Giustizia: silenzio sull’amnistia, ignorano il Papa per paura di Grillo-Travaglio-Salvini di Piero Sansonetti Il Garantista, 3 settembre 2015 Politici, giornali, governo, magistrati, imprenditori, intellettuali fanno a gara a tacere. Perché? hanno una paura blu del trio Grillo-Travaglio-Salvini. Quando un Papa chiede l’amnistia, ti immagini che qualcuno gli risponda. Francesco non è il primo Papa che sollecita un provvedimento di clemenza. Lo fece Giovanni Paolo II, nel 2000 e poi nel 2002. Non ottenne risultati immediati, però almeno gli diedero retta, ne discussero, i giornali ne parlarono. E poi, quattro armi dopo, quando ormai Wojtyla era morto, il Parlamento a maggioranza prodiana varò un indulto, provocando l’ira dei fascisti, di Travaglio, della Lega e di Di Pietro. Ieri invece, dopo l’appello del papa, ha dominato il silenzio. Politici zitti come pesci. Governo scomparso. Grande e generale "finger di nulla". Oggi idem. Cercate sulle prima pagine dei giornali la notizia. Magari una righina. Non di più. I titoli, pochi, dedicati tutti all’aborto: la richiesta di amnistia sotto il tappeto. "Il Fatto Quotidiano" dedica alla balzana idea di Francesco quelle due righe che mette sempre sopra la testata e che sono un corsivo, una specie di presa in giro, di barzelletta. Ieri ha irriso il papa dicendo che non c’è bisogno di amnistia perché ci pensa il Parlamento ad impedire ai giudici di sbattere in gattabuia i politici. Non si capisce bene cosa c’entrino i politici: il papa ha chiesto l’amnistia per alcune centinaia di migliaia di procedimento giudiziari che, al 99, 99 per cento, riguardano cittadini che con la politica non c’entrano nulla. Lasciamo stare tutte le polemiche. Guardiamo alla sostanza delle cose. La sostanza è che il mondo politico, economico, editoriale, giudiziario e intellettuale italiano ( in una parola sola: il potere) ha risposto al papa con una alzata di spalle. Che potrebbe tradursi così: "statte zitto!". Perché? Eppure l’amnistia è un provvedimento ragionevolissimo e che permetterebbe di disintasare i tribunali e tutta la macchina della giustizia, cancellando procedimenti penali destinati alla prescrizione, o di scarsissimo rilievo, e permettendo la ripresa di una attività giudiziaria seria. I magistrati dovrebbero essere favorevolissimi all’amnistia. Perché invece, se si esclude il Papa (e naturalmente il partito radicale e le associazioni degli avvocati) tutti si oppongono? Per una ragione semplice e tremenda: la paura di perdere consensi di fronte all’ondata forcaiola che ormai da anni sta travolgendo l’opinione pubblica. Chi governa l’Italia, almeno su questi temi? Quel trio lì: Travaglio-Grillo-Salvini. Giustizia: nel richiedete l’amnistia non siamo più soli con i Radicali, grazie Francesco! di Luca Brezigar e Francesco Lai (Componenti Giunta dell’Ucpi) Il Garantista, 3 settembre 2015 L’atto di clemenza va accompagnato da una riforma complessiva del carcere. Sarà anche vero, ciò che afferma padre Lombardi, direttore della sala stampa vaticana che Sua Santità, col proprio messaggio, non ha inteso chiedere l’amnistia alle autorità italiane, che altrimenti lo avrebbe fatto con altre modalità. Sarà altresì vero che il pensiero e la preghiera del Santo Padre sono rivolti ad evocare la misericordia dell’Altissimo, capace di trasformare i cuori e le sbarre in esperienza di libertà. Noi, tuttavia ci ricordiamo bene i temi che suscitarono l’occasione del nostro emozionante incontro con Lui nel marzo di quest’anno. Papa Francesco aveva effettuato una lucidissima analisi sullo stato attuale del sistema penale, che partiva dallo sconfinamento dei limiti sanzionatori, attaccando l’abuso della custodia cautelare in carcere, definendola "forma contemporanea di pena illecita occulta rivestita di una patina di legalità". Aveva deplorato le condizioni detentive definendole inumane e degradanti, spesso frutto di deficienze del sistema, bandito le misure di massima sicurezza, la crudeltà della loro somministrazione, spesso causa di sofferenze psichiche e fisiche tali da costituire il viatico del suicidio inframurario. Aveva invocato l’abolizione dell’ergastolo in quanto vera e propria "pena di morte coperta". Erano anche le nostre parole, i nostri pensieri, le nostre convinzioni da sempre. Proprio questo comune sentire, oltre al riferimento al Giubileo, quale storica occasione ed opportunità di una grande amnistia, destinata a coinvolgere tante persone "che, seppur meritevoli di pena, hanno preso coscienza dell’ingiustizia compiuta e desiderano inserirsi nuovamente ed onestamente nella società", ci fanno ritenere che l’alto messaggio di Bergoglio sia, seppure implicitamente, rivolto allo Stato. Se il messaggio fosse semplicemente concreto, come sempre sono state sinora le dichiarazioni di questo Papa, il tema che si affaccia è di assoluto interesse e di una certa novità, a dispetto delle apparenze. Di amnistia e di indulto ci siamo sempre occupati con grandissimo impegno. Assieme a Pannella e ai Radicali, ben consapevoli che l’amnistia e l’indulto non potevano essere considerate la panacea di tutti i mali, e che un provvedimento di clemenza avrebbe dovuto essere accompagnato da un serio impegno programmatico di riforma strutturale del nostro ordinamento, pur tuttavia, sin dal 2012, abbiamo sostenuto che tali rimedi dovevano adottarsi in via d’urgenza per cercare di normalizzare una condizione esplosiva quanto inumana. Il quadro della situazione carceraria del nostro paese era drammatico e non più tollerabile e occorreva dar immediata risposta ad una politica che, pur al cospetto di eclatanti censure europee, pareva non trovare le condizioni né i mezzi per deflazionare il sistema carcerario che stava letteralmente implodendo. Ancorare l’emanazione di provvedimenti di clemenza a motivazioni del tutto congiunturali, connesse solo all’esigenza di liberare le carceri da eccessi di sovraffollamento, significava snaturare l’istituto dell’amnistia e dell’indulto? Poteva essere, ma non era più possibile attendere e così favorire quella che non esitammo, con Pannella a definire "una vera e propria forma di illegalità costituzionale". Come ebbe a dire Tullio Padovani con la sua consueta efficacia, "quando la casa brucia bisogna comunque spegnere l’incendio anche se non è ancora pronto il progetto del nuovo edificio". Ed il nuovo edificio doveva costruirsi su soluzioni "strutturali". Via dunque le leggi carcerogene, custodia cautelare in carcere intesa come estremo rimedio e spazio ad istituti di nuovo conio quali la probation, la tenuità del fatto, oltre alla dovuta attenzione alla risocializzazione del reo, una voce che era ormai morta per statistica, posto che all’epoca le misure alternative alla detenzione erano somministrate col più parco dei contagocce. Ad oggi la custodia cautelare è stata riformata, è stata istituita la messa alla prova, è stato rafforzato il principio di offensività con la previsione di non punibilità in caso di tenuità del fatto, con provvedimenti che hanno senz’altro goduto di una spinta propulsiva da parte dell’Unione delle Camere Penali Italiane. Ebbene, oggi, l’amnistia e l’indulto che invocavamo d’urgenza come provvedimento singolo, seppur provvisorio, sono necessari per consentire di trovare e di arrivare a una normalità dignitosa? Riteniamo che un provvedimento di clemenza, se non accompagnato da altri interventi riformatori di carattere strutturale e di sistema, possa risolvere il drammatico e principale problema che ruota attorno al mondo penitenziario, quello del sovraffollamento, solo nel contingente. Problema, la cui soluzione non verrebbe perseguita ma solamente differita. Anche perché, è bene ricordarlo, quella del sovraffollamento è solo una delle questioni, annose, che attanagliano l’universo carcerario italiano. E che, peraltro, al contrario di quanto prospettato con boutades semplicistiche e di comodo negli anni passati, non si risolve realizzando nuove carceri. Ma come non pensare alla qualità della vita dei detenuti? Alle condizioni degradanti, spesso ai limiti della umana dignità, in cui sono costretti a vivere in alcuni istituti fatiscenti? È certamente vero che, negli ultimi anni, il legislatore è spesso intervenuto con l’adozione di provvedimenti volti a deflazionare la popolazione carceraria. È anche vero, però, che, se da un lato non è stata realizzata un’organica riforma, dall’altro alcune leggi "carcerogene" di fatto non sono state eliminate, altre se ne approvano, altre di segno contrario fanno fatica a trovare attuazione. Pensiamo alla disciplina sulla misura cautelare custodiale degli arresti domiciliari con lo strumento di controllo elettronico, norma che certamente costituisce, in astratto, una valida alternativa al carcere ma che, di fatto, spesso non trova applicazione a causa della carenza di apparecchi di controllo. Con la conseguenza, inaccettabile, che diversi Tribunali motivano le ordinanze applicative della custodia in carcere con la mancanza di disponibilità del cd. "braccialetto elettronico". Come dire, "lo Stato ha pochi braccialetti, quindi resti in carcere". Fortunatamente, un argine a tale aberrante deriva, è stato posto dalla Corte di Cassazione che, con una sentenza di fine agosto, ha stabilito che non può subordinarsi la concessione degli arresti domiciliari alla disponibilità dello strumento di controllo elettronico. Ad ogni modo, molto resta da fare. I dati forniti dal dipartimento dell’amministrazione penitenziaria sono eloquenti e ci indicano, alla data del 31 luglio 2015, un sovraffollamento di circa 3.000 unità rispetto alla capienza regolamentare all’interno degli istituti di pena italiani. Senza dimenticare, peraltro, che in questo anno solare si contano già 31 suicidi dentro le mura, l’ultimo dei quali pochi giorni fa. In questa ottica, abbiamo sostenuto e continuiamo a sostenere con decisione gli Stati Generali dell’esecuzione penale, fortemente voluti dal Ministro Orlando, che costituiscono un’eccezionale occasione di confronto tra tutti i protagonisti del mondo carcerario. Un momento di riflessione che deve essere fucina di idee cui dare concreta attuazione in ottica di riforma del sistema. Un sistema che abbia come stella polare la dignità dell’uomo, anche di quello condannato per i delitti più gravi. Solo in questo senso, riteniamo, la politica sarà in grado di accogliere l’alto monito rivolto da Papa Francesco, il cui Pontificato, fin dal suo principio, è stato caratterizzato dall’attenzione verso gli ultimi, tra i quali vi sono anche i detenuti. Giustizia: il Presidente del Senato Grasso rilancia sull’amnistia "le Camere la affrontino" di Milena Di Mauro Ansa, 3 settembre 2015 "Il Giubileo ha sempre costituito l’opportunità di una grande amnistia", invoca la misericordia di Dio sui detenuti italiani Papa Francesco, con una riflessione tutta spirituale ma certo anche rivolta alla politica, come gli appelli di Papa Wojtila per il Giubileo del 2000 e del famoso discorso in Parlamento del 2002. "È venuto il momento che il Parlamento inizi ad affrontare questo tema, decidendo se una legittima aspirazione della Chiesa possa diventare un fatto politico rilevante", è il significativo rilancio del Presidente del Senato Piero Grasso, da New York. Marco Pannella, grato al Santo Padre, spera invece di coinvolgere il Quirinale e "di incontrare il presidente Mattarella, perché dipende da lui". Il leader radicale punta però il dito contro il parlamento, che "dopo il messaggio del presidente Napolitano sull’amnistia, nel 2013, ha dimostrato di essere incapace di intendere e di volere". Perché l’ultima delle 27 amnistie vidimate dalla politica risale al 1990, quando il provvedimento straordinario di clemenza che estingue i reati ha ottenuto il necessario avallo dei due terzi del Parlamento. Poi solo indulti (che invece cancellano la pena in tutto o in parte), come l’ultimo del 2006. Contro l’amnistia si è espresso in serata il ministro dell’Interno Angelino Alfano spiegando che bisogna fare in modo che le carceri siano luoghi di rieducazione dove però chi è condannato deve restare fino all’ultimo giorno. A urlare forte il suo no è stato per primo il leader leghista Matteo Salvini, che oggi torna ad insistere: "L’idea di una grande amnistia la rifiuto con tutta la forza. Se devi farti 10 anni di galera perché hai stuprato, rubato, spacciato, non è che perché c’è il Giubileo esci cinque anni prima e ricominci a stuprare, rubare, spacciare". D’accordo con lui, per una volta, l’antagonista Flavio Tosi, leader di Fare: "L’Italia ha bisogno di tutto tranne che di amnistia e indulto". Toni perentori, che nella sostanza vanno a convergere con quelli assai diversi e più moderati di esponenti di governo come il viceministro della Giustizia Enrico Costa o il sottosegretario Cosimo Ferri, che apprezzano il discorso del Papa ma non lo intendono come specifico invito alla politica. "Anzi - osserva Costa -, questa interpretazione svilisce le parole del Papa". Ferri osserva invece che "il tema dell’amnistia è una prerogativa del Parlamento e dovranno essere le due Camere a stabilire se ci sono le condizioni per questa misura". Quanto al governo, fa al sua parte con le politiche messe in campo per "contrastare il sovraffollamento carcerario" ed "ampliare le misure alternative alla detenzione". "Le amnistie si danno quando si fanno le grandi riforme della giustizia, riforme della giustizia non ne vedo", chiosa invece tranchant Renato Brunetta, presidente dei deputati di Fi. Alfano: amnistia? chi è condannato stia in carcere "Il Papa guida le anime e fa questo lavoro. Io che faccio il ministro dell’Interno, ricordo che dietro ogni condannato in via definitiva, c’è una vittima a cui lo Stato deve rispetto", dichiara Angelino Alfano, durante un incontro alla Festa dell’Unità, a Milano, commentando la richiesta di un’amnistia da parte del Pontefice in occasione del Giubileo. "Sulla percezione si agisce con la comunicazione: i reati sono calati del 7,7% nel 2014 e di oltre il 9% nel 2015 sul 2014. Sta a noi raccontare la verità", continua Alfano. "Le carceri devono essere luoghi di educazione e non di violenta detenzione", per questo si deve investire sul lavoro in carcere", dato che "la recidiva in chi svolge un lavoro in carcere è del 10%" mente sale al "90%" per quelli che non svolgono alcuna attività. "Chi è condannato deve stare in carcere fino all’ultimo giorno" della pena comminata, sostiene il ministro e "se le carceri sono sovraffollate, ne costruiamo di nuove", aggiunge, sempre nel "rispetto dell’umanità e della sicurezza, come prevede la Costituzione", conclude. Orlando: parole Papa su amnistia spunto riforma strutturale pena La parole del Papa sull’amnistia sono l’occasione per una riforma strutturale dell’istituto della pena, che deve essere uno strumento di rieducazione del detenuto. Lo ha affermato il ministro della Giustizia Andrea Orlando, secondo cui le parole del papa "stimolano una riflessioni sul tema della pena in un momento storico molto salutare" e giungono "in un momento storico molto salutare: troppe volte sentiamo dire "buttiamo via la chiave" o "il carcere è la soluzione di tutto" e in una fase in cui il tema del sovraffollamento" non è all’ordine del giorno", con i posti disponibili passati da 42mila a 49 mila e il numero dei carcerati in calo. Dalle parole del Papa, ha detto Orlando, "si può iniziare e capire come riorganizzare la pena nel nostro Paese". Il ministro ha spiegato che di questo verrà discusso negli "Stati generali" previsti per novembre con gli addetti ai lavori e gli stessi carcerati. Partiamo - ha detto - da un dato strutturale che è molto negativo: L’Italia spende tre miliardi di euro per la pena ma ha il tasso più alto di recidiva di Europa. Il dato di clemenza che sta sotto le parole del papa non so se va interpretato come un provvedimento eccezionale dopo cui tutto torna come prima, come è successo in passato o su, come io ristrutturare l’istituto della pena. Io preferirei che questa richiesta di umanità fosse tradotta in qualche cosa di strutturale, che rimanga anche dopo". Orlando ha ricordato che dopo l’ultimo indulto c’è stata una diminuzione della popolazione carceraria ma siamo tornati nell’arco di tre anni a settantamila detenuti" Ferri: governo sta puntando su riforme strutturali "Le parole del Papa costituiscono un segnale importante di attenzione e di interesse verso il mondo carcerario. È indispensabile garantire il diritto ad una detenzione basata su principi di umanità ed è altrettanto importante che il sistema sia basato sui principi contenuti nella nostra Costituzione. Questo Governo sta puntando su riforme strutturali: abbiamo agito su vari fronti proprio perché riteniamo inaccettabile che sia perseguita una forma di detenzione inumana e inutile ai fini della rieducazione e del reinserimento nella società". È quanto afferma il sottosegretario alla Giustizia Cosimo Ferri interpellato in merito al dibattito sull’amnistia, apertosi dopo le parole di papa Francesco. Sottolineando che "il tema dell’amnistia è una prerogativa del Parlamento e dovranno essere le due Camere a stabilire se ci sono le condizioni per questa misura", Ferri ricorda gli interventi del governo per "contrastare il sovraffollamento carcerario", per "ampliare il ricorso alle misure alternative alla detenzione", per limitare la custodia cautelare "ai soli casi in cui cui c’è una reale esigenza". Inoltre, "dal maggio scorso sono convocati, su iniziativa del Ministro della Giustizia, gli Stati generali per mettere su carta proposte concrete per riformare il sistema penitenziario su alcuni importanti temi quali la valorizzazione del volontariato, l’affettività, le misure alternative e il processo di reinserimento sociale per ridurre la recidiva". Brunetta (Fi): amnistia solo con grande riforma della giustizia "Sull’amnistia io ho la posizione di sempre. Le amnistie si danno quando si fanno le grandi riforme della giustizia, riforme della giustizia non ne vedo". Lo ha detto Renato Brunetta, presidente dei deputati di Forza Italia, in un’intervista a Radio Radicale. "Facciamo la riforma della giustizia e facciamo l’amnistia. Io riforme della giustizia non ne ho viste, ho visto controriforme della giustizia. Per cui - afferma Brunetta - vedo questa richiesta del Papa come un sasso nello stagno, per dire fate la riforma della giustizia, dalla separazione delle carriere alla fine dell’obbligatorietà dell’azione penale, alla riforma della giustizia civile, la riforma della giustizia amministrativa, l’efficienza dei magistrati, la loro produttività. I sei referendum radicali e di Forza Italia, rispetto ai quali Forza Italia aveva raccolto tantissime firme, non sono sufficienti. Io dico facciamo la riforma della giustizia e in parallelo ci mettiamo anche l’amnistia". "Io sono un laico mangiapreti con una grande caratteristica, che rispetto il ruolo sociale della Chiesa. Per cui da questo punto di vista la proposta che fa il Papa io la leggo non da credente, ma come pro-tempore rappresentante del popolo, presidente di un gruppo parlamentare rilevante, che fa i conti con il governo del paese e con il governo della giustizia. Quindi facciamo una grande riforma della giustizia subito, e in parallelo come si fa in questi casi, quando si fanno le grandi riforme, si cerca di o azzerare o tirare una riga sul passato", ha sottolineato Brunetta. Amnistia: Pannella, parole Papa di commovente gravità "Grazie a Papa Francesco per le assoluzioni che si configurano dietro le tue parole e perché stai rendendo in modo patente alla parola della legge di quanto dibattuto nei libri sacri delle varie religioni". Marco Pannella ringrazia Papa Francesco per le parole sull’amnistia e il Giubileo, "per la responsabilità che si è assunto pronunciandole" e definisce il modo in cui il Papa è intervenuto di "Commovente gravità". "Credo - aggiunge - tu stia dando un contributo straordinario che muove e commuove la nostra specie e il mondo nel quale viviamo". Pannella ringrazia Francesco per aver messo in evidenza la parola "responsabilità" e per l’idea di questa "grande amnistia" con una "serie di assoluzioni". Infine il leader radicale fa notare come la storia del suo partito spesso coincida con la morale religiosa. "La Chiesa - sostiene Pannella - ha da tempo detto grazie alla storia radicale". Marazziti: dopo Papa si torni ad affrontare tema amnistia "Con certezza il Papa non fa riferimento all’Italia. Non è nel suo stile intervenire nelle vicende interne del nostro Paese, ma le sue parole interpellano comunque le coscienze di tutti i cristiani. Io lo dico da diversi anni che l’amnistia è una necessità. Bisogna avere il coraggio di dire no alla cultura che vede nel carcere la soluzione di tutti i problemi giudiziari". Lo dichiara in una nota Mario Marazziti, presidente della commissione Affari sociali alla Camera, esponente di Per l’Italia. "È ora che il Parlamento - spiega Marazziti - torni ad affrontare questo tema. L’amnistia consentirebbe di tornare a un numero di detenuti estremamente più basso, permettendo al carcere di tornare a svolgere una funzione riabilitativa e di recupero. Sarebbe un’occasione storica, visto che il sistema carcerario, con pochi mezzi, carenza di personale e strutture inadeguate, produce recidive nel 67% dei casi". Salvini: rifiuto grande amnistia con tutta la forza "Rispetto per Papa, ma chi ha sbagliato deve scontare tutto". "La grande amnistia la rifiuto con tutta la mia forza. L’Italia ha bisogno della certezza della pena, chi sbaglia paga. Se qualcuno è stato condannato a dieci anni di carcere, non è che, perché c’è il Giubileo, esce cinque anni prima e ricomincia a stuprare, rapinare o spacciare". Lo ha detto a Sky TG24 Pomeriggio il leader della Lega Nord Matteo Salvini, commentando la proposta di Papa Francesco di concedere un’amnistia in occasione del Giubileo. "Con tutto il rispetto per il Papa, da amministratore pubblico ritengo che, se vieni condannato a dieci anni di galera, stai in galera fino all’ultima ora dell’ultimo giorno della tua pena", ha concluso Salvini. Don Spriano (Rebibbia): aperte le porte di tutte le celle "Siamo molto felici perché stavamo pensando di proporre qualcosa del genere, ossia di aprire in carcere, per il Giubileo, una porta cosiddetta "santa". Con le parole del Papa si sono simbolicamente aperte le porte di tutte le celle". Così don Sandro Spriano, cappellano di Rebibbia, a Roma, dove sono rinchiuse circa 2.300 persone in quattro istituti, accoglie la proposta di Papa Francesco di concedere l’indulgenza in carcere anche solo pregando quando si entra nella propria cella. "Non mi sono meravigliato - osserva al Sir. Il Papa ci ha fatto capire che la misericordia non passa attraverso i discorsi ma attraverso i gesti d’amore. Quando è venuto a Rebibbia ad aprile ha salutato i 600 detenuti baciandoli tutti, un gesto che ha trasmesso il messaggio della misericordia. Dire che, uscendo dalla cella, ognuno potrebbe anche immaginare una vita diversa e quindi ottenere l’indulgenza, è conseguente al suo modo di agire". A proposito delle parole del Papa sull’amnistia, don Spriano ricorda che "l’amnistia possono darla solo i nostri governanti e i nostri deputati e senatori" per cui "è vano il tentativo di minimizzare". "Il Papa interpreta l’amnistia come un gesto di giustizia, non una regalia - afferma -. Attualmente le carceri nel mondo sono piene di poveri che non hanno avuto una difesa in un processo adeguato. Un’amnistia fa giustizia di una mancata giustizia precedente, per cui è un vero gesto di misericordia". Secondo don Spriano "non si tratta solo di togliere lavoro ai tribunali" perché "è molto più insidioso far pagare smisuratamente a qualcuno una piccola colpa": "Vedo tanta povera gente che sconta tre anni di carcere per un reato minimo mentre chi ha una buona difesa ne fa uno o anche solo un mese". Invita poi i cristiani a "smontare tanti pregiudizi" e a cercare di accogliere gli ex detenuti una volta usciti dal carcere, un modo concreto, questo, "per applicare davvero la misericordia". Riguardo alla giornata giubilare del 6 novembre 2016 a piazza San Pietro, durante la quale la Santa Sede vorrebbe portare a Messa i detenuti, don Spriano teme che sia un’ipotesi difficile da realizzare. "Se si riuscirà a fare io sarò certo contentissimo ma non credo che esista questa possibilità - dice. Potrà venire forse un piccolo gruppo di persone già autorizzate per i permessi premio. Ma bisognerebbe fare delle leggi apposite. Uscire dal carcere, anche solo per un giorno, è una questione legislativa che dipende dai requisiti, ad esempio se si ha già scontato un certo numero di anni. Le valutazioni dei magistrati, caso per caso, potrebbero far uscire forse 100 persone. A fronte di 55 mila detenuti in Italia sarebbe comunque un piccolo numero". Giustizia: il Papa a Poggioreale confidò a un carcerato l’idea di un "indulto responsabile" Roma, 3 settembre 2015 "Nella vita non bisogna mai spaventarsi delle cadute, l’importante è sapersi sempre rialzare. Dio dimentica e cancella sempre i nostri peccati". Furono queste le parole incoraggianti che Papa Francesco rivolse il 21 marzo scorso ai detenuti nel carcere di Poggioreale, che fu tappa della visita pastorale che Bergoglio dedicò a Napoli e che incluse un pranzo con circa 120 detenuti, tra cui 13 transessuali. "Già in quella occasione, confidò a un detenuto argentino, che era seduto vicino a lui, la sua idea di un "indulto responsabile" per l’anno della misericordia. È una cosa che un po’ sapevamo". Antonio Mattone, portavoce della Comunità di Sant’Egidio di Napoli, ricorda adesso quel "dettaglio" dell’incontro del Santo Padre con i carcerati di Poggioreale. "Non so che cosa intendesse per "indulto responsabile", ma disse proprio così" ribadisce. Riflette e poi aggiunge: "Oggi che le carceri non sono più sovraffollate come una volta potrebbe sembrare anacronistico parlare di amnistia, ma, invece, risveglia in noi cristiani, presi dalla logica giustizialista secondo la quale chi ha sbagliato paghi, risveglia la riscoperta della misericordia". Il termine sul quale insiste da sempre Papa Francesco ha un significato che va ben spiegato e così lo definisce Mattone: "È il sentire con il cuore. Oggi si sente solo con l’economia e il mercato. Per questo, per noi cristiani, significa risveglio da questo torpore in cui siamo rassegnati e piegati sul presente. E questo è il bello di Papa Francesco: spariglia i pensieri e i giudizi consolidati". Ma perché tanta attenzione proprio ai detenuti? "Lui riceve tante lettere, me lo hanno detto - risponde Mattone - Avverte da queste voci la sofferenza e il dolore di chi vive la detenzione e, ancora ora, telefona con regolarità a un carcere in Argentina dove andava in visita quando era ancora vescovo". Che cosa accadde durante la visita di Papa Francesco al carcere di Poggioreale? In un recente documentario a cura di Massimo Milone, direttore di Rai Vaticano, è stato detto che si verificarono molte conversioni. "Io ho avvertito la gioia di quelle persone - testimonia Mattone - La conversione è un cammino, non una cosa magica e credo che in molti abbiano vissuto un momento di questo cammino durante quella visita". Giustizia: il Papa chiede amnistia o indulto? dal contesto si capisce che vorrebbe l’indulto di Marco Bertoncini Italia Oggi, 3 settembre 2015 Il papa chiede un’amnistia o un indulto? La domanda ovviamente è provocatoria, posto che non compete al pontefice districarsi fra le distinzioni dei due provvedimenti nell’ordinamento giuridico italiano. Tuttavia, se applicassimo la definizione di amnistia presente nel codice penale, ci accorgeremmo che con difficoltà si potrebbe applicare alle persone cui Bergoglio fa riferimento nella sua lettera. Testualmente egli scrive: "Il mio pensiero va anche ai carcerati, che sperimentano la limitazione della loro libertà. Il Giubileo ha sempre costituito l’opportunità di una grande amnistia, destinata a coinvolgere tante persone che, pur meritevoli di pena, hanno tuttavia preso coscienza dell’ingiustizia compiuta e desiderano sinceramente inserirsi di nuovo nella società portando il loro contributo onesto. Nelle cappelle delle carceri potranno ottenere l’indulgenza". Dunque, si tratterebbe di un atto di clemenza volto a liberare condannati dal carcere, nella convinzione che si tratti di persone che abbiano "preso coscienza dell’ingiustizia compiuta". Altro provvedimento è l’amnistia, che estingue il reato e non riguarda, di per sé, coloro che "sperimentano la limitazione della loro libertà". Quando papa Francesco invoca (non direttamente per l’Italia, ma tutti hanno letto il discorso come precipuamente rivolto all’Italia, nel cui interno il pontefice opera) una "grande amnistia", si comprende che vorrebbe un grande indulto, insomma uno svuota carceri, per usare un’espressione in voga da un paio d’anni. Qui appunto emergono riserve, perplessità e decise contrarietà, arrivate da più parti, alla proposta pontificia, senza dire di molti silenzi che esprimono imbarazzo nel dover respingere l’appello del papa. Da mesi, riduzioni di pena, sconti, benefìci, e insomma indebolimenti alla certezza della pena, hanno interessato svariati provvedimenti legislativi. I numeri riapparsi in occasione delle polemiche subito sorte per l’esortazione pontificia hanno indicato come migliaia di carcerati siano anticipatamente usciti dalla prigione. Le scontate ripicche di Matteo Salvini incontrano solido favore popolare. Ben difficilmente chi, già oggi, si duole perché nel carcere alloggi una minoranza di coloro che lo meriterebbero, accoglierà sorridente l’invito del papa a una "grande amnistia": semmai, vorrebbe un giro di vite. Basterebbe riflettere su quanti, anche berlusconiani, hanno visto con totale disfavore la riduzione di pena di alcune settimane al Cav: disfavore non politico, bensì come sintomo d’incomprensione per uno strumento che consente rilevanti diminuzioni della pena. Quanto alle possibilità di trovare nelle due Camere le maggioranze qualificate dei due terzi, sono oggettivamente ridotte. Restarono senza seguito la diretta richiesta di un provvedimento di clemenza avanzato in forma diretta da Giovanni Paolo II (però nel 2006 fu varato un indulto) e, molto dopo, uno specifico messaggio di Giorgio Napolitano. A parte le contrarietà dichiarate di M5s, Lega e FdI, c’è nel Pd la consapevolezza di una ripulsa popolare per un simile atto di clemenza. Dunque, il papa può oggi invocare genericamente una "grande amnistia" e forse domani uno specifico indulto rivolgendosi all’Italia; ma appare complicato raggiungere i due terzi dei componenti (non dei votanti, non dei voti validi) di ciascuna Camera. Giustizia: mamme carcerate, come crescono i bambini dietro le sbarre? di Sara Scheggia Donna Moderna, 3 settembre 2015 Dopo il caso di Martina Levato, la condizione delle mamme detenute e dei loro figli balza in primo piano. E noi indaghiamo. Qui, volontari e operatori carcerari raccontano storie ed emozioni dei 40 piccoli che vivono in strutture e nidi molto speciali. "Voglio che la mamma mi dica la verità e non le bugie. Non mi piaceva quando me le diceva, perché lo sapevo che erano bugie". Lo chiede uno dei bambini che ricorda come veniva "ingannato" dalla madre detenuta, preoccupata di non fargli capire la sua reale condizione. Questo è uno dei gridi d’aiuto raccolti da un gruppo di lavoro coordinato dall’associazione Bambinisenzasbarre, che dal 2002 si occupa di minori con genitori in prigione e che sta stilando una "Carta dei bisogni" dei circa 40 piccoli che stanno crescendo in carcere. Proprio su di loro ci interroghiamo da giorni, in attesa di sapere quale decisione definitiva verrà presa per il figlio di Martina Levato e Alexander Boettcher, la coppia condannata a 14 anni per aver sfigurato con l’acido un ex compagno di scuola. Il compleanno non è una festa "Ho un ricordo indelebile: il momento della separazione di un bimbo dalla sua mamma. Lei doveva restare in carcere ancora un anno. Lui ne aveva appena compiuti 3 e non poteva più rimanere. Il tempo di spegnere le candeline, preparare le sue cosine e salutare la madre, con cui aveva vissuto in simbiosi per tanti mesi quando c’era ancora il Nido del carcere San Vittore a Milano" racconta Lia Sacerdote, presidente di Bambinisenzasbarre. "Era disperato e io non dimenticherò mai il suo dolore. Fu affidato alla nonna, nei mesi successivi tornò a trovare la mamma, ma un colloquio ogni tanto non è la stessa cosa. Anche le maestre andavano a far visita a quella donna portandole i disegni del figlio. Tutti, quindi, cercarono di non spezzare questo legame" prosegue Lia Sacerdote. Fino a poco tempo fa, i piccoli oltre i 3 anni non potevano rimanere nelle carceri non attrezzate adeguatamente. Una legge del 2011 entrata in vigore l’anno scorso sta provando a evitare questi traumatici distacchi, permettendo ai bimbi di stare con le madri detenute fino ai 6 anni. A condizione che vivano in un Icam, l’istituto a custodia attenuata, più a misura di bambino (vedi box in fondo all’articolo). Le gite sono una gioia breve "Il sabato i bambini si svegliano prima del solito: è il giorno in cui i volontari li portano fuori. Loro lo sanno e li aspettano eccitatissimi" confidano le mamme detenute nel carcere femminile di Rebibbia, a Roma, la cui sezione Nido è considerata un modello nazionale. Si trova in un’area distaccata, ricavata da un vecchio chiostro: due grandi camerate, una sala comune in cui giocare e guardare la tv, tanti disegni alle pareti e un giardino con lo scivolo. Oggi ospita 8 donne, con altrettanti figli, tutti sotto i 3 anni. Che, oltre ad andare all’asilo "fuori", il sabato escono per scorrazzare all’aperto. "Organizziamo uscite di gruppo, con quelli oltre l’anno di età: prima sarebbero troppo piccoli. Quest’estate siamo andati in piscina, in campagna e a visitare fattorie. Li facciamo divertire" dice Francesca Cusumano, una delle volontarie dell’associazione A Roma Insieme, attiva con tanti progetti a Rebibbia. Francesca qualche giorno fa si è stupita di come uno di questi bimbetti in piscina mimasse già i movimenti del nuoto. "Quando gli ho chiesto chi glielo avesse insegnato, mi ha risposto sorridendo: "Nonno Nanni". Tutti i bimbi stravedono per lui". Nonno Nanni è il modo affettuoso con cui è conosciuto Giovanni Giustiniani: un pensionato che dedica i suoi sabati ai nipoti "acquisiti", ospiti del Nido. "Le mamme nuove arrivate sono un po’ diffidenti nel far uscire i figli con noi. Poi le altre le convincono e capiscono che per i bambini è una bella opportunità" dice Giovanni. "Quando salgono sul pulmino, i piccoli sono timidi e silenziosi. Presto, però, si entusiasmano e, quando li riportiamo indietro, quasi non vogliono rientrare. Cerco di regalare loro serenità perché è triste scoprire che molti di loro non sopportano le cose aperte e vogliono sempre chiudere armadi e cassetti: sono abituati a vivere in spazi ristretti e a vedere, la sera alle 20, le porte blindate delle stanze chiudersi". I poliziotti diventano compagni di gioco "Qui non ci sono sbarre alle finestre. Noi agenti siamo in borghese, senza divisa: così i bambini non hanno la sensazione di essere vigilati" osserva Stefano Saraceni, coordinatore della sicurezza all’Icam di Milano. "Le mamme dormono con accanto i lettini dei bimbi e c’è una cucina comune, aree con giocattoli e tavolini bassi. Collaboriamo con gli educatori. Se loro non ci sono, per esempio la domenica, diamo supporto alle detenute. Ma lo sforzo maggiore è rendere le giornate divertenti per i bambini. Mi chiamano per nome e mi fanno tenerezza quando qualcuno mi saluta dicendo "Ciao, capo". Passiamo tante ore insieme e alla fine è inevitabile affezionarsi". Le 4 strade previste dalla legge Quando una donna con un figlio piccolo è condannata, dove finisce? Lo spiega l’avvocato Alberto Sagna, che segue madri detenute e collabora col Tribunale dei minori di Roma. Le mamme che non hanno una famiglia a cui affidare i bambini, fino a quando questi compiono i 3 anni possono tenerli con loro nelle sezioni Nido delle carceri (sono 12 in Italia). A Milano, Venezia e Cagliari, ci sono gli Icam, gli istituti a custodia attenuata per le mamme, dove i bimbi possono rimanere con le loro madri fino al compimento dei 6 anni. A molte detenute, che devono scontare le pene più lievi, sono concessi gli arresti domiciliari. Le straniere, soprattutto rom, anche se hanno commesso reati minori, ne beneficiano di rado perché una roulotte non sempre è riconosciuta come domicilio appropriato. La legge 62 del 2011 ha anche istituito le case famiglia protette: appartamenti, vigilati, per chi non ha una casa in cui scontare i domiciliari e dove la vita dei bambini dovrebbe essere il più possibile simile a quella dei loro coetanei "liberi". Non ne è stata creata ancora nessuna per mancanza di fondi, ma nei prossimi mesi potrebbe aprire la prima a Roma, grazie alla onlus di Poste Italiane che sta ristrutturando un edificio confiscato alla mafia. Giustizia: parte la riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 3 settembre 2015 Vasto programma verrebbe da commentare. Per rimettere mano a una delle riforme più contestate dell’era Berlusconi e per dare sostanza a una delle promesse del premier Matteo Renzi. È partito ieri con la riunione della commissione presieduta da Michele Vietti, alla presenza del ministro della Giustizia Andrea Orlando, il progetto di riforma dell’ordinamento giudiziario e del Csm. A stendere gli articolati, sui quali non è stata ancora fatta una scelta sulla veste che dovranno assumere (disegni di legge o disegni di legge delega), saranno due commissioni guidata la prima (sull’ordinamento giudiziario, compresa la messa a punto della geografia degli uffici) dall’ex vicepresidente del Csm Vietti e la seconda dall’ex ministro della Giustizia Luigi Scotti. Un intervento in due mosse, strettamente collegate, come insieme dovranno procedere le commissioni (tanto è vero che Scotti sarà anche vice di Vietti), e che dovrà essere concluso, quanto alla redazione dei testi, entro la fine dell’anno. Tempi stretti quindi per una materia assai ampia. Soprattutto la commissione Vietti, dettaglia il decreto di nomina, dovrà occuparsi di una pluralità di argomenti. A partire dalla fase due della geografia giudiziaria. Riforma quest’ultima fortemente voluta e messa a punto dall’allora ministro Paola Severino e poi precisata successivamente dalle amministrazioni Cancellieri e Orlando. Ora si apre la possibilità di una manutenzione dell’intervento. Che però a via Arenula tengono a precisare non prelude a un passo indietro o a ripensamenti radicali. Oggetto delle modifiche è lo sviluppo del processo di revisione della geografia giudiziaria", certo, che, però questa volta passerà per la riorganizzazione della distribuzione sul territorio delle Corti d’appello e delle relative Procure generali. In questo contesto a fare da direttrici saranno i principi di ripartizione delle competenze e di specializzazione. Ma alla commissione Vietti è anche assegnato il compito di rivedere l’organizzazione degli uffici del pubblico ministero, di ripensare il sistema degli illeciti disciplinari e quello delle valutazioni di professionalità e degli avanzamenti in carriera dei magistrati, di riformare l’accesso in magistratura. Infine dovrà occuparsi della mobilità e dei trasferimenti di sede e funzioni delle toghe. Inevitabile allora, ed è stata decisione di ieri, la suddivisione in tre sottogruppi. Il primo dovrà occuparsi di geografia giudiziaria, organizzazione degli uffici di procura, di specializzazione; il secondo di accesso, mobilità e incarichi; il terzo di illeciti, incompatibilità e valutazioni di professionalità. La commissione guidata da Scotti, invece, ha un compito più circoscritto, ma non meno delicato, visto che dovrà provvedere al nuovo assetto del Csm, con riferimento specifico al sistema elettorale, a quello disciplinare e alle competenze del Consiglio superiore stesso in relazione a quelle dei consigli giudiziari. L’obiettivo dovrà però essere raggiunto tenendo conto anche delle proposte di autoriforma messe a punto dal Csm stesso, dopoche poche settimane fa il Consiglio ha licenziato il nuovo testo con la riforma dei criteri per il conferimento degli incarichi direttivi e semi-direttivi. Le squadre messe in campo dal ministero della Giustizia vedono, tra gli altri, nella commissione Vietti, l’ex presidente del Consiglio nazionale forense Guido Alpa, l’ex capo del Dipartimento dell’organizzazione giudiziaria di via Arenula (che seguì tutta la prima attuazione della geografia giudiziaria) Luigi Birritteri, il responsabile dei processi di innovazione del tribunale di Milano Claudio Castelli; mentre della commissione Scotti fanno parte il presidente emerito della Corte costituzionale Cesare Mirabelli e l’ex giudice della Corte europea dei diritti dell’uomo Vladimiro Zagrebelsky. Giustizia: con Marino e senza Libera, stasera a Roma la "piazza antimafia" del Pd di Eleonora Martini Il Manifesto, 3 settembre 2015 La manifestazione indetta da Matteo Orfini dopo i funerali di Vittorio Casamonica. Bufera sull’assessore dem dei Trasporti, Stefano Esposito, per lo show da ultrà juventino e lo slogan antiromanista. Sel e Alemanno chiedono dimissioni. Sulla piazza dove il 20 agosto scorso venne immortalata, a beneficio di tutti i media internazionali e assai meno per la capitale d’Italia, la carrozza trainata da sei cavalli che trasportava il feretro di Vittorio Casamonica, oggi si riuniranno forze politiche e amministratori, sindaci e governatori, sindacati e associazioni, rappresentanti dell’imprenditoria e organizzazioni di categoria per manifestare al mondo, con interventi dal palco montato davanti alla chiesa di San Giovanni Bosco, a Cinecittà, che i clan non hanno in mano Roma. Non staranno in silenzio, come chiedeva il candidato sindaco del centrodestra Alfio Marchini come condizione per partecipare alla manifestazione "Antimafia Capitale: per la Legalità contro le mafie" indetta dal presidente del Pd, Matteo Orfini. Ma si annuncia affollata, dalle 18 in poi, la piazza dove, va ricordato, il 24 dicembre 2006 fu al contrario confinato, non trovando misericordia cattolica, il sobrio funerale laico di Piergiorgio Welby, e proprio nel 33esimo anniversario dell’omicidio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Ci sarà il sindaco Ignazio Marino appena rientrato dalle tanto chiacchierate ferie negli States e il governatore del Lazio Nicola Zingaretti, molti sindaci e amministratori provenienti anche da fuori regione, con le loro fasce tricolori, chiamati a raccolta dal presidente dell’Anci, Piero Fassino, l’Unione delle Province d’Italia, Cgil Cisl e Uil, l’Arci, le Acli, la Comunità Sant’Egidio e molte associazioni anticlericali o che si battono per i diritti civili. Ma non Libera. L’associazione fondata da don Luigi Ciotti ha fatto sapere infatti che non aderirà alla manifestazione "essendo Libera un coordinamento di associazioni, più di 1.600, dove ciascuna realtà è libera di aderire, di costruire i propri percorsi e fare le proprie scelte", si legge in una nota ufficiale. Evidentemente non alberga solo nel M5S e nei FdI, la diffidenza verso un’iniziativa che non è stata indetta dopo gli arresti di Mafia Capitale ma all’indomani del funerale alla "Padrino" del capostipite dei Casamonica. Libera assicura comunque che non farà mancare il sostegno a chi "si oppone al sistema criminale presente nella Capitale, convinta che "legalità" significhi responsabilità, coerenza e onestà da parte di tutti". Anche Sinistra ecologia e libertà ha annunciato che parteciperà con una delegazione nazionale, a condizione che l’occasione non venga strumentalizzata "per larghe intese". Quelle politiche, intendono gli esponenti di Sel, possibili solo - così sembra - in campo calcistico. Il capogruppo in Campidoglio Gianluca Peciola e l’ex sindaco Gianni Alemanno sono stati tra i primi, infatti, a chiedere le dimissioni dell’assessore ai Trasporti Stefano Esposito (senatore del Pd dal "pessimo carattere", dice chi lo conosce bene, già commissario dem ad Ostia) per lo show da ultrà juventino con annesso slogan anti romanista recitato ai microfoni de La Zanzara, su Radio 24. "Andavo in trasferta a vedere la Juve - ha raccontato l’assessore di origine torinese - tante volte ho gridato "Roma merda". Non ricordo più nemmeno quante. Ho fatto anche qualche trasferta a Roma da ultrà. Ho fatto anche delle risse, ho dato delle botte ma soprattutto le prendevo". E ancora: "Se la Roma non vince lo scudetto godo ma sarebbe peggio se lo vincesse la Fiorentina o il Torino. Romanisti rosiconi? Sì, sono anni che si lamentano di partite, linee, palle uscite o non uscite, siamo ancora a Turone. Basta!". Nemmeno Rutelli, da sindaco laziale, o Veltroni da juventino, avevano mai osato tanto. Così, da Alemanno a D’Alema la levata di scudi è massiccia. L’ex presidente del Consiglio avverte perfino Esposito: "È un sedicente Dalemiano. Gliel’ho proibito da molto di definirsi tale…". Solo il capogruppo dem in Campidoglio, Fabrizio Panecaldo, con ironia cerca di ridare il giusto peso alla vicenda e twitta: "Caro stefanoesposito…nun me fà diventà romanista… che sò laziale… E comunque storicamente #juvemerda!". Giustizia: Casamonica, gelo del premier sul sit-in antimafia con Marino di Nino Bertoloni Meli Il Messaggero, 3 settembre 2015 Ci sarà Piero Fassino in rappresentanza dei sindaci. Non mancherà Nicola Zingaretti, presidente della Regione. Faranno bella mostra di sé i gonfaloni delle cittadine limitrofe, di Genzano, di Albano. Non potrà mancare, e come potrebbe, l’Associazione dei partigiani, 1 Anpi. E poi la comunità di Sant’Egidio, e le Acli, e le associazioni, e singole personalità, e Sel di Vendola, e gli ex Pd come Fassina e Gregori, e i parlamentari laziali e romani come Meta, Morassut, Bonaccorsi, Marroni. Ma ci sarà soprattutto lui, Ignazio Marino, il sindaco, riemerso è il caso di dire dalle immersioni ai Caraibi, che ha scelto proprio la manifestazione di oggi a piazza don Bosco per segnare il proprio rientro sulla scena politica. "Ma è chiaro che se c’è lui, Marino, non può esserci Renzi", sussurra uno dei deputati romani che conosce bene entrambi. E così sarà. Non che al premier Matteo Renzi non interessi il contro corteo dopo il funerale show dei Casamonica, men che meno il premier segretario intende sbugiardare l’iniziativa messa su con tanto impegno da Matteo Orfani, il commissario, sempre più lanciato in un ruolo di primo piano nelle vicende capitoline. Il fatto è che manifestazioni del genere per Renzi non risolvono, non mordono, non sono produttive. Conclusione: le organizzino pure, si facciano, meglio che niente, ma né il governo né il premier intendono metterci la faccia. E poi perché? Per coprire una situazione nefasta che mette radici nei tempi di un Pd vecchia maniera, con rappresentanti della vecchia e della giovane guardia in filiera colti con le mani nel sacco? Un approccio a dir poco gelido, appunto. Del governo è annunciata la presenza del ministro Guardasigilli, Andrea Orlando, e del sottosegretario Angelo Rughetti: quest’ultimo è parlamentare reatino, uomo di punta del Pd laziale, e non potrebbe certo dare forfait; quanto a Orlando, ci sarà come esponente del Pd, non parlerà, e soprattutto renderà manifesta la diarchia ormai instauratasi al vertice dei giovani turchi con l’arrembante Orfini. Aveva annunciato la propria presenza anche Alfio Marchini, ma vista la piega presa dagli avvenimenti, ha deciso di non aderire. "Se è una manifestazione silenziosa stile marcia di Assisi, ben venga, ci sto, ma se parlano i politici, e se soprattutto parla Marino, allora diventa un’altra cosa e non ci saremo", ha fatto sapere Marchini. Chi l’avrebbe mai detto che una piazza intestata al curatore del riscatto di anime giovanili, don Bosco, sarebbe diventata l’epicentro del riscatto antimafia di un partito politico. Anche la data, Orfini ha voluto simbolica: il 3 settembre, anniversario dell’assassinio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa a opera della mafia a Palermo. Ma tant’è. Abbandoneranno per un giorno i loro luoghi di vacanze agli sgoccioli, politici e non, per segnare la propria presenza in piazza, "il riscatto del Pd contro il malaffare", come dicono i futuri partecipanti. Ma non mancano critiche, polemiche, musi storti e moniti. Roberto Morassut lascerà la casetta di Lavinio e si farà vedere a don Bosco, ma il clima generale non gli piace e lo dice senza giri di parole: "È una cosa episodica, arriviamo sempre un minuto dopo le inchieste, i fatti di cronaca, mah, ormai tutto è diventato una vera e propria questione romana. Voglio solo sperare che alcuni personaggi abbiano almeno il buon gusto di non farsi vedere, se no il rischio che sia una parata negativa e non una giornata di riscatto lo corriamo per davvero". Altra polemica è sollevata da Sei: "Chi tenterà di utilizzare la piazza per fare prove tecniche di grande piccola coalizione commette un errore grave pari a quello di chi pensa di cavalcare la manifestazione per appoggiare o denigrare la giunta comunale". Su tutto e tutti aleggia l’ipotesi di un nuovo filone giudiziario legato alle rivelazioni dei Buzzi e Odevaine. E c’è da fronteggiare l’offensiva dei Cinque Stelle, che hanno annunciato una contromanifestazione non si sa ancora bene fatta come e con chi. Ma i dem romani, e non solo, sanno bene che il M5S ha lanciato da tempo un’Opa ostile sul Campidoglio, trovando negli atteggiamenti di Marino un insperato aiuto per tentare la scalata al Comune. Giustizia: Cantone "a Roma comandano i boss locali, il Giubileo è più difficile dell’Expo" di Paolo Borrometi Il Tempo, 3 settembre 2015 Raffaele Cantone, presidente dell’Authority Anticorruzione, parla delle prossime sfide della capitale. "La vicenda di Mafia Capitale comporterà inevitabilmente un’attenzione più alta e un controllo più severo e scrupoloso su tutti gli atti. È chiaro che vorremo vedere gli atti prima delle stipule, esercitando così il nostro ruolo, con un controllo preventivo. Per di più la macchina romana è molto complessa, ma sono ottimista: ci aspetta un grande lavoro e una sfida altrettanto importante". Il Presidente dell’Authority Anticorruzione, Raffaele Cantone, sarà costretto a dividersi sempre più fra Milano e Roma, visto l’importante incarico che lo vede sovrintendere alla corretta realizzazione degli appalti del Giubileo. E proprio sulla riuscita del Giubileo, seppur in così breve tempo, il "super magistrato" non mostra dubbi. "Per il Giubileo ci sono criticità maggiori di Expo, ma gli interventi saranno di minor rilievo, visto che si tratterà sostanzialmente di manutenzioni. Poi c’è un vantaggio rispetto a Milano: quando iniziammo con il lavoro le condizioni erano molto più complicate perché venivano in un momento in cui ad Expo non credeva più nessuno. Il Giubileo si farà di sicuro. E sarà proprio il "modello Expo" ad assicurare la perfetta riuscita e a rendere assolutamente limpido e trasparente un evento importante come il Giubileo". Raffaele Cantone fa il "punto" dopo l’incontro svolto martedì pomeriggio a Roma con l’assessore alla Legalità, Alfonso Sabella e con quello ai Lavori Pubblici, Maurizio Pucci, mostrandosi fiducioso. "Ci siamo dati tempi molto brevi per poter partire, ma d’altronde soltanto ieri mi è stato notificato il provvedimento del Governo. L’assessore Sabella si è preso qualche giorno per valutare l’ok definitivo alle regole che abbiamo prospettato. Ci ha detto che aveva dato una prima occhiata e che non ci fossero particolari rilievi, ma ci siamo aggiornati. Comunque sono certo che entro fine della settimana prossima sottoscriveremo il protocollo operativo". Alla domanda se ha sentito il sindaco di Roma, Ignazio Marino, Cantone chiarisce: "No, non l’ho ancora sentito. È pur vero, però, che siamo ancora in una fase di valutazione. È chiaro che per la firma del protocollo, settimana prossima, lui dovrà esserci". In concreto, l’Autorità che lavoro farà su Roma? "Lo stesso identico lavoro fatto per Expo - spiega Cantone - Utilizzeremo la stessa unità operativa speciale, composta da nostri funzionari e da personale della Guardia di Finanza, che ha maturato competenza specifica sugli appalti. Sfrutteremo il suo background per controlli veloci ed efficaci". E proprio il problema di coniugare l’efficienza con la velocità che preoccupa il presidente Raffaele Cantone che indica fra le criticità maggiori. "Mi preoccupa molto la ristrettezza dei tempi che sono davvero contingentati. C’è l’urgenza, ma questa non può essere causa di una mancanza di rispetto di norme e leggi. D’altronde nel provvedimento del Governo non ci sono le tante deroghe che c’erano per Expo, anche perché nel caso di Expo si trattava di costruire edifici, nel caso del Giubileo ci troviamo di fronte a interventi importanti ma in gran parte di manutenzione. Tutti gli appalti saranno al di sotto di un milione di euro, quindi si procederà con procedure semplificate. Per di più - spiega il presidente dell’Autority Anticorruzione - molti interventi saranno analoghi, ciò potrebbe semplificare ed agevolare i controlli, perché individuato il criterio questo varrà per tutti. Resta però il fatto che c’è da capire quando ci saranno le risorse". Cantone avrà comunque nel Prefetto di Roma, Franco Gabrielli, un alleato "fidato". "Siamo amici e spesso abbiamo lavorato insieme, esempi ne sono il Mose e Mafia Capitale. L’ho sentito ieri sera al termine della riunione con gli amministratori, perché con lui dovremo affrontare il tema dei criteri per i controlli antimafia che sono indispensabili per quanto concerne gli appalti. Gabrielli ha un impegno molto pesante, lui ha tante responsabilità. Ma ha dimostrato di avere grandissima capacità di lavoro e di motivare i suoi collaboratori, perché è chiaro che un lavoro così non si può fare da solo". Proprio sulla vicenda di Mafia Capitale, Raffaele Cantone coglie alcune novità importanti: "Sono sempre stato convinto che la mafia a Roma ci fosse, ma pensavo fosse più di importazione, con cellule della ‘ndrangheta, di Cosa Nostra, della Camorra. Era meno evidente - e lo abbiamo scoperto grazie all’attento lavoro del Procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone - che ci fosse anche un’associazione autoctona. Già ad Ostia, ad esempio, la mafia era emersa ma la grande novità è proprio questa: i mafiosi a Roma ci sono sempre stati, oggi scopriamo che c’erano proprio mafiosi romani". Per Raffaele Cantone "Mafia Capitale è l’evoluzione della nuova mafia con sempre meno armi ma più dedita, invece, alla corruzione. Conferma perfettamente le intuizioni di chi conosce il mondo della mafia, con l’archetipo dei colletti bianchi". Alla domanda se questo ragionamento sgombera il campo da ipotesi diverse che vorrebbero relegare l’associazione mafiosa di Carminati e Buzzi ad una mafia di serie b, il Presidente Cantone è netto: "Io posso dire che la novità di questa nuova mafia è confermata dal Tribunale del Riesame, è rilevante e fa giurisprudenza. Una vicenda gravissima, questa è mafia. Ed è mafia con un livello di pervasività altissimo, incredibile, che ha riguardato diversi livelli, dall’imprenditoria alla politica". Infine non può mancare un riferimento al mancato scioglimento di Roma Capitale e allo scioglimento, invece, del Municipio di Ostia. "Sono molto curioso di leggere il provvedimento del ministro degli Interni, Angelino Alfano, innanzitutto per cultura personale e poi perché, l’intervento sugli uffici, è una assoluta novità introdotta dalla legge del 2009. La richiese in primo luogo proprio il mondo dell’Antimafia ed è stata salutata come molto utile e sperimentata con discreti risultati. Il dubbio sta nel fatto che finora è stata applicata a piccoli Comuni e a una città media come Reggio Calabria. Voglio capire come verrà attuata in una realtà importante come la Capitale d’Italia. Probabilmente questa è la vera scommessa". Giustizia: i professionisti dell’Antimafia Capitale di Riccardo Magi (Presidente di Radicali italiani e consigliere comunale a Roma) Il Foglio, 3 settembre 2015 Un commissariamento maldestro. Una relazione sotto chiave. Un governo che non spiega con quali norme e atti intende legittimare le proprie decisioni. Un prefetto al limite dell’imbarazzo nel suo ruolo di commissario mascherato. Un ministro che nega di avergli attribuito poteri straordinari, eppure intima al sindaco di collaborare con lui. Un sindaco che esulta per ogni provvedimento, purché confonda le responsabilità: del resto, se tutti sono responsabili nessuno lo è realmente. Un pasticcio grottesco che conferma i nostri interrogativi su consistenza, fondatezza e legittimità delle misure governative annunciate dal ministro dell’Interno, Angelino Alfano, in risposta alla crisi della Capitale. L’estrema vaghezza dell’epilogo che tra Palazzo Chigi e Nazareno si cerca di scrivere per "Mafia Capitale" stride con la portata criminale attribuita sin qui alla vicenda sia dalle contestazioni della Procura sia dall’enfasi mediatica. Ma fa il paio con la vera causa dell’infiltrazione criminale (giudiziariamente da accertare nella portata e nelle responsabilità): la totale assenza di politica, cioè di idee e soluzioni. Come Radicali, abbiamo da subito denunciato che è stato proprio il vuoto di governo in ambiti nodali della vita amministrativa della Capitale a consentire alla criminalità comune, organizzata e politica di saldarsi e radicarsi. Un vuoto perpetuato da contromisure che, a livello nazionale e capitolino, rispondono a mere esigenze di comunicazione politica più che alla necessità di governare problemi con soluzioni realistiche. Il tutto senza alcun riguardo per la tenuta delle istituzioni democratiche, già sofferenti. Ecco dunque che, per paradosso, l’improvvisata (e per molti versi ipocrita) armata deH"‘Antimafia Capitale" si affretta a rincorrere sul terreno della retorica il boom mediatico di "Mafia Capitale" e la carrozza a nolo dei Casamonica, facendo completamente l’economia dell’analisi politica degli ultimi venti anni e quindi delle cause che hanno condotto la Capitale d’Italia sull’orlo del crac finanziario, politico, civile. Con il solo risultato di rinviare ancora da parte dell’intera classe dirigente, non solo cittadina, quella consapevolezza e quell’assunzione di responsabilità necessarie a far ripartire Roma con atti di governo e riforme strutturali ed evitare ancora lo scontro aperto con le incrostazioni corporative che paralizzano la Capitale e il paese: dai partiti ai sindacati, dall’associazionismo alle aziende municipalizzate. Corporazioni che, in buona parte, domani si raduneranno sotto le insegne del partito degli onesti e degli indignati per immergersi in un bagno purificatore senza bandiere ma brandendo quella comune dell’Antimafia Capitale. Anche stavolta senza mettere sul tavolo un solo obiettivo, una soluzione di governo su cui incontrare e misurare il consenso degli stessi cittadini invitati a partecipare. Nulla da offrire se non la propria buona volontà, il proprio essere buoni, cioè il buonismo. Come se volere il cambiamento equivalesse ad averlo già realizzato. È l’ennesimo trionfo della comunicazione sulla politica (pur nella sua versione più casereccia) laddove, a voler scomodare Hannah Arendt, i comunicatori politici sono coloro che hanno a che fare "soltanto con la buona volontà, cioè con cose intangibili la cui concretezza è minima. Non ci sono limiti alle loro invenzioni, dal momento che sono privi della capacità di agire propria dell’uomo politico, della sua capacità di creare fatti". Abbiamo sentito, e continueremo a sentire, che molto di rivoluzionario è stato fatto a Roma in questi due anni per la razionalizzazione delle partecipate e della spesa del comune, ad esempio con la centrale unica degli acquisti e con il salvataggio di Atac. Ma anche qui è difficile rintracciare prove concrete. A oggi persino la dismissione e liquidazione delle Assicurazioni di Roma e delle farmacie comunali, annunciate e rivendicate come emblematiche, non sono state realizzate per errori tecnici e politici che hanno già determinato un danno erariale. E solo poche settimane fa è stata approvata l’ennesima ricapitalizzazione della più grande azienda di trasporto pubblico locale: una società fallita per il costo del servizio occulto che per anni ha reso a partiti, sindacati, apparato aziendale, fornitori. Mentre si provvedeva all’iniezione di nuovo capitale (con un’operazione di finanza creativa del "neo" assessore al Bilancio Marco Causi, già responsabile dei conti capitolini del fu "modello Roma") andava deserta la gara per la fornitura dei 700 nuovi bus promessi dal sindaco ai cittadini. Sul mercato, insomma, non c’è nessuno disposto a stipulare un contratto di leasing con Atac. Mentre i romani, che non hanno scelta, con le proprie tasse e il proprio calvario quotidiano continueranno a pagare, insieme ai costi dei disservizi, il finto salvataggio di questo buco nero. Quanto alla centrale unica degli acquisti, non è dato sapere quale sia lo stato dell’arte. Sappiamo invece che era stato emanato un bando per cercare una consulenza (esterna ai 25 mila dipendenti comunali) che per 3 milioni di euro l’anno aiutasse il comune a realizzarla. Per fortuna qualcuno ha fatto marcia indietro e il bando è stato ritirato. Se l’armata anti-mafiosa si assume la grave responsabilità di non abbozzare alcuna analisi né proposta coraggiosa proprio mentre è al governo, è più che probabile che le prassi quotidiane dell’amministrare non segneremo la discontinuità annunciata. Lotta tra brand, cittadini e mercato esclusi. La verità è che dietro la contesa tra i due brand - quello usato e abusato (come osservato con efficacia su queste colonne da Giuliano Ferrara e Claudio Cerasa) di Mafia Capitale e quello (faccia opposta della medesima moneta mediatica) dell’Antimafia Capitale - continua la silenziosa ma costante erosione degli spazi democratici. Per questi motivi bisogna diffidare di questa Antimafia Capitale, come del suo invito alla partecipazione a reti unificate. Il solo invito da lanciare, data la situazione, è a riconquistare spazi di autentica partecipazione democratica, magari proponendo referendum cittadini su questioni determinanti: dai modelli di erogazione dei servizi pubblici (ad esempio continuare a gettare denaro nel risanamento impossibile di Atac, o mettere a gara il servizio il prima possibile?); ai grandi eventi come le Olimpiadi; alla gestione del patrimonio immobiliare pubblico; alla riforma dell’assistenza domiciliare a persone disabili e anziane, che metta al centro i cittadini e gli operatori, non il sistema delle cooperative; alla riforma del sistema di accoglienza per richiedenti asilo; alla chiusura dei campi rom seguendo le indicazioni europee. Come Radicali ci stiamo attrezzando. C’è qualcuno altrettanto interessato a intraprendere un’impresa meno facile e dall’esito meno scontato che andare in piazza ad affermare la propria anti-mafiosità? Giustizia: se tutto è mafia, nulla è mafia… all’origine di una forzatura legale di Francesco Forte Il Foglio, 3 settembre 2015 Non capisco il gusto di autodenigrazione di chi ha definito lo sfarzoso funerale del padrino dei Casamonica come l’ennesima espressione del fenomeno "Mafia Capitale". Ciò mi riporta al dibattito parlamentare sulla legge anti mafia del 1982, nel quale fu posta in votazione la definizione del nuovo crimine, cioè il reato "di stampo mafioso". Io, allora, feci notare che la parola "stampo" non aveva alcun senso giuridico. La risposta, imbarazzata, del relatore del futuro articolo 416 bis del codice penale fu che voleva includere nelle organizzazioni mafiose, oltre alla mafia e alla ‘ndrangheta, in cui c’è un vincolo associativo che crea l’assoggettamento pieno dei membri ai loro capi e l’omertà reciproca, anche la camorra, che è priva di struttura verticale. Io, insieme ad altri, allora chiesi che si sostituisse al termine "stampo" il termine "caratteri" e che poi li si precisasse. Ma, come spesso è accaduto nella storia italiana, alla fine si arrivò a un compromesso. L’espressione "di stampo mafioso" nel primo comma, venne rimpiazzata da "di tipo mafioso". Nel terzo comma si descrissero i caratteri dell’associazione "di tipo mafioso" individuandol nebulosamente nella "forza di intimidazione di vincolo associativo e della condizione di assoggettamento ed omertà che ne deriva per commettere delitti onde acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o comunque per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri". La forza di intimidazione era un termine, vago, per alludere all’uso della violenza fisica che caratterizza le organizzazioni mafiose a differenza di altre di natura criminale, come quelle di contrabbandieri. Tuttavia il termine "armi" non venne utilizzato per definire "la forza intimidatrice", ma solo per una aggravante quando "l’organizzazione è armata", cioè dispone di armi o materie esplodenti. La camorra, che usa armi personali e non dell’organizzazione, comunque non risultava inclusa nel terzo comma, perché il vincolo associativo in essa è informale e non c’è un patto d’omertà "da fratelli di sangue". Ma l’ultimo comma del 416 bis stabilì che le disposizioni in esso contenute si applicano anche alla camorra e alle altre associazioni, comunque denominate, che avvalendosi della forza intimidatrice del vincolo associativo perseguono scopi corrispondenti a quelli delle associazioni di tipo mafioso". In sostanza lo "stampo mafioso" espulso dalla dizione esplicita del terzo comma, rientrava in modo implicito, nell’ultimo. Lo scopo del legislatore era, insomma, quello di impiegare la legge antimafia, con i suoi poteri eccezionali, anche quando non ci si sarebbe trovati di fronte a mafia o camorra. Si voleva dare alla magistratura un potere discrezionale, anche per un uso politico della giustizia. Peraltro io feci notare, senza fortuna, che in questo modo si distraeva l’attenzione dalla vera mafia. Come dice il filosofo "nel buio tutte le vacche sono grigie". E molte vacche mafiose potevano pascere tranquille perché - gattopardescamente - si poteva combattere la mafia non mafia, con la legge anti mafia. Lavoro da Quintino Sella, non da prefetto Mori. Rimane però indiscutibile che quella di Roma non è la mafia, e neppure rientra nella legge anti mafia. I Casamonica e affini non sono una mafia, né in senso proprio, né secondo la dizione, già ampia, del 416 bis terzo e ultimo comma. Si tratta di un’altra cosa, che rientrerebbe nell’ultimo comma solo sostenendo che il ricevere o no i benefici clientelari è una "forza intimidatrice". Allora tutto è mafia, quando ci sono scambi di favori fra politici o burocrati e organizzazioni come cooperative, enti no profit, imprese, che danno luogo a mangiatoie grandi e piccole del denaro d’una macchina pubblica troppo grossa. Ma il contrasto, qui, è un compito da Quintino Sella, non da prefetto Mori. Giustizia: perché ci piace il nuovo Gratteri che si considera un perdente di Ilario Ammendolia Il Garantista, 3 settembre 2015 Tanti anni fa quando ci siamo permessi di muovere i primi rilievi critici all’operato di Nicola Gratteri è stato come sfidare il Moloch dell’antimafia. Siamo diventati subito degli appestati e dei semi-mafiosi solo perché abbiamo difeso, molto prima che diventasse di moda, i cittadini di Piatì e messo in dubbio la pretesa di esercitare la "pesca" con le reti a strascico catturando contemporaneamente colpevoli ed innocenti. Abbiamo criticato l’uso smodato e certamente illegittimo della carcerazione preventiva e messo sotto accusa la pericolosa saldatura tra alcune Procure antimafia e il movimento da operetta che ha utilizzato la mafia a fini di carriera di guadagni. Il "metodo" Gratteri" non ci ha mai convinto. Riconfermiamo tutte le nostre critiche, ma prendiamo atto che negli ultimi mesi si è affacciato alla ribalta un nuovo Nicola Gratteri. Un Pm che non esita ad attaccare a viso aperto gli avventurieri e i carrieristi dell’antimafia, che invita i cittadini e le istituzioni a non dare un soldo alle variopinte associazioni che pretendono con la loro teatralità di lottare la ndrangheta. Chiede ai dirigenti scolastici di programmare lezioni regolari nelle scuole, senza prestarsi alla inutile perdita di tempo messa quotidianamente in campo dai nullafacenti dell’antimafia. In questi giorni Gratteri non ha esitato ad alzare l’indice accusatorio contro il Csm, indicandolo come un centro di potere. Tuttavia, la "rivelazione" in assoluto più clamorosa sta nel fatto che Gratteri abbia dichiarato di considerarsi un "perdente". Cosa intende dire? Nicola Gratteri è una persona che ha sfiorato l’incarico di ministro della Giustizia, viene corteggiato da schiere di giornalisti e di ammiratori che lo considerano un vate, è invitato in mille convegni e premiato in tutta Italia. Allora, perché si dovrebbe considerare un "perdente"? Voglio pensare che non si riferisca al fatto di non esser stato nominato procuratore della Repubblica. Sarebbe poca cosa! Sarebbe avvilente e non solo per Lui. Un autentico combattente non si autodefinisce "perdente" perché non è stato promosso generale ma solo se perde la guerra. Gli uomini della Resistenza non avevano né i gradi dell’esercito regolare, né divise, né medaglie o piume sui cappelli ma il premio agognato per cui rischiavano la vita era la Libertà. Hanno vinto solo perché l’Italia ha riconquistato la libertà perduta. Gratteri potrebbe essere considerato un "vincente" sui tempi effimeri del presente ma non c’è alcun dubbio che abbia perso la sua guerra. È un "perdente"! Lui ha vista lunga e probabilmente riesce a vedere oltre lo stuolo vociante di cortigiani che hanno sempre bisogno di un simbolo per non vedere la realtà.. Se si guardasse intorno potrebbe vedere la Calabria ridotta ad un cumulo di macerie non solo materiali e certo per responsabilità molteplici; un Sud in cui la fiducia nello Stato è stata fatta a pezzi mentre la ndrangheta è diventata più forte. Il dottor Gratteri ha tutti gli strumenti per comprendere che l’antimafia messa in campo in questi anni è la perfetta continuazione della legge "Pica" utilizzata dai Savoia per inchiodare il Sud alla sua croce Sì, concordiamo ma non siamo affatto felici: Gratteri è un "perdente" perché la vittoria non sta nella fama, non sta nel potere ma sta nella certezza di aver combattuto una battaglia giusta. Se Lui questa certezza avesse perso, potremmo solo auguragli " forza Gratteri ancora un passo verso la libertà". Dica senza indugi che la presunta lotta alla ndrangheta si è conclusa con una inevitabile sconfitta perché ha confuso gli effetti con le cause. Perché ha preteso di sconfiggere le "forze armate" della ‘ndrangheta lasciando intatta la linfa da cui i criminali succhiano la vita, perché ha sacrificato tante vittime innocenti. Perché l’obbiettivo delle classi dirigenti non era la sconfitta della ndrangheta ma piegare ogni resistenza popolare nel Sud. Speso la corazza che rende famosi e potenti può trasformarsi in un tormento per l’Uomo che la indossa. Se Gratteri troverà la forza dell’autocritica e della motivata critica ai responsabili del disastro, probabilmente non diventerà ministro, e neanche procuratore della Repubblica ma questo non avrà alcuna importanza. In fondo Sandro Pertini diceva di aver vinto la battaglia più importante della sua vita nelle galere fasciste, nel momento in cui ha avuto la forza di dissociarsi dalla domanda di grazia presentata dalla madre. Rispetto a quella vittoria, l’elezione al Quirinale la considerava poca cosa. Liberazione speciale esclusa per i condannati in libertà condizionale di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 3 settembre 2015 La liberazione anticipata speciale, prevista dal cosiddetto svuota-carceri (legge 10/2014) non può essere applicata ai condannati sottoposti al regime della libertà condizionale. La Cassazione, con la sentenza 35831 depositata ieri, ricorda che l’istituto è stato adottato d’urgenza, sulla scia della condanna dell’Italia da parte della Corte europea dei diritti dell’Uomo (Caso Torreggiani) per porre rimedio al sovraffollamento delle carceri e al trattamento degradante, conseguenza delle carenze strutturali. Lo stesso Consiglio superiore della magistratura ha sottolineato la diversità del nuovo regime, introdotto al di fuori dell’Ordinamento penitenziario (articolo 54) che si occupa della liberazione anticipata ordinaria. Il legislatore, consapevole della pacifica equiparazione, normativa e giurisprudenziale in vari ambiti, della detenzione domiciliare e carceraria, per evitare equivoci ha espressamente escluso dal sostanzioso sconto di pena: i condannati ammessi alla detenzione domiciliare, all’esecuzione della pena presso il domicilio e quelli agli arresti domiciliari. Soggetti ai quali è stato aggiunto anche chi ha ottenuto l’affidamento in prova. Una precisazione che la Cassazione trova superflua, considerato che la misura non detentiva è ancora più blanda. Ma proprio sulla precisione del testo di legge si appuntano le speranze del ricorrente: il giudice, negando il "beneficio" avrebbe esteso il divieto anche alla liberazione condizionale, pur non essendo menzionata nella legge, mettendo così in atto un’analogia a suo sfavore. Per la Suprema corte non è così. Se la precisazione sulla messa in prova, appare inutile e irragionevole, a maggior ragione lo sarebbe stato il riferimento alla liberazione condizionale "che non è conosciuta dall’Ordinamento penitenziario come misura alternativa e che a tale categoria è stata avvicinata solo in via di interpretazione giurisprudenziale in relazione alla concedibilità della liberazione anticipata ordinaria". Nessuna svista del legislatore dunque, ma solo il risultato di una lettura consequenziale della ratio della legge, che riserva il beneficio, eccezionale e temporaneo, ai carcerati. In coerenza con questo ragionamento la Cassazione esclude anche la violazione della Costituzione, sollevata dal ricorrente in riferimento agli articoli 3 e 27 della Carta. La violazione del principio di uguaglianza non è sostenibile perché la condizione in cui vivono i detenuti, destinatari della disposizione di favore, non è paragonabile a quella in cui si trova chi è in libertà, sebbene sottoposto a prescrizioni. Nessuna irragionevole disparità di trattamento dunque, né contrasto con l’articolo 27, secondo il quale le pene non possono essere contrarie al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione. La Cassazione precisa, infatti, che la natura straordinaria e contingente, disegnata con la legge 10/2014, non esclude in ogni caso, la possibilità, per il liberato condizionale, di usufruire del beneficio della liberazione anticipata ordinaria. Niente attenuanti e certificato penale "pieno"? Stop a non punibilità per tenuità del fatto di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 3 settembre 2015 Corte di cassazione - Sezione II - Sentenza 2 settembre 2015 n. 35901. La non punibilità per particolare tenuità del fatto non può essere applicata a chi si appropria indebitamente dell’auto a noleggio se, dalla sua, ha un nutrito certificato penale e nessuna attenuante. La Cassazione, con la sentenza 35901 depositata ieri, torna sull’articolo 131-bis del Codice penale (Dlgs 28/2015). A chiedere l’accesso al beneficio un imputato condannato dalla Corte d’Appello per non aver restituito l’auto al noleggiatore, malgrado i numerosi "promemoria" che questo gli aveva inviato. Il primo tentativo della difesa era stato quello di negare che l’assistito avesso mai avuto conoscenza dei telegrammi di sollecitazione. Una versione smentita dallo stesso cliente in sede di interrogatorio. Abbandonata la via della "dimenticanza", la difesa punta sull’applicazione della nuova causa di non punibilità, entrata nell’ordinamento penale in epoca successiva alla sentenza impugnata. La Suprema corte ricorda che, in assenza di una normativa transitoria, il beneficio previsto dall’articolo 131-bis del Cp, pur avendo natura sostanziale, è applicabile ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore, compresi quelli pendenti in sede di legittimità. La Cassazione può dunque rilevare d’ufficio (articolo 609 comma secondo del codice di rito) la sussistenza di condizioni di applicabilità della nuova disciplina, basandosi sui risultati processuali e sulla motivazione della decisione impugnata. Il passaggio successivo è quello di annullare la sentenza, con rinvio al giudice di merito, se la valutazione è positiva o rigettare se non ci sono le condizioni per accogliere la domanda. È compito della corte di legittimità verificare, in astratto, l’applicabilità dell’istituto, guardando al tetto della pena rispetto al reato contestato e alla specifiche cause di esclusione, per poi passare all’analisi della particolare tenuità dell’offesa e della non abitualità del reato. Aspetti da ricercare negli atti del giudizio di merito, tenendo d’occhio la motivazione per la presenza di giudizi che abbiano già escluso la possibilità invocata. Nella specifica vicenda la valutazione della Corte, precisano i giudici, non può che essere negativa. Anche se in astratto il caso rientra, per parametri della pena nei limiti edittali, depone a sfavore dell’imputato la mancata applicazione di due attenuanti: le generiche e il risarcimento del danno "nella massima estensione in considerazione di una inusuale gravità del fatto e della negativa personalità dell’imputato". Un pessimo curriculum desumibile dal certificato penale. Decreto 231, società condannata anche se il manager è prosciolto dall’aggiotaggio di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 3 settembre 2015 Va san azionata la banca anche quando il manager è assolto per dal reato di aggiotaggio. La Corte di cassazione conferma così la sanzione pecuniaria, determinata sulla base di quanto stabilito dal decreto 23 del 2001, a carico di Citibank decisa dalla Corte d’appello di Milano, pur escludendo l’aggravante del profilo di rilevante entità. La pronuncia chiude così uno dei tasselli della vicenda Parmalat, nel quale l’incriminazione a carico del responsabile della gestione ordinaria delle relazioni con il gruppo (allora) di Calisto Tanzi vedeva contestata l’alterazione del prezzo dei titoli del gruppo per effetto della diffusione di notizie false su un contratto di associazione in partecipazione. Se in primo grado anche l’ente era stato assolto, ora la Cassazione ricorda che il proscioglimento era stato deciso senza una specifica argomentazione, come automatico effetto dell’assoluzione del manager inizialmente accusato. Proprio questo automatismo, già smontato in precedenza dalla Cassazione investita di un ricorso "per saltum" del Pm, è ora nuovamente considerato insussistente. La posizione della società e della persona fisica vanno infatti divise. A confermarlo c’è infatti, avverte la sentenza, quanto previsto dalla relazione allo stesso decreto 231, secondo la quale è assolutamente autonoma la possibilità di procedere nei confronti dell’ente a prescindere dall’accertamento della responsabilità dell’autore del reato presupposto. Proprio sul versante della responsabilità d’impresa, asseriva la relazione, la mancata identificazione della persona fisica rappresenta un "fenomeno tipico". L’illecito che può essere imputato alla società però, puntualizza ancora la Cassazione, non consiste in una responsabilità sussidiaria per il fatto altrui, sulla falsariga della responsabilità civile ordinaria da reato del dipendente oppure di quella prevista dall’articolo 197 del Codice penale sull’obbligo delle persone giuridiche al pagamento delle multe o delle ammende. L’ente è invece sanzionato per fatto proprio e a fondare la sua responsabilità c’è la possibilità da parte della pubblica accusa di contestare una colpa di organizzazione, se non addirittura la commissione del reato come elemento di politica aziendale. In questo senso, facendo riferimento alla sentenza Thyssen Krupp (sentenza 38343 del 2014 a Sezioni unite), può configurarsi una colpa per l’infrazione all’obbligo imposto alle persone giuridiche di prevenire la commissione di alcuni reati, "adottando iniziative di carattere organizzativo e gestionale in base a un "modello" che individua i rischi e delinea le misure atte a contrastarli. E la colpa dell’ente consiste nel non avere ottemperato a tale obbligo". La circostanza che questa colpa diventi evidente e rilevante per l’imputazione dell’illecito solo per effetto della commissione di uno specifico reato, compreso nella lista dei delitti presupposto, non compromette la natura personale della responsabilità. Questa va infatti fatta derivare da un deficit organizzativo che riguarda "la mancata adozione di un modello precauzionale astrattamente idoneo a prevenire non solo e non tanto la singola rottura dello schema legale realizzata dal soggetto imputato del reato presupposto, ma le carenze strutturali e di sistema che accadimenti di quella fatta alimentano e favoriscono". La Corte Ue boccia l’Italia: permesso di soggiorno troppo caro di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 3 settembre 2015 Corte Ue - Sentenza 2 settembre 2015 - Causa C-309/14. Il "contributo" richiesto agli extracomunitari per il rinnovo del permesso di soggiorno - pari fino ad otto volte la cifra pagata dagli italiani per il rinnovo della carta di identità - è ingiustificato. La Corte Ue, sentenza 2 settembre 2015, Causa C-309/14, richiamando la direttiva 2003/109/CE sullo status dei cittadini di paesi terzi soggiornanti di lungo periodo, ha bocciato la normativa italiana laddove impone il versamento di un importo variabile tra 80 e 200 euro. "Siffatto contributo - scrive la Corte - è sproporzionato rispetto alla finalità perseguita dalla direttiva e può creare un ostacolo all’esercizio dei diritti che essa conferisce". La normativa - A stabilire gli importi è il Dlgs n. 286/1998, Testo unico sull’immigrazione, così dettagliati da un decreto del 2011: 80 euro per il rilascio e il rinnovo di durata superiore a tre mesi e inferiori o pari a un anno; 100 euro oltre l’anno ma sotto i due anni, 200 euro per soggiornanti di lungo periodo. A questi vanno poi aggiunti altri 73,50 euro da versare obbligatoriamente. Il caso - La Cgil e l’Inca si sono rivolti al Tar Lazio sostenendo la natura sproporzionata del contributo rispetto al costo per il rilascio della carta d’identità che ammonta attualmente a circa 10 euro. Il tribunale amministrativo ha richiamato la decisione Commissione/Paesi Bassi (C-508/10), secondo cui lo Stato membro rispetta i principi espressi nella direttiva solo se gli importi dei contributi richiesti non si attestano su cifre macroscopicamente elevate e quindi sproporzionate rispetto all’importo dovuto dai cittadini di quel medesimo Stato per ottenere un titolo analogo, come la carta d’identità (i Paesi Bassi prevedevano un importo sette volte superiore). La motivazione - La Corte di giustizia riconosce che gli Stati membri possono subordinare il rilascio al pagamento di contributi ma ricorda che l’obiettivo principale della direttiva è l’integrazione. Per cui la discrezionalità non è illimitata, non potendo compromettere la realizzazione degli obiettivi perseguiti dalla direttiva e dovendo rispettare il principio di proporzionalità. Così ricostruita la ratio della normativa, la sentenza afferma che "il contributo italiano può essere considerevole a maggior ragione per il fatto che, in considerazione della durata dei permessi e il loro rinnovo deve essere pagato assai di frequente". Infine, i giudici hanno bocciato l’argomento del governo italiano secondo cui il costo elevato è connesso all’istruttoria necessaria per la verifica del possesso dei requisiti, ricordando che la metà del gettito prodotto dalla riscossione del contributo è destinata a finanziare le spese connesse al rimpatrio dei cittadini dei paesi terzi in posizione irregolare. Sicilia: immigrati tutti criminali? Falso, i dati che inchiodano gli sciacalli di Serena Giovanna Grasso Quotidiano di Sicilia, 3 settembre 2015 Fondazione Leone Moressa: nell’Isola i detenuti stranieri rappresentano solo il 19,9% del totale. In Sicilia appena un reato su dieci è commesso da extracomunitari (11%). Sempre pronti a puntare il dito contro chi è diverso. Infatti, non sono per nulla rari i casi in cui al rapinatore si affibbia in modo del tutto arbitrario un accento dell’Est, per poi scoprire che si tratta del vicino della porta accanto molto più che italiano. Non solo. A ciò dobbiamo aggiungere il fatto che nell’immaginario collettivo lo stupratore tipo non è di pelle bianca, al contrario sarà certamente uno di quei molti immigrati giunti lungo le coste italiane sui barconi. Così, passa molto più facilmente agli onori della cronaca un qualsiasi delitto commesso da un extracomunitario rispetto ad una rapina sventata dallo stesso extracomunitario, anche a costo della propria vita. Naturalmente tutto per la gioia di quelle fazioni politiche che usano la lotta all’immigrazione come principale slogan della propria campagna elettorale. Eppure i dati diffusi dalla Fondazione Leone Moressa mettono in luce un quadro del tutto differente. Appena uno su dieci è la proporzione di reati commessi dagli stranieri in Sicilia rispetto al totale dei reati (11%). Addirittura a livello nazionale si parla di un tasso nettamente inferiore, pari al 7,3%. Medesimo trend è possibile riscontrare relativamente alla quota di stranieri sul totale dei detenuti. Infatti, la Fondazione Leone Moressa, dalla rielaborazione dei dati del ministero della Giustizia, rileva per la Sicilia un tasso di detenuti stranieri sul totale dei detenuti pari al 19,9%. Addirittura, incidenze percentuali nettamente inferiori si riscontrano in Molise (11,3%), Abruzzo (11,5%), Campania (12,3%), Calabria (14%) e Basilicata (14,3%). Mentre a volte i clamori della cronaca sembrerebbero denunciare un tasso di criminalità tra gli stranieri quasi superiore alla loro effettiva presenza. Inutile dirlo, ma con l’unico rischio di alimentare forme di discriminazione, conducendo proprio verso la xenofobia. Anche per quel che inerisce i delitti commessi dagli stranieri è possibile rilevare per la Sicilia un tasso altrettanto contenuto (15,4%). Medesime rispetto a quelle precedentemente rilevate sono le regioni con tassi di delitti ancor più contenuti: ovvero, il Molise stavolta accompagnato dalla Sardegna (12,9%), la Campania (14,8%), la Calabria (15%) e la Basilicata (15,3%). Oltretutto, questo dei delitti appena riscontrato è un tasso in continuo miglioramento. Infatti, è proprio questo quanto emerge dal confronto con i precedenti anni: rispetto al 2011, nel 2014 in Sicilia si è rilevata una riduzione del tasso dei delitti commessi da immigrati pari al 37,9%. È possibile scorgere riduzioni altrettanto significative in Toscana (-34,1%), Veneto (-36,9%), Marche (-37,2%), Lombardia (-33%), Liguria (-34,8%) ed Emilia Romagna (-38,5%). Ancor più sensibile è la contrazione del tasso di delitti rilevata nelle seguenti regioni: Abruzzo (-45,3%), Basilicata (-51%), Calabria (-64,1%), Campania (-49,5%), Friuli Venezia Giulia (-46,7%), Lazio (-45,1%), Molise (-43,2%), Piemonte (-42,2%) e Sardegna (-48,7%). Al contrario, una lieve crescita ha interessato il tasso di variazione di furti e rapine tra il 2011 e il 2014 in Sicilia, incremento in controtendenza rispetto al valore medio rilevato a livello nazionale (rispettivamente +0,5% e -0,9%). Nella suddetta fattispecie, la riduzione più sensibile è stata rilevata in Molise (-11,7%). Insomma, il tasso di criminalità straniera è ben differente da quello demonizzato e a cui siamo fin troppo abituati. Rovigo: l’attenzione sul penitenziario non cali, ci prova il deputato Pd Diego Crivellari Rovigo Oggi, 3 settembre 2015 Il deputato del Partito democratico Diego Crivellari sta lavorando affinché la questione della rimandata apertura del carcere di Rovigo non cada nel dimenticatoio. L’onorevole si dice sorpreso dalle parole del prefetto Francesco Provolo in quanto il guardasigilli Andrea Orlando in visita in città durante la campagna elettorale aveva rassicurato sulla quasi imminente ultimazione e inaugurazione del nuovo penitenziario (leggi articolo). Dopo aver contattato in mattinata lo staff del ministro Orlando per estrapolare nuovamente delucidazioni sulle tempistiche ha deciso di passare ad una procedura più istituzionale. A breve infatti presenterà un’interrogazione parlamentare indirizzata al titolare del ministero della Giustizia. "Con questa operazione intendo ottenere rassicurazioni sul futuro del nuovo carcere di Rovigo. In più occasioni ho avuto modo di sottolineare l’importanza della nuova struttura penitenziaria anche rispetto all’attuale situazione di via Verdi. Un’opera quasi ultimata che deve vedere la completa realizzazione nel più breve tempo possibile. Senza nessuna preclusione confermo la mia massima disponibilità all’amministrazione locale di Rovigo per un’azione comune che vede l’interessamento di tutti i rappresentanti del territorio. Da parte mia al rientro dell’attività parlamentare, già la prossima settimana, cercherò con urgenza di porre la questione al tavolo del ministro della Giustizia" ha affermato Crivellari. Parole espresse in sintonia e congiuntamente alla segreteria provinciale del Partito democratico che per voce dello stesso segretario Julik Zanellato ha confermato l’attenzione e l’importanza del nuovo carcere per l’intera organizzazione penitenziaria del nordest d’Italia. Gli esponenti del Pd, Crivellari e Zanellato, hanno definito l’interruzione dei lavori di ultimazione "un elemento preoccupante ed allarmante che dovrà volgere in maniera positiva nel più breve tempo possibile senza gravare ulteriormente". "Preoccupante poiché - hanno concluso - l’avvio della nuova struttura carceraria ha da sempre un peso non indifferente per alcuni futuri progetti che riguardano la città di Rovigo, allarmante per il rischio che ciò determini effetti poco positivi per la casa circondariale di via Verdi, le maestranze che vi lavorano e l’attuale popolazione carceraria". Ora spetta all’unico deputato rodigino facente parte del partito al Governo far sentire le voci di indignazione che si levano dal Polesine e soprattutto dare loro una soddisfacente risposta. S.M. Capua Vetere (Ce): condannati a non lavarsi, 800 detenuti senza l’allaccio idrico di Silvia D’Onghia Il Fatto Quotidiano, 3 settembre 2015 L’ennesima toppa arriva attraverso uno scarno comunicato del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria: "Per fronteggiare l’emergenza idrica, in atto da mesi presso la casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere dovuta al mancato collegamento dell’impianto idrico dell’istituto all’acquedotto comunale - si legge al termine del conto dei suicidi del 2015-è stata notevolmente diminuita la presenza dei detenuti, disponendo, tra l’altro, il trasferimento di circa 130 detenuti di cui 30 del circuito Alta Sicurezza, presso altri istituti campani. Ciò ha reso possibile liberare i piani alti dell’istituto". Tradotto: siccome da 20 anni il carcere non ha acqua a sufficienza per tutti i mille e passa detenuti, anzi che far fronte in maniera definitiva al problema, si procede di volta in volta con soluzione tampone. Il classico rimedio all’italiana col sapore della beffa. Come se, oltre a scontare la pena che la Giustizia ha inflitto loro, i reclusi di Santa Maria Capua Vetere siano stati condannati anche a non bere e a non lavarsi. Non tutti contemporaneamente, almeno. La questione, si diceva, è annosa, La casa circondariale "Francesco Uccella" è stata consegnata nel 1996 e ancora oggi si presenta, anche a dire dell’Osservatorio dell’associazione Antigone, in buone condizioni manutentive: capienza di un migliaio di persone, diversi ettari di estensione, sette reparti - compreso quello delle donne in Alta Sicurezza, camere da due, tre e cinque posti (un albergo di lusso rispetto, per esempio, a Poggioreale) e almeno otto ore al giorno trascorse fuori dalle celle. Peccato che all’epoca qualcuno si sia dimenticato di realizzare l’allaccio alla rete idrica cittadina. La fornitura avviene dunque attraverso un pozzo semi-artesiano che si trova al disotto dell’edificio, la cui acqua viene potabilizzata all’interno delle mura. Ma questo significa che non è possibile, per i detenuti, lavarsi nello stesso momento. Se uno si vuole far la doccia, deve a-spettare il suo turno e ci sono momenti della giornata in cui l’acqua manca per alcune ore. Questo avviene soprattutto ai detenuti dei piani alti, costretti a puzzare più degli altri. Il 20maggio 2014 è stato stipulato un Protocollo d’intesa tra il ministero della Giustizia e la Regione Campania, che sarebbe dovuto servire a spartire responsabilità e competenze e, soprattutto, a risolvere il problema. Ma, come accade dentro le mura, anche fuori il tempo non passa mai, E così, nonostante un’interrogazione depositata in Regione dalla consigliera Lucia Esposito nel marzo scorso, anche quest’estate è passata tra gli olezzi. "Il Provveditorato regionale - fa sapere ancora il Dap - ha emanato provvedimenti atti ad attenuare il disagio, mediante la distribuzione di due litri d’acqua potabile al giorno a ogni detenuto, la fornitura di taniche di venti litri per ogni stanza da utilizzare in caso di improvvisa mancanza d’acqua, la fornitura di frigoriferi e l’installazione di sei cisterne d’acqua". Costo totale? Il comunicato non lo specifica, ma se si pensa che l’allaccio alla rete idrica una tantum costerebbe meno di un milione di euro, i conti della serva per i 20 anni di attività dell’istituto si possono fare in fretta. "Al di là del rimpallo amministrativo tra i due enti coinvolti - fa sapere Mario Barone, responsabile di Antigone perla Campania, la situazione rimane scandalosa". A meno che dal "senso di umanità" previsto dall’articolo 27 della Costituzione non si voglia eliminare persino l’acqua potabile. Cagliari: integrazione e recupero, al via il progetto "Legalità senza frontiere" cagliaripad.it, 3 settembre 2015 L’iniziativa, nata per aiutare le persone socialmente svantaggiate ed i loro familiari, con particolare attenzione per i detenuti ed ex detenuti immigrati, è stata presentata oggi nella sede dell’associazione Alfabeto del mondo. Integrazione, inserimento sociale e recupero. Con queste tre parole può essere descritta la terza edizione del progetto "Legalità senza frontiere, integrazione e inclusione sociale" dell’associazione Alfabeto del mondo. L’iniziativa, nata per aiutare le persone socialmente svantaggiate ed i loro familiari, con particolare attenzione per i detenuti ed ex detenuti immigrati, è stata presentata oggi nella sede dell’associazione in via Alghero a Cagliari. La nuova edizione amplia le iniziative già proposte precedentemente che hanno visto la partecipazione di ben 316 persone tra cui 151 immigrati, 60 persone socialmente svantaggiate e 108 disoccupati, impegnati nel seguire corsi di informatica, di italiano, cinese, tedesco, ma anche corsi di giornalismo e di avviamento al lavoro. Per questa edizione sono stati inseriti i corsi di educazione alla legalità, di giornalismo sul web e di fotografia. "Il corso di educazione alla legalità può essere molto utile agli immigrati - ha evidenziato Eleonora Giardino, vicepresidente dell’associazione - verranno spiegati loro in modo semplice gli articoli della costituzione, i diritti e i doveri dei cittadini". Secondo la presidente di Acam, Eugenia Maxia, il "punto cardine del progetto è la valorizzazione del patrimonio umano, promuovendo l’acquisizione di nuove competenze e valorizzando quelle esistenti, rimuovendo pregiudizi sociali e le differenze". Tra le iniziative del progetto, del valore di 32 mila euro di cui 20 mila finanziati dalla Fondazione Banco di Sardegna e i restanti autofinanziati dall’associazione, ci sono anche la distribuzione gratuita di libri e giocattoli, interventi per evitare il sovraffollamento delle carceri incentivando le misure alternative di detenzione, ma anche la formazione per migliorare e facilitare la comunicazione tra gli operatori sociali e i detenuti stranieri. Lecce: il progetto sociale di "Made in Carcere" viaggia attraverso i temporary store lecceprima.it, 3 settembre 2015 Dalla Puglia alla Sardegna alla Lombardia, nelle città, nelle località turistiche, nei musei, sulle spiagge: più occasioni per prendere parte al progetto sociale del brand che fa lavorare le sartine detenute e che, con IReNeri, vuol anche rivoluzionare la lotta alla contraffazione. I prodotti Made in Carcere diventano più vicini. In questa estate 2015 hanno intrapreso un viaggio che li sta portando radicalmente in tutta Italia, per promuovere il progetto sociale che si ispira, di partenza, al tema della seconda chance: quella data alle detenute che assunte con regolare contratto trovano una nuova occasione tra le mani grazie ad un impiego che le impegna in un progetto di benessere condiviso, e quella data ai tessuti, tutti materiali di recupero, che prendono così vita in una nuova forma creativa. Ognuno ha la propria nuova via da percorrere, come in un viaggio. E non a caso è stata scelta l’immagine della valigia come "insegna" che unisce i numerosi Temporary store di Made in Carcere, collaudati in questi ultimi mesi in tutta Italia, grazie alla collaborazione di associazioni, esercizi commerciali e semplici amici che hanno voluto dedicare spazio alla vendita dei nostri prodotti hand made. Un’immagine che rappresenta dunque il tema del viaggio, sia quello intrapreso da Made in Carcere, che ha deciso di "lanciarsi" in questa nuova iniziativa, sia quello intrapreso dai prodotti, spediti ai Temporary Store e poi rivenduti agli avventori, che li porteranno con sé, magari in altre parti del mondo, facendoli viaggiare ancora, visto che, tra l’altro, molti dei corner di vendita si trovano in località a forte affluenza turistica e che gli acquirenti sono spesso vacanzieri. Con il logo della valigia si intende, inoltre, trasmettere idee di dinamismo, intraprendenza e curiosità, che sono poi le caratteristiche principali di qualsiasi viaggiatore che si rispetti. Dalla Libreria Rizzoli di Milano all’Arbatax Park Resort di Cagliari, da Ischia a Trani a Gallipoli. La lista completa dei Temporary Store è sul sito madeincarcere.it. Insieme al progetto dei Temporary Store sparsi in tutta Italia, si è avviata la sperimentazione di un modo innovativo di distribuire i manufatti realizzati in carcere. Si tratta di un progetto di sinergia tra chi produce (Made in Carcere) e chi distribuisce (IReNeri,) il cui obiettivo è combattere la contraffazione e la concorrenza sleale ai negozianti e trasformare i migranti che vendono illegalmente in lavoratori 100 per cento legali. Per Made in Carcere, che ha da sempre prodotto gadget etici personalizzabili, affidandone la realizzazione a donne detenute, si tratta quasi di un naturale perfezionamento della filiera: condividere il progetto con una rete di vendita senz’altro singolare e innovativa, attraverso cui arrivare capillarmente al cliente finale, rappresenta un ulteriore importante tassello nel progetto etico di Made in Carcere. IrenerI nasce grazie ad un pool di legali, esperti nelle normative relative alla contraffazione e al commercio e mira a creare, appunto, una rete di vendita e di venditori ambulanti, cittadini extracomunitari in possesso di regolare permesso di soggiorno e licenza di vendita, a cui affidare prodotti con alti standard di qualità e sicurezza, tutti hand made. Lo scopo e la finalità sociale sono di sottrarre manodopera al mercato del falso, creare lavoro attraverso la vendita di prodotti dal costo contenuto ma di ottima fattura e design innovativo, produrre fatturato legale e combattere il circolo vizioso della clandestinità. La vera rivoluzione, culturale ed economica, è quella di creare un "brand sociale" capace di dimostrare come la legalità sia l’unico IReneri terreno fertile in cui far sviluppare l’economia, il melting pot e il commercio. Un marchio che parla di legalità, sostenibilità e futuro. I prodotti marchiati IReNerI sono manufatti che nascono dall’utilizzo di avanzi di concerie e nascono così prodotti belli e di qualità, come bracciali, porta occhiali, pochette, cinture, borse, borselli e tanti altri prodotti colorati e dal design accattivante ed esclusivo, effettuandone la vendita nel rispetto delle regole. Il progetto è realizzato in collaborazione con Made in Carcere, nato nel 2007 grazie a Luciana Delle Donne, fondatrice di Officina Creativa, cooperativa sociale, non a scopo di lucro. I manufatti, contraddistinti dai due marchi, "IrenerI" e "Made in Carcere", sono confezionati da donne detenute, alle quali viene offerto un percorso formativo, al termine del quale vengono assunte con regolare contratto di lavoro a tempo indeterminato, puntando dunque ad un definitivo reinserimento nella società civile e lavorativa. Dunque, "Due marchi uniti per diffondere messaggi di concretezze e innovativi modelli di sviluppo sostenibili. Il desiderio è trasformare alcuni punti di debolezza in punti di forza, con una bella storia di solidarietà e speranza da raccontare! "Si punta a due fasce deboli e ai margini, come le donne detenute che da una parte producono e confezionano i manufatti e dall’altra invece i ragazzi extracomunitari che distribuiscono e vendono sul mercato. Questa fantastica sinergia con "IReNeri" in particolare con l’avvocato Salvatore Centonze ideatore e fondatore dell’iniziativa - dice Luciana Delle Donne - dovrebbe essere una storia di normalità che diventa, invece, un fatto eccezionale. Finalmente una bella occasione di buon vivere per restituire dignità, lavoro, competenze professionali, autonomia, indipendenza economica, a favore dell’inclusione e dell’impatto sociale". Una parte dei proventi del progetto Ireneri sarà destinata alla realizzazione di progetti di inclusione sociale ed educazione alla legalità. Come Ireneri contribuiscono alla distribuzione dei manufatti di Made in Carcere, così nei Temporary Store di Made in Carcere si possono trovare i prodotti a marchio IReNeri. Catanzaro: il presidente della Provincia visita l’Istituto Penale Minorile "Paternostro" cn24tv.it, 3 settembre 2015 Il presidente della Provincia di Catanzaro, Enzo Bruno, qieri mattina ha visitato l’Istituto Penale Minorile "Paternostro" accompagnato dal consigliere provinciale delegato alla Cultura, Nicola Ventura. L’incontro con il direttore Francesco Pellegrino, ha fornito l’occasione per esprimere apprezzamento per la qualità del percorso rieducativo garantito ai giovani detenuti che vivono ed operano in una struttura d’eccellenza, che non conosce problemi di sovraffollamento. "Un’attività quotidiana, quella svolta dal direttore Pellegrino al direttore, dagli agenti della polizia penitenziaria e da tutti gli operatori sociali che hanno operano nell’Istituto di Catanzaro, che merita di essere sempre di più sostenuta e che può essere di esempio per tante simili realtà", ha affermato il presidente Bruno esprimendo solidarietà e vicinanza in seguito ad alcune delicate episodi che hanno interessato la struttura negli ultimi giorni. "Avere a che fare con adolescenti che nello stesso tempo sono detenuti implica un particolare impegno e una sensibilità fuori dal comune - ha affermato il presidente Bruno - nel carcere minorile scopriamo una realtà fatta di giovani in fuga da un passato difficile, spesso segnato da condizioni familiari disperate, e le incognite del futuro stretto tra illegalità e reinserimento. L’inserimento del reo-minore nel mondo del lavoro attraverso attività di volontariato e di apprendistato, e quindi l’integrazione, è l’unica strada percorribile per restituire una speranza a questi ragazzi. Credo anche che sia molto utile lavorare sull’effettiva conoscenza della realtà carceraria - afferma ancora il presidente Bruno - sia perché sono diffusi stereotipi molto lontani dalla verità, sia perché spesso tutte le informazioni che ci arrivano alimentano nella popolazione solo insicurezza e ansia del controllo. Abbiamo potuto apprezzare la passione, le capacità e l’impegno profusi nell’istituto Paternostro, e gli ottimi risultati che questi hanno saputo garantire. L’amministrazione provinciale di Catanzaro - ha detto al presidente Bruno al direttore Pellegrino - è pronta a dare il proprio contributo avviando una proficua collaborazione con la struttura detentiva in cui ragazzi provenienti da realtà complesse ed esperienze negative, cercano passo dopo passo di ristabilire un percorso sano. L’impegno è quello di mettere a punto una progettualità in grado di favorire la necessaria integrazione, seguendo con l’Istituto minorile l’analogo percorso avviato con la casa circondariale "Ugo Caridi". Il presidente Bruno ha colto l’occasione per invitare personalmente il direttore Pellegrino all’inaugurazione del Parco delle Giovani idee e della Legalità che sarà intitolata al magistrato Federico Bisceglia nel corso di una cerimonia che si terrà martedì 8 settembre alle 17, nel Parco della Biodiversità Mediterranea di Catanzaro, alla presenza del vice ministro agli Interni Filippo Bubbico, il sottosegretario alla Giustizia Cosimo Maria Ferri, il presidente della Regione Calabria, Mario Oliverio, l’arcivescovo metropolita della diocesi di Catanzaro-Squillace monsignor Vincenzo Bertolone. In quella occasione il buffet che sarà offerto dalla Provincia sarà realizzato dai detenuti della Casa circondariale "Caridi" impegnati nei laboratori di pasticceria. Massa: aperta nuova sezione del carcere, ospita 68 detenuti e il reparto sanitario della Usl Adnkronos, 3 settembre 2015 È stata aperta ufficialmente la nuova sezione B della casa di reclusione di Massa. A riferirlo è una nota del Dap, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. La sezione ospita 68 detenuti e il nuovo reparto sanitario destinato al presidio della Usl della città toscana. All’interno del settore infermeria sono previste sei stanze di degenza per detenuti con disabilità motorie. "La sezione - informa il Dap - dispone di stanze a norma secondo gli standard previsti dalle regole penitenziarie europee del 2006 e dal regolamento penitenziario italiano. L’organizzazione dei servizi del personale di Polizia penitenziaria è basata sulla cosiddetta sorveglianza dinamica". I detenuti ammessi nel carcere toscano "sono quelli inseriti nel programma di trattamento avanzato che presuppone pertanto una significativa prognosi di affidabilità per un regime di custodia attenuata". Genova: detenuto affiliato a ‘ndrangheta collabora con pm antimafia, picchiato in carcere Ansa, 3 settembre 2015 Aveva cominciato a collaborare durante un processo e per questo, appena tornato in carcere a Genova Marassi è stato massacrato di botte da altri detenuti. Il pestaggio è avvenuto a luglio ma la notizia è emersa solo adesso in concomitanza con la trasferta del pm calabrese Giulia Pantano che sta interrogando in queste ore il detenuto. L’uomo, 35 anni, dopo l’aggressione ha deciso di diventate collaboratore di giustizia e ha chiesto ai magistrati liguri di essere ascoltato. Ai pm ha detto di essere un affiliato della ‘ndrangheta e di volere raccontate episodi avvenuti in Calabria e in Liguria. Il detenuto è stato ascoltato per due giorni a Genova. I magistrati liguri hanno trasmesso le registrazioni dell’interrogatorio anche alla procura di Reggio Calabria. Il detenuto picchiato in carcere dopo che aveva deciso di collaborare avrebbe una serie di precedenti per assegni a vuoto, con i quali truffava commercianti, e droga. E proprio su droga e ‘ndrangheta avrebbe fatto una serie di rivelazioni ai magistrati liguri e calabresi. L’uomo è stato interrogato tutto il giorno dal pm Giulia Pantano. Le sue dichiarazioni dovranno essere valutate attraverso riscontri per stabilirne la credibilità. Il detenuto era stato insultato e picchiato al rientro da una sua deposizione in un processo in Piemonte. Per l’aggressione la procura di Genova ha aperto un’inchiesta per lesioni e minacce a carico di ignoti. Dopo il pestaggio e la decisione di collaborare, il detenuto era stato trasferito una prima volta e poi una seconda. L’aspirante collaboratore verrà interrogato ancora nei prossimi giorni. Immigrazione: il bimbo morto che scuote l’Europa di Enrico Franceschini La Repubblica, 3 settembre 2015 L’immagine drammatica di un piccolo siriano trovato sulla spiaggia turca di Bodrum fa il giro del mondo I siti dei giornali inglesi la pubblicano per attaccare la linea anti-migranti di Cameron. E scoppia la polemica. Una foto può cambiare la politica dell’Europa sulla tragedia dei migranti? Forse sì. Mentre l’ondata dei disperati del mondo povero si riversa sulle rive di quello ricco, dalle coste del Mediterraneo alla stazione ferroviaria di Budapest fino al tunnel sotto la Manica invaso di clandestini che danno l’assalto ai treni a Calais, l’immagine di un bambino siriano affogato su una spiaggia della Turchia sciocca i media, l’opinione pubblica e i suoi leader. Di immagini atroci, certo, questa storia ne ha già prodotte altre, tante da suscitare un senso di deja vu e produrre, se non indifferenza, apatia. Ma i fotogrammi che mostrano un bambino di circa due anni sulla sabbia di Bodrum, poi fra le braccia di un poliziotto che raccoglie il suo corpicino inerte, producono una scossa. "Quando è troppo è troppo", scrive sul suo sito il quotidiano "Independent" di Londra, decidendo di pubblicare il servizio fotografico, anche se agghiacciante, nella speranza di smuovere il governo britannico, finora preoccupato di chiudere le porte all’immigrazione, quella clandestina e perfino quella legale, come ha dimostrato l’altro giorno la sparata del ministro degli Interni Theresa May ("Solo gli europei con un’offerta di lavoro dovrebbero potere entrare nel Regno Unito"), più che di aprirle ai nuovi miserabili della terra. L’appello dei giornali che pubblicano la foto rimbalza come un tam-tam da un paese all’altro e si rivolge dunque a tutti i politici, non solo a quelli di Londra: è sul sito del "Guardian" e del "Mail" (giornale di destra e tenacemente anti-immigrati: eppure stavolta ha cambiato posizione) in Inghilterra, del "Paìs" in Spagna, di vari quotidiani in Italia, Germania, Francia. E qualcosa apparentemente si muove. Appena ieri mattina, commentando le ultime notizie dal fronte della migrazione, David Cameron diceva: "La soluzione non è accogliere più immigrati". Ma il leader Liberal democratico Tim Farron si augura: "Questo è un campanello di allarme, speriamo che dia la sveglia al premier". Parole analoghe arrivano da Yvette Cooper, una dei candidati alla leadership del partito laburista nelle primarie che si concludono fra pochi giorni: "Quando madri cercano di trarre in salvo i propri figli da barche che affondano, quando persone muoiono asfissiate in un camion di diabolici trafficanti, quando cadaveri di bambini si depongono sulle spiagge, il nostro paese deve fare qualcosa". Un messaggio simile giunge da Jeremy Corbyn, il favorito nella contesa del Labour e il candidato su posizioni più di sinistra: "Nessuno può evitare di commuoversi per questa immagine orribile. La risposta del nostro governo alla crisi è stata finora completamente inadeguata, ma mi vergogno anche per i nostri vicini europei che accettano di accogliere solo poche centinaia di rifugiati siriani". È un coro unanime, quello che si ascolta nelle capitali europee. "Quella foto è la punta di un iceberg, l’immagine di un mondo impazzito", dice l’eurodeputata spagnola socialista Elena Valenciano a Bruxelles. "Immaginate che quel bambino sia vostro figlio", esorta da Parigi Peter Bouckaert, portavoce di Human Rights Watch. E l’Independent domanda: "Se queste immagini non cambiano l’atteggiamento dell’Europa verso i rifugiati, cosa può farlo?". Se non ora, quando? Immigrazione: Centri per migranti peggio del carcere e procedimenti fuori dalla legalità di Jakub Hornacek Il Manifesto, 3 settembre 2015 I sans-papiers fermati dalla polizia ceca vengono quasi nella totalità dei casi spediti in strutture detentive per i migranti senza documenti validi per l’entrata nel Paese. Una prassi sommaria contestata da tempo dal Centro per l’aiuto ai rifugiati, secondo cui si tratterebbe di un procedimento fuori dalla legalità. Ne abbiamo parlato con Martin Rozumek, direttore del Car, che fornisce anche consulenza legale nei centri per migranti. Secondo il Centro per l’aiuto ai rifugiati la prassi della polizia di spedire i migranti nei centri detentivi è illegale. Perché? Ci sono almeno tre motivi. In primo luogo la legge ceca prevede, che la detenzione amministrativa sia usata solo nei casi, in cui è imminente l’espulsione dal territorio nazionale. Ciò evidentemente non vale ad esempio per i rifugiati, che dovrebbero essere rimandati in Ungheria, in quanto questo Paese non li accetta indietro. In secondo luogo il Trattato di Dublino prevede, che le leggi nazionali contengano le condizioni, secondo cui si può applicare la detenzione di un migrante, ma la Legge ceca sul soggiorno non contiene alcuna norma di questo tipo. Infine i Trattati internazionali prevedono, che sia tutelato il bene dei minori. E sicuramente non si fa del bene ai minori mettendoli dietro le sbarre in una struttura sotto stretta sorveglianza della polizia. La mancanza nella legislazione ceca è riconosciuto dallo stesso Ministero dell’Interno, che tuttavia ha già preparato una modifica di legge, che ora giace alla Camera. Cosa si dovrebbe fare prima che la legge venga approvata? Sicuramente non dovrebbe essere applicata la detenzione amministrativa, finché la legislazione ceca non sia del tutto adeguata a quella europea. Per l’altro l’illegalità di questa detenzione è stata confermata in due sentenze emesse dal Tribunale di Brno e Aussig sull’Elba. In entrambi i casi i tribunali hanno dato ragione ai nostri assistiti e ora la decisione finale spetterà al Tribunale Amministrativo Supremo. Siamo convinti, che, se i migranti detenuti ricorressero ai Tribunali, vincerebbero nella stragrande maggioranza dei casi. E a mio parere avrebbero anche diritto a un risarcimento per detenzione illegale. Il Ministero dovrebbe prendere nota di questa situazione e la polizia ceca dovrebbe emettere una semplice ingiunzione a lasciare il territorio senza applicare la detenzione. Passiamo ai campi detentivi. Possono considerarsi strutture comparabili con le carceri? Assolutamente sì. Basti dire che il perimetro esterno è sorvegliato dalla polizia, quello interno dalla celere e dalla Polizia di Confine e infine all’interno è impiegata a fianco ai funzionari dell’Interno anche un’agenzia di security privata. I campi sono circondati da muri alti e dal filo spinato. Non solo i migranti non possono uscire dai centri, ma solo di recente abbiamo ottenuto per loro il diritto di uscire dalle palazzine per delle ore d’aria. All’interno poi la situazione è alquanto degradata. Infine il Ministero dell’Interno non riesce neppure ad assolvere a tutti gli obblighi, che ha verso queste persone. Tra le mancanze segnalate anche il mancato accesso a una consulenza legale gratuita… I fondi per la consulenza erano stanziati fino a 30 giugno, in quanto provenivano dai fondi europei. Poi non si è più visto nulla. Sospetto anche che il Ministero renda più difficile la consulenza legale per paura di nuove cause e denunce. Neppure a noi certe volte è permesso parlare con i migranti. Ad esempio lunedì 31 agosto ci siamo recati al campo di Bela, ci hanno fatto attendere con un interprete per quattro ore e poi non ci hanno fatto neppure entrare. Tuttavia sembra che lunedì prossimo possa andare meglio visto che abbiamo anche del materiale, come pannolini, vestiti o giochi, che sono stati raccolti per i migranti. Nel mese di agosto nel campo di Bela c’è stata una rivolta e il Ministero ha ammesso che in precedenza ci sono stati numerosi casi di autolesionismo. Quali sono i motivi di questi gesti? Quando la polizia ferma un migrante senza documenti, lo perquisisce e gli sequestra il telefonino e i soldi. Bisogna infatti sapere che i migranti pagano allo stato ceco per i soggiorni nei centri detentivi. Il costo di un mese di soggiorno è di 7,2 mila corone per mese (circa 280 euro), che vengono trattenuti sui soldi sequestrati. Il sequestro del telefonino inoltre priva i migranti dal contatto con i loro famigliari. Alle persone detenute nei centri vengono distribuite delle carte telefoniche, che tuttavia non bastano per chiamare in Siria o in Iraq. Eppure anche i carcerati hanno diritto a chiamare i propri cari. Devo purtroppo constatare che sotto molti profili le persone detenute in carcere hanno più garanzie e diritti dei migranti. Immigrazione: "ridistribuirne 120mila", piano Ue per aiutare Italia, Grecia e Ungheria di Alberto D’Argenio La Repubblica, 3 settembre 2015 Si tratta di rendere permanente e vincolante il sistema delle quote finora proposto come meccanismo d’emergenza, di alleggerire i paesi d’ingresso delle rotte migratorie e di rendere più ordinata la gestione dei flussi. Centoventimila: il nuovo numero sul quale la Commissione europea guidata da Jean-Claude Juncker è pronta a scommettere per imbrigliare l’emergenza migranti che ormai sta dilagando in tutto il Continente. Una solidarietà quattro volte superiore rispetto a quella dei 32mila richiedenti asilo sbarcati in Italia e Grecia che i governi avevano accettato lo scorso luglio con grande riluttanza. Insieme al rilancio del sistema delle quote, martedì prossimo Bruxelles proporrà anche di modificare in modo permanente le regole sull’asilo. Il pacchetto sarà poi portato al vertice straordinario dei ministri degli Interni del 14 settembre e quindi al tavolo dei leader, che dovranno approvarlo definitivamente. Il nuovo piano Juncker sui migranti, per quanto ancora in gestazione, ha già una sua fisionomia. Sarà composto da due tronconi: misure d’emergenza e misure di lungo periodo. Con una cautela: per evitare che i governi dell’Est, che a luglio avevano depotenziato le quote proposte dalla Commissione, anche questa volta riescano a bloccare tutto, Bruxelles prevede un opt out accessibile a tutti, non solo ai paesi fuori da Schengen come Regno Unito e Danimarca: i leader che non vorranno aderire alla solidarietà sui migranti potranno restarne fuori, ma lo dovranno spiegare all’opinione pubblica nazionale ed europea. Chi invece aderirà, dovrà poi seguire le indicazioni della Commissione senza metterle in discussione, con regole rigide e predefinite. Per rispondere all’emergenza di queste ore, l’esecutivo comunitario tornerà sulle quote obbligatorie di richiedenti asilo, sostanzialmente siriani ed eritrei, da redistribuire tra i 28 Paesi. A maggio Juncker aveva proposto ai leader di farsi carico di 40mila rifugiati sbarcati in Italia (24mila) e Grecia (16mila). Dopo che a giugno i capi di Stato e di governo si erano duramente scontrati sulla proposta, a luglio i ministri degli Interni avevano faticosamente chiuso un accordo - martoriato da Polonia, Ungheria, Slovacchia, baltici e Spagna - su 32mila persone da accogliere su base volontaria e non più obbligatoria. Ora la Commissione torna alla carica e forte dell’emergenza dilagante è intenzionata a chiedere di riallocare tra i partner Ue 120mila migranti. E così oltre a Italia e Grecia a beneficiare della solidarietà sarà anche l’Ungheria, Paese che a parte i discutibili atteggiamenti del governo di Viktor Orban nelle ultime settimane è stato obiettivamente messo a dura prova dall’aumento dei migranti in arrivo sulla rotta balcanica. C’è poi la seconda parte, più strutturale. Bruxelles viene incontro alle richieste di Germania, Italia e Francia (finalmente del tutto convinta sulla necessità di far fronte comune nella gestione della crisi migratoria) che chiedono di modificare le regole sul diritto d’asilo. Si emenderà dunque il regolamento di Dublino. Oggi prevede che un asilante debba rimanere nel Paese che gli ha riconosciuto lo status. Per questo molti paesi di frontiera non registrano gli stranieri in arrivo e li lasciano filtrare verso la Germania e altre nazioni appetibili. Se da un lato ci sarà una forte pressione perché Italia, Grecia e Ungheria registrino i richiedenti asilo negli appositi hotspot (il governo italiano è intenzionato a farlo gradualmente, man mano che entrerà in vigore la solidarietà Ue), dall’altro in caso di violente ondate migratorie la regola sarà sospesa con una distribuzione automatica dei rifugiati tra i Ventotto. Insomma, si tratta di rendere permanente e vincolante il sistema delle quote finora proposto come meccanismo d’emergenza, di alleggerire i paesi d’ingresso delle rotte migratorie e di rendere più ordinata la gestione dei flussi. La Commissione proporrà anche la creazione di una lista comune europea che conterrà i paesi sicuri per i rimpatri: se un migrante non arriva da un Paese a rischio (il Senegal o la Nigeria non lo sono, la Siria sì) viene rimpatriato velocemente, mentre chi viene da una nazione in guerra o sotto dittatura potrà fare domanda di asilo e visto lo sfoltimento delle pratiche ottenerlo più rapidamente. Proprio per aiutare i governi con i rimpatri, Bruxelles proporrà anche di dare Frontex, l’Agenzia europea per le frontiere, mandato e soldi per gestire direttamente i rimpatri dei migranti che non hanno diritto all’asilo. Infine entro settembre partiranno i pattugliamenti per catturare gli scafisti in acque internazionali. Immigrazione: Elie Wiesel "questa non è la Shoah, ma il Male può tornare" di Andrea Tarquini La Repubblica, 3 settembre 2015 Elie Wiesel: "Voglio andare in Ungheria per raccontare come scampai ai lager e come fui accolto in Francia. Bisogna ricordare chi tendeva la mano a quelli che fuggivano". "Numeri scritti sulle braccia dei migranti, vecchi e giovani, uomini donne e bambini? Devo davvero dirle - con tutte le differenze storiche tra allora, quando sopravvissi, e oggi - quali memorie queste notizie-shock da Praga evocano nel mio animo?". Il professor Elie Wiesel, tra i massimi intellettuali della comunità ebraica mondiale, premio Nobel per la pace, risponde scosso eppure insieme freddo e lucido nell’analisi. Professor Wiesel, come sa la polizia ceca ha cominciato a scrivere numeri d’identificazione e registrazione sulle braccia dei migranti che in treno o altrimenti passano per il territorio ceco diretti in Germania o Austria. Che ne dice? "Davvero succede questo? Sta scherzando? Dio, la mia prima reazione è lo shock assoluto, quasi a citare papa Wojtyla, che definì il nazismo e la Shoah il Male assoluto. M’intenda bene, la Shoah non è paragonabile a nessun altro crimine nella storia dell’umanità. Però apprendendo quelle notizie da Praga confermate da Mlada Fronta Dnes (autorevole quotidiano ceco, ndr ) mi chiedo: ma perché mai lo fanno? E perché mai lo fanno ancora proprio in Europa?". Insisto, come si sente davanti alle nuove ondate di ostilità e odio contro i migranti, all’Est e altrove? I mali oscuri e antichi dell’Europa tornano vivi? "Io voglio proprio sperare di no. E aggiungo, stiamo attenti: non paragoniamo la Shoah ad altri orrori pur scioccanti. Però tutti dovrebbero ricordare quell’espressione di Wojtyla, "male assoluto", anche per evitare che accada ogni male minore. E tutti gli europei e gli altri cittadini del mondo globalizzato dovrebbero sempre rammentare che siamo e siamo stati tutti stranieri quasi sempre, da secoli. Io mi sento da una vita come straniero eterno in quanto ebreo, e ho imparato a sentirmi bene. Perché nello straniero noi dell’intelligentsija ebraica - ma da secoli la pensano e l’hanno pensata così anche milioni e milioni di cittadini europei - lo straniero è qualcuno che ti arricchisce, perché ti porta un’altra cultura, una visione in più. Le società più aperte verso gli stranieri e la loro integrazione sono spessissimo quelle che ci guadagnano di più, acquisendo più cultura e più talenti. Tali successi non si conseguono scrivendo numeri sulle braccia dei migranti". L’Europa ancora una volta ha paura dei migranti economici, gli Stati Uniti no. Perché? "Gli Usa hanno sempre saputo crescere come nazione di stranieri che pian piano imparano a crescere insieme come we, the people. Gli europei dovrebbero sapere, come Angela Merkel e le statistiche Onu ricordano, che il più numeroso gruppo di migranti sono siriani. Fuggono da guerra, persecuzioni della dittatura, terrorismo dell’Is e sono persone molto qualificate". Quanto ha paura per il futuro dell’Europa? "Questa nostra conversazione mi fa prendere una decisione: nei prossimi giorni o settimane mi recherò in Ungheria e altrove in Europa, per farmi onestamente e direttamente un’idea della situazione e parlare chiaro. E per narrare come crebbi da fuggiasco e da straniero: scampato ai Lager nazisti, accolto in Francia con altri bambini ebrei, ebbi dalla Francia le chiavi di una cultura aperta. Esempi di mano tesa di allora dovrebbero non essere dimenticati, altro che numeri sulle braccia". Ma in Francia oggi il partito in volo è il Front National… "Lo so, mi preoccupa, eppure continuo a essere fiducioso nel paese dell’Illuminismo dove io sopravvissuto alla Shoah scoprii da bimbo e da giovane la cultura multietnica del mondo. La loro ragionevolezza futura sarà vitale". All’Est il nuovo razzismo quant’è allarmante? Prima contro ebrei, poi contro Rom, poi contro migranti… "È molto allarmante. In Ungheria, nei paesi Baltici, in Romania, altrove, bisogna fare chiarezza con il peso grave della Storia e capire che integrare gli stranieri è nell’interesse nazionale, non timbrarli. E poi trovo scioccante che Orbàn riabiliti Horthy, ideatore delle prime leggi razziali e complice dell’Olocausto. S’immagina Merkel che riabilita qualcuno che non voglio nominare? E quali servigi avrebbe mai reso l’antisemita Horthy al suo paese e al mondo? Ripeto, voglio volare in quelle terre al più presto, per cercare di capire meglio cos’è nella testa dei politici e della gente e dire chiaro e forte come la penso, in nome dell’umanità. Per esempio, dire anche che ognuno deve ripensare e non rimuovere dalla Memoria il ruolo di ogni paese nella seconda guerra mondiale". Immigrazione: Agnès Heller "l’Europa dell’Est ostaggio del bisogno di odio" di Andrea Tarquini La Repubblica, 3 settembre 2015 Agnès Heller: "Mentre la Germania è cambiata, in molti paesi di questa area i fantasmi della storia non sono mai andati via. E se continua così, tanti rischiano di non poter essere salvati". "Numeri sulle braccia di adulti e anziani, donne e bambini? È orribile, risveglia i ricordi più atroci, e non solo in me sopravvissuta alla Shoah. L’Europa centro-orientale, con l’eccezione polacca, non si è mai liberata dal suo bisogno di odio, di esclusione del diverso, di ostilità razzista contro i diversi percepiti come nemici necessari. L’altro ieri gli ebrei, ieri i Rom, oggi i migranti. È una ferita profonda nel mio cuore". Ecco il giudizio durissimo di Agnès Heller, la grande filosofa, madre storica del dissenso dell’Est che nell’Ungheria di Orbàn è rimasto dissenso. I profughi marchiati sul braccio dalla polizia ceca, che sensazioni le suscitano? "È un gesto orribile: marchiare chi vuoi escludere per riconoscerlo, e con un numero che si riferisce al treno su cui devo viaggiare. Via, davvero ho bisogno di essere più esplicita per chiamare per nome le Memorie che ciò evoca?". Tutto questo nella Repubblica ceca, paese civile, avanzato, parziale erede dell’ex Cecoslovacchia democratica… "Purtroppo non significa molto che un paese sia civile, colto, avanzato. La Germania era coltissima, avanzata, civile e con una cultura tra le più vivaci del mondo quando poi nel 1933 Hitler vinse le elezioni. La Germania, dalla catarsi della disfatta, del Sessantotto e oggi di Angela Merkel coi suoi discorsi antirazzisti, è cambiata. Ma qui da noi nella nuova Europa i fantasmi dell’orrore e dell’odio razziale non sono tornati: si sono semplicemente risvegliati, non erano mai andati via. E certo sullo sfondo c’è la propaganda del governo Orbàn in Ungheria, e la tragedia che egli infligge ai migranti ammassati qui, bloccati con stazioni chiuse sulla via di Berlino pronta ad accoglierla. Mi lasci raccontarti due episodi rivelatori". Quali? "Primo, le parole pronunciate l’altro ieri dal capogruppo parlamentare del partito di Orbàn: "Non abbiamo alcun bisogno di questa gente, siamo noi la nazione". Se l’America avesse ragionato così non sarebbe mai divenuta la prima potenza mondiale. Secondo, l’altro giorno ero a Praga per una conferenza, e in taxi". Cosa l’ha colpita? "Le parole del tassista. Mi ha detto di averne abbastanza dei migranti, che arrivino o che siano di passaggio, "perché se non li fermiamo finiremo per trovarci in un califfato dell’Europa centrale". Ho provato a spiegargli con termini chiari quanto fosse insensata la sua frase, ma è rimasto della sua opinione. Vede, si comincia dagli incubi deliranti d’un tassista e si finisce con la polizia d’uno Stato di diritto che registra i migranti con numeri sul braccio". Oggi tornano i fantasmi del passato? "Penso agli anni 30 e 40, a quando almeno tre dei sei milioni di ebrei vittime della Shoah avrebbero potuto essere salvati se il mondo non avesse sbattuto loro in faccia la porta di frontiere chiuse. E mi chiedo, se qui continuerà così, quanti migranti col numero sul braccio in Cèchia o respinti a Budapest dai treni per Berlino pur avendo pagato il biglietto, non potranno essere salvati?". Cosa ti aspetti per il futuro? "Vorrei non temere il peggio. Merkel parla chiaro. Spiega anche, rischiando di perdere elettori, che un’Europa che quasi non fa più figli, senza i migranti non avrà più nessuno per pagare contributi di pensioni welfare e sanità. Ma a parte lei, sono politici professionali quasi solo quelli che come Orbàn e altri - all’est ma non solo - scelgono di cavalcare la tigre del risorto bisogno di odio, esclusione, emarginazione e persecuzione verso l’altro, il diverso. Quelli che come lui e altri gridano in manifesti elettorali "volete nutrire i migranti o i vostri figli?". Eppure proprio i cèchi avevano in Vaclav Havel un eroe al vertice dell’etica… "Vaclav era un grande intellettuale europeo, ma non seppe farsi ascoltare. Lo hanno dimenticato. Così come oggi cechi e molti altri esteuropei non hanno ancora fatto i conti con il modo criminale, brutale, con cui dopo il 1945 espulsero milioni di tedeschi. Insisto, manca all’Est e in molte parti altrove la memoria della catarsi, della resa dei conti con le proprie colpe. L’Ungheria, complice dell’Olocausto senza ammetterlo, oggi punisce col diritto penale i cittadini che ospitano migranti. In Cechia, Slovacchia, Bulgaria, i Rom vengono emarginati con Muri o abbattendo le loro case con ruspe. A parte la Polonia grazie a Solidarnosc, a parte la Germania che ha assimilato i valori costitutivi postbellici, la democrazia da molte parti in Europa è giunta come regalo di eserciti liberatori, non come conquista interna. E se non assimili il regalo ma torni ai secolari istinti d’odio dei nazionalismi, come con quei numeri sulle braccia, prima o poi la Storia ti presenta il conto". Yemen: Human Rights Watch denuncia gravi abusi contro detenuti nella regione di Aden Aki, 3 settembre 2015 I combattenti filogovernativi del sud tengono prigionieri nella regione di Aden almeno 255 prigionieri Houthi, tra i quali alcuni minori. "Le forze del Sud che hanno ripreso il controllo di Aden devono porre fine agli abusi contro i prigionieri e fare tutto il possibile per ristabilire l’ordine e il rispetto della legge in città - ha affermato Sarah Leah Whitson, direttore di Hrw per il Medio Oriente - Gli Houthi devono liberare chiunque sia stato ingiustamente detenuto". L’organizzazione chiede al governo in esilio, agli Emirati e agli altri membri della coalizione a guida saudita - intervenuta a fine marzo per contrastare l’avanzata degli Houthi - di fare pressioni sulle autorità ad Aden per la fine degli abusi e affinché vengano individuati e puniti i responsabili. Secondo Hrw, "i responsabili di maltrattamenti inflitti ai detenuti" potrebbero essere giudicati per "crimini di guerra". Stando a dati Onu, il conflitto in Yemen ha fatto oltre 4.400 morti dallo scorso marzo. Egitto: muore in carcere Hosni Diab, un leader dei fratelli Musulmani Aki, 3 settembre 2015 Uno dei leader dei Fratelli Musulmani egiziani è morto in un carcere del Cairo, dove era stato rinchiuso dopo la destituzione del presidente Mohamed Morsi, a luglio 2013. Si tratta di "Hosni Diab, morto nell’ospedale del carcere dopo che le sue condizioni di salute erano precipitate", come ha spiegato il suo avvocato, Khaled al-Komi, all’agenzia turca Anadolu. Al-Komi ha aggiunto che il suo assistito, da tempo malato di cancro, era in carcere da oltre due anni, senza essere stato ancora processato. "I responsabili del carcere - ha denunciato l’avvocato - gli hanno negato le medicine, lasciando che il suo stato di salute precipitasse". Una fonte di sicurezza del Cairo ha confermato la morte di Diab nel carcere di Abu Zaabal, in un quartiere settentrionale del Cairo. Marocco: detenuti saharawi invitano al boicottaggio delle elezioni di domani Nova, 3 settembre 2015 Un gruppo di detenuti saharawi in Marocco ha lanciato un appello per il boicottaggio del voto in vista delle elezioni amministrative di domani. In una nota diramata dai "detenuti del gruppo di Igdim Izzik", si legge che "tramite queste elezioni vogliono cambiare lo stato di cose nel sud violando il diritto internazionale". Il gruppo di separatisti delle regioni del Sahara del Marocco chiede all’Onu "di eseguire il suo piano di pace per la regione facendo si che il popolo saharawi possa trovare il suo diritto all’autodeterminazione". La Repubblica araba democratica dei Saharawi, proclamata nel 1976 dal Fronte Polisario, chiede la secessione di questa regione africana dal Marocco. Il cosiddetto Sahara occidentale è una regione del Nordafrica attualmente sotto l’occupazione del Marocco, conteso tra Rabat, Algeri e il Fronte Polisario. Le tensioni fra Algeria e Marocco risalgono al 1975 quando la Spagna annuncia la sua intenzione di abbandonare il territorio del Sahara occidentale, in seguito assorbito da Rabat. Pur non avendo inizialmente pretese territoriali, Algeri inizia a sostenere il Fronte di Polisario, movimento indipendentista del Sahara occidentale che combatte sai contro il Marocco che contro la Mauritania. Dopo aver combattuto fin dal 1973 per l’indipendenza nel 1976 i gruppi armati attivi nella regione proclamano la Repubblica araba democratica del Saharawi (Rasd) prontamente riconosciuta da Algeri, che da allora continua a guidare uno sforzo diplomatico per il riconoscimento internazionale del territorio, fornendo inoltre cibo e beni di prima necessità alle popolazioni residenti. Nel 1979, dopo anni di conflitto, la Mauritania abbandona le sue rivendicazioni territoriali, spingendo il Marocco ad occupare il territorio abbandonato. Nel frattempo la Rads guadagna il riconoscimento diplomatico dall’Organizzazione dell’Unità Africana (Oua) e da altri paesi, situazione che pone il Marocco sotto la pressione della Comunità internazionale. Nel 1981 Rabat decide di proporre un referendum nel Sahara occidentale per determinare la sovranità del territorio. La votazione doveva essere supervisionata dall’Oua, ma la proposta viene subito ritirata dalle autorità marocchine impedendo di fatto all’organizzazione africana di prendere accordi sulle procedure referendarie. Nel 1987 il governo marocchino accetta di riconoscere il Fronte Polisario e di incontrare i suoi leader per discutere la situazione. Nel 1988 Algeri decide comunque di riavviare relazioni diplomatiche con Rabat.