco a Hegyeshalom dopo le 2 di notte, lasciando i migranti al confine, dentro il territorio ungherese. Sotto una pioggia battente, i migranti hanno cominciato a traversare la frontiera a piedi. Ad attenderli hanno trovato cibo e bevande calde servite in bicchieri di plastica da una cucina all’aperto, mentre altre immagini mostravano i poliziotti mentre spiegavano loro cosa fare. Più tardi, tutti sono stati accompagnati nelle strutture di accoglienza, allestite con file di brandine verdi, dove è stato servito altro cibo. Secondo la polizia austriaca già in quattro mila avrebbero attraversato il confine dall’Ungheria, e sono diecimila gli arrivi previsti. Treni speciali li attendono nella cittadina austriaca di confine di Nickelsdorf, dove è anche attrezzato un campo di accoglienza della Croce Rossa. Qui saranno ad appena 50 km da Vienna e a 200 da Passau, prima cittadina tedesca. I primi migranti sono già arrivati a Vienna. "Dopo un colloquio con il primo ministro ungherese Viktor Orban e in coordinamento con la cancelliera tedesca Angela Merkel, a causa dell’attuale situazione al confine ungherese, Austria e Germania acconsentono in questo caso a un proseguimento nei loro paesi del viaggio dei rifugiati", ha scritto Werner Faymann, il cancelliere austriaco, sulla sua pagina Facebook. "Al contempo - prosegue il post, ci aspettiamo che l’Ungheria rispetti i suoi obblighi europei, compresi quelli derivanti dalla convenzione di Dublino; ci aspettiamo dall’Ungheria la volontà di adempire agli oneri esistenti, sulla base dei programmi proposti dalla Commissione europea: l’equa distribuzione dei profughi e il meccanismo di emergenza previsto, a cui noi oggi contribuiamo". E sabato è intervenuta ancora la cancelliera Angela Merkel che in un’intervista ha ribadito che "Il diritto all’asilo politico non ha un limite per quanto riguarda il numero di richiedenti in Germania. In quanto paese forte, economicamente sano abbiamo la forza di fare quanto è necessario". Da parte sua, il ministro degli esteri ungherese, Peter Szijarto, all’arrivo per la seconda giornata del Consiglio informale degli esteri che si sta tenendo a Lussemburgo, ha spiegato che il suo paese ha mandato i bus perché i migranti "camminavano sulle principali autostrade e ferrovie, creando una situazione pericolosa" e che "Quello che succede in Ungheria avviene per due motivi: il fallimento della politica europea e le irresponsabili dichiarazioni di alcuni politici", con esplicito riferimento alla Germania. E sulla necessità di una politica europea torna anche l’Austria. "I fatti della scorsa notte deve farci aprire gli occhi sulla drammaticità della situazione. Bisogna trovare una soluzione, una risposta veramente europea, pochi Paesi non possono affrontare il problema da soli", ha detto il ministro degli Esteri di Vienna, Sebastian Kurz, arrivando al consiglio dei ministri. "Non si possono lasciare soli i Paesi, vale per l’Ungheria e la Grecia, nei controlli alle frontiere", ha aggiunto Kurz. E sull’emergenza migranti ha parlato anche il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, intervenuto in videoconferenza al Forum Ambrosetti di Cernobbio: "È illusorio pensare che sospendere Schengen possa garantire a una parte dell’Europa la sicurezza che si ritiene minacciata, i flussi di migranti sono sempre più imponenti e per questo occorrono adeguate risposte strategiche. Bisogna superare il regolamento di Dublino, spero che presto si arrivi a una linea comune sul diritto di asilo". Poi il presidente è tornato sulla morte del piccolo Aylan: "Quelle dell’emergenza migranti, tra cui quella del piccolo Aylan, sono immagini strazianti che confliggono con i valori dell’Europa, con la nostra stessa concezione di umanità", ha detto. "Chiusure illusorie - continua - smentiscono drammaticamente i valori della nostra civiltà: i migranti non sono nostri nemici, ma persone che scappano dalla guerra". Ed è emergenza ininterrotta sulle coste italiane, dove la Guardia costiera ha tratto in salvo sabato notte, a 170 miglia a sud della Sicilia, 362 migranti che, a bordo di un fatiscente barcone, stavano cercando di raggiungere l’Italia. Arrivata la richiesta di soccorso, sono salpate due motovedette classe 300, una da Siracusa e l’altra da Pozzallo, che hanno raggiunto e preso a bordo i migranti, 220 dei quali sono stati successivamente trasferiti a bordo di una unità militare brasiliana. L’operazione di soccorso è stata coordinata dalla centrale operativa di Roma della Guardia costiera. Immigrazione: nell’Ue è scontro sulle quote, no all’est, ma riserve anche a ovest di Anna Maria Merlo Il Manifesto, 5 settembre 2015 A Lussemburgo, l’ovest insiste sulla solidarietà, ma persino in Francia la parola "quote" è bandita. Crisi dei rifugiati. Polonia, Ungheria, Repubblica ceca e Slovacchia rifiutano la ripartizione, ma propongono un "corridoio ferroviario" da Budapest in Germania, sempre che Berlino dia la garanzia di accettare tutti i rifugiati. A Lussemburgo, l’ovest insiste sulla solidarietà, ma persino in Francia la parola " quote " è bandita. Cameron: "accetterò migliaia di siriani" (ma non quelli che sono già in Europa). Allarme dal Pentagono: "emergenza enorme" che durerà "vent’anni" (ma gli Usa non hanno nessuna intenzione di modificare le leggi sull’immigrazione). L’Europa resta spaccata, tra l’est ostile alle quote e l’ovest che le propone, ma dove comunque ogni paese pone poi delle condizioni particolari. Ieri, due riunioni nella Ue, hanno dato risultati contraddittori. A Lussemburgo, i ministri degli Esteri della Ue, sotto la pressione del tandem franco-tedesco, hanno cercato la strada di un’intesa, in vista della riunione dei ministri degli Interni del 14 settembre, che dovrebbe essere seguita, a breve, da un Consiglio europeo dei capi di stato e di governo. Mentre al castello di Praga ha dominato un clima kafkiano: Repubblica ceca, Slovacchia, Ungheria e Polonia hanno ribadito il "no" alle quote, ma al tempo stesso si dicono pronti ad aprire un "corridoio" ferroviario verso la Germania per i profughi raggruppati in Ungheria, in cambio di garanzie precise che Berlino non li respingerà. La Gran Bretagna cambia posizione, David Cameron ammette: "oggi posso annunciare che accetteremo migliaia di rifugiati siriani in più". Ma poi Londra, che finora ha accolto 5mila siriani, precisa che si tratta di profughi che hanno trovato rifugio nei paesi confinanti della Siria, non di persone che sono già sul territorio europeo. La Serbia offre solidarietà, il ministro degli Interni Nebojsa Stefanovic si è detto "pronto a discutere" di prendere parte all’accoglienza: "in quanto paese che auspica di diventare membro della Ue, è l’occasione di mostrare che siamo pronti a questo compito". Intanto, i numeri si gonfiano e persino il Pentagono soffia sul fuoco dell’allarmismo. Il presidente della Commissione, Jean-Claude Juncker, che mercoledì preciserà a Strasburgo l’Agenda della migrazione, ha fatto sapere che ormai i numeri su cui lavora Bruxelles sono passati da 40mila a 160mila, presenti in Italia, Grecia e Ungheria, da redistribuire tra i paesi membri (l’Onu prevede 200mila profughi per l’Europa). Il Pentagono parla di "enorme emergenza" e afferma che il fenomeno è destinato a durare, almeno per "vent’anni". Il segretario di stato John Kerry, ammette che "gli Usa potrebbero fare di più per proteggere queste persone", ma da Washington precisano che non ci saranno modifiche delle leggi sull’immigrazione, per favorire l’arrivo di rifugiati siriani. "L’Europa non ha diritto di dividersi di fronte a questa sfida", basta con le "recriminazioni", ci vuole "cooperazione", ha affermato il ministro tedesco Frank-Walter Steinmeier a Lussemburgo, rispondendo indirettamente alle accuse dell’ungherese Orban, che considera la Germania "colpevole" di attirare migranti. Dalla Grecia, il vice-presidente della Commissione, Frans Timmermans, ha insistito: "l’Europa deve agire insieme e unita". Per Timmermans, "viviamo un momento di verità storica in Europa, possiamo riuscire assieme e uniti oppure possiamo fallire ognuno a modo suo, nel proprio paese". Ha però precisato: "l’Europa senza frontiere non può sopravvivere ma l’Europa non può neppure sopravvivere se cediamo sui valori e sugli obblighi legali". La Francia non usa il termine "quote", battezzate "meccanismi" da Hollande, che "non hanno senso" per il ministro degli interni, Bernard Cazeneuve. Il primo ministro, Manuel Valls, ha precisato ieri che l’apertura di hotspot (in Italia e in Grecia) è una condizione preliminare: "perché questa spartizione obbligatoria sia accettata e possibile ci vuole una pre-condizione: la messa in atto di quelli che vengono chiamati hot spots, cioè per parlare più chiaramente, dei centri di accoglienza". La Francia potrebbe, in questo caso, accettare altri 27mila profughi sul suo territorio, ma già c’è una levata di scudi a destra. Intanto a Parigi proseguono gli sgomberi di accampamenti illegali: ieri è stata la volta dello square Jeissant, i 123 migranti sono stati portati in centri di accoglienza. Anne Hidalgo, la sindaca della capitale, chiede un piano per ripartire in Francia i migranti che arrivano a Parigi, "più di 80 al giorno, molti minorenni isolati". A Praga, Ungheria, Repubblica ceca, Slovacchia e Polonia affermano di non volere le quote obbligatorie, perché comunque i rifugiati "non vogliono restare da noi, ma andare più a ovest", afferma il ministro degli Interno ceco, Milan Chovanec, secondo il quale le quote "non risolvono niente, non è chiaro come siano calcolate né cosa debbano fare le autorità locali per trattenere i profughi". L’Ungheria rifiuta "lezioni di morale" dall’ovest e afferma di non fare altro che "applicare Schengen". La Commissione cerca di dividere il fronte di Visegrad: già la Polonia è meno drastica e all’Ungheria, che pure ieri ha varato nuove leggi per aumentare i controlli di polizia sui migranti, ha proposto di mettere nel calcolo della quota di Budapest i profughi già presenti nel paese (163mila, secondo il ministro degli esteri, Peter Szljarto). Alla carota si aggiunge il bastone della minaccia di sanzioni, per chi rifiuterà le quote obbligatorie. Immigrazione: il muro ungherese, viaggio alla fine dell’Unione europea di Giovanni Vale (Osservatorio Balcani e Caucaso) Il Manifesto, 5 settembre 2015 Kübekháza, dove termina la barriera di filo spinato voluta da Orbán, è la città magiara che unisce le frontiere di Ungheria, Serbia e Romania, attraversate negli ultimi sei mesi da oltre 100 mila richiedenti asilo. La rotta balcanica. Kübekháza, dove termina la barriera di filo spinato voluta da Orbán, è la città magiara che unisce le frontiere di Ungheria, Serbia e Romania, attraversate negli ultimi sei mesi da oltre 100 mila richiedenti asilo. Dentro e fuori Schengen, seguendo i migranti che sognano una vita migliore. Nemmeno i militari ci credono davvero. Il capo chino, la fronte attraversata da continue righe di sudore, passeggiano controvoglia lungo la linea immaginaria sulla quale hanno ordine di issare una palizzata. Un alto macchinario bianco, cingolato, li segue tra i campi di girasole e granoturco, infilzando con regolarità il terreno e lasciandovi cadere ogni quattro metri un palo di acciaio alto altrettanti. Bisognerà poi srotolare la rete zincata, mentre il filo spinato è già stato arricciato, come fosse dello zucchero filato, in una nuvola soffice e appuntita. La si sdraia per terra, nel mezzo del nulla. Siamo a Kübekháza, il comune ungherese che confina al tempo stesso con la Serbia e con la Romania e che ospita nientemeno che il punto finale del "muro di Orban". L’ultimo pilone della barriera di 175 chilometri è già stato piantato e basta guardarlo per percepire l’assurdità di tutte queste ore di lavoro. Alle sue spalle, si apre la pianura pannonica con la sua sfacciata indifferenza. Il muro finisce in un prato. E come se non bastasse, qualche metro più in là, il monumento che celebrava il punto d’incontro dei tre paesi è rimasto oltre la ringhiera, dall’altra parte del muro. Geograficamente, l’Unione europea inizia qui. Ma moralmente sembra finire. L’appuntamento è per mezzogiorno alla stazione degli autobus di Subotica, una città dell’estremo Nord della Serbia, in cui passa sia l’autostrada E5 diretta a Budapest, sia la ferrovia proveniente da Belgrado. In programma c’è un viaggio dentro e fuori l’area Schengen, nei pressi di una frontiera che negli ultimi sei mesi è stata attraversata da oltre 100.000 rifugiati, provenienti perlopiù dalla Siria, dall’Iraq e dall’Afghanistan. La prima tappa è la cosiddetta "giungla" di Subotica, un’ex fabbrica di mattoni, dove chi risale la "rotta dei Balcani" si ferma per una notte o due prima di ripartire a piedi per l’Ungheria. Quando arriviamo, tra le strutture abbandonate e l’erba alta, se stanno sdraiate poco più di cento persone, ma qualche settimana prima - assicurano gli attivisti - ce n’erano almeno 400. Disseminata di spazzatura e sotto un sole impietoso, la "giungla" emana un odore pungente. "La discarica comunale dista solo un centinaio di metri da qui: abbiamo paura che arrivino i ratti e che portino delle malattie", afferma Dalibor Karada, un volontario dell’associazione serba "Centro per l’integrazione e la tolleranza". Altre Ong passano nel giro di poche ore, offrendo assistenza sanitaria di base o portando qualche bene di prima necessità ai rifugiati, altrimenti abbandonati a se stessi. "Avevamo chiesto al comune di portare l’acqua potabile all’interno dell’ex fabbrica, ma hanno deciso di sistemare delle docce oltre la strada", racconta Dalibor. Per riempire una bottiglia d’acqua, bisogna dunque lasciare il campo e camminare per qualche minuto, attraversando un tratto d’asfalto sbiadito. Dalla "giungla" di Subotica, il centro storico dista tre chilometri. Ci si può andare a piedi, seguendo verso Nord i binari che poi proseguono per l’Ungheria (la frontiera è a circa 11km), oppure in taxi o pagando qualche privato. Al municipio, l’assessore agli Affari sociali, Milimir Vujadinovi, è al corrente della situazione, ma la sua giunta - dice - "fa quel che può", a maggior ragione che "questo è un problema dell’UE, non della Serbia. Dal 2014, il comune stanzia ogni anno circa 23.000 euro (su un bilancio totale di 40 milioni) per l’accoglienza di qualche bambino negli asili pubblici o per il trasporto dei rifugiati che lo desiderano verso gli spazi di accoglienza. Ma sono ovviamente pochissimi quelli che si avvalgono di questi programmi, la maggior parte vuole solo proseguire verso l’Unione europea. Kanjia Quaranta chilometri ad Est, a Kanjia, un punto di ricezione è stato inaugurato appena due settimane fa, proprio con l’obiettivo di svuotare i centri città della zona. Gli autobus della polizia portano in continuazione nuovi arrivati, che vengono sistemati dentro ampie tende verdi, fornite di tavoli da sagra. All’interno del campo, ci sono servizi igienici e una connessione ad internet, mentre all’esterno uno stand privato cuoce pljeskavice (hamburger) a ripetizione. "Non abbiamo letti, ma c’è spazio per sdraiarsi - spiega Robert Lesmajster, del Commissariato per i rifugiati di Belgrado - E comunque sia, la maggior parte delle persone resta qui solo per qualche ora". "Noi partiremo domani", dice fiducioso Ayham, mentre tiene la mano a sua moglie Hadil. Seduta sul prato, questa coppia di siriani si sta riposando dopo la lunga avventura. Turchia, Grecia, Macedonia, Serbia. In treno, in bus, in taxi, a piedi. "Abbiamo camminato per oltre 150km, in totale!", assicura Ayham. Hadil conferma sorridendo: "Siamo una super-famiglia!". Attorno a loro, ci sono le due sorelle non maggiorenni di lei, Hamsa e Idaia, così come il piccolo Zain (il figlio della coppia) con la sua nonna materna Hafisa. "Anche il passeggino è venuto con noi fin da Damasco!", prosegue il giovane papà, che nel 2012 aveva ottenuto il brevetto da pilota, ma senza mai poterlo utilizzare. Sono diretti in Germania, dove uno zio vive già da qualche anno. Calata la sera, mentre Robert Lesmajster continua a illustrare le regole del campo a chi entra, un folto gruppo varca l’ingresso in direzione opposta. Sono soprattutto siriani, muniti di gps o smartphone e con uno zaino o un bambino sulle spalle. Il confine ungherese è ad una quindicina di chilometri da qui e per arrivarci si seguirà controcorrente il corso del Tibisco (Tisza/Tisa) che taglia perpendicolarmente la frontiera. Alle nove, ci si incammina lungo la strada asfaltata, mentre le automobili sfrecciano a fianco con gli abbaglianti accesi. La si segue per qualche chilometro, poi si svolta a destra, prendendo una piccola discesa di ghiaia che porta all’argine. È la prima sosta. Un ragazzo con un cappellino bianco detta le poche regole del viaggio: "Non camminate troppo sulla destra perché c’è il fiume e spegnete i cellulari". Si riparte sulla terra battuta, nascosta tra gli alberi e la riva, mentre le conversazioni proseguono sottovoce. Omar, uno dei pochi iracheni presenti, chiede: "Sei sposato?". Nemmeno lui lo è - dice scuotendo la testa - ma spera, a breve. Fa ancora caldo e l’umidità attira le zanzare. Il sentiero è cosparso di bottiglie di plastica vuote, segno che non siamo i primi a percorrerlo. Gli agenti ungheresi potrebbero dunque essere in agguato, oltre la frontiera. Che fare nel caso li si incontri? Le opinioni divergono. Farsi arrestare significa dover dare le proprie impronte digitali e rischiare, in seguito, di essere deportati in Ungheria dagli altri Stati membri dell’Unione (come vorrebbe il Protocollo di Dublino II). Tuttavia, rifiutare la richiesta di asilo alle autorità magiare comporta il trasferimento in Serbia. Tutti preferirebbero la terza via: passare in incognito fino in Austria. Ma è la meno probabile. Passata la mezzanotte, all’ennesima pausa, un ragazzo si lascia cadere a terra, sfinito. Si chiama Mustafa e, da metà coscia in poi, la sua gamba destra lascia spazio ad una protesi rigida. Non ce la fa più a continuare. "Potete aiutarlo, per favore?", chiede il suo amico, che per mano tiene già la moglie e la figlia. La schiena di Mustafa è completamente bagnata e lui ripete "yalla" a denti stretti. Lo si solleva in due e si riparte. Più il tempo scorre, però, più i bambini iniziano a lamentarsi ad alta voce. Alla frontiera mancano pochi chilometri, ma ormai è buio pesto e anche i visi familiari si sono trasformati in sinistre sagome nere. Il pianto di Zakaria buca il silenzio verso l’una di notte, facendo sussultare tutto il gruppo. Subito, in quattro, cinque provano a calmarlo, ma è inutile, il piccolo non ha nemmeno due anni e grida sempre più forte, mentre dalla foresta, oltre il fiume, arrivano i latrati e gli ululati dei cani. Ci vorranno venti minuti perché torni la calma. Nel frattempo, secondo chi ha il gps in mano, abbiamo passato la frontiera e siamo ufficialmente nell’Unione. Ma non c’è tempo per festeggiare: all’orizzonte, un attimo dopo, appare una misteriosa luce blu e ci si ferma di nuovo. Entrare nella foresta, continuare sulla stessa via, nel dubbio si aspetta. Quando l’alone luminoso si spegne, i rifugiati decidono di proseguire lungo l’argine. Noi, però, dobbiamo tornare indietro, perché andare oltre potrebbe voler dire essere scambiati per dei trafficanti di esseri umani. Asotthalom Dal lato ungherese della frontiera, di prima mattina, Barnabas Héredi viaggia sulla sua Lada bianca alla ricerca di chi ha attraversato il confine durante la notte. È uno dei "rangers" che il comune di Ásotthalom ha assunto per aiutare la polizia locale. Una volta intercettato un gruppo di rifugiati, il suo compito è di condurli ad uno dei vari "punti di raccolta", dove le forze dell’ordine passeranno più tardi. Davanti alla sua macchina, alle 8:30, camminano già diverse decine di persone, perlopiù afghani, partiti dalla Serbia dieci ore prima. "Siamo in Ungheria, vero?", domanda Aziz. Quando annuisco, tira un sospiro di sollievo. Barnabas li segue a marce ridotte, con le quattro frecce lampeggianti. A guardarlo, sembra una sorta di pastore motorizzato. "Che succederà ora?", chiede il ventiduenne Ali, originario del Nord dell’Afghanistan e ormai giunto allo spiazzo già presidiato dagli agenti. La polizia sta caricando tutti i presenti su diversi autobus diretti a Seghedino (Szeged), la prima grande città ungherese (circa 160.000 abitanti). Dopo aver completato la richiesta di asilo, i rifugiati riceveranno un foglio che gli permetterà di viaggiare nel Paese, in teoria per raggiungere uno dei centri di accoglienza. Ma la maggior parte di loro userà questo lasciapassare per proseguire verso l’Europea occidentale. "Io vorrei andare a studiare in Finlandia", racconta Ali. "Me lo ricorderò per sempre questo viaggio", esclama. L’ultima tappa è dunque Szeged, dove partono i treni per Budapest. Al quartier generale della polizia di frontiera il comandante Gabor Eberhardt sta parlando con una troupe televisiva di Vienna. "Installerete dei sensori termici nei pressi del muro?", "Ci saranno degli agenti a pattugliare la frontiera?", chiedono i giornalisti austriaci. "E quanti migranti sono già stati rispediti in Serbia?", domandano preoccupati. Nell’aria c’è un’ansia da ondata migratoria. L’agente risponde, poi si scusa: "I vostri colleghi stanno aspettando". C’è giusto il tempo per una foto ricordo assieme al poliziotto magiaro, poi gli austriaci partono. Gabor Eberhardt è responsabile di circa 45km di confine, attraverso cui passa il 90% degli ingressi illegali nel paese. I suoi uomini - spiega - si occupano di arrestare i rifugiati e di assicurarsi che facciano richiesta di asilo. "Solo il 15% rifiuta di fare la domanda ed è dunque riportato in Serbia", afferma Eberhardt, secondo cui le detenzioni sono sempre fatte "nel rispetto della legge", ovvero "per un massimo di 36 ore", "in locali al riparo dal caldo" e persino "fornendo cibo a seconda della religione di ciascuno". Ma le foto che la parlamentare ungherese Tímea Szabó ha scattato a metà luglio all’interno dei centri di Röszke e Szeged mostrano piuttosto delle gabbie dove i materassi sono gettati sul pavimento. Anche la storia dei panini ad hoc pare non tenere. Alla stazione ferroviaria di Szeged, ad un quarto d’ora dalla stazione di polizia, gli attivisti del gruppo di solidarietà ai migranti "Migszol" si limitano a offrire ai rifugiati soltanto acqua e caffè. "Sul cibo non si fidano più degli ungheresi: hanno già ricevuto troppe volte della carne di maiale che avrebbe dovuto essere qualcos’altro", afferma Daniel Szatmary. Questo giovane alto e robusto è uno dei 200 volontari che ogni giorno accolgono le persone portate dalla polizia. Dal primo luglio, dispongono di una casetta di legno presidiata quasi 24 ore su 24. In inglese e in arabo, forniscono delle informazioni sui prossimi treni per la capitale, sui "veri" prezzi che dovrebbero essere applicati dai tassisti (che invece chiedono fino a 400 euro per due ore di tragitto) e, più in generale, su quello che aspetta chi è appena arrivato a piedi dalla Serbia. Alle 20:45, l’ultimo diretto per Budapest è arrivato. I volontari del Migszol si affrettano a dare gli ultimi consigli: "Non usate le toilettes quando il convoglio è fermo" e "Non fumate in treno". Qualcuno, euforico, si distrae, ma gli attivisti insistono: "Sul serio, sono 50 euro di multa altrimenti!". Si corre sulle scale che portano ai binari e, prima di salire, ci si presta a qualche scatto di gruppo. Poi il capostazione fischia e qualcuno si affaccia al finestrino. Nella luce dorata dei lampioni, i tratti tesi della stanchezza sfumano adesso nei primi sorrisi. La strada è ancora lunga per raggiungere la Germania o la Svezia ma, stasera, i chilometri che restano sembrano in discesa. E davanti a questo treno in partenza, il vento che ci spettina ha come un profumo di rinascita. Il brivido lussuoso di un ritorno alla normalità. Immigrazione: Amnesty; sull’isola greca di Kos condizioni disumane di accoglienza La Presse, 5 settembre 2015 Amnesty International denuncia le "condizioni infernali" in cui "migliaia di rifugiati sono costretti sull’isola di Kos". In una nota, organizzazione dettaglia le conclusioni di una indagine condotta sull’isola greca. Amnesty fa sapere che ha "assistito la scorsa notte a una brutale aggressione, ha potuto osservare le condizioni complessivamente drammatiche in cui si trovano i rifugiati sull’isola, verificando la presenza di neonati di una settimana tra le moltitudini di persone costrette a rimanere anche per giorni sotto un sole cocente in attesa di essere registrati dalle autorità locali. I ricercatori dell’organizzazione per i diritti umani hanno intervistato minori non accompagnati detenuti in condizioni deplorevoli insieme a persone adulte". "Le infernali condizioni in cui sono costretti a stare e l’indifferenza delle autorità sono agghiaccianti", ha dichiarato Kondylia Gogou, ricercatrice che ha visitato Kos. Durante la ricerca, si legge nella nota, sull’isola si trovavano dai 3mila ai 4mila rifugiati. "In assenza di qualsiasi struttura ufficiale di accoglienza, la maggior parte di loro attendeva in condizioni squallide di essere registrata per poter proseguire il viaggio verso la terraferma greca e oltre", afferma l’organizzazione, sottolineando che la maggior parte "era costretta a dormire in tende all’aperto in condizioni spaventose". Alla registrazione dei rifugiati, spiega Amnesty, è stata adibita una vecchia stazione di polizia. "Amnesty International l’ha visitata il 2 settembre trovandovi cento rifugiati, tra cui una neonata di una settimana in braccio alla madre, che sedeva in terra in un cortile. Alle persone in attesa non era stata fornita acqua. L’unica protezione contro la calura estiva era un ombrellone al centro del cortile, sotto il quale c’era posto per poche persone. Fuori dalla stazione di polizia, attendevano anche da giorni tra i 200 e i 300 rifugiati. Uno di loro, un iracheno di 28 anni, ha dichiarato di essere in attesa da una settimana. Le informazioni sui diritti e l’identificazione dei gruppi vulnerabili erano fornite non dalle autorità locali ma dall’Alto commissariato Onu per i rifugiati", si legge nella nota. Inoltre, l’organizzazione ha verificato la presenza di minori detenuti in carcere insieme ad adulti sospetti criminali, in "condizioni deplorevoli" con "vecchi e luridi materassi privi di lenzuola, le luci erano rotte e c’era una terribile puzza proveniente da un gabinetto traboccante di escrementi". Inoltre, Amnesty denuncia "l’aggressione subita da un gruppo di rifugiati ad opera di 15-25 persone armate di bastoni che gridavano "tornatevene a casa vostra" e urlavano insulti. Gli aggressori hanno anche minacciato gli attivisti (...) e solo ad aggressione iniziata è intervenuta la polizia anti-sommossa che ha lanciato gas lacrimogeni". Amnesty chiede quindi alle autorità di Kos di "cooperare con quelle centrali per allestire centri di accoglienza e rifugi in cui le persone appena arrivate possano restare, in condizioni umane, fino alla fine delle necessarie procedure di registrazione" e di "immediatamente portare i minori non accompagnati in strutture appropriate". Inoltre, che sia inviato personale adeguato di prima accoglienza sull’isola e che "l’Unione europea assista le autorità greche con finanziamenti tratti dai fondi di solidarietà e di emergenza" e che si "alleviata la pressione sulla Grecia, attraverso una profonda riforma del sistema d’asilo europeo e predisponendo più percorsi legali e sicuri verso l’Europa per coloro che necessitano di protezione. Questo dovrebbe essere fatto attraverso l’aumento dei posti per il reinsediamento dei rifugiati più vulnerabili identificati dall’Alto commissariato Onu per i rifugiati, un più ampio uso dei visti per motivi umanitari e migliori opzioni per i ricongiungimenti familiari". Pena di morte nel mondo, quel fosco primato dell’Asia di Domenico Letizia Il Garantista, 5 settembre 2015 L’Europa (con l’eccezione della Bielorussia) e il continente africano si avviano alla completa abolizione e alla moratoria di fatto. In America, la pena capitale è stata abolita in 19 dei 50 Stati. Tutti i numeri nel dettagliato rapporto di "Nessuno tocchi caino". Nel mondo la pena capitale continua a mietere vittime. Mentre l’Europa e il continente africano si stanno avviano alla completa abolizione o alla moratoria di fatto, la problematica resta viva nel mondo asiatico. La quasi totalità delle esecuzioni del 2014 è avvenuta in Asia, dato in aumento rispetto al 2013 e non sembra invertire la tendenza nei primi sei mesi del 2015. Le cifre sono state rese pubbliche in occasione della pubblicazione del Rapporto "La pena di morte nel mondo 2015" di Nessuno tocchi Caino. Presentato presso la sede del Partito Radicale, con la partecipazione del Ministro della Giustizia Andrea Orlando e il Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Sandro Gozi. Naturalmente, presenti Sergio D’Elia, Elisabetta Zamparutti e Marco Pannella. I dati riportati indicano la Cina come vincitrice della terribile classifica, seguita dall’Iran e dall’Arabia Saudita. Nel 2014, i paesi che hanno fatto ricorso alle esecuzioni capitali sono stati 22, come nel 2013, mentre erano 20 nel 2011, 19 nel 2009 e 26 nel 2008. Nel 2014, le esecuzioni sono state almeno 3576 a fronte delle almeno 3511 del 2013. Il lieve aumento delle esecuzioni durante l’anno 2014 è giustificato con l’incremento registrato in Iran e Arabia Saudita. Nei primi sei mesi del 2015 almeno 2.229 esecuzioni sono state effettuate in vari paesi. In Cina, anche se la pena di morte continua ad essere considerata un segreto di stato, negli ultimi anni si sono succedute numerose notizie in base alle quali condanne a morte ed esecuzioni sarebbero via via diminuite rispetto agli anni precedenti. La situazione resta comunque altamente preoccupante. Nel 2014, i tribunali cinesi hanno condannato 1.180.000 persone di cui 248.000 casi riguardanti reati violenti. Ancora una volta, il primo giudice cinese non ha reso pubbliche le condanne accompagnate dall’esecuzione capitale e dall’ergastolo. Considerando che almeno il 90% dei casi trattati dalla Corte Suprema del Popolo (11210 casi nel corso del 2013) è composto da casi capitali, una stima approssimativa sarebbe quella che fissa il numero di esecuzioni capitali del 2014 intorno alla cifra di 8.900. In Iran, l’elezione nel Giugno 2013 del nuovo presidente della Repubblica Islamica Rouhani, non ha comportato nessuna modifica riguardante l’applicazione della pena di morte. Circa 2000 prigionieri sono stati giustiziati dall’inizio della nuova presidenza. Nel 2014 sono state effettuate almeno 800 esecuzioni. L’impiccagione resta il metodo preferito con cui è applicata la Sharia. Nel paese almeno 36 impiccagioni in pubblica piazza si sono avute nei primi sei mesi del 2015. In Iran non vi è solo la pena di morte, ma anche il sistematico utilizzo della tortura, sempre secondo i dettami della Sharia iraniana: amputazione e fustigazioni sono regolarmente utilizzate. Il Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana ha diffuso lo sconcertate caso di un uomo condannato a 70 colpi di frusta per aver masticato gomma americana nel sacro mese del Ramadan. Altro paese preoccupante è l’Arabia Saudita che nel corso del 2014 ha giustiziato almeno 88 condannati. La maggioranza dei giustiziati era stata condannata per omicidio o reati legati alla vendita di sostanze stupefacenti. Le persone giustiziate nei primi sei mesi del 2015 sono state almeno 102, già superando il totale del 2014. L’Europa sarebbe libera dalla pena di morte se non fosse per la Bielorussia. Nel paese si stima che dal 1991 ad oggi sono circa 400 le persone giustiziate. Tuttavia, con l’aggressione russa nei confronti dell’Ucraina e l’inglobamento della Crimea la situazione è peggiorata. Durante l’Agosto 2014, l’autoproclamata Repubblica Popolare del Donetsk ha reintrodotto la pena di morte per i reati più gravi. Sono stati istituiti tribunali militari da campo che hanno giurisdizione sua una serie di reati, tra cui omicidio, tradimento, saccheggio, retinenza alla leva e diserzione. Per quanto riguarda gli Stati Uniti, la pena capitale è stata abolita in 19 dei 50 stati. La pena di morte è in vigore in 31 stati della Federazione. Le più recenti abolizioni sono avvenute in Nebraska, nel Maggio 2015, e in Maryland nel Maggio 2013. In data 1 Aprile 2015 i condannati a morte in tutta la federazione sono 3002. Altro record negativo è quello del Pakistan che, dopo sei anni di moratoria, ha riavviato le esecuzioni a Dicembre 2014 mandando al patibolo 181 persone in soli sei mesi. Mistero invece è ciò che accade in Corea del Nord. I media ufficiali dicono che non esistono problemi di diritti umani nello stato comunista dove tutti conducono "una vita tra le più dignitose e felici". Nel 2014, da quello che si riesce ad apprendere, sono state effettuate almeno 50 esecuzioni per reati non violenti e per motivi essenzialmente politici. Almeno altre 16 sono avvenute nei primi sei mesi del 2015. Ricordiamo anche che nel paese sono attivi almeno cinque campi di lavoro di stile stalinista dove sono detenute tra le 80.000 e le 120.000 persone. Iran: statunitensi in carcere, il Presidente Larijani non esclude uno scambio di detenuti Aki, 5 settembre 2015 Il presidente del Parlamento iraniano, Ali Larijani, non ha escluso, come fatto invece in precedenza da altri esponenti del governo di Teheran, che alcuni americani in carcere nella Repubblica islamica, tra cui il reporter del Washington Post Jason Rezaian, possano essere scambiati con iraniani detenuti negli Stati Uniti. Alla domanda di un giornalista della radio Npr riguardo all’ipotesi di uno scambio, Larijani - in questi giorni a New York - ha sottolineato che "ci sono certamente modi pratici". "Per esempio - ha spiegato il presidente del Majlis - ci sono alcuni iraniani in prigione qui (negli Usa, ndr). Sicuramente su questioni di questo tipo si possono trovare delle soluzioni. Penso che i nostri politici sappiano quali siano le maniere". Il giornalista ha poi chiesto esplicitamente a Larijani se si riferisse a uno scambio di prigionieri. "Questo è uno dei modi", ha replicato l’esponente del governo di Teheran, aggiungendo che "i sistemi giudiziari dei due paesi possono trovare anche altre maniere". Il mese scorso, il vice ministro degli Esteri della Repubblica islamica, Hassan Qashqavi, ha annunciato che Teheran è al lavoro per ottenere il rilascio di 19 cittadini iraniani che al momento si trovano in carcere negli Usa, precisando che si tratta di "prigionieri politici". Lo stesso ha poi escluso l’ipotesi di uno scambio di detenuti con gli Usa, affermando che una tale soluzione "non è in agenda". Tra i casi più noti di cittadini iraniani in carcere negli Usa c’è quello di Mannsor Arbabsiar, un irano-americano del Texas, condannato a 25 anni di carcere perché riconosciuto colpevole di aver pianificato l’omicidio dell’ambasciatore saudita a Washington. La dichiarazioni di Larijani riaccendono i riflettori sul caso del corrispondente del Washington Post, Jason Rezaian, arrestato oltre un anno fa in Iran con l’accusa di spionaggio, collaborazione con governo ostile e diffusione di propaganda nemica. Ci sono poi almeno altri due cittadini americani in carcere in Iran. Si tratta del pastore cristiano Saeed Abedini, imprigionato per aver condotto studi sulla Bibbia e Amir Hekmati, un ex marine accusato di spionaggio. Stati Uniti: la sfida di Kim "meglio in cella che sposare due omosessuali" di Francesco Semprini La Stampa, 5 settembre 2015 La funzionaria del Kentucky non vuole registrare le nozze di una coppia gay. Il giudice: firmi la licenza e sarà libera. I conservatori: è la nostra eroina. "Attenti, mia moglie è pronta a rimanere dietro le sbarre a lungo". Con queste parole Joe Davis ha messo in guardia le autorità federali per dissuaderle dalla convinzione che la cella possa convincere Kim Davis a ritornare sui suoi passi. La donna, ufficiale di stato civile della contea di Rowan, nel Kentucky, si era rifiutata di emettere la licenza per il matrimonio di una coppia omosessuale, rifiutando quanto previsto da una sentenza della Corte suprema del 26 giugno, che ha stabilito il diritto per le coppie gay di convolare a nozze in tutti gli Stati Uniti. Le ragioni del giudice. La legge aveva causato una levata di scudi, specie da parte degli ambienti della destra conservatrice e degli attivisti religiosi, che avevano minacciato "l’ostruzionismo nei municipi". Kim, cristiana apostolica, ha deciso di dar seguito alle minacce con i fatti: "Non provo rancore nei confronti di nessuno, per me è una questione di fede, è la parola di Dio". Spiegazione non certo sufficiente a giustificare il rifiuto, secondo il giudice federale David Bunning. "La corte - si legge nelle motivazioni - non può condonare la disobbedienza ostinata ad un ordine emanato dalla legge. Se si dà alle persone l’opportunità di scegliere quali ordini eseguire, si creano seri problemi". Il giudice ha anche aggiunto che la Davis rimarrà in prigione finché non si adeguerà agli obblighi imposti dalla propria posizione. Di qui la replica del marito, il quale ha definito lo stesso giudice un personaggio dai "comportamenti bulleschi". Il punto è che la 49 enne funzionaria della contea, con il diniego pagato a spese della sua stessa libertà, da "clerk" come tanti nel Paese (ufficiali di stato civile), è diventata una eroina per milioni di americani che si oppongono ai matrimoni gay e per i rappresentanti di una certa destra repubblicana. Tra questi l’ex governatore dell’Arkansas, Mike Huckabee e il senatore del Texas, Ted Cruz, candidati alla nomination repubblicana. "Oggi, per la prima volta in assoluto, il governo degli Stati Uniti ha arrestato una donna cristiana perché vuole vivere secondo la sua fede - ha tuonato Cruz. Questo è sbagliato. Questa non è America, per questo io sto con Kim Davis, inequivocabilmente". Intanto l’altra America, quella a favore dei matrimoni gay, prosegue il suo cammino anche nella Contea di Rowan, con la prima cerimonia per una coppia omosessuale. Via libera ai matrimoni. I primi ad ottenere ieri mattina un certificato di matrimonio sono stati William Smith ji e James Yates, insieme da circa dieci anni: la licenza di matrimonio gli era stata negati per ben cinque volte. Il via libera è arrivato dai vice di Kin Davis. Cinque su sei hanno da to il loro ok. L’unico ad opporsi è stato il figlio di Kim, colei che per una certa parte del Paese è considerata la "Rosa Parks anti-gay", in riferimento alla paladina dei diritti civili degli afro-americani. Ieri a pronunciare il sì è stata anche una delle coppie che ha fatto causa alla Davis, Karen Roberts e Apri Miller, mentre a scendere il campo è ora il Liberty Counsel potente studio legale di ispirazione cristiana, che prometto di proseguire nelle aule di tribunale la battaglia iniziata ne municipi da Kim Davis.