Giustizia: Pannella "l’amnistia ci sarà, il Papa è con noi contro il populismo penale" di Errico Novi Il Garantista, 4 settembre 2015 Nel governo non tutti la pensano come Orlando e Alfano. Ormai è un provvedimento inevitabile. Io mi sono convertito? No, tranquilli, si è convertito il Papa. Stavolta è diverso. È un’altra storia, che non replicherà la scena del 2013, quando la doppiezza del Parlamento arrivò a imbrigliare persino il messaggio alle Camere - l’unico del mandato - di un presidente della Repubblica. Allora i Radicali e Marco Pannella si trovarono soli a sostenere il Napolitano nella battaglia per l’amnistia. Oggi hanno dalla loro parte innanzitutto un Papa che raccoglie consensi ben al di là dell’orizzonte cattolico. Ma per il leader radicale non è tanto questa la chiave della partita. "È l’Onu che spinge per liquidare le resistenze filo-populiste tipiche della ragion di Stato". E sulla sintonia con Bergoglio su questa e altre sfide, Pannella assicura: "Non sono io che mi sono convertito, potremmo dire che è lui che si converte alle nostre posizioni". Certo, Papa Francesco è uno che torna utile a molti governi, quando si tratta di denunciare l’indegno balbettio dell’Europa di fronte all’odissea dei migranti. Ma proprio per questo sarà difficile ignorarlo nel suo appello più scomodo, quello sulla clemenza ai detenuti. "Il suo contributo commuove", dice Pannella. Che però vede appunto il percorso di Bergoglio ben armonizzato in un altro tipo di tendenza, più ampia. "È l’Onu che si muove, a sorpresa di qualcuno, verso l’abbattimento della ragion di Stato. E che quindi apre anche la strada a una clamorosa svolta sul terreno della giustizia. Intanto il governo italiano sembra come minimo infischiarsene, onorevole Pannella. Due ministri tra i più importanti, Alfano e Orlando, hanno detto no all’amnistia, e pensato ad altre vie per superare il fallimento del nostro sistema penitenziario. "Ecco, certo. Ma questo irrigidimento corrisponde esattamente all’imporsi della ragion di Stato, il principio che in sede Onu rischia di essere superato. Si è deciso di aprire una sessione sul tema che noi radicali solleviamo con più forza: quello della transizione dalla ragion di Stato allo Stato di diritto. Sono sorpreso io stesso da questa accelerazione. Ma le Nazioni unite hanno scelto questa strada qui". E lei dice che questo può spezzare la tendenza ad assecondare il populismo securitario, in Paesi come l’Italia? "Certo che sì. Intanto guardi, se da una parte Alfano e Orlando mantengono per ora una linea di quel tipo, c’è un altro ministro come Poletti che ha espresso una posizione assai più omogenea a quella di Papa Francesco. Dopodiché l’Italia come altri non potrà che seguire la tendenza delle Nazioni unite, per un motivo geostrategico molto chiaro: è questa l’unica via per spaccare il mondo arabo e isolare gli Stati islamici ispirati dal fondamentalismo religioso". Davvero questa tendenza internazionale può imporsi sull’ansia di ghigliottina che affligge opinioni pubbliche come la nostra? "Lei fa riferimento a un problema di opportunismo politico. Bene, le dico che se oggi lo slogan è tutti in galera, tra non molto diventerà "basta con la ragion di Stato". E così dire la verità sulle carceri, e sulla necessità dell’amnistia, diventerà proprio un modo per stare in sintonia con gli slogan più popolari". Lei è ammirevolmente ottimista. "Io sono noto per un certo talento nell’annusare la fattibilità di cose in apparenza folli. E poi ho un altro argomento tecnico, dalla mia parte". Quale? "Nel discorso di Napolitano del 2013 si invocava un atto di clemenza anche per evitare le condanne internazionali sull’irragionevole durata dei processi. Se si fa l’amnistia salta un’enorme quantità di procedimenti penali e persino civili. E quelli che restano potranno così avere una durata ragionevole". Torniamo al Papa. A furia di sentire Pannella che lo ringrazia penseranno che Pannella si è convertito. "Se pensiamo a un’opinione pubblica vasta, che non sempre ha modo di leggere le cose in profondità, dovrei tener presente anche questo aspetto, che si dica "vedete Pannella come applaude il Papa, si è convertito". Eppure io credo che molti diranno altro, penseranno "vedi sto pazzo di Papa, s’è convertito lui". E sa perché? Nel momento in cui lui sceglie un tema come quello dell’amnistia, sa benissimo di schierarsi in una battaglia assolutamente politica. Una lotta in cui gli avversari sono quelli come Salvini. Si cala cioè su un terreno che è tipicamente quello di noi radicali". Beh, il Papa che si converte alla lotta radicale è una chiave molto intrigante. "Non diventi una battuta. Io voglio dire che contro quelli come Salvini l’arma più efficace è l’ideologia abolizionista. Ed è esattamente la chiave che Francesco ha scelto sul tema dei detenuti. Peraltro ha posto il tema nel modo più corretto possibile, considerato l’interlocutore che ha davanti, cioè lo Stato italiano". È rimasto sul piano dell’umanitarismo. "Ecco, ma nello stesso tempo è stato chiaramente abolizionista: a me basta questo e l’insinuazione su Pannella convertito mi fa un baffo". Lei ha apprezzato anche le parole del Pontefice sull’aborto: ha detto che promuove la responsabilità nel concepimento. Osservazione che spiega come Pannella sull’aborto abbia una visione libertaria e religiosa nello stesso tempo... "Se vogliamo restare sul piano teologico, si tenga presente che la concezione come atto che coinvolge la coscienza dell’individuo si è fatta strada tra i teologi a partire dalla seconda metà dell’800. Quando noi abbiamo cominciato ad andare contro la barbarie degli aborti clandestini non abbiamo fatto altro che spiegare questo, alla gente: guardate che tra l’atto sessuale e il concepimento c’è una distinzione resa possibile dall’uso delle pillole. Ora mi pare che il Papa depenalizzi il discorso della genitorialità responsabile". Il populismo securitario sembra più difficile da battere rispetto al proibizionismo antiabortista. "La suggestione degli istinti popolari non è un fenomeno così refrattario a posizioni come quelle della nuova Chiesa di Bergoglio, anche per questo mi sento di essere ottimista sull’amnistia". D’accordo, il Papa può dare una mano, ma su amnistia e indulto il Parlamento per ora non sembra volersi smuovere. "Qualcosa cambierà anche perché a livello di Nazioni unite l’abbattimento della ragion di Stato viaggia di pari passo con un’altra nostra tradizionale battaglia, che noi definiamo diritto alla conoscenza. Certo se parlano tutti tranne Pannella e Bonino è più difficile che l’opinione pubblica costringa il Parlamento a cambiare rotta. Io lavoro proprio perché per le Nazioni unite il diritto delle opinioni pubbliche a conoscere tutte le voci venga formalmente sancito". È bello sentirle dire "tranne Pannella e Bonino", vuol dire che non avete litigato davvero. "Io ho voluto sottolineare una cosa: che proprio Emma ha sempre detto che io avevo una visione, al punto da essere fin troppo visionario... la mia visione consiste anche nel considerare necessaria la mia presenza costante alle riunioni, non tanto per il partito quanto per me personalmente. Anche quando sono in sciopero della fame e della sete e sono sfinito fisicamente. Ecco, io dico che questo secondo me vale anche per Emma, e che dobbiamo aiutare Emma a venire alle nostre riunioni. Sarebbe importante per lei. E naturalmente sarebbe molto importante anche per noi". Giustizia: i suggerimenti della storia sulla riforma di Beniamino Migliucci (Presidente dell’Unione camere penali) Corriere della Sera, 4 settembre 2015 Sabino Cassese, nell’editoriale pubblicato nelle pagine sul Corriere della Sera il 24 agosto scorso, ha individuato i temi principali sui quali dovrebbe incidere l’azione del governo per riformare giustizia e magistratura. Il Csm, dominato da gruppi e correnti, l’alto numero degli avvocati, l’elevato numero dei procedimenti in Cassazione, l’eccessivo ricorso alla carcerazione preventiva, i troppi magistrati in politica e le continue esternazioni, la tendenza di Procure e Corti a dettare l’agenda della politica, l’inadeguatezza nel contrasto alla criminalità organizzata, la funzione impropria assunta nella società civile dal sistema giudiziario, lo smodato ricorso alle intercettazioni e la loro incontrollata diffusione e da ultimo la necessaria separazione delle carriere. Tutto sbagliato? A leggere Armando Spataro (sul Corriere della Sera del 27 agosto) parrebbe di sì. Si tratterebbe di "assertive affermazioni" determinate da incrostazioni di "anni difficili". Non esisterebbe la necessità di riformare la magistratura. A parere del procuratore i magistrati italiani sono infatti i più produttivi d’Europa, le carriere politiche e le esternazioni sarebbero solo eccezioni patologiche, le intercettazioni sarebbero irrinunciabili per ogni "delicata indagine", l’indipendenza dei pubblici ministeri, l’obbligatorietà dell’azione penale e la possibilità di interscambio di carriere tra giudici e pubblici ministeri "fanno di quello italiano un sistema la guarda come esempio virtuoso". Ogni volta che nel dibattito pubblico si leva una voce indipendente che ha il coraggio di denunciare i capisaldi su cui si è fondato, tra l’altro, lo sbilanciamento tra i poteri dello Stato, si assiste a immancabili reazioni corporative fingendo di ignorare che democrazie costituzionali di Paesi civilissimi come la Francia, la Germania e la stessa Spagna hanno ordinamenti che assegnano una diversa collocazione ordinamentale al ruolo del pm e dove il rapporto tra lo svolgimento di funzioni giurisdizionali e attività politica del magistrato trovano preclusioni nell’ambito di una disciplina rigorosa. Quanto all’obbligatorietà dell’azione penale è uno sproposito ritenere che in questo Paese venga effettivamente osservata. Chissà poi a cosa si riferisce il procuratore di Torino quando pensa di risolvere i problemi della giustizia eliminando "inutili formalismi"; sarebbe bene comprenderlo perché la forma è garanzia dei diritti dei cittadini. Non è pensabile poi che all’eccessiva durata del processo si possa rispondere aumentando i termini di prescrizione, trasformando una durata eccessiva in un processo infinito. Gli argomenti di Cassese vengono archiviati da Spataro "come una vecchia lista di presunti vizi dei magistrati". Si tratta, al contrario, di temi fondamentali sui quali si deve interrogare chi intenda occuparsi di una vera riforma della giustizia. E se è vero che i problemi del sistema giudiziario sono rimasti irrisolti anche per l’incapacità della politica di porvi mano, è anche vero che ogni tentativo di riforma del sistema giustizia, non suggerito o appoggiato dalla magistratura è stato accolto quasi come un atto eversivo perché la magistratura non sempre gradisce che politica e società civile si occupino di riforme che la riguardano. Fra queste Cassese ha affrontato anche il tema della separazione delle carriere, fisiologica attuazione dell’articolo 111 della Costituzione, anche perché "accusa e giudizio sono mestieri diversi che richiedono preparazione e professionalità differenti". Speriamo che anche Cassese non venga accusato di attentare all’autonomia e all’indipendenza della magistratura e che si colga invece che la disciplina ordinamentale della magistratura è un tema che riguarda tutti ed è esposto ai suggerimenti della Storia. Giustizia: un Cantone choc sulla magistratura di Claudio Cerasa Il Foglio, 4 settembre 2015 "Le correnti? Un cancro. Md? Non mi piace l’utilizzo della giustizia come lotta di classe. L’Anm? Non mi sento rappresentato. Csm? Centro di potere vuoto. E la trattativa". Incontrare alla festa del Pd un inedito Cantone. Le correnti della magistratura come un male assoluto, "un cancro". L’obbligatorietà dell’azione penale diventata una grande farsa, "discrezionale". Il ruolo del Csm che non esiste più, "centro di potere vuoto". E l’Anm che si preoccupa delle ferie e che ormai non rappresenta più nessuno. Bum! Sono le venti e trenta minuti, è la sera di mercoledì 2 settembre, siamo a Milano, festa dell’Unità, e in una libreria a pochi metri dal palco principale sono seduti a fianco Piero Tony e Raffaele Cantone. Si parla del libro di Tony - ex procuratore capo di Prato che con il suo libro "Io non posso tacere" (Einaudi) ha denunciato le vergogne e gli orrori della gogna mediatica, del processo a mezzo stampa e della magistratura politicizzata - e a un tratto il presidente dell’Autorità nazionale anti corruzione interviene, prende parola e sceglie di mettere insieme una serie di pensieri da urlo su tutto quello che non funziona nei rapporti tra magistratura e politica. Bum! Il discorso di Cantone non è generico, si riferisce a una serie di casi concreti e a quella che lo stesso Cantone definisce una parte non maggioritaria della magistratura. Ma le parole di Cantone, eroe del moralismo dell’era renziana, hanno comunque un impatto importante e costituiscono una denuncia sincera di un sistema che giorno dopo giorno rischia, come si dice, di arrivare allo sfascio. E il fatto che Cantone si definisca, testuale, "un magistrato di sinistra" non fa che aumentare l’interesse per il ragionamento. Noi eravamo lì, tra Tony e Cantone, e ci siamo segnati tutto. Si parla del libro, naturalmente, ma si arriva a molto altro. Cominciamo. "Su alcuni temi - dice Cantone - ho una posizione persino più oltranzista di Tony. Io, per esempio, credo che il Csm sia diventato un centro di potere di cui si fa fatica ad accettare il ruolo. E non ho timore a dire che su molte cose credo che il collega si sia persino trattenuto perché, per molti aspetti, le cose sono anche peggiori". Tony, nel suo libro, suggerisce di combattere la piaga del correntismo nella magistratura con una misura simbolica: la selezione per sorteggio dei membri del Csm. Cantone non condivide la soluzione ma condivide eccome la premessa. "Noi - dice Cantone - siamo l’ultima categoria che fa carriera in modo automatico senza che vi siano demeriti. Il sorteggio non mi convince, perché sarebbe una grande sconfitta, darebbe l’idea che la magistratura non sia sostanzialmente modificabile. Sono però convinto della diagnosi che le correnti siano diventate un cancro della magistratura. Posso dirlo? Io mi definisco un magistrato di sinistra ma non ho mai fatto parte di Magistratura democratica. Ho sempre avuto grandi rapporti con Magistratura democratica, molti miei amici e molti colleghi con cui ho lavorato sono stati e sono quasi tutti di Magistratura democratica. Ma non mi è mai piaciuto di Magistratura democratica il settarismo che l’ha sempre caratterizzata. L’utilizzo della giustizia come lotta di classe". Pausa. Si ricomincia. "Le correnti della magistratura sono uno strumento indispensabile per fare carriera e hanno rappresentato e rappresentano oggi un vero e proprio sistema che per certi versi è persino peggiore di quello della politica. Se non fai parte di una corrente non vai da nessuna parte. Questo è un dato obiettivo. Un dato che si fa fatica ad accettare". E Cantone, con le correnti, che rapporto ha? Risposta tosta. "Io non mi sono mai cancellato dalla corrente a cui sono sempre stato iscritto dal primo giorno ed è una corrente a cui mi sono iscritto solo perché è la corrente che aveva fondato Giovanni Falcone, ed è l’unica ragione per cui vi sono rimasto". E l’Anm? Altra bomba. "Non mi sono mai cancellato neppure dall’Anni ma confesso che faccio fatica a pensare di essere difeso da un soggetto che si batte per tenere il numero di ferie a quarantacinque giorni". Sulla separazione delle carriere, invece, Cantone ribadisce quanto sostenuto tempo fa in una chiacchierata con questo giornale ("Non condivido l’idea di separare le carriere dei giudici da quelle dei magistrati perché la separazione delle carriere rischierebbe di rendere il ruolo dei magistrati più autoreferenziale ancora rispetto a come lo è oggi"). Ma sul tema della riforma dell’obbligatorietà dell’azione penale il capo dell’anti corruzione offre un’altra frase che non può passare inosservata. "Per come è pensata oggi - dice Cantone, alludendo all’idea che sia impossibile sostenere che un’azione penale nasca soltanto per ragioni di obbligatorietà e non invece per ragioni legate alla sensibilità personale del pm - l’obbligatorietà dell’azione penale è un testo bellissimo ma inattuabile. Crea più danni che vantaggi e consente la vera discrezionalità dell’azione penale". I ragionamenti si accavallano e Cantone appare sempre di più, sorprendentemente, come un fiume in piena che a poco a poco esce fuori dagli argini del politicamente corretto. E al termine della chiacchierata il presidente dell’Anti corruzione arriva a sfiorare un altro terreno delicato e particolarmente sensibile: la Trattativa stato mafia. Nel libro di Tony la tesi dell’ex procuratore capo di Prato è forte. Tony sostiene che la trattativa è "un pentolone all’interno del quale ho visto confluire molti degli ingredienti del processo mediatico, o meglio della gogna mediatica" e per inquadrare bene il tema offre al lettore questo ragionamento: "La mia impressione è che tutto sia contorto, meta-giudiziario quanto ad analisi socioeconomiche e storico-politiche, e silente quanto al movente delle persone di stato. Ho l’impressione che in questa storia alcuni magistrati si siano mossi più come giornalisti che come inquirenti, e che siano partiti dalla volontà di dimostrare una teoria storica più che un reato preciso... e che ci troviamo di fronte a un grande equivoco storico e che si rischi di processare un metodo, più che un reato. A voler essere più precisi, mi sembra si stia portando avanti più un processo alla politica governativa degli anni delle stragi che un processo a singoli esponenti politico-istituzionali". Cantone, come si è detto, ha letto il libro di Tony e il ragionamento offerto dall’ex magistrato lo ha convinto in pieno. "Una parte che mi è piaciuta molto di questo libro è quella sulla Trattativa stato mafia ed è una di quelle cose che molti magistrati pensano ma nessuno ha il coraggio di dire". E il fatto che a dire questa frase sia Raffaele Cantone, cioè l’uomo scelto da Renzi per provare a dettare al paese un nuovo codice morale in un perimetro che naturalmente non riguarda solo il campo della corruzione, non è secondario, e offre ai velinari delle procure l’occasione di rifletterci su almeno per un po’. Giustizia: Mafia Capitale, quando la politica perde il primato di Carlo Nordio Il Messaggero, 4 settembre 2015 Un grande filosofo insegnava che la differenza tra la morale autonoma e quella eteronoma sta nel fatto che la prima deriva da un profondo convincimento interiore, e la seconda da un’imposizione o da un suggerimento esterno. Delle due, solo la prima è nobile e vincolante, perché disinteressata e sincera. La seconda, al contrario, è ambigua e incerta, perché ubbidisce a ragioni di convenienza. Non sappiamo se sia così anche in politica, perché, come s’è detto più volte, quest’ultima risponde più a criteri utilitaristici che a esigenze etiche. Nondimeno, la politica è certamente tanto più credibile ed efficace quanto più segue argomentazioni autonome, cioè sue proprie, piuttosto che adeguarsi a suggerimenti estranei alla propria funzione. Sotto questo profilo, le reazioni del presidente Renzi alla manifestazione romana, e quelle del ministro Alfano all’auspicio papalino dell’amnistia, costituiscono buone notizie: nel senso che, appunto, la politica riafferma, senza esitazione, il proprio primato. L’atteggiamento di freddo distacco del Primo ministro di fronte all’happening "per la legalità", è finalmente una ferma e dignitosa risposta alla petulante sequenza di appelli e cortei che a suo tempo Leonardo Sciascia, con l’intelligenza e la lungimiranza del razionalista disincantato, aveva etichettato come professionismo dell’antimafia. Risposta coraggiosa nei confronti dell’intimidazione moralistica delle vestali della legalità condiziona da parecchi anni ogni iniziativa difforme dalla "vulgata" di chi si è arrogato il monopolio della virtù civile. E risposta legittima e giustificata, perché questo governo ha fatto e sta facendo molto per combattere la delinquenza organizzata e la sua figlia naturale, che si chiama corruzione. Con tutte le riserve, che abbiamo già espresso, sulla inutilità e il velleitarismo di alcuni provvedimenti, come l’inasprimento delle pene e la creazione di nuovi reati, dobbiamo rendergli atto che, sotto il profilo preventivo, il governo sta operando bene. La revisione del codice degli appalti, l’avvio di una semplificazione normativa e la nomina di Cantone sono significativi esempi di una volontà seria e di una determinazione risoluta. Di conseguenza, Renzi ha tutte le ragioni di sfilarsi dall’ennesimo girotondo avallato, per colmo di ironia, dalla presenza tardiva di un sindaco definito, da una irriverente e geniale vignetta, titolare di sede vacanze. Ma anche la risposta altrettanto fredda data dal ministro degli Interni all’invocazione papalina di un’amnistia generale merita considerazione e plauso. Non perché una amnistia non sia utile e addirittura necessaria. Ma lo è per le ragioni strategiche esposte più volte da Napolitano e da Marco Pannella, e non per un generico e perdonistico buonismo, diseducativo e inefficace. L’amnistia è necessaria non per svuotare le carceri, perché costituirebbe un riconoscimento di impotenza, una resa rassegnata che comunque rimanderebbe, senza risolverlo, il problema dell’affollamento. E nemmeno è necessaria per caritatevole indulgenza cristiana, perché lo Stato non può arrogarsi il diritto al perdono, che spetta soltanto alle coscienze individuali delle vittime e dei loro parenti. L’amnistia è necessaria alla condizione che rappresenti una svolta culturale nella filosofia del reato e nella funzione della pena, superando la concezione del carcere come unica risposta repressiva, modulando le sanzioni secondo i criteri costituzionali della umanizzazione e del reinserimento sociale. Più o meno le cose dette anche dal ministro Orlando; altrimenti, diventa una lotteria. Concludo. Renzi e i suoi hanno, ciascuno a modo proprio, affermato l’autonomia e l’autosufficienza della politica: lo hanno fatto con coraggio, davanti alla piazza e davanti al Papa. Ora aspettiamo la prova più importante: che lo facciano davanti alla Magistratura. Giustizia: Mafia Capitale, la sinistra cerca bagno purificatore ma in piazza la città non c’è di Mario Ajello Il Messaggero, 4 settembre 2015 Il bagno purificatore non è riuscito. Perché manca il popolo, non c’è la presenza forte dei cittadini romani, in questa Anti-Mafia Capitale, che il Pd con il sindaco e con i compagni di strada ha mestamente allestito a piazza don Bosco. Per rifare l’anima alla politica che l’ha perduta tra i Buzzi, i Carminati e lo show, in questa stessa piazza di Cinecittà, delle esequie dei Casamonica "re di Roma". Dal palco parte il grido: "I Carminati si sentono padroni di questo luogo. E oggi questo luogo è nostro!". E domani di chi?, sorge spontaneo chiedersi? Più probabile che torni ai boss piuttosto che resti a quel che resta del Pd. Il quale ieri ha dimostrato di avere perso la bussola della città. Poco pubblico, manifestazione prettamente ex Pci e a scarsissima densità renziana (toh, c’è il sottosegretario Rughetti in rappresentanza della cerchia Matteo) e l’anziano compagno Menichelli, che fu autista di Enrico Berlinguer, è stato il più omaggiato. Certamente in misura maggiore rispetto al sindaco Marino al quale, appena arrivato dall’America, hanno gridato "tornatene ai Caraibi". Un urlo che non rispecchia soltanto l’antagonismo da brutti ceffi come quelli che hanno cercato di dare l’assalto alla manifestazione (a colpi di slogan così: "Pd mafia", "Marino hai rovinato Roma", "Vergogna!", "Fascisti!") ma anche lo scetticismo galoppante, e diventato uno scaricamento di fatto, che serpeggia in larga parte dei militanti democrat. C’è tra di loro chi si sforza di non infierire. C’è chi (una signora, dicendo: "Sempre rose sono, ma non quelle dei Casamonica") addirittura regala un mazzo di fiori al sindaco per rianimarlo. E c’è chi (e sono i più), come il primo gruppo di elettori democrat di mezza età arrivati in piazza, parla così: "Marino? È un cittadino americano, non italiano. Si è trovato a maneggiare cose che non conosce e i risultati si sono visti". Uno di loro è Angelo, che abita proprio su questa piazza e ha visto due settimane fa anche il funerale di Vittorio Casamonica. Racconta: "Quei mafiosi hanno voluto dire con quello show: qui comandiamo noi. Il problema è che la politica, quella buona, non comanda più. E quella cattiva è ammanicata con Buzzi, Carminati, Casamonica e via dicendo. Comunque, c’è più gente qui che al funerale del 20 agosto". Più in là, ci sono i compagni del circolo del Quadraro e narrano: "Dopo Mafia Capitale non avevamo più il coraggio di farci vedere in giro. Ora vogliamo vedere se questo partito ha ancora l’energia per ripartire". Vedendolo così, parrebbe esausto il Pd. Molto ceto politico in piazza, i parlamentari, i consiglieri, Fassino (per l’An-ci) e Fassina, il sindaco con gli assessori e uno di loro (la new entry Rossi Doria) ripete come in un mantra "stiamo uscendo dal tunnel" e le facce intorno a lui trasudano romanescamente un "davvero davvero?", il governatore Zinga-retti, il ministro Orlando ("I problemi si affrontano provando a stare tra la gente, anche quando è imbarazzante") e la presidente dell’Anti-Mafia, Rosy Bindi. Che spiega: "Ci sono stati pezzi di partiti, anche il mio, coinvolti in Mafia Capitale. Non siamo qui solo per dire di no ai Casamonica, ma anche per contrastare qualsiasi connubio tra mafia e politica. Il Comune di Roma non è stato sciolto ma neanche assolto". Ma ecco la sora Adriana, sui 70 anni, che alla fine di tutto va via commentando: "Due ore de casino, per sta cacchiata!". Matteo Orfini è il promotore dell’evento e sembra goderselo sotto il palco. Anche se il funerale del boss "re di Roma" è stato di gran lunga più spumeggiante e l’elicottero che sorvola la piazza non fa piovere petali di rose ma controlla l’ordine pubblico perché è targato Polizia. Mentre giù in piazza riecco i vigili e il commento che li accompagna: "Quest’anno li abbiamo visti due volte, al funerale dei Casamonica e al contro-funerale dei Casamonica". Cioè quello di ieri, che si prestava da subito all’effetto boomerang che infatti si è avuto. Appena il primo speaker ha provato a dire qualcosa, un gruppetto di contestatori arrivati da San Basilio ha aperto un grande striscione raffigurante la celebre foto-riassunto di Mafia Capitale, scattata durante una cena al centro Baobab, in cui si vedono tra gli altri insieme a Buzzi e a Luciano Casamonica i democrat Ozzimo e Marroni, più il ministro Poletti. E ci voleva poco a immaginare che sarebbe andata così. Giustizia: speranze e polemiche al sit-in antimafia capitale di Gilda Maussier Il Manifesto, 4 settembre 2015 Piazza piena per la fiaccolata indetta dal Pd. Contestazioni dei movimenti di lotta per la casa. Fischi e applausi per il sindaco Marino. "Per troppo tempo si diceva che a Roma la mafia non c’era e invece c’è e va sconfitta. A Roma non c’è mai stata una manifestazione antimafia e credo che quella di oggi (ieri, ndr) dimostri che questa città sta prendendo coscienza, e questo è il primo passo per vincere la sfida contro la mafia". È soddisfatto, il presidente del Pd, Matteo Orfini, che aveva corso il rischio di indire il sit-in "Antimafia Capitale" e ora tira un sospiro di sollievo. Piazza Don Bosco si è popolata ieri di centinaia di rappresentanti di associazioni e sindacati, sindaci con le fasce tricolori, qualche politico e semplici cittadini, arrabbiati col sindaco Marino o plaudenti ma che comunque hanno regalato un’immagine di Roma opposta allo sfarzo mafioso dei funerali di Vittorio Casamonica. Nessuna folla oceanica, però, nemmeno paragonabile al numero infinito di tweet e post indignati, per il grande show alla "Padrino" e le vacanze di Marino, che hanno animato la rete nella calura agostana. Presenti in piazza molti esponenti del Pd e di Sel, mentre il M5S, assente, ha bollato "la fiaccolata convocata da Orfini" come "del tutto episodica e casuale, montata come uno spot". Ha rinunciato a partecipare anche il candidato del centrodestra Alfio Marchini che avrebbe voluto una manifestazione silenziosa e apartitica. Molto critico il consigliere radicale Riccardo Magi che ha addirittura invitato i romani a disertare l’appuntamento perché "l’improvvisata e ipocrita armata rincorre il boom di Mafia capitale ignorando le cause del crack di Roma". Ma nessun politico ha preso la parola dal piccolo palco allestito a pochi metri dalla chiesa dove don Manieri, ieri assente, il 20 agosto scorso aveva celebrato le esequie del capoclan. In una piazza blindata e sorvolata da un elicottero, questa volta regolare e della polizia, arriva, scortato, Ignazio Marino, accolto da fischi, urla ma anche da applausi. Ascolta le tante testimonianze e gli appelli che si susseguono dal palco, poi se ne va e la scena dell’ingresso si ripete all’uscita della piazza. "Roma è una città antifascista, antirazzista e antimafiosa - commenta - Ha cacciato il fascismo e il nazismo e da questa città verrà cacciata anche la mafia". Poi aggiunge in un tweet: "Oggi una comunità intera è qui a Don Bosco a testa alta, a dire che non saranno loro a vincere". Accanto a lui e tra la folla, anche il ministro di Giustizia, Andrea Orlando, che giudica l’iniziativa "un successo politico" di Orfini, la presidente della commissione antimafia Rosi Bindi e il governatore del Lazio, Nicola Zingaretti, anche lui convinto che "non reagire sarebbe stato un errore". Nel giorno che è anche il 33esimo anniversario dell’omicidio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa (arriva anche qui lo strascico delle polemiche, a Palermo, sull’assenza del governatore siciliano Rosario Crocetta alla commemorazione ufficiale presieduta dal ministro Alfano), sono presenti nella piazza romana anche la presidente della Regione Umbria, Catiuscia Marini, molti sindaci della regione e qualcuno venuto da un po’ più lontano e il presidente dell’Anci, Piero Fassino, che ricorda i tanti primi cittadini "che ci hanno rimesso la vita" ma "che non si sono piegati all’illegalità". Ma a contestare c’erano anche alcuni rappresentanti dei movimenti per la casa, dei sindacati di base e dei centri sociali romani che hanno srotolato uno striscione con su scritto "Contro la finta legalità, la legittimità delle lotte. Basta sgomberi e sfratti". La polizia li ha allontanati e a sera un comunicato della questura ha fatto sapere poi che "sono stati evitati iniziative in forma eclatante da parte di alcune decine di persone aderenti a movimenti antagonisti". Nulla è stato aggiunto riguardo quegli "esponenti del clan dei Casamonica" che, secondo la toccante testimonianza della giornalista di Repubblica, Federica Angeli, sotto scorta perché minacciata da tempo dai clan mafiosi di Roma e di Ostia, "si aggiravano nelle vie del quartiere". Giustizia: radicalizzazione nelle carceri, l’unica certezza è che non si sta facendo nulla di Martino Pillitteri Vita, 4 settembre 2015 Il sistema carcerario italiano non fa nulla per contrastare la diffusione dell’ideologia estremista tra i detenuti arabi. E chiude anche le porte in faccia a chi ha delle proposte a costo zero. La denuncia dell’esperto di Islam e professore all’Università Cattolica Paolo Branca. Mentre il dibattito sui migranti e specialmente sui ‘richiedenti asilò continua a imperversare - come al solito - rimbalzando pareri più o meno estemporanei o bizzarri di leader europei o presunti tali e spesso a vantaggio delle opinioni pubbliche locali allarmate, ma male informate, una cappa di semi-totale paralisi distingue il Bel Paese su una questione cruciale praticamente ignorata da tutti. Vari report europei e non confermano ormai da anni che il luogo principale di ‘radicalizzazionè dei musulmani sono le carceri: il riavvicinamento alla religione da parte di detenuti disperati e lasciati a se stessi con problemi di non poco conto (gli episodi di autolesionismo primeggiano tra gli arabi che affollano le nostre prigioni) è la via principale attraverso cui delinquenti comuni finiscono per diventare potenziali terroristi o candidati all’arruolamento nelle file dello Stato Islamico. "E il sistema carcerario" sostiene il professor Branca intervistato da Vita.it, "non fa nulla". Prof. Branca, cosa si fa in Italia per gestire questo inquietante fenomeno? "È ormai quasi da una decina di anni che con varie case di detenzione di Milano e dintorni sto proponendo un percorso che consenta ai detenuti arabofoni, attraverso una lettura comune di testi della loro tradizione culturale, almeno il recupero di un senso di ‘dignità’ che possa aiutarli nel loro percorso riabilitativo". Cos’è riuscito a realizzare finora? "Nulla. Pur essendo stato ricevuto da vari dirigenti, aver parlato con responsabili di associazioni abilitate ad agire nell’ambiente carcerario e aver avuto garanzie di finanziamento da Fondazioni del privato sociale, a un certo punto delle trattative tutto si blocca, non è più possibile reperire nessuno e si torna alla casella di partenza. A parole tutti disponibili ed entusiasti, nei fatti non succede nulla". A cosa attribuisce queste difficoltà? "Non saprei dire con certezza. Tuttavia mi pare che l’ambiente sia piuttosto chiuso e retto da logiche interne poco chiare. Basti pensare che anche semplicemente portare in omaggio libri di letteratura araba già catalogati e garantiti alle biblioteche carcerarie è tutt’altro che semplice". Allora è colpa della burocrazia? "No. La colpa principale è di chi non vuole lavorare. Quello che mi colpisce è che le mie iniziative sono a costo zero. Io mi occupo di recuperare il materiale da leggere, scelgo e porto ( a spese mie) con me dei giovani italo-arabi di seconda generazione islamici che possono facilmente entrare in sintonia con i detenuti facendoli respirare area di casa loro. Non è complicato farmi entrare in un carcere con dei libri e un paio di giovani. Eppure". Chi si occupa di questi ospiti "particolari" delle nostre prigioni? "Associazioni di stampo cattolico o laiche non mancano, ma sembra che la priorità sia legata a questioni di dipendenza dall’alcol o da stupefacenti, senza che altri fattori siano presi in seria considerazione. Persino i cappellani cattolici si limitano spesso ad allungare qualche euro per le sigarette o le carte telefoniche e nulla di più". Le risulta che sia così in tutta Italia? "Veramente no. A Bologna negli scorsi mesi si è svolta una serie di incontri che partendo dalla costituzione italiana e da quelle dei paesi arabi ha dato occasione a vari detenuti musulmani di poter riflettere su tematiche importanti relative alla società civile. Ma se non sbaglio è una delle rare eccezioni". Cosa possiamo dedurne? "Il tema della sicurezza è assai sbandierato ma in realtà non risulta prioritario per nessuno. Uno dei tanti argomenti buoni a sporcare d’inchiostro i giornali e a infiammare arene televisive che lasciano il tempo che trovano". Si arrende o continuerà a provarci? "Non mi arrenderò, anche perché non è una cosa utile a me, ma ad altri e a tutti". Dati? "Su un totale di 64.760 detenuti al 30 settembre 2013 (a fine anno si era scesi a circa 62.500 mila, ndr), circa 23 mila erano gli stranieri e 13.500 gli originari di Paesi islamici. Fra i musulmani osservanti dietro le sbarre 102 hanno la cittadinanza italiana e nel 2013 sono stati segnalati 19 convertiti. Spaccio di droga e furto i reati più diffusi, oltre a reati minori, come falsificazione di documenti o resistenza a pubblico ufficiale". Giustizia: le "lavorazioni carcerarie", esempio di vera ripresa al di là di qualsiasi limite Il Gazzettino, 4 settembre 2015 Ci sarà anche l’esperienza delle lavorazioni carcerarie padovane oggi all’Expo, in uno dei convegni più importanti dell’intera manifestazione. Si intitola "Le 4 potenze dell’Enogastronomia Italiana" e radunerà nell’Auditorium di Palazzo Italia quindici personaggi, testimoni della bellezza, del saper fare, dell’oltrepassare il limite e della visione del futuro, accompagnati dall’autore de "Il Golosario" Paolo Massobrio. Tra i relatori del seminario ci sarà anche Nicola Boscoletto, presidente di Officina Giotto, il consorzio che nella casa di reclusione di Padova promuove e coordina varie lavorazioni, tra cui la celebre Pasticceria Giotto, che coinvolgono in tutto oltre 140 detenuti. Boscoletto dovrà relazionare sulla più strana e inaspettata delle quattro "potenze", il limite. Che anzitutto è un limite fisico, come le sbarre del carcere. Ma che può essere affrontato e diventare occasione di ripresa se non addirittura di rinascita attraverso il lavoro. "A condizione - spiega Boscoletto - che si tratti di un lavoro reale. Il lavoro è l’antidoto al non far nulla che è il vero male delle carceri italiane, ben più del sovraffollamento, oggi peraltro minore rispetto al passato. E poi ci vuole qualcuno che ti tratti per quello che sei, per quello che vali, non per gli errori che hai compiuto in passato. L’uomo, come ricorda sempre anche papa Francesco, non coincide con il suo errore". Panettone e gelato sono solo alcuni dei numerosi dolci realizzati nella pasticceria del carcere di Padova, che in questi anni ha ricevuto numerosi premi (ultimo, il riconoscimento di Pasticceria dell’anno 2013 nel referendum del Gastronauta Davide Paolini) e i cui prodotti oggi sono conosciuti in tutto il mondo, al punto che in varie nazioni si guarda a Padova come esempio da una parte di imprenditoria sociale e dall’altra di eccellenza nel campo della pasticceria. Oltre a ghiottonerie di tutti i tipi, nella casa di reclusione poi si producono anche biciclette, valige, business key per la firma digitale ed è attivo un call center con oltre 60 postazioni per chiamate sia in ingresso sia in uscita. L’esperienza di Officina Giotto fa scuola all’Expo di Milano (Padova24ore.it) Ci sarà anche l’esperienza delle lavorazioni carcerarie padovane giovedì 3 settembre all’Expo, in uno dei convegni più importanti dell’intera manifestazione. Si intitola "Le 4 potenze dell’Enogastronomia Italiana" e radunerà nell’Auditorium di Palazzo Italia (con inizio alle 18.30) quindici personaggi, testimoni della bellezza, del saper fare, dell’oltrepassare il limite e della visione del futuro, accompagnati dall’autore de Il Golosario Paolo Massobrio. L’appuntamento, che fa parte dei sei grandi seminari del calendario di Padiglione Italia, è stato ideato dallo stesso Massobrio, che poi a ottobre (dal 17 al 19) animerà il più atteso "fuori Expo" dedicato all’enogastronomia italiana, con Golosaria. Tra i relatori del seminario ci sarà anche Nicola Boscoletto, presidente di Officina Giotto, il consorzio che nella casa di reclusione di Padova promuove e coordina varie lavorazioni, tra cui la celebre Pasticceria Giotto, che coinvolgono in tutto oltre 140 detenuti. Boscoletto dovrà relazionare sulla più strana e inaspettata delle quattro "potenze", il limite. Che anzitutto è un limite fisico, come le sbarre del carcere. Ma che può essere affrontato e diventare occasione di ripresa se non addirittura di rinascita attraverso il lavoro. "A condizione", spiega l’imprenditore sociale veneto, "che si tratti di un lavoro reale. Il lavoro è l’antidoto al non far nulla che è il vero male delle carceri italiane, ben più del sovraffollamento, oggi peraltro minore rispetto al passato. E poi ci vuole qualcuno che ti tratti per quello che sei, per quello che vali, non per gli errori che hai compiuto in passato. L’uomo, come ricorda sempre anche papa Francesco, non coincide con il suo errore". Non si può peraltro parlare di esordio per la presenza di Giotto il 3 settembre ad Expo. Si tratta anzi di una terza volta. La prima fu il 27 maggio nel carcere di Padova con Top Food Experience, l’incontro con duecento imprenditori, ristoratori e buyers di 36 paesi dei cinque continenti, dall’Australia alla Cina, dal Libano alla Svezia, presenti in Italia in occasione dell’Expo e interessati alle eccellenze dell’enogastronomia e in particolare della pasticceria italiana. Lo scorso lunedì 17 agosto poi Giotto portò all’Esposizione universale i prodotti di punta, il Panettone artigianale al Fior d’Arancio dei Colli Euganei e il gelato artigianale realizzato con le materie prime delle fattorie padovane di Coldiretti. Una giornata intensissima, ospiti del Padiglione Coldiretti "No Farmers No Party", in cui furono distribuiti oltre ottomila assaggi di panettone e gelato a un pubblico di tutte le nazioni. Panettone e gelato sono solo alcuni dei numerosi dolci realizzati nella pasticceria del carcere di Padova, che in questi anni ha ricevuto numerosi premi (ultimo, il riconoscimento di Pasticceria dell’anno 2013 nel referendum del Gastronauta Davide Paolini) e i cui prodotti oggi sono conosciuti in tutto il mondo, al punto che in varie nazioni si guarda a Padova come esempio da una parte di imprenditoria sociale e dall’altra di eccellenza nel campo della pasticceria. Oltre a ghiottonerie di tutti i tipi, nella casa di reclusione poi si producono anche biciclette, valige, business key per la firma digitale ed è attivo un call center con oltre 60 postazioni per chiamate sia in ingresso sia in uscita. Tornando al titolo del seminario del 3 settembre, parlare di "potenza del limite" equivale a una piccola rivoluzione copernicana: il contrario del limite inteso come elemento frenante o negativo. "Il limite", riprende Boscoletto, "accompagnato dal suo risvolto inevitabile che è l’errore, è l’elemento più importante dello progresso sociale, sia dell’uomo sia del pianeta. Pensiamo all’importanza dell’errore nel progresso scientifico. Non è che per caso tante cose oggi vanno male perché non teniamo conto di questo elemento? Nella società e nel lavoro, basta che uno sbagli per farlo fuori. E così fraintendiamo, o addirittura censuriamo, un elemento prezioso di ripresa e di sviluppo. Ha fatto bene Massobrio a proporre questa riflessione, è fondamentale non solo per il carcere ma per tutta la società". La prima delle quattro potenze che verranno raccontate nel seminario è la bellezza e avrà come testimoni personaggi illustri quali lo chef Gualtiero Marchesi, Maurizio Riva, tra i maggiori designer italiani, e l’architetto del verde Paolo Pejrone. La seconda potenza è il saper fare tipico dell’artigianato. Ne parleranno il presidente di Euro Toques (l’associazione internazionale degli chef) Enrico Derflingher, un guru del mondo del vino quale Angelo Gaja e, come esponente di punta dell’artigianato alimentare, Massimo Spigaroli. Il limite è la potenza più affascinante e più caratteristica dell’Italia, perché ne connota quasi tutti i prodotti, nati dalla capacità di oltrepassare gli ostacoli e immaginarsi strade dove prima non c’era nulla. Oltre a Boscoletto ne parleranno il padre della birra artigianale italiana Teo Musso, e Marina Cvetic che racconterà la storia della strada del vino in un territorio non facile come l’Abruzzo e la sua storia personale, quella di una giovane donna che pur avendo perso all’improvviso il marito è riuscita a sostenere e far crescere l’azienda. Ma ci sarà anche il neurochirurgo Vittorio A. Sironi, esperto di neuro-gastronomia e di neuro-etica dell’Università di Milano Bicocca. Ultima potenza, il futuro. E qui interverranno Alessandro Piana che ha appena terminato la sua serra dove cresce lo zafferano in aeroponica o Eleonora Bertolone che ha rilanciato una varietà di riso quasi dimenticata, il Rosa Marchetti. O ancora Aldo Bongiovanni, che giovanissimo ha scommesso sul mulino di famiglia e sui grani antichi combinandoli con la vendita su web, e ancora l’imprenditore Marzio Nocchi e Plinio Agostoni fondatore di Icam che recentemente in Perù ha lanciato un progetto per permettere ai contadini di sostituire il cacao alla coca e sottrarsi così alla criminalità. Giustizia: aids in carcere; bando del Ministero della Salute per progetti di prevenzione farmacistaonline.it, 4 settembre 2015 I progetti dovranno essere inviati entro il 5 ottobre alla casella di posta elettronica certificata della Direzione generale della prevenzione sanitaria. Dovranno attivare sperimentalmente alcune tra le 15 tipologie di azioni indicate nelle linee guida internazionali concordandole con le Direzioni degli istituti penitenziari competenti. Parte il conto alla rovescia per presentare un progetto "Prevenzione dell’Hiv in carcere: una ricerca-azione per costruire risposte efficaci relative alla riduzione del danno e dei rischi di trasmissione di Hiv nella popolazione carceraria, in base alle Linee Guida Internazionali 2013". L’invito della Direzione generale della prevenzione sanitaria è stata pubblicata sul sito del ministero della Salute. I progetti dovranno da realizzarsi in collaborazione tra Ministero della salute ed enti pubblici che operano nel settore sanitario, nelle materie proposte dalla Sezione del volontariato per la lotta contro l’AIds del Comitato Tecnico Sanitario per l’anno 2015. In diversi documenti italiani recenti e, nello specifico, nelle linee guida internazionali "Hiv prevention, treatment and care in prisons and other closed settings: a comprehensive package of interventions" sono indicati gli interventi da intraprendere negli istituti penitenziari. Il progetto dovrà infatti attivare sperimentalmente alcune tra le 15 tipologie di azioni, indicate nelle linee guida internazionali, concordandole con le Direzioni degli istituti penitenziari competenti, in base alla tipologia di utenza ed alle problematiche locali emergenti. Le proposte progettuali, la cui validità non dovrà essere inferiore ai 60 giorni, ed i relativi allegati, dovranno essere inviati entro le ore 18 del 5 ottobre esclusivamente alla casella di posta elettronica certificata della Direzione generale della prevenzione sanitaria: dgprev@postacert.sanita.it. Sono invitati a presentare progetti gli Enti del Ssn, le Università, gli Irccs; quest’ultimi, se non operanti sull’intero territorio nazionale, dovranno essere autorizzati a partecipare dalla regione competente per località di sede legale. I progetti, della durata di mesi diciotto, dovranno avere sviluppo nazionale, assicurando lo svolgimento di attività riferite ai territori di almeno cinque regioni del Nord, del Centro e del Sud-isole. Per questo dovranno essere coinvolte tre o più associazioni, radicate nel territorio, ma di cui almeno tre con presenza nelle tre aree geografiche citate ed in almeno cinque regioni. Giustizia: "mostro di Foligno"; per Luigi Chiatti arriva fine pena, ma non tornerà libero Corriere della Sera, 4 settembre 2015 Luigi Chiatti, assassino di Simone Allegretti e Lorenzo Paolucci, andrà in un ospedale psichiatrico giudiziario per almeno tre anni: è ritenuto ancora socialmente pericoloso. Per Luigi Chiatti, il "mostro di Foligno", il fine pena scatta in giornata ma il geometra condannato per gli omicidi di Simone Allegretti, 4 anni, e Lorenzo Paolucci, 13, non tornerà libero. Verrà infatti trasferito dal carcere di Prato in un ospedale psichiatrico giudiziario o in una Rems, la struttura sanitaria che li sta sostituendo, per almeno tre anni. Perché, così prevede la misura di sicurezza nella sentenza con la quale la Corte d’assise d’appello di Perugia inflisse a Chiatti 30 anni di reclusione dopo averne riconosciuto la seminfermità di mente e la pericolosità sociale. Su dove il geometra ormai quarantasettenne verrà trasferito (probabilmente una struttura in Toscana) c’è il massimo riserbo (così come qualche incertezza sembra esserci sul fine pena che per alcune fonti potrebbe essere decorso già nei giorni passati). "Non sappiamo niente. Né noi né i suoi genitori" hanno spiegato i difensori di Chiatti, gli avvocati Guido Bacino e Claudio Franceschini. I quali chiedono però di evitare "inutili allarmismi". "Chiatti - ha detto l’avvocato Bacino - non tornerà libero. Passati anche questi primi tre anni in opg o rems la sua pericolosità sociale dovrà essere nuovamente valutata e se accertata la ‘custodià verrà prorogata. E teoricamente potrebbe succedere anche a vita". Uno stato accertato alla fine del luglio scorso dal tribunale di sorveglianza di Firenze che ha dichiarato eseguibile la misura di sicurezza. I periti nominati dai giudici, in Chiatti "non è stato riscontrato alcun minimo atteggiamento di rimorso o di dolore per i fatti commessi". Dalla relazione è inoltre emerso che "il quadro psicopatologico presenta aspetti di particolare gravità che inducono a ritenerlo persona socialmente pericolosa". Chiatti è in carcere dall’inizio di agosto 1993 quando venne arrestato dalla polizia subito dopo l’omicidio di Lorenzo Paolucci. "L’ho perdonato - ha ripetuto oggi Luciano, il padre della piccola vittima - perché subì delle violenze dopo essere stato abbandonato in orfanotrofio dalla madre. Ricordo però che nel processo chiese di non essere lasciato libero o avrebbe ucciso ancora. Per questo non perdonerei chi lo dovesse liberare e non perdonerei più Chiatti se accettasse di tornare libero". "Ciò che oggi interessa è garantire l’internamento di Chiatti, magari in uno dei carceri psichiatrici non ancora dismessi" afferma invece l’avvocato Giovanni Picuti, legale dei familiari delle vittime del "mostro di Foligno". "Mi auguro - prosegue - che in caso di delitti così efferati commessi da soggetti socialmente pericolosi il legislatore faccia un dietro-front. Lo Stato ha il dovere di provvedere alla custodia dei criminali psichiatrici, prima di tentare una loro improbabile guarigione". Per Luigi Chiatti, comunque, le prossime potrebbero essere le ultime ore passate in una cella di un carcere. Anche se per il "mostro di Foligno" la libertà sembra essere ancora lontana. Legittimo sospetto solo in presenza di dati oggetti e verificabili di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 4 settembre 2015 Corte di cassazione - Prima sezione penale - Sentenza 3 settembre 2015 n. 35929. Il condizionamento dei giudici va provato con estremo rigore. Non bastano le prese di posizione della stampa e di alcuni settori della cittadinanza per decidere lo spostamento del processo sulla base del "legittimo sospetto" che sia compromessa l’imparzialità dell’autorità giudiziaria. La Corte di cassazione ha così respinto la richiesta della difesa di Thyssen Krupp per un trasferimento del giudizio di appello (dopo che la stessa Cassazione ne ha deciso il rinvio quanto soltanto alla rideterminazione delle pene). La domanda era fondata su elementi, come articoli di giornale e manifestazioni pubbliche, che risalivano alla celebrazione del precedente processo e che avrebbero determinato una forma di pressione da parte del tessuto sociale sul procedimento, caricandolo di aspettative repressive e di un elevato grado simbolico. La Cassazione, in realtà, sottolinea come il dato temporale non sia comunque indifferente, visto che il clima di allora non è quello di adesso e lo stesso perimetro della decisione cui è ora chiamata la Corte d’appello di Torino è più limitato. E privo di fondamento è il dubbio sull’imparzialità dell’ufficio giudiziario perché non vengono messi in rilievo fatti verificabili, ma solo semplici congetture che non trovano riscontro in circostanze oggettive. Il clima "giustizialista" che a Torino sarebbe stato creato e poi alimentato dalle iniziative assunte dalla cittadinanza "in ambito politico, ecclesiastico, sindacale e culturale" è in realtà, ricorda la Cassazione, solo il frutto di libere espressioni del pensiero "per sensibilizzare i competenti organi nazionali e locali e per stimolare la coscienza critica dell’opinione pubblica su una vicenda di rilievo nazionale". Non può parlarsi allora di forme di condizionamento oggettive e rilevanti dell’esercizio sereno e imparziale della funzione giudiziaria, di forza tale da imporre lo spostamento del processo dalla sua sede naturale. In caso contrario a venire compromesso sarebbe, tra l’altro, un quadro di riferimento costituzionale che vede nella libertà di espressione un valore fondamentale e sarebbe alterato "il fisiologico rapporto dialettico, insito in ogni democrazia evoluta, tra collettività, istituzioni, e funzione giudiziaria in un contesto socio-culturale sempre più connotato da esigenze di conoscenza e dall’accresciuta consapevolezza dei diritti del cittadino sia come singolo che nelle formazioni sociali dove si sviluppa la sua personalità". Del resto, aveva precisato la Cassazione, l’articolo 45 del Codice di procedura penale, come modificato tra le polemiche dalla legge n. 248 del 2002 (Legge Cirami), attribuisce rilievo alle situazioni locali sotto un triplice profilo: pregiudizio per la libera determinazione delle persone che partecipano al processo; pregiudizio per la sicurezza e l’incolumità pubblica; motivi di legittimo sospetto. Quest’ultimo è costituito dalla considerazione della gravità oggettiva di una situazione locale in grado di mettere in pericolo la neutralità del giudice rispetto all’esito del processo. Sospetto che però deve essere caratterizzato da legittimità, tale da ancorarlo a dati oggettivi e concreti. La nozione di "legittimo sospetto", nella lettura della Cassazione, è allora più ampia di quella di "libertà di determinazione delle persone che partecipano al processo" che, invece, consiste nel condizionamento che queste persone subiscono come soggetti passivi una vera e propria costrizione fisica o psichica che incide sulla loro libertà morale, imponendo una determinata scelta, quella della parzialità e della non serenità, precludendone altre di segno contrario". Le più recenti pronunce in tema di Mandato di Arresto Europeo Il Sole 24 Ore, 4 settembre 2015 Rapporti giurisdizionali con autorità straniere - Mae - Condanna contumaciale - Rifiuto di consegna ai sensi dell’articolo 18, lett. r), L. n. 69/2005 - Esecuzione della pena in Italia come richiesto dall’interessato - Mancata rinuncia a contestare la sentenza contumaciale - Ricorso per cassazione - Inammissibilità - Ragioni. Èinammissibile il ricorso per cassazione avverso la decisione con cui la Corte d’appello ha rifiutato la consegna a norma dell’articolo 18, lett. r), della L. n. 69/2005, stabilendo l’esecuzione in Italia della pena inflitta dall’autorità giudiziaria estera con sentenza contumaciale, pure quando l’interessato, oltre a formulare una richiesta in tal senso, si è riservato il diritto di contestare tale sentenza, posto che allo stesso non è precluso di proporre dinanzi all’A.G. dello Stato di emissione del Mae un incidente di esecuzione volto a contestare la validità del titolo esecutivo, o comunque di richiedere alla stessa la rimessione in termini per impugnare la sentenza contumaciale. • Corte di cassazione, sezione VI, sentenza 18 giugno 2015 n. 25909. Rapporti giurisdizionali con autorità straniere - Mae - Consegna per l’estero - Decisione - Udienza camerale - Mancata previsione della pubblicità dell’udienza - Questione di legittimità costituzionale - Manifesta infondatezza - Ragioni. È manifestamente infondata, in riferimento agli articoli 111 e 117, primo comma Cost. (in relazione all’articolo 6, primo comma, Cedu), la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 17 L. n. 69 del 2005, nella parte in cui non consente che, a richiesta di parte, il procedimento relativo alla decisione sulla richiesta di esecuzione del mandato d’arresto europeo c.d. "processuale" si svolga in pubblica udienza, anziché in camera di consiglio. • Corte di cassazione, sezione VI, sentenza 5 maggio 2015 n. 18650. Rapporti giurisdizionali con autorità straniere - Mae - Consegna per l’estero - Richiesta di esecuzione della pena in Italia - Interesse alla rinnovazione del giudizio contumaciale - Esplicita richiesta da parte dell’interessato - Necessità - Conseguenze. In tema di mandato di arresto europeo, qualora la persona richiesta dall’autorità giudiziaria estera per l’esecuzione di una sentenza contumaciale di condanna ne abbia fatto esplicita richiesta, la corte d’appello deve disporre la sua consegna con la duplice condizione della rinnovazione del giudizio secondo la normativa propria dello Stato richiedente e del reinvio in Italia per l’esecuzione della pena eventualmente irrogata all’esito di tale nuovo giudizio. • Corte di cassazione, sezione VI, sentenza 23 febbraio 2015 n. 8132. Rapporti giurisdizionali con autorità straniere Mandato d’arresto europeo - Consegna per l’estero - Deduzione della causa di rifiuto della consegna di cui all’articolo 18, lett. r), L. n. 69 del 2005 - Equiparazione al consenso al riconoscimento, ai sensi del D.Lgs. n. 161/2010, della sentenza straniera - Configurabilità - Conseguenze - Interesse a ricorrere deducendo il carattere "non equo" del processo definito con la sentenza straniera - Esclusione. In tema di mandato d’arresto europeo cosiddetto "esecutivo", la persona richiesta in consegna, invocando l’applicazione del motivo di rifiuto di cui all’articolo 18, lett. r), L. n. 69/2005 presta un sostanziale consenso al riconoscimento della sentenza straniera, ai sensi e per gli effetti di cui al D.Lgs. n. 161/2010, ed è pertanto priva di interesse a dedurre, con ricorso per cassazione, il carattere "non equo" del processo definito con la sentenza straniera da eseguire. • Corte di cassazione, sezione VI, sentenza 10 novembre 2014 n. 46304. Provvedimenti illegittimi della Pa: tutele e prove per il risarcimento di Giovanni La Banca Il Sole 24 Ore, 4 settembre 2015 Il risarcimento del danno da lesione di interessi legittimi presuppone non solo l’illegittimità del provvedimento amministrativo, ma anche la prova circa la reale spettanza del bene della vita che si assume leso dal provvedimento illegittimo. L’illegittimità del provvedimento, pur non coincidendo con la colpa, rappresenta, tuttavia, un indice presuntivo, un indizio, grave, preciso e concordante, idoneo a fondare una presunzione semplice di colpa. In assenza di prova contraria da parte dell’Amministrazione, che avrebbe l’onere di allegare circostanze da cui desumere la scusabilità dell’errore, la colpa dell’Amministrazione deve, pertanto, ritenersi provata. Ciò che si risarcisce, invero, non è l’interesse legittimo in quanto tale, ma la pretesa al bene della vita che a esso si correla, nella cui lesione consiste il danno patito e da rifondere (Consiglio di stato, sezione 6, sentenza 16 luglio 2015, n. 3551). Il giudizio positivo sulla spettanza del bene della vita viene in rilievo come indispensabile presupposto per il risarcimento del danno, sia che la lesione riguardi situazioni pretensive sia che riguardi, come nella specie, situazioni oppositive. In presenza di situazioni pretensive la necessità del giudizio sulla spettanza emerge in maniera evidente, in quanto il privato non è ancora titolare del bene, ma aspira a conseguirlo dall’Amministrazione per effetto dell’esercizio del potere. Ai fini del risarcimento del danno, non basta quindi dimostrare l’illegittimo esercizio del potere, ma occorre anche provare che se il potere fosse stato legittimamente esercitato il privato avrebbe conseguito o, quanto meno, avrebbe avuto una concreta e ragionevole probabilità di conseguire (cosiddetta perdita della chance) il bene della vita agognato. In tali casi, se il potere non è concretamente riesercitabile (e non è quindi consentita una tutela in forma specifica del bene della vita), il giudizio sulla spettanza si traduce nel cosiddetto giudizio prognostico sull’esito del procedimento: si tratta di verificare quale sarebbe stato l’esito del procedimento se l’Amministrazione non avesse commesso l’errore che ha determinato l’illegittimità del diniego. Nel caso di situazioni oppositive, in cui il privato è normalmente già titolare del bene della vita (e si contrappone a un potere amministrativo di natura ablatoria) il giudizio sulla spettanza potrebbe apparire superfluo, in considerazione del fatto che in tal caso il bene della vita preesiste al provvedimento illegittimo, è già nella disponibilità del privato che si oppone all’adozione del provvedimento. In realtà, è vero l’esatto contrario. Sono certamente ipotizzabili diverse situazioni in cui anche per una situazione oppositiva può esserci illegittimità del provvedimento senza spettanza del bene della vita: e che, perciò, non costituiscono titolo per un risarcimento di danni, per la ragione essenziale che in realtà non vi è stato un danno patito. Il risarcimento, invero, non è una misura sanzionatoria per un comportamento illegittimo dell’Amministrazione, ma (in rapporto allo schema generale dell’articolo 2043 del Codice civile) una misura riparatoria per un’ingiusta lesione recata a un bene effettivo della vita. Si pensi per esempio al caso in cui l’illegittimità dipenda solo da vizi formali o procedimentali ininfluenti sul contenuto dispositivo del provvedimento (senza che ne derivino altre conseguenze pregiudizievoli). Oppure si pensi ai casi il provvedimento amministrativo viene a incidere su un bene della vita che il privato detiene senza un giusto titolo, perché, per esempio, lo ha indebitamente conseguito o realizzato e ha, quindi, instaurato con esso un rapporto non meritevole di tutela per l’ordinamento giuridico. In tale ultima fattispecie rientra, a titolo esemplificativo, l’ordine di demolizione di una costruzione che risulta certamente abusiva: il risarcimento non può essere accordato, perché manca il bene della vita la cui ingiusta lesione può configurare il danno risarcibile. Il bene della vita deve, infatti, consistere sempre in un interesse meritevole di tutela secondo l’ordinamento giuridico, atteso che se così non fosse la sua lesione non integrerebbe il "danno ingiusto" richiesto dall’articolo 2043 del Codice civile. L’interesse a conservare un’opera costruita abusivamente (e, dunque, contra legem) non è certamente un interesse meritevole di tutela secondo l’ordinamento giuridico. E questo vale a prescindere dal fatto che quell’opera abusiva possa avere un intrinseco valore economico e, dunque, dalla sua lesione possa derivare una perdita patrimoniale. L’ordinamento, infatti, con l’articolo 2043 del Codice civile (che subordina il risarcimento del cosiddetto danno-conseguenza alla sussistenza del danno-evento ingiusto) non riconosce tutela alla mera perdita economica, cioè alla conseguenza patrimoniale negativa provocata da una altrui condotta non lesiva di interessi meritevoli di tutela, e questo anche nei casi in cui la condotta altrui risulti non iure, e quindi in contrasto con regole giuridiche di comportamento. Il provvedimento illegittimo integra senz’altro una condotta non iure; ma se non vi è anche lesione di un interesse meritevole di tutela, cioè di un bene della vita approvato e tutelato dall’ordinamento, manca inevitabilmente l’ulteriore requisito del danno ingiusto. La perdita economica che eventualmente possa esserne derivata non è risarcibile perché non risulta integrato il caso dell’articolo 2043 del Codice civile. Ipotesi diversa, invece, è quella in cui il danno patrimoniale deriverebbe, in particolare, dal fatto che dai provvedimenti amministrativi derivi un pregiudizio economico ai privati, conseguente, ad esempio, all’ipotesi in cui alcune delle unità abitative oggetto di demolizione, vengono promesse in vendite a soggetti terzi. In tale ipotesi, i contratti preliminari di vendita si sono rivelati fonte di danno, nella misura in cui il privato sarebbe stato costretto a pagare somme di denaro per chiudere in via transattiva alcuni giudizi diretti a lamentare la mancata esecuzione degli obblighi contrattuali, o, comunque, a vendere gli immobili a un prezzo inferiore a quello che altrimenti avrebbe ottenuto. In tale ottica, fermo restando il giudizio prognostico sulla spettanza del bene della vita, la condotta della Pa, assumendo i caratteri dell’illegittimità, può determinare il risarcimento del danno: tutela che può richiedersi sia in forma specifica che per equivalente. In particolare, l’atto della Pa può determinare l’impossibilità di ottenere l’esecuzione in forma specifica dell’obbligo di concludere il definitivo, in quanto la corretta esecuzione del contratto preliminare risultava ormai ostacolata dai provvedimenti adottati dalla Pa (si pensi all’ipotesi di ordine di sospensione (e poi il successivo ordine di demolizione) certamente impediva di completare gli interventi di manutenzione e di consegnare le unità abitative nelle condizioni promesse). In ogni caso, occorre tenere in considerazione anche la condotta del privato, in quanto la vendita (o la promessa di vendita) di un immobile non ancora ultimato, interessato, come nel caso oggetto del presente giudizio, da interventi di manutenzione ancora in corso di esecuzione, rappresenti, di per sé, un "rischio" contrattuale. In casi del genere, il promittente venditore non può ignorare o non farsi almeno in parte carico dell’eventualità che sopravvenienze, di fatto o di diritto, possano impedire il tempestivo completamento dei lavori entro la scadenza del termine previsto per la stipula del definitivo. La parte che, nonostante tali condizioni di incertezza, stipuli comunque il contratto preliminare di vendita, decide, in virtù di una libera scelta negoziale, di accettare questo "rischio" e di sopportarne le conseguenze. In tali ipotesi, il danno lamentato è, quindi, in parte ascrivibile anche a una condotta contrattuale che presenta profili di imprudenza, caratterizzandosi per la volontaria assunzione di un rischio in parte prevedibile. L’imprudenza rileva ai sensi dell’articolo 1227, comma 1 del Codice civile (come condotta che ha concorso ha cagionare l’evento): non vale a interrompere il rapporto di causalità comunque esistente tra il danno lamentato e la condotta illegittima dell’Amministrazione, ma giustifica una riduzione del quantum debeatur. Il sindaco non può requisire una casa per destinarla agli sfrattati di Gianni Trovati Il Sole 24 Ore, 4 settembre 2015 La sentenza 1779/2015 del Tar Campania - Salerno. Un sindaco ha requisito un appartamento privato per destinarlo a una famiglia sfrattata per morosità, imponendole di versare alla proprietaria la somma mensile di 220 euro. La proprietaria dell’appartamento ha impugnato davanti al Tar il decreto di requisizione, ed i giudici (Tar Campania - Salerno, sezione II, n. 1779/2015) hanno accolto il ricorso ed annullato il provvedimento. Il provvedimento del sindaco si basava sull’articolo 7 dell’antica legge del 1865, n. 2248, allegato E, che stabiliva la possibilità per "l’autorità amministrativa di disporre della proprietà privata", ma "per grave necessità pubblica", ed il sindaco poteva quindi esercitare questo potere soltanto se vi erano "eccezionali motivi di necessità ed urgenza", "tali da non consentire l’intervento del Prefetto". Nel caso di specie, non vi erano ragioni di grave ed urgente necessità pubblica che giustificavano un atto restrittivo della proprietà privata. Il provvedimento è stato emanato unicamente al fine di rimediare al disagio abitativo di una famiglia colpita da provvedimento di sfratto. La sentenza ha applicato esattamente quest’antica (e vigente) legge, e deve essere condivisa. In contrario a quanto esposto si potrebbe obiettare che la legge del 1865 non deve oggi essere interpretata secondo i criteri e i valori esistenti all’ epoca, ma alla luce delle norme costituzionali che stabiliscono (articolo 2) i "doveri di solidarietà politica, economica e sociale". Ma l’ obiezione non sarebbe persuasiva. Infatti, questa legge deve essere interpretata anche sulla base del principio costituzionale del riconoscimento e della garanzia della proprietà privata (articolo 42), che "nei casi previsti dalla legge e salvo indennizzo" può essere " espropriata per motivi di interesse generale". Non è prevista l’ occupazione della proprietà privata da parte di un atto dell’ autorità amministrativa, anche se esso può avere la finalità della solidarietà sociale, ed il Sindaco non può imporre il pagamento di un "affitto" mensile. Lettere: 6 anni di carcere da innocente e nessuno mi ha risarcito, mi affido ad Amal Clooney di Giulio Petrilli Il Garantista, 4 settembre 2015 Si intensifica in questi giorni il rapporto epistolare con l’avvocata Amal Allamudinn Clooney, per verificare l’eventualità di poter presentare in qualche tribunale o organismo internazionale la richiesta per il mio risarcimento per ingiusta detenzione, in quanto ho scontato da giovane, sei anni di carcere ingiusto. Ieri l’avvocata Amal Clooney è apparsa su molti media mondiali per la difesa appassionata in Egitto, nel tribunale del Cairo, di uno dei tre giornalisti, condannati a tre anni di carcere, per articoli non graditi agli attuali governanti egiziani. Un chiaro attacco alla libertà di espressione e lei con il suo coraggio, la sua passione, la sua bravura, ha cercato in tutti i modi di evitare la condanna e ha anche detto che ricorrerà e richiederà un’amnistia presidenziale. Io spero che anche per la mia vicenda del mancato risarcimento per ingiusta detenzione, lei possa trovare una strada giuridicamente percorribile. Non è semplice, perché io ho già espletato tutte le vie giudiziarie in Italia (corte d’appello di Milano e cassazione) e in Europa (corte europea a Strasburgo). Tutti questi organismi hanno asserito che pur essendo stato assolto, il solo fatto che avessi frequentato persone "dell’estremismo politico" sarebbe ostativo al risarcimento. Senza parole. Ora torno a sperare e confido che l’avvocata Amal Clooney riesca a trovare una strada ancora percorribile, forse il tribunale della giustizia europea con sede in Lussemburgo o qualche altro organismo internazionale. Il capo della sua segreteria Mr. Bayliss, mi ha richiesto ulteriore documentazione, tutte le sentenze e ricorsi. Attendo una sua nuova comunicazione, consapevole che l’unica che può cercare di risolvere il problema è lei, che sul tenia dei diritti umani e del diritto internazionale è forse la maggiore esperta in circolazione. Tra le sue ultime difese oltre quella dì ieri in Egitto, Julian Assange, Julia Timoshcnko, il governo dell’Armenia e tanti altri. Tornando al mio caso, non vengo risarcito per un giudizio arbitrario e fuori dal diritto e nessuno ha mai pagato per il mandato di cattura emesso nei miei confronti risultato poi infondato, accusa che dichiarava che all’età dì diciotto anni sarei stato tra i capi dell’organizzazione terroristica Prima Linea. Sono dieci anni che porto avanti questa battaglia per il dovuto risarcimento e sono certo che l’avvocata londinese può riaprirmi delle possibilità e speranze. Lettere: "paranze di bambini"? la risposta non può essere solo la repressione penale di Gigi Di Fiore Il Mattino, 4 settembre 2015 C’è una frase che fa riflettere nell’intervista al procuratore capo di Napoli, Giovanni Colangelo, pubblicata qui a fianco. Lancia un allarme, che travalica il ruolo dell’alto magistrato e chiama a raccolta responsabilità collettive. Dice Colangelo che se, nonostante la Dda napoletana sia riuscita in tre mesi ad arrestare a Forcella un centinaio di persone, in quelle zone si continua a sparare e a uccidere, allora bisogna capire che la risposta a quella violenza non può essere affidata solo alla repressione penale. È emergenza nel cuore della città, nel ventre molle con secoli di storia dove si affollano turisti e studenti. È emergenza criminale, per l’azione di gruppi di giovani ventenni eredi della violenza dei loro padri e zii. Riecheggiano, in quei quartieri, i nomi di famiglie che fecero la triste storia della camorra cittadina: i Giuliano a Forcella, i Misso e i Tolomelli alla Sanità. Riecheggiano geografie camorristiche di altri tempi che, con quello che accade da giugno, poco hanno a che vedere. Sono nate "paranze di bambini" - si dice con semplificazioni a effetto - che non esitano ad affrontarsi, a uccidere. Senza preoccuparsi di sparare in pieno giorno, tra gente inerme, davanti a case abitate. Sono ventenni, con genitori e zii in carcere, senza riferimenti di boss liberi in carne e ossa. Giovani che danno fiato agli amanti del facile folklore da napoletaneria, interpreti loro stessi di un folklore drammatico, con i loro tatuaggi che riproducono pistole e nomi da terrore, la loro violenta presenza sulle curve dello stadio San Paolo dove si affrontano a bastonate invece di tifare per il Napoli, i loro calcoli di dominio sullo spaccio di droga. Gang metropolitane più che camorra, più pericolosi perché senza logiche da clan, senza limiti da alleanze criminali. L’eccesso per l’eccesso, con esagerazioni anche nella morte, l’impudenza di chi si sente al sicuro nel suo intricato territorio di vicoli e stradine. Erano quelli, secondo una felice definizione del giudice Corrado Guglielmucci, i "quartieri-Stato" della camorra e dei clan cittadini. Zone dove il capo, riconosciuto per autorità, forniva simboli, rituali, riferimenti "ideologici" agli affiliati: il tifo, la fede religiosa sconfinante nel rituale pagano, le feste, i cantanti popolari. A quei riferimenti se ne sono sostituiti altri; alle estorsioni, le scommesse del lotto nero che Lovigino Giuliano si vantava di aver inventato, o l’industria del falso, le nuove "paranze" hanno sostituito l’affare facile dello spaccio al dettaglio della droga. Ed appare chiaro come non sia più solo questione di riunioni di Comitati dell’ordine pubblico. Non riescono neanche più ad ottenere l’effetto rassicurante di un evento che riunisce rappresentanti dello Stato in grado di annunciare immediati interventi. Che poi, quasi sempre, sono controlli più intensi sui territori interessati all’emergenza. Un giovanotto che certo non è Totò Riina, come Pasquale Sibilio, è latitante da settimane e sembra farsi gioco di chi lo cerca, coperto sicuramente da persone del suo quartiere. Un meccanico ventunenne, Luigi Galletta, è diventato un’altra vittima innocente di Forcella. Undici anni dopo la tredicenne Annalisa Durante. Allora, la ragazza si trovò nel mezzo di una sparatoria. Il meccanico è stato invece ucciso perché non voleva piegarsi alle logiche della banda criminale, che chiedeva informazioni sui "nemici". C’è flessibilità in queste gang, duttilità di appartenenze e di scelte. Una violenza illogica, che rende difficile il lavoro investigativo costretto di continuo a cercare nuove informazioni, perché le precedenti sono già superate. Non è questione di inefficienze, gli ultimi dati sulla piccola criminalità dicono che gli scippi e le rapine in città sono diminuiti con evidenti risultati ottenuti da carabinieri e polizia. Non è questione di più repressione, ma di un territorio da risanare. Un impegno che chiama in causa tutti. Se non basta mettere in galera capi storici, significa che, dopo magistrati e forze dell’ordine, la palla passa ad altri. Diventa risanamento di territori, educazione, cultura. Ai riferimenti ideologici da violenza e prevaricazione dei clan Giuliano, Misso, o Mazzarella, vanno sostituiti altri valori, da convivenza. Ma questo non possono farlo i magistrati, i poliziotti e i carabinieri. Almeno non da soli. Il padre di Annalisa Durante ha aperto una biblioteca a Forcella, ma il teatro Trianon è stato tradito dall’assenza del pubblico. Dal disinteresse della città che abita altrove e ha paura. Il cuore di Napoli soffre di terrore, proprio nella zona dove i turisti cercano la nostra storia. Non abbandoniamo quelle zone a poche decine di "bambini"-grandi, che con la paura e la prevaricazione prosperano. Riprendiamoci tutti, con l’aiuto dello Stato in ogni sua espressione, il diritto a vivere, a camminare senza paura a Forcella come alla Sanità. Non diamola vinta a chi ha preferito, per scelta, la pistola al libro. Lecce: ci sono 500mila euro per curare i detenuti, ma l’Asl fa finta di niente di Errico Novi Il Garantista, 4 settembre 2015 Il direttore di Borgo San Nicola: "l’azienda sanitaria si è presentata con un elenco di apparecchiature per un totale di circa 170mila euro che non risulta rispondente a quello elaborato dal distretto socio sanitario. Questo senza dare alcuna spiegazione che cosa ne è degli altri 330 mila euro?". I fondi comunitari destinati all’acquisto di dotazioni sanitarie per il carcere Borgo San Nicola di Lecce, ci sono e anche abbondanti: si tratta di 500mila euro tenuti a bagnomaria da oltre un anno e che l’Asl non ha ancora speso. Mezzo milione di euro, che rischia di finire in fumo: se non verranno impiegati entro il 31 ottobre andranno perduti, perché, spiega la Regione, quelle spese vanno "pagate e quietanzate inderogabilmente entro il 31 ottobre 2015 per consentire validazioni e controlli del caso da parte dei suoi uffici. Procedure, queste ultime, da definire a loro volta entro il 31 dicembre". È una corsa contro il tempo insomma. E soprattutto uno spreco intollerabile, che il Sappe, il sindacato autonomo di Polizia penitenziaria, non intende supinamente accettare: tant’è che ha segnalato la vicenda alla Procura di Lecce. Quei 500mila euro possono salvare la pelle di chi è in galera. Spenderli nelle apparecchiature vorrebbe dire poter curare i detenuti ammalati direttamente in carcere, evitando loro il trasporto in strutture esterne che comporta molti tipi di rischi. Il segretario regionale del Sappe, Federico Pilagatti, in una lettera inviata, tra gli altri, al procuratore Cataldo Motta, al prefetto di Lecce, Claudio Palomba, e al governatore Michele Emiliano, esprime molta preoccupazione per le "traduzioni di detenuti, anche pericolosissimi, con un numero inadeguato di poliziotti di scorta. "Ci sembra inaccettabile che, in presenza di condizioni che potrebbero far diminuire le uscite dal carcere non si agisca con la dovuta rapidità", ammonisce Pilagatti. E la stessa irritazione emerge anche dai vertici dell’amministrazione penitenziaria del carcere leccese "Attendiamo chiarimenti dal direttore generale dell’Asl, Giovanni Gorgoni, che in questi giorni ci ha richiesto l’elenco degli acquisti destinati al carcere, già peraltro stilato a suo tempo dal Distretto socio sanitario di Lecce e consegnato all’azienda sanitaria", spiega la direttrice della casa circondariale salentina, Rita Russo. Motivi per essere perplessi ce ne sono: l’elenco richiesto di recente fu inviato all’Area Patrimonio dell’Asl già nel settembre del 2014. Ma non è tutto. Nel vertice del 25 agosto che ha coinvolto il comitato provinciale per l’ordine; e la sicurezza pubblica convocato appositamente dal prefetto di Lecce, al quale ha preso parte anche il manager dell’Asl, "l’Asl si è presentata con un elenco di apparecchiature per un totale di circa 170mila euro che non risulta rispondente a quello elaborato dal distretto socio sanitario. Questo senza dare alcuna spiegazione. Dunque, ci chiediamo perché non si stia sfruttando l’intero finanziamento! di 500mila euro", chiarisce la direttrice del carcere, Rita Russo. Perché, si chiede insomma l’amministrazione del penitenziario insieme al Sappe, c’è voluto tanto tempo per bandire la gara? E perché mancano all’appello ben 329 mila euro, dei 500mila disponibili? Padova: revocati i fondi alla cooperativa che doveva creare posti di lavoro per detenuti di Nicola Cesaro Il Mattino di Padova, 4 settembre 2015 La Regione rivuole da Ipas 4,2 milioni. Il polo della logistica creato con i soldi pubblici doveva garantire nuova occupazione. La coop si difende: "Colpa della crisi". A maggio pareva solo una minaccia, poi è diventata una promessa e, negli ultimi giorni, si è arrivati all’imposizione. La Regione Veneto ha chiesto ufficialmente alla cooperativa Ipas di Padova di restituire i 4,2 milioni di euro utilizzati per realizzare il polo della logistica di Monselice in cui far lavorare disoccupati, disabili e detenuti. Il provvedimento è stato firmato dall’assessore regionale ai Servizi sociali Manuela Lanzarin: il progetto presentato dalla Ipas di Moreno Lando non è stato portato a piena attuazione e dunque la coop patavina deve restituire la somma erogata. Afìne 2011 l’ente regionale, con un bando firmato dall’allora assessore Remo Sernagiotto, aveva finanziato con 50 milioni dì euro una serie di progetti destinati all’integrazione lavorativa dei disabili e degli emarginati veneti. A Monselice erano finiti 4,2 milioni euro, indirizzati alla Ipas Società Cooperativa. L’iniziativa prevedeva di riqualificare un capannone di 3.500 metri quadri in via Umbria e di destinarlo a luogo di lavoro per detenuti, ex detenuti e over 50 senza domicilio, Secondo il progetto, i lavoratori sarebbero stati impegnati in attività manuali e di logistica. Il nuovo centro doveva essere operativo nell’estate 2012, Strutture e apparecchiature sono state portate a compimento, mentre non è mai decollato pienamente l’inserimento dei quaranta lavoratori previsti dal progetto redatto da Ipas: nel magazzino monselicense, al massimo, hanno lavorato contemporaneamente 8 persone. Cinque mesi fa il bando voluto da Sernagiotto era stato al centro dì forti polemiche proprio per questi motivi: la maggior parte degli interventi finanziati dalla Regione non erano stati portati a termine, a fronte degli effettivi trasferimenti di risorse verso cooperative e privati. L’Ipas aveva dovuto relazionare agli uffici regionali i motivi del proprio ritardo, ricevendo peraltro anche la visita di alcuni organi ispettivi. La minaccia, più o meno velata, di revocare i fondi impegnati attraverso il bando sì è concretizzata nei giorni scorsi: la Regione, stanca di attendere, ha imposto all’Ipas di restituire i soldi, "La crisi economica, e in particolare quella della logistica, non ci ha garantito la mole di lavoro auspicata e dunque non siamo riusciti ad occupare un numero importante di lavoratori" ripete ancor oggi Moreno Lando "Ci sono dei limiti oggettivi che non possiamo superare. Proprio per questo stiamo per depositare un ricorso al Tar contro la revoca del finanziamento: il bando indicava le cause che avrebbero potuto portare alla revoca e nessuna corrisponde al nostro caso. Lo stesso numero di lavoratori indicati nel progetto, una quarantina, non era un limite previsto dal bando, A oggi, peraltro, qui hanno già lavorato 18 persone". Landò tende inoltre a chiarire che il finanziamento regionale e dunque i fondi pubblici, nonostante l’attività del magazzino proceda a rilento, non sono assolutamente a rischio: oltre all’ipoteca sul magazzino, alle rate già pagate e ai modesti ricavi comunque accumulati in questo anno, la struttura vanta anche un impianto fotovoltaico da 100 mila euro l’anno. Rieti: Cisl-Fns; detenuto tenta di impiccarsi, salvato dagli agenti di Polizia penitenziaria Adnkronos, 4 settembre 2015 Un detenuto nel carcere di Rieti ha tentato di impiccarsi. È accaduto stamattina e a renderlo noto è il segretario generale aggiunto Cisl Fns Costantino Massimo spiegando che "il suicidio è stato sventato dagli agenti di polizia penitenziaria". Come ricorda Cisl Fns, il tentativo di suicidio è avvenuto a pochi giorni dall’aggressione, martedì nel tardo pomeriggio a Frosinone, di un assistente capo da parte di un detenuto campano. "Fatti del genere, quale quelli di Rieti, possono accadere ma vengono evitati grazie alla professionalità e prontezza del personale di polizia penitenziaria - osserva Massimo Costantino - ma situazioni limite come quella che si è verificata a Frosinone certo possono essere arginate applicando sanzioni disciplinari idonee a rieducare il detenuto al rispetto delle regole detentive". "Quello di Frosinone risulta esser in meno di un mese l’ennesimo episodio a danni del personale", continua. "Il personale in detti istituti è sottodimensionato e non risponde più alle esigenze funzionali dell’istituto dove si continua a registrare un esubero di detenuti rispetto alla capienza prevista", conclude Fns Cisl Lazio che chiede quindi al Dipartimento amministrazione penitenziaria (Dap) una maggiore consistenza effettiva di personale di polizia penitenziaria "che consenta - lo svolgimento del proprio servizio non solo nelle migliori condizioni lavorative ma anche in quel benessere organizzativo più volte decantato". Padova: detenuto tunisino affetto da tubercolosi fugge dall’ospedale, è ricercato di Carlo Bellotto e Enrico Ferro Il Mattino di Padova, 4 settembre 2015 Si è calato dalla finestra al primo piano del reparto Malattie infettive e ha fatto perdere le tracce, lasciando con un pugno di mosche in mano gli agenti della polizia penitenziaria che lo dovevano controllare. Dalle 9 di ieri mattina c’è un tunisino di 33 anni ricercato in tutta la città per la fuga dagli arresti domiciliari. È uno spacciatore ed è affetto da tubercolosi (la malattia è un dato sensibile e per questo non diffonderemo le sue generalità). Appena due settimane fa, il 19 agosto scorso, la polizia locale di Padova annunciava in grande stile la cattura di uno spacciatore evaso dagli arresti domiciliari in ospedale nel mese di marzo. A distanza di pochi giorni la storia si ripete. La vicenda comincia a marzo, quando la squadra di vigili urbani creata per seguire i "conflitti condominiali", in seguito a diverse segnalazioni dei residenti, ha trovato in un garage di via Sonnino nove piantine di marijuana. Il garage apparteneva al tunisino scappato e alla fidanzata, una donna rumena di 29 anni. L’appartamento dei due è stato perquisito e all’interno sono stati trovati 47 mila euro in contanti, altra marijuana, diverse dosi di cocaina, materiale per tagliare la droga e anche una pistola taser. I due fidanzati, a quel punto, sono stati arrestati. Qualche giorno dopo, però, al tunisino è stata diagnosticata la tubercolosi e per questo ha ottenuto di scontare la pena in ospedale nel reparto Malattie infettive. In aprile è fuggito la prima volta. Grazie a un sistema di condivisione dei dati tra polizie municipali, il fuggitivo è stato rintracciato in agosto a Noale: aveva 3 mila euro in tasca e un documento con false generalità. Nuovo arresto e regime di detenzione che, ancora una volta, viene assegnato in ospedale. Ma ieri mattina il nordafricano ha beffato ancora tutti, in primis i due agenti della penitenziaria che lo dovevano piantonare. Il pubblico ministero Sergio Dini ha affidato le indagini agli uomini della Squadra mobile di Padova. Gli investigatori, diretti dal vicequestore aggiunto Giorgio Di Munno, dovranno eseguire le ricerche e indagare sulla vicenda. Quanto ai due agenti della polizia penitenziaria impegnati nella vigilanza, non è escluso che venga esaminato anche il loro operato. Il nome e la foto segnaletica del tunisino scappato sono stati diramati a tutte le pattuglie in servizio in città e provincia. Ancora sulla carta un reparto bunker, il progetto c’è ma non è stato finanziato In ospedale manca un reparto riservato ai detenuti dove le forze dell’ordine possano controllarli più agevolmente, non uno per uno qua e là. A 13 anni esatti dalla chiusura del bunker dell’azienda ospedaliera, c’era un progetto - rimasto tale - che interessava il terzo piano del monoblocco destinato ad essere riservato ai detenuti con problemi di salute: il progetto doveva svilupparsi su 280 metri quadrati ed avere sette posti letto. Costo totale dell’operazione, poco meno di 700 mila euro. Il progetto preliminare è già stato approvato negli anni scorsi dall’allora direttore generale di via Giustiniani Adriano Cestrone e doveva venir avviato nel corso del 2012. Dalla chiusura del reparto bunker i pazienti provenienti dal Due Palazzi vengono ricoverati nei reparti ordinari, da Ortopedia, agli Infetti, da Cardiologia a Medicina. Una situazione che nel migliore dei casi provoca qualche imbarazzo. Diversi negli anni i tentativi di evasione. Nel progetto il reparto prevede un’area di ingresso controllata, un’ulteriore zona con una guardiola e lo spazio destinato alle degenze, con sette posti letto. Il costo dell’intervento è di 690 mila e 200 euro e il progetto con la richiesta di finanziamento era stato inviato in Regione. San Gimignano (Si): tensioni in carcere, da un detenuti a schiaffi e sputi contro due agenti oksiena.it, 4 settembre 2015 Negli ultimi due giorni sono ben due i casi critici registrati presso la Casa di Reclusione di San Gimignano. A darne notizia è Antonio Palmieri, Delegato Regionale dell’Uspp (Unione Sindacati Polizia Penitenziaria) già Ugl Pp. Ieri un agente in servizio nelle sezioni detentive dell’Istituto Senese, è stato affrontato da un detenuto ristretto a regime 14bis, già resosi protagonista in passato di azioni violente, che, pare animato da futili e pretestuosi motivi, ha dapprima inveito contro questi per poi passare alle vie di fatto, colpendo ripetutamente il poliziotto al volto. Sembrerebbe che lo stesso recluso abbia poi, sotto la minaccia di un rasoio da barba del tipo consentito, preteso ed ottenuto la presenza diretta del Comandante di Reparto. Per fortuna nessuna conseguenza seria per il malcapitato agente penitenziario, per cui è stato comunque disposto il trasporto presso il locale Pronto Soccorso, dove i medici, dopo i controlli di rito e le cure, lo hanno dimesso con una prognosi di 4 giorni. È di oggi invece la notizia di un ulteriore gesto aggressivo e provocatorio messo in atto da un altro detenuto che, sempre per banali questioni, in un crescendo di violenta spavalderia, ha oltraggiato un altro agente, che con estrema freddezza e professionalità ha negato all’uomo il gusto di una sua reazione, riportando poi non con poca difficoltà, l’individuo alla calma e alla ragione. "Segnali preoccupanti di insofferenza alle regole e sprezzante prepotenza - dichiara Antonio Palmieri - che trovano sempre più spesso nel senso d’impunità che accompagna tali gesti, un’innegabile concausa. Agli atavici problemi che caratterizzano negativamente a livello nazionale il sistema dell’esecuzione della pena come: sovraffollamento, carenza di personale e strutture fatiscenti, si aggiungono questioni squisitamente locali più volte segnalate agli organi competenti come gli squilibri nella ripartizioni dei carichi di lavoro del personale di Polizia Penitenziaria o le reiterate violazioni dell’Accordo Quadro Nazionale e Regionale. Di recente ben 15 Unità di Polizia Penitenziaria hanno richiesto ed ottenuto di essere trasferite ad altre sedi in alcuni casi ben più distanti dalle proprie residenze rispetto a San Gimignano e questo, più di ogni altra considerazione, credo sia il segnale più evidente di un malessere oramai tangibile tra il Personale in divisa. Occorrerebbe innanzitutto una lucida e concreta presa di coscienza dello stato delle cose da parte della Dirigenza e l’attuazione di interventi concreti e condivisi per ristabilire quel giusto equilibrio tra sicurezza, rispetto delle regole e attività di recupero dei detenuti". Immigrazione: la fuga interrotta del piccolo Aylan di Giuseppe Acconcia Il Manifesto, 4 settembre 2015 Il bimbo morto su una spiaggia turca era un kurdo siriano. La sua meta finale era il Canada, dove avrebbe raggiunto la zia Teema, parrucchiera a Vancouver. In viaggio con la madre Rihan e il fratello maggiore Galip, anche loro vittime del mare. Solo Abdullah, il padre, è sopravvissuto al naufragio. Il bambino kurdo siriano annegato nelle acque turche si chiamava Aylan Kurdi. Aveva tre anni: è nato quando la guerra civile siriana era già iniziata ed è morto insieme ad altri undici migranti, tra cui suo fratello Galip di cinque anni, mentre provava con sua madre Rihan e suo padre, a fuggire da Akyarlar in Turchia per raggiungere la vicina isola greca di Kos. Il gommone dove viaggiava Aylan è affondato poco lontano dalla spiaggia di Bodrum perché non ha retto al peso dei 17 passeggeri a bordo. Dopo il naufragio dello scorso mercoledì, la polizia turca ha assicurato che sono stati arrestati quattro presunti scafisti, incluso un cittadino siriano. La guardia costiera turca ha aggiunto di aver tratto in salvo 42 mila persone che tentavano di attraversare l’Egeo negli ultimi cinque mesi. L’unico superstite della famiglia di Aylan è il padre Abdullah che tentava di portare i suoi familiari in Canada, nonostante la loro richiesta di asilo fosse stata rifiutata. La zia Teema, da venti anni parrucchiera a Vancouver, ha confermato di aver ricevuto una telefonata da Abdullah in cui le ha raccontato della morte dei suoi bambini e di sua moglie in seguito al naufragio. Teema aveva presentato la richiesta di asilo alle autorità canadesi e inviava regolarmente soldi alla famiglia in Turchia. "Insieme ad amici e vicini abbiamo fatto di tutto per farli venire in Canada, ma non siamo riusciti a farli scappare in tempo", ha denunciato la donna, scossa per la notizia. Ma la terribile vicenda di Aylan è ancora più drammatica. Il bimbo fa parte delle decine di migliaia di kurdi scappati dalla città di Kobane dopo l’attacco lanciato dai jihadisti dello Stato islamico (Isis) lo scorso anno, e mai rientrati. Le autorità turche non hanno riconosciuto formalmente lo status di rifugiati alle migliaia di profughi kurdi (400 mila nel pieno della crisi) che hanno alloggiato per strada o nei campi di Suruç nel Kurdistan turco. Sono più di un milione e nove cento mila i profughi siriani in Turchia, secondo l’Agenzia dell’Onu per i rifugiati (Unhcr). I siriani che fuggono dalla guerra, dopo il golpe militare al Cairo del 2013, non si vedono riconosciuti lo status di rifugiati in Egitto. Non solo, la percezione è che i profughi siriani vengano scoraggiati dalle autorità turche, libanesi (1,1 milioni di rifugiati siriani) e giordane (600mila) dopo l’esodo degli ultimi anni. Ma i siriani non sono benvenuti neppure nei Paesi del Golfo e in altri paesi arabi (eccetto Mauritania, Algeria e Yemen) dove non viene riconosciuto loro nessun percorso preferenziale per l’ottenimento di un visto. Non resta allora che tentare a tutti i costi la carta dell’Europa. In Turchia il tema dell’accoglienza dei profughi siriani è continuamente usato dagli ultra-nazionalisti per accrescere il loro consenso elettorale. Il flusso di profughi siriani al confine sud-orientale è andato aumentando come conseguenza dell’avanzata dello Stato islamico (Isis) nel Kurdistan siriano (Rojava). Nell’ottobre 2014, in pochi giorni, sono arrivati a Suruç 100 mila kurdi siriani e per mesi non hanno ricevuto alcun aiuto internazionale. Nella sola città di Gaziantep 400mila kurdi siriani hanno trovato rifugio mescolandosi tra la popolazione locale. La guerra contro i kurdi non si è mai fermata in Turchia. Solo ieri quattro poliziotti sono stati uccisi da militanti del Partito di Ocalan (Pkk) a Mardin. Sono centinaia i morti nel conflitto innescato dall’attentato di Isis a Suruç dello scorso luglio che è costato la vita a 33 attivisti che tentavano di portare aiuti a Kobane e dalla conseguente durissima campagna anti-Pkk e anti-Isis, lanciata delle autorità turche. Gli attacchi hanno innescato la dura reazione della popolazione locale organizzatasi in comitati di resistenza. ?Ieri la città di Nusaybin? è rimasta deserta per protesta contro l’arresto di Sara Kaya e Zinnet Alan, due co-sindaci della roccaforte del partito filo-kurdo, arrestati con l’accusa di appartenere a un’organizzazione terroristica. La vittoria elettorale di Hdp lo scorso 7 giugno ha impedito al presidente Erdogan di perseguire i suoi calcoli politici. Il leader Akp ha indetto elezioni anticipate per il primo novembre innescando una dura censura della stampa indipendente. Il quotidiano Sozcu ("Voce") è stato pubblicato con le colonne vuote per protestare contro le intimidazioni delle autorità turche. I giornalisti della testata hanno affrontato quasi sessanta cause per i loro articoli critici nei confronti di Erdogan. Neppure i reporter britannici di Vice, arrestati a Diyarbakir nei giorni scorsi, sono stati rilasciati. I giornalisti, trasferiti nel carcere di Adana in assenza dei loro avvocati, sono accusati di sostenere il terrorismo. Immigrazione: cosa ci dicono quei volti dei bimbi in fuga dalla guerra di Adriano Sofri La Repubblica, 4 settembre 2015 Da Bodrum e Budapest, da Ceuta e dal Canale di Sicilia ci arrivano le storie di vita e di morte dei piccoli migranti. Vittime innocenti, che non capiscono l’assurdità delle cose dei grandi. Ho appena visto un uomo adulto, qui a Erbil, guardare il bambino Aylan e scoppiare in pianto. Scorro la home page di Repubblica. C’è la foto del soldato turco col bambino in braccio, meno terribile, ammesso che sia meno terribile una Deposizione, una Pietà maschile. Nella foto in cui è accanto al fratellino maggiore Galip e alla loro orsacchiotta, Aylan è davvero piccolo e, come si pretende dai bambini, felice: ha gli occhi chiusi perché ride. Sulla spiaggia sembra che dorma, ha detto qualcuno: sembra piuttosto che abbia voltato la testa alla terra, a tutto. Ci illudiamo che ci siano cose che i bambini non possono capire, dalle quali preservarli. Non è vero. Ci sono cose che i bambini non capiscono perché sono insopportabili a un’intelligenza non ancora spacciata. Partire da una spiaggia di vacanza turca a una spiaggia di vacanza greca di notte, di nascosto, su un battello che un gesto brusco rovescerà: ecco una cosa che un bambino non può capire. C’è un’altra immagine: alla stazione di Budapest i bravi volontari proiettano un cartone animato per i bambini. Che guardano a bocca aperta e ridono, sono tutti maschietti. "Un momento di spensieratezza". Forse, forse stanno solo facendo contenti i fotografi i volontari e i grandi in genere. Lo sterminio siriano ha più di quattro anni, Aylan ne aveva 3, Galip 5, erano di Kobane: che cosa restava loro da capire, se non com’è profondo il mare. Altra foto, ancora alla stazione: è la bambina appena partorita da una signora siriana, "un’ambulanza si è rifiutata di portarla in ospedale", l’hanno chiamata Shems, "Speranza". Un giorno, chissà dove, racconterà perché è nata in una stazione, perché è un po’ siriana un po’ ungherese, e perché si chiama così - spes contra spem, diceva san Paolo di Tarso, oggi Turchia. E c’è, scrive De Luna, il bambino sul cui braccio una poliziotta boema imprime un numero: a metà fra la vecchia infamia e l’estrazione dal mucchio. L’impaginazione dei giornalisti e, prima di loro, la cronaca quotidiana, ha montato così un prisma del nostro mondo in un giovedì di inizio settembre del 2015, del tempo in cui si torna dopo essersi bagnati nelle stesse acque. Poi ci sono i commenti delle autorità, commossi - "in quanto padre…", rissosi, altruisti - "per favore, non venite in Europa!". Non ci sono dimissioni. C’è un altro video, sulla home-page, tratto da al-Jazeera. Un ragazzino, ha 13 anni, è siriano, parla con una delle guardie armate. Si chiama Kinan Masalmeh, ha una faccia bella, seria, non è vanitoso, ha due profonde occhiaie nere, non deve aver dormito molto la notte scorsa, gli anni scorsi. Parla un chiaro inglese e ricapitola: "La polizia non ama i siriani in Serbia, in Macedonia, in Ungheria o in Grecia". Non li ama da nessuna parte. Poi pronuncia la soluzione: "Just stop the war, and we don’t want to go to Europe. Stop the war, just that". Fermate la guerra, basta questo, e noi non vogliamo più andare (dice andare, non venire: sa di non esserci ancora) in Europa. "Fermate la guerra, basta questo". Infatti, basta, bastava questo. Ci sono cose che i bambini non possono capire. E non riescono a spiegarle ai grandi. Immigrazione: a Budapest rivolta dei rifugiati, non vogliono essere internati in un campo di Massimo Congiu Il Manifesto, 4 settembre 2015 Tensione a Bicske, ai confini con l’Austria, dove i migranti si rifiutano di scendere del treno e di essere internati in un campo. Scontri con la polizia. A Budapest manifestazione dentro la stazione. Ieri mattina la stazione Keleti ha riaperto le porte e si è di nuovo riempita di migranti in cerca di un treno in partenza per la Germania e l’Austria. Niente. L’altoparlante annunciava a intervalli regolari la soppressione di tutti i treni internazionali diretti più a ovest per motivi di sicurezza. All’inizio è stata la calca verso i binari e verso l’unico treno presente, con la polizia schierata sulla banchina. Momenti concitati, povera gente che si ammassava davanti al convoglio su cui c’era scritto, ironia della sorte "Un’Europa senza frontiere". Il treno si è riempito di migranti in cerca di una via di fuga dalla Keleti, è partito verso mezzogiorno, ma diretto a Sopron, nella parte occidentale del paese, vicino all’Austria, sì, ma dentro i confini magiari. Il fatto è che il convoglio si è fermato a Bicske, 60 chilometri da Budapest, dove esiste un campo profughi, gli agenti di polizia hanno cercato di far scendere quanti erano senza documenti, ma i migranti si sono rifiutati e hanno scandito in coro "No camp". Uua coppia con un neonato s è sdraiata su binari minacciando il suicidio ma è stata strattonata via dagli agenti che anno ammanettato l’uomo. Intanto alla Keleti giovani siriani mostravano i biglietti comprati per andare in Germania. "Abbiamo speso un sacco di soldi per niente", dicevano, "e ora che facciamo?". "Non sapete niente dei treni?" chiedevano altri migranti ai giornalisti. "Quelli che vi interessano sono stati cancellati. Tutti", è stata la risposta dolente degli interpellati. Dopo la calca verificatasi alla riapertura della stazione è tornata una relativa calma, tutt’al più c’era chi fra gli ospiti forzati della Keleti andava avanti e indietro a cercare informazioni sulle possibilità di partire prima o poi; quando, come. Perché sul dove la maggioranza non ha dubbi: "Germania! Germania!", l’ha detto tante volte in coro durante le manifestazioni sul piazzale antistante la stazione. C’erano poi quelli che stavano seduti sulle banchine a mangiare qualcosa, a riposare. Le donne col fazzoletto in testa vicino ai bambini: chi cambiava il pannolino, chi dava da mangiare a quello più piccolo. Gli occhi bassi, i gesti veloci mentre lì vicino il personale dello scalo rimuoveva carte, contenitori vuoti di succhi di frutta e bicchieri di plastica schiacciati, lasciati sulla banchina o fra i binari. Anche quella di ieri alla Keleti è stata una giornata lunga. Nel pomeriggio, raccontano i media locali, i migranti hanno dato vita a una manifestazione pacifica all’interno della stazione di fronte ai poliziotti schierati a garanzia dell’ordine pubblico. Il tutto è durato una ventina di minuti che non sono stati caratterizzati dalle tensioni e dai disordini di Bicske, ma di fatto la situazione diventa ogni ora più difficile. Il "popolo della Keleti" esprime giorno dopo giorno una richiesta corale, sempre più pressante di essere lasciato libero di partire e di raggiungere il paese nel quale ricominciare. Le autorità ungheresi insistono sulla necessità di rispettare le norme, il regolamento di Dublino, e di non poter lasciare andare in giro per l’Europa persone che non sono state registrate, che non hanno ottenuto lo status di rifugiati. Piuttosto le tengono alla stazione orientale di fronte alla quale sono state approntate, su ordine del consiglio comunale, delle zone nelle quali gli accampati possono ricevere acqua da bere e da usare per l’igiene personale. La cosa però non piace agli estremisti di destra, alcuni dei quali si sarebbero avvicinati due sere fa alla stazione con bandiere e vessilli nazionali. Li ritrae una foto pubblicata dall’agenzia di stampa ungherese Mti. Non condividono la scelta delle autorità comunali e vogliono l’allontanamento dei migranti dal centro cittadino. Secondo gli ultranazionalisti la loro presenza minaccia l’ordine pubblico, l’igiene pubblica. I sottopassaggi della stazione, l’antistante piazza Baross e lo scalo ferroviario devono essere restituiti alla cittadinanza. Quest’ultima è in sostanza spiazzata dallo scenario inconsueto che quel luogo offre in questi giorni. "Sono qui da due mesi", dice la proprietaria di un chiosco situato nel sottopassaggio. Sì, ma allora non erano così tanti, il loro numero è cresciuto a vista d’occhio in poco tempo, del resto il flusso di migranti che giungono al confine non sembra voglia diminuire; in un commento rilasciato ieri al giornale conservatore Frankfurter Allgemeine Zeitung, il primo ministro Orbán ha detto che dall’inizio dell’anno, secondo le statistiche più aggiornate, il paese è stato raggiunto da circa 150 mila migranti illegali, molti di più di quelli registrati l’anno scorso. Un’emergenza in piena regola alla quale il governo ungherese ha reagito con una campagna e con iniziative concrete stigmatizzate dall’opposizione di centro-sinistra e dagli ambienti progressisti della società civile. Mercoledì sera diverse migliaia di persone hanno partecipato a una manifestazione concepita da diverse organizzazioni come Migrants Aid e Amnesty International Hungary in segno di solidarietà verso i migranti. Il corteo è partito dalla stazione Nyugati (Occidentale) e si è fermato sulla piazza antistante il parlamento dove si è svolto un sit-in. "Not in my name-Az én nevemben ne", lo slogan dell’iniziativa. I dimostranti, diversi dei quali stranieri, sfilavano tenendo alti cartelli con su scritto "Anche noi eravamo dei migranti", "Abbiamo bisogno di ponti, non di barriere" e ancora "I migranti sono esseri umani". Sul marciapiede, a poco meno di metà percorso, due contromanifestanti con la bandiera tricolore completa di simbolo nazionale e un cartello con su scritto "In my name" e "No illegal immigration". Nessuna delle persone impegnate nella marcia li ha degnati di troppa attenzione. "Questa manifestazione è importante - dice un giovane - perché è la prima occasione pubblica per testimoniare la nostra solidarietà ai migranti e stigmatizzare la politica del governo e il suo approccio privo di umanità al problema". L’esecutivo però ritiene di agire correttamente e Orbán ha affermato a Bruxelles che questi flussi migratori sono una minaccia per le radici cristiane dell’Europa. Lui è uno di quelli che vuole difendere questo patrimonio perché - dice - è la sua stessa gente a chiederglielo. Il suo partito ha perso voti dal 2010, questo è vero, ma sono ancora in buon numero coloro i quali credono ancora in Orbán, "l’uomo forte d’Ungheria". Immigrazione: l’Europa dei diritti può vincere, servono coraggio e molti soldi di Monica Frassoni Il Manifesto, 4 settembre 2015 Migrazioni e asilo. Ue, tra forti ambiguità e contraddizioni, il Consiglio straordinario del 14 può essere l’occasione per fare chiarezza: meglio una litigata di tanti bla bla. La riunione del Consiglio straordinario Giustizia e affari interni del 14 settembre prossimo appare come la riunione di tutti i pericoli, ma potrebbe anche essere l’occasione di un chiarimento salutare fra i governi europei, con l’attiva partecipazione della Commissione Juncker e la pressione del Parlamento europeo, che la prossima settimana a Bruxelles voterà sul piano proposto dalla Commissione per la riallocazione dei rifugiati. Soprattutto se, da parte di quel settore dell’opinione pubblica e dei media che si sta mobilitando contro la vergogna delle morti, dei muri, dell’indifferenza e delle false soluzioni dei populisti di tutte le latitudini, si riuscirà a incidere sul dibattito pubblico per ora ancora dominato dalle loro logiche di paura e di chiusura e dalla paura insensata di molti governi di combatterla davvero per paura di perdere consenso. Io penso insomma che una bella litigata magari fra Merkel, Juncker e Orban o fra Renzi, Tsipras e Rajoy dove emerga chiaramente chi sta da quale parte, potrebbe alla fine rivelarsi molto più utile che il solito bla-bla di conclusioni falsamente unanimi e incapaci di portare ad alcuna decisione veramente utile. Certo, in questa partita non esistono innocenti, ci sono ambiguità e contraddizioni molto forti, che rendono difficile dividere davvero i buoni dai cattivi. Se è vero che le azioni e dichiarazioni di Orban e quelle appena più moderate dei cechi o slovacchi sono inaccettabili perché ci riportano ad una cultura (o incultura piuttosto) nazionalista e discriminatoria, è anche vero che Orban sta a modo suo applicando il Regolamento di Dublino, che impone di trattenere sul territorio del primo paese dove arrivano i richiedenti asilo. Non è la richiesta che quei grandi democratici di Hollande e Cameron hanno fatto nei giorni scorsi a Grecia e Italia? Anche Angela Merkel, che si è finalmente decisa a rispondere in modo forte, reagendo come sempre con ritardo, ma in modo inequivoco alla minaccia di un’estrema destra nazionalista che in Germania fa più paura che altrove, ha in testa di premere molto sui rimpatri di coloro che secondo lei non hanno diritto di stare in Germania, Kosovari e bosniaci per esempio, e sulla netta separazione fra migranti e rifugiati e fra i siriani e tutti gli altri perseguitati, afgani e irakeni in testa; peraltro, la situazione di grande disparità di trattamento delle domande di asilo fra i diversi stati Ue non fa presagire nulla di buono rispetto alla lista dei paesi cosiddetti "sicuri" cha la Commissione Ue sta stilando: la conclusione più probabile, infatti, sarà una complessiva restrizione delle possibilità di ottenere l’asilo, prendendo ogni volta i criteri più duri per ogni paese come criterio base. Altro tema caldo resta naturalmente il destino delle regole sulla libera circolazione, il sistema detto Schengen. Il valore simbolico oltre che pratico che la libera circolazione dei cittadini Ue ricopre farà probabilmente desistere i più dal toccarlo direttamente. Il problema però è che più di un paese vorrebbe decidere per conto suo quando sospenderlo e secondo quali criteri. È evidente che se diventasse questa la regola, non ci sarebbe più libera circolazione degna di questo nome. Inoltre, il discorso resta ambiguo e rischioso rispetto al rapporto fra sicurezza, obbligo di protezione internazionale, qualità dell’accoglienza ed equilibro fra le risorse da devolvere da parte della Ue per aiutare i rifugiati e l’integrazione dei migranti e quelle da dare per rafforzare le frontiere esterne e i rimpatri. Tutti hanno notato che la Commissione va in giro distribuendo milioni di euro qua e là e soprattutto ai suoi membri più influenti, ma non è chiaro se questi denari possano essere usati solo per l’accoglienza o anche (e soprattutto) per i respingimenti e rimpatri. Dal 2000, è stata spesa da Ue e stati membri la somma astronomica di 11 miliardi di euro per rimpatriare persone riconosciute come "clandestine" (anche se le cifre non sono sicurissime, l’Italia pare abbia speso nel 2014 ben 17 milioni di euro per 5.310 rimpatri, cioè più di 3000 euro a persona, certo molto meno che degli 11.500 euro spesi dalla Francia per rispedire al mittente 19.525 persone, dati Migration files). Se pensiamo che il piccolo bilancio europeo 2014-2020 (meno dell’1% del Pil europeo, 960 miliardi di euro per 7 anni) è stato tagliato del 16% per le politiche di integrazione e asilo del 17% per le politiche di cooperazione internazionale, vediamo molto bene che tra le ragioni dell’inadeguatezza e delle condizioni penose nelle quali si trovano rifugiati e richiedenti asilo non solo in Grecia e Italia, ma anche in Austria e nei paesi dell’Est sta il fatto che la priorità assoluta di tutti gli stati membri è quella di limitare al massimo la presenza di migranti e rifugiati. Il punto non è che non c’è più posto nei nostri paesi. Siamo più di 500 milioni e stiamo parlando ad oggi dell’arrivo di 340.000 persone nel 2015, quando in Libano 1 cittadino su quattro è un profugo siriano, per non parlare dei 51 milioni di rifugiati nel mondo censiti dalle Nazioni Unite. Il punto vero è che finora si è lasciata la situazione degenerare perché era ed è un tabu dire chiaramente che le persone continueranno ad arrivare. Non sarebbe meglio invece semplicemente organizzarsi, investire nell’accoglienza senza permettere il degrado, senza portare cittadini già in difficoltà a sentirsi in competizione con i nuovi arrivati abbandonati a sé stessi? Possibile? Certo. Basta farne una vera priorità e magari smettere di spendere preziose risorse pubbliche in opere inutili (per esempio i 360 milioni dati alla BreBeMi mi vanno veramente di traverso…) e affrontando con un piano fortemente alternativo le balle e le insulsaggini, per dirla con il cardinale Galantino, ripetute a reti unificate da parte di piazzisti politici vari. Insomma, non usciremo da questa situazione senza un piano, molto coraggio, molti soldi ridiretti da altre voci di bilancio nazionale ed europeo e anche una forte mobilitazione sociale e politica che riesca a ribaltare nei cuori degli europei la diffidenza, l’indifferenza, la paura che rende questa fortezza Europa al contempo senza cuore e imbelle. Ecco un bel "cantiere" da organizzare subito per federalisti, libertari, sinistra, ecologisti e tutti coloro che sperano che ci sia ancora spazio per un’alternativa positiva in Europa. Immigrazione: l’identificazione voluta dalla Ue porterà tensioni nei centri attuali Marco Ludovico Il Sole 24 Ore, 4 settembre 2015 Finiti da tempo su una sorta di binario morto, i contestati Cie (centri di identificazione ed espulsione) avranno presto vita nuova. La revisione delle regole europee, la necessità di accogliere chi ha diritto all’asilo e non i migranti "economici", di fatto considerati clandestini, l’introduzione degli "hot spots" - l’iniziale accoglienza dopo lo sbarco con le procedure di foto-segnalamento e impronte digitali- sono. già da soli, fattori determinanti per un rilancio di quei centri. Perché il numero dei migranti irregolari aumenterà. Oggi viaggiano a pieno regime, sempre al limite della capienza, i Cara (centri di accoglienza per i richiedenti asilo). In tutta Italia i Cie, previsti per i migranti resistenti a ogni forma di identificazione o già destinati all’espulsione, annoverano al momento circa 400 persone, "Il sistema deve essere ripensato -spiega il sottosegretario all’Interno Domenico Manzione (Pd) - lo scenario sta cambiando. Possiamo, anzi forse dobbiamo immaginare un allargamento e un potenziamento di questi centri. Ma - sottolinea Manzione - con la modifica di quel regime para-detentivo oggi ingiustificato. Va quantomeno ridotto". A differenza dei Cara, infatti, nei Cie i migranti hanno restrizioni alle libertà personali molti simili a quelle di un carcere: sono clandestini a tutti gli effetti. L’introduzione degli hot spots, come chiede l’Europa, aumenterà la quota dei migranti "economici" da espellere. Si aggiungerà lo snellimento e l’accelerazione delle procedure di valutazione delle istanze di asilo, da parte delle commissioni territoriali, che farà crescere la quota dei non aventi diritto. Tutti clandestini, in definitiva, da portare nei Cie, se non c’è - come spesso accade - la possibilità immediata di far decollare un volo di rimpatrio. La riduzione dei tempi di permanenza, da 90 a 60 giorni, ha già consentito una deflazione delle presenze. Oggi ci sono in teoria 750 posti disponibili; con i lavori di ristrutturazione in corso in altre strutture, per l’inizio del 2010 il Viminale può arrivare a 1.500 posti. Difficile, però, dire se sono sufficienti. Anche perché dietro l’angolo c’è un rischio concreto e immediato: se gli accordi bilaterali con i Paesi d’origine non ci sono e i voli di rimpatrio non decollano, con le nuove procedure di identificazione e i flussi di sbarchi ancora incessanti i 1.500 posti si riempiono in un attimo. Il tema e dunque sul tavolo del ministro Angelino Alfano, seguito sul piano tecnico dai prefetti Alessandro Pansa (Ps) e Mario Morcone (Libertà civili). La Polizia di Stato considera i Cie uno strumento di deterrenza per la circolazione dei clandestini e, in ogni caso, la destinazione per tutti i migranti rintracciati sul territorio senza avere titoli legittimi di circolazione. Così ne chiede un rilancio ampio, con una maggiore diffusione sul territorio. Osserva Manzione: "Ci vuole però un punto di equilibrio. Va costruito al più presto un sistema di rimpatri volontari e assistiti". Occorre insomma una valvola di sfogo, non solo un meccanismo di sanzioni. Per non ricadere nel solito e noto meccanismo del foglio di espulsione consegnato al migrante. Nella stragrande maggioranza dei casi rimane lettera morta. Immigrazione: dallo ius soli al voto agli stranieri, le 92 proposte presentate alle Camere Nicoletta Cottone Il Sole 24 Ore, 4 settembre 2015 L’integrazione scolastica degli immigrati, la cittadinanza, la revisione della normativa sui minori non accompagnati, il sostegno all’educazione interculturale, la creazione di una giornata in memoria delle vittime del mare, la riorganizzazione della cooperazione, la nascita di un museo nazionale delle migrazioni, l’Istituzione del Consiglio nazionale per l’integrazione e il multiculturalismo. Sono 50 i provvedimenti presentati in Parlamento in questa legislatura che riguardano in senso stretto il fenomeno dell’immigrazione (29 alla Camera, 21 al Senato), mentre sono ben 42 quelli che riguardano i minori immigrati (25 alla Camera, 17 al Senato). Sul fronte dell’immigrazione 22 ddl sono assegnati, ma non è ancora iniziato l’esame, 9 sono stati approvati in prima lettura da un ramo del parlamento, 2 sono diventati legge (ma si tratta di decreti legge che trattano aspetti marginali dell’immigrazione). Solo un disegno di legge è stato ritirato, l’istituzione di una commissione parlamentare d’inchiesta sul sistema di accoglienza e identificazione presentato da Mario Marazziti (Pi). Quarantadue i provvedimenti in tema di minori stranieri: 32 ddl, 5 ddl di conversione di decreti legge, 4 di bilancio e uno costituzionale. Il tema predominante è quello dell’acquisizione della cittadinanza da parte dei minori stranieri per il quale sono stati presentati ben 22 ddl, che hanno trovato la sintesi il 5 agosto in un testo base redatto dalla relatrice Marilena Fabbri (Pd). Viene introdotto uno "ius soli soft", che pone alcune condizioni all’ottenimento della cittadinanza. Ai minori non accompagnati, che sono la parte più vulnerabile dei migranti, facile preda dei circuiti dell’illegalità, è dedicato il ddl firmato da Sandra Zampa (Pd) e sottoscritto da moltissimi parlamentari di maggioranza e opposizione, arenato ormai da dieci mesi in commissione Affari costituzionali della Camera. Eppure ha l’obiettivo di uniformare le procedure di identificazione e di accertamento dell’età dei ragazzi che arrivano e mira a istituire un sistema nazionale di accoglienza (ultima seduta 22 ottobre 2014). Un ddl, approvato dalla Camera e all’esame del Senato, vuole a garantire il tesseramento dei minori stranieri residenti in Italia presso le società sportive appartenenti alle federazioni nazionali, con le stesse procedure previste per i cittadini italiani. Il ddl di Laura Bignami (passata dal M5S al Gruppo misto) "sull’accoglienza di persone portatrici di esigenze particolari", è fermo al marzo 2014 in commissione. Prevede servizi speciali di accoglienza per minori, disabili, anziani, donne in stato di gravidanza, genitori singoli e on figli minori, persone per le quali sono stati accertati torture, stupri o altre forme gravi di violenza psicologica, fisica o sessuale. Fra i provvedimenti approvati nel di 83/2015 ci sono misure sull’applicazione straordinaria di magistrati per l’emergenza legata ai procedimenti di riconoscimento dello status di persona profugo. C’è la legge europea 2014 che contiene, all’articolo 10, una modifica legislativa sull’esecuzione del rimpatrio, in risposta alla procedura di infrazione n. 2014/2235. Adegua l’ordinamento interno all’Europa stabilendo che il rimpatrio forzato dello straniero verso lo Stato membro dell’Unione che ha rilasciato il titolo di soggiorno (e non verso il Paese terzo di origine) è possibile solo in caso di intese o accordi bilaterali di riammissione già operativi prima del 13 gennaio 2009, ossia della data di entrata in vigore della direttiva 2008/115/CE (cosiddetta direttiva rimpatri). Poi c’è il di 146/2013, diventato legge dello Stato, che modifica la disciplina dell’espulsione come misura alternativa alla detenzione, per colpire ancora più severamente coloro ("scafisti", "affiliati" eccetera) che sfruttano l’arrivo e lo sbarco degli stranieri e che operano per assicurare la buona riuscita dell’operazione criminale e, in genere, fiancheggiano e cooperano con le attività direttamente collegabili all’ingresso di clandestini. Chiedono una ulteriore stretta sull’immigrazione clandestina i ddl dei leghisti Massimo Bitonci (ora sindaco di Padova) e Nicola Molteni, che mirano a "colpire coloro che per motivi abbietti e disumani fanno dell’immigrazione clandestina il loro business", attraverso il ridisegno del reato di favoreggiamento pluriaggravato e l’inasprimento di pene carcerarie e multe. C’è anche una proposta di legge costituzionale, primo firmatario Antonio Decaro (Pd, ora sindaco di Bari) in materia di estensione del diritto di elettorato per le elezioni dei consigli regionali, provinciali, comunali e circoscrizionali agli stranieri extracomunitari residenti da almeno cinque anni nel territorio nazionale. Azerbaijan: sette anni e mezzo di condanna a reporter azera, dopo un processo-farsa di Luca Manes Il Manifesto, 4 settembre 2015 Quando il giudice di una corte di Baku ha letto la sentenza che la condannava a 7 anni e mezzo di reclusione, la giornalista investigativa azera Khadija Ismayilova ha riso. Un atto di scherno ad amaro commento dell’ennesimo processo farsa contro un oppositore del governo, solo a parole democratico, del presidente dell’Azerbaigian Ilham Aliyev. Proprio del figlio e successore del padre della patria Heydar (quello del contratto del secolo con la Bp nel 1994), Khadija aveva scoperto varie magagne. Ad esempio che gli Aliyev controllano circa l’80 per cento del mercato telefonico nazionale, usando società con sedi nei paradisi fiscali. O ancora che la famiglia presidenziale, tramite una rete di compagnie registrate tra Panama e il Regno Unito, si è di fatto auto-assegnata i diritti di sfruttamento di una ricca miniera d’oro nella parte occidentale del Paese. Inchieste scomode, scomodissime, che l’esponente di Radio Free Europe ha continuato a condurre nonostante qualche pesante "avvertimento". "Già in passato avevano tentato di metterla a tacere, come quando avevano pubblicato un video girato nel suo appartamento mentre era in intimità con il suo ragazzo. Poi i media vicini al governo hanno svolto un ruolo di primo piano nell’amplificare tutta la vicenda". Così ci ha spiegato l’avvocato della Ismayilova, Fariz Namazli, quando lo abbiamo incontrato nel suo studio nella città industriale di Sumgait, a pochi chilometri da Baku. Namazli ci ha elencato le accuse affibbiate a Khadija lo scorso dicembre, mese del suo arresto, che andavano dall’incitamento al suicidio, fino all’appropriazione indebita e a vari reati fiscali. L’ex fidanzato, ovvero colui il quale sarebbe stato "indotto" al suicidio, nel corso del processo ha ritrattato, dichiarando di "aver eseguito la denuncia in uno stato di forte pressione". Però le altre imputazioni sono state ritenute valide dai giudici, che tre giorni fa hanno emesso la loro sentenza. "Ho sempre avuto paura per lei, immaginavo che le potesse accadere il peggio, che la uccidessero, come è successo ad altri giornalisti. Le ho sempre detto di stare attenta, non le ho mai detto di smettere con il suo lavoro. Khadija ha sempre detto che ne valeva la pena, e sono d’accordo con lei. Ne vale la pena". Lo scorso giugno Elmira, la madre della giornalista di Radio Free Europe e una delle poche persone cui è stato concesso di seguire le udienze del processo, ci ha detto queste parole pesanti come macigni. Quando abbiamo parlato con lei nella capitale dell’Azerbaigian erano in corso i primi Giochi Europei. Sui prigionieri politici attualmente nelle carceri azere - si calcola siano almeno 100 - non sentirete dire una parola di biasimo dal premier Matteo Renzi, eppure l’Azerbaigian è il Paese al mondo che fornisce più petrolio all’Italia (17,1%), mentre a breve dalle rive del Caspio potrebbe arrivare fino in Salento il gas estratto dal giacimento di Shah Deniz. Stiamo facendo riferimento all’ormai famigerato gasdotto Tap, che la popolazione e le istituzioni locali non vogliono ma che Palazzo Chigi considera un’opera imprescindibile. Il Tap è troppo importante per le strategie energetiche europee, che puntano forte sul gas dell’Azerbaigian in nome di un presunto affrancamento dalla dipendenza dalla Russia. Senza l’ultimo segmento, che prima di giungere in Puglia passa per Grecia e Albania, non servirebbero a nulla nemmeno gli altri due tronconi dell’opera: l’espansione della South Caucasus Pipeline, per cui i lavori sono giunti oltre al 30 per cento, e il Tanap, in Turchia, la cui realizzazione è alle battute iniziali. Il serpentone da Baku all’Italia, chiamato Corridoio Sud, sarà lungo oltre 3.500 chilometri, avrà una portata di 10 miliardi di metri cubici l’anno - espandibile a 20 - e costerà circa 45 miliardi di euro. Tanti soldi, che stanno già arrivando da alcune importanti casse pubbliche. Nonostante la scarsa cura dell’Azerbaijian nei confronti dei diritti umani, lo scorso luglio la Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo e la Banca di sviluppo asiatica hanno approvato un prestito di 500 milioni di dollari per l’avvio dei lavori di costruzione del Corridoio Sud del Gas. Prestito agevolato che è servito da volano per raccogliere i finanziamenti di una cordata di altre istituzioni finanziarie, tra cui il ramo londinese di Bank of China, Ing Bank N.V, Société Générale e il ramo austriaco di Unicredit (Unicredit Bank Austria Ag). Il totale di questi prestiti raggiunge il miliardo di dollari. Per il TAP si starebbe muovendo anche la banca di sviluppo dell’Ue, la Banca europea degli investimenti, che si mormora possa a breve destinare al progetto ben due miliardi di euro. Fa nulla se negli ultimi mesi anche due importanti avvocati e attivisti come Rasul Jafarov e Intigam Aliyev siano stati condannati a pene superiori ai sei anni di reclusione e che nell’ultima classifica stilata da Reporters Senza Frontiere l’Azerbaigian occupi la 161esima posizione su 180 paesi. Turchia: tribunale ordina rilascio di due giornalisti del portale americano Vice News Askanews, 4 settembre 2015 Un tribunale nel sudest della Turchia ha ordinato il rilascio dei due reporter britannici che lavorano per il portale americano Vice News detenuti con l’accusa di terrorismo. Lo hanno indicato fonti della magistratura. I due giornalisti, in carcere nella città di Adana, dovrebbero essere formalmente rilasciati nelle prossime ore, dopo la decisione del tribunale di Diyarbakir. Il loro interprete iracheno, a sua volta arrestato, resta in carcere mentre l’indagine continua. I tre, insieme con il loro autista, erano stati arrestati il 27 agosto nel centro di Diyarbakir - città a maggioranza curda - dalla polizia, che aveva agito in base a una soffiata. Erano stati successivamente rinchiusi in carcere da un tribunale di Diyarbakir, con l’accusa di "coinvolgimento in attività terroristiche" per conto dello Stato Islamico. L’autista era stato invece rilasciato. Vice News ha definito le accuse "destituite di fondamento" e "false", mentre i gruppi per la tutela dei diritti umani avevano chiesto l’immediato rilascio dei giornalisti.