Giustizia: addio a Massimo Pavarini di Stefano Anastasia, Patrizio Gonnella e Mauro Palma Il Manifesto, 30 settembre 2015 Lutto a Bologna. È morto a 68 anni Massimo Pavarini, ordinario all’università di Bologna e studioso di fama internazionale della criminologia critica. Giovedì 1 ottobre i funerali presso la facoltà di Giurisprudenza nella città felsinea. Sfibrato da un male incurabile, è morto a Bologna Massimo Pavarini, ordinario di diritto penale nell’Università felsinea ed esponente di fama internazionale della criminologia critica italiana. Aveva 68 anni. In Italia nessuno come Massimo Pavarini ha indagato, compreso e spiegato cosa sia il sistema penale e penitenziario "in action". Alla felice intuizione sua e di Dario Melossi - allora giovani studiosi del gruppo che, intorno ai maestri Alessandro Baratta e Franco Bricola, diede vita a "La questione criminale", la rivista della criminologia critica italiana tutt’ora attiva sotto la denominazione di "Studi sulla questione criminale" - dobbiamo - alla metà degli anni Settanta - la scoperta in Italia dell’economia politica della pena proposta da Georg Rushe e Otto Kircheimer nell’ambito dell’attività di ricerca della scuola di Francoforte. Ne verrà un opera fondamentale come "Carcere e fabbrica", tutt’ora letta e commentata dagli studiosi del funzionamento della penalità in tutto il mondo. Sul finire degli anni Ottanta, grazie alla mediazione del Centro per la riforma dello Stato di Pietro Ingrao, con Beppe Mosconi coordinerà la più imponente (e insuperata) ricerca sulla flessibilità della pena in fase esecutiva, le alternative alla detenzione e il potere discrezionale della magistratura di sorveglianza. E sarà ancora Massimo, con il Progetto "Città Sicure" della Regione Emilia-Romagna, a guidare la criminologia critica italiana sugli impervi sentieri delle politiche locali di sicurezza, nello strenuo tentativo di "Governare la penalità", come dice il suo ultimo libro, pubblicato lo scorso anno dalla Bonomia University Press. Per noi di Antigone è stato un maestro, un amico e un punto di riferimento imprescindibile. Il nostro annuale lavoro di relazione sulle condizioni di detenzione sarebbe impensabile senza le premesse metodologiche contenute nel suo studio sulla criminalità punita e i processi di carcerizzazione nell’Italia del Novecento pubblicato nella "Storia d’Italia" Einaudi. E per questo chiedemmo proprio a lui la postfazione al primo rapporto del nostro osservatorio sulle carceri. Da realista incallito, dubitava che si potesse parlare di diritti in carcere e recentemente promosse con Livio Ferrari un’importante iniziativa abolizionista, ma condivise la nostra scelta di porci su quell’ultima frontiera, a tutela dei diritti umani dei detenuti, da conquistare e garantire giorno per giorno, palmo a palmo, caso per caso. Per queste non piccole ragioni e per la sua straordinaria simpatia e disponibilità umana, ci mancherà moltissimo e, per quanto ne saremo capaci, cercheremo di tenerne vivo l’insegnamento. Compagni e amici, allievi e colleghi saluteranno Massimo Pavarini giovedì primo ottobre, alle 14,30, presso la Scuola di Giurisprudenza, in via Zamboni 22 a Bologna. Alla moglie Pirca, alla figlia Rebecca e alla piccolissima nipote Matilde le condoglianze del collettivo de "il manifesto". Giustizia: innocenti finiti in carcere, negli ultimi 15 anni risarcite oltre 23mila persone di Valter Vecellio lindro.it, 30 settembre 2015 Anas Z., 25 anni, marocchino. Di lui si sa poco altro. Detenuto nel carcere di Villa Fastiggi a Pesaro, si impicca alle sbarre della sua cella. Perché l’ha fatto? Il reato commesso non era grave: resistenza a pubblico ufficiale; e anche la pena: un anno, patteggiato. Ad aprile sarebbe uscito. Ma magari anche prima, se solo la magistratura di sorveglianza avesse celebrato l’udienza per la concessione delle misure alternative. Il Segretario Generale del Sindacato autonomo della Polizia penitenziaria (Sappe) Donato Capece, e il segretario provinciale di Pesaro Claudio Tommasino, dicono che Anas Z. in passato aveva avuto problemi di tossicodipendenza e di natura psichiatrica. Se è così il carcere era il luogo meno adatto dove tenere Anas Z.; che invece continua a essere una sorta di discarica dove "depositare" gli ultimi della terra. Il carcere in Italia. Eurispes e Unione delle Camere Penali hanno analizzato le sentenze e le scarcerazioni negli ultimi cinquant’anni; ne hanno ricavato un quadro desolante: sarebbero quattro milioni gli italiani dichiarati colpevoli, arrestati, e successivamente rilasciati dopo tempi più o meno lunghi, perché risultati innocenti. C’è un danno psicologico di ognuno di questi innocenti stritolati dalla Giustizia, e questo è irrisarcibile. Una volta commesso l’errore giudiziario non c’è rimedio che tenga, lo sa bene chiunque ne sia incappato. Tuttavia, questi errori costano caro allo Stato. Solo nel 2014 sono state accolte 995 domande di risarcimento per 35,2 milioni di euro, un incremento del 41,3 per cento dei pagamenti rispetto al 2013. Dal 1991 al 2012, lo Stato ha speso 580 milioni di euro per 23.226 cittadini ingiustamente detenuti negli ultimi 15 anni. Se volete sapere qual è la città con un maggior numero di risarcimenti, è Catanzaro: 146 casi; segue a Napoli: 143 casi. Le procedure aperte presso la Corte europea sono circa diecimila; solo nel 2014 l’Italia è stata condannata a risarcimenti per 30 milioni di euro. Una montagna di ricorsi pendenti: la maggior parte dei casi riguarda ritardi del Governo italiano nell’adeguarsi a norme europee e una spesa per risarcimenti colossale. Sono dati ufficiali, emergono dalla relazione consegnata al Parlamento italiano: "lo stato di esecuzione delle pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo nei confronti dello Stato italiano". Un dato significativo: contro il nostro Stato, sono 10.100 i ricorsi pendenti a Strasburgo. Siamo secondi solo all’Ucraina che, nel 2014, ha raggiunto quota 13.650. Alla Corte europea ci sono più pratiche riguardanti l’Italia che ricorsi sulla violazione dei diritti dell’uomo contro Paesi come la Russia (10 mila) o la Turchia (9.500). Ricordate gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari? Per legge devono essere aboliti, sostituiti da altre strutture adatte alla cura e alla riabilitazione, essendo i soggetti dei malati: capaci di volere, ma non di intendere. Beh, ci sono ancora tanti problemi da risolvere; tanti problemi che si trascinano stancamente, e non se ne vede la soluzione. Così oltre un centinaio di internati negli OPG ha deciso di dichiarare guerra allo Stato. Una guerra sotto forma di ricorsi. Solo dall’Opg di Reggio Emilia in 24 hanno sottoscritto istanze per detenzione illegittima, cioè sequestro di persona. E ancora: 58 ricorsi raccolti nell’Opg di Montelupo Fiorentino; 27 in quello di Barcellona Pozzo di Gotto; in totale (ma mancano Aversa e Napoli), è stata cioè raggiunta quasi la metà del totale degli attuali 226 internati. Se ne riparlerà. Giustizia: i penalisti vogliono referendum sulla separazione delle carriere in magistratura dii Beatrice Migliorini Italia Oggi, 30 settembre 2015 Botta e risposta tra avvocatura e magistratura nel corso del Congresso straordinario dell’Unione delle camere penali che si è svolto nei giorni scorsi a Cagliari. All’indomani dell’annuncio da parte del presidente dell’Ucpi, Beniamino Migliucci, della volontà di indire un referendum ad hoc per la separazione delle carriere all’interno della magistratura, arriva la replica del presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Rodolfo Sabelli, ad avviso del quale "continuare a parlare di separazione delle carriere dei magistrati vuol dire sottrarsi ai veri problemi della giustizia penale. Questa proposta", ha sottolineato Sabelli, "si inserisce ancora un volta in un atteggiamento che si sofferma molto più sui massimi principi senza affrontare questioni concrete come il problema del processo penale e la sua ragionevole durata". Nel corso dei lavori Sabelli ha, poi, puntato il dito contro la riforma della giustizia penale che, a suo avviso, "è disorganica e non risolverà i reali problemi che affliggono il settore. Vengono affrontati solo alcuni problemi eludendo, di proposito, quelli che sono i nodi più gravi, ovvero la difficoltà dell’istruttoria dibattimentale e la disciplina della nullità della competenza". E forse è proprio la posizione critica nei confronti della riforma ad accomunare le vedute di Migliucci e Sabelli. Per il numero uno dell’Ucpi, infatti, "temi troppo eterogenei rendono, la riforma della giustizia frammentaria e a tratti irrazionale: se, infatti, tra gli aspetti positivi compaiono la soppressione integrale delle modifiche alla confisca estesa e la previsione del termine entro il quale il pm è tenuto all’esercizio dell’azione penale, risultano irrazionali quelle scelte che mirano a limitare la discrezionalità del giudice nell’adeguare la pena al reale disvalore del fatto". Positivo in linea generale, invece, il giudizio in materia di ordinamento penitenziario, "salvo il rilievo", ha osservato il presidente dell’Ucpi, "su una eccessiva genericità dei principi che induce cautela ed impone di attendere i decreti attuativi, oltre al passaggio al Senato, per una valutazione definitiva". Giorni, quindi, di aperto confronto tra le due facce della stessa medaglia, avvocatura da un lato e magistratura dall’altro. Ma al termine del Congresso di Cagliari il bilancio non può che essere positivo. "Il Congresso ha rapprensentato un momento di vitalità dell’Unione con la partecipazione massiccia delle camere penali. Sono state rilanciate le battaglie sulla necessità della separazione delle carriere e della difesa dei diritti e della dignità delle persone nel processo e fuori e alla indicazione forte e decisa ala politica", ha concluso Migliucci, "di perseguire un’idea di processo liberale e democratico che si ispiri a contraddittorio, oralità e parità delle parti". Arma da taglio: distinzione tra propria e impropria. Selezione di massime. Il Sole 24 Ore, 30 settembre 2015 Armi - Da taglio - Coltello - Qualificazione quale arma propria ovvero impropria - Criteri distintivi. Ai fini della qualificazione del coltello quale arma propria o arma impropria, deve farsi riferimento, rispettivamente, alla presenza o all’assenza della punta acuta e della lama a due tagli, tipica delle armi bianche corte, mentre sono irrilevanti le particolarità di costruzione dello strumento. • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 13 marzo 2015 n. 10979. Armi - Da taglio - Coltello a serramanico dotato di sistema manuale di blocco della lama - Configurabilità del reato previsto dall’articolo 699 II comma, cod. pen. - Lama a doppio filo tagliente - Necessità - Esclusione. Integra il reato di cui all’articolo 699, II comma, cod. pen. e non quello di cui all’articolo 4, II comma e III L. n. 110/ 1975, il porto di un coltello a serramanico dotato di un sistema di blocco della lama, anche se manuale, irrilevante essendo, invece, a tal fine, che la lama sia o meno a doppio filo tagliente. • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 21 maggio 2014 n. 20705. Armi - Da taglio - Coltello a serramanico con sistema del blocco della lama - Arma propria - Reato di cui all’articolo 699 cod. pen. - Arma impropria - Reato di cui all’art. 4 L. n. 110/1975 - Configurabilità - Condizioni. Il coltello a serramanico dotato di sistema di blocco della lama è qualificabile come arma impropria, il cui porto è punito dall’articolo 4 della L. n. 110/1975, o, in alternativa, come arma propria, il cui porto è, invece, punito dall’articolo 699 cod. pen. in relazione alla presenza o all’assenza della punta acuta e della lama a due tagli, essendo, questi, elementi che costituiscono caratteristica tipica delle armi bianche corte, mentre a nulla rilevano, a tal fine, le particolarità di costruzione dello strumento. • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 14 maggio 2014 n. 19927. Armi - Armi improprie - Applicabilità dell’attenuante del fatto di lieve entità. La circostanza del fatto di lieve entità di cui all’articolo 4, comma III, L. n. 110/1975 si applica a tutte le armi improprie indicate nell’articolo 4, comma secondo (nella specie coltello a serramanico) e non ai soli oggetti atti ad offendere strictu sensu intesi. • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 14 ottobre 2011 n. 37080. Armi - Da taglio - Coltello a serramanico dotato di un sistema di blocco della lama - Articolo 699 cod. pen. - Configurabilità. Il porto di un coltello a serramanico dotato di un sistema di blocco della lama, rientrando quest’ultimo nella categoria delle armi proprie non da sparo o "bianche", integra non già il reato p. e p. dall’art. 4, II e III comma, L. n. 110 /1975, bensì la più grave fattispecie criminosa di cui all’articolo 699, II comma, cod. pen.. • Corte di cassazione, sezione Fallimentare, sentenza 3 settembre 2012 n. 33604. Armi - Da taglio - Coltello non a scatto ma con lama che diventa fissa all’esito dell’estrazione manuale - Applicabilità dell’articolo 699 cod. pen. Rientra nella categoria delle armi proprie non da sparo (ovvero bianche), il coltello che, pur non essendo a scatto, presenta una lama che diventa fissa alla fine del percorso manuale d’estrazione, con le caratteristiche proprie del pugnale, tanto che la successiva chiusura necessita di un meccanismo di disincaglio. Il porto di tale strumento integra non il reato previsto dall’articolo 4, II e III comma, L. n. 110/1975, bensì la fattispecie criminosa di cui all’articolo 699, II comma, cod. pen. • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 22 aprile 2008 n. 16685. La concorrenza alla criminalità parte dalla scuola di Angelo Petrella Il Mattino, 30 settembre 2015 Non è una fiction televisiva e non è nemmeno la trama di un romanzo noir: in pochi giorni siamo passati da una sparatoria nel bel mezzo di Fuorigrotta - in cui è stato coinvolto il poliziotto Nicola Barbato, che ancora lotta tra la vita e la morte - al ferimento di un diciassettenne di Mugnano da parte di un agente in borghese, avvenuto ieri pomeriggio in seguito al tentativo di furto di uno scooter. Di appena qualche ora prima è invece l’arresto di una coppia di Torre del Greco, che da tempo conduceva una sorta di "corso accelerato di spaccio" in favore dei propri figli minorenni. Agghiaccianti le frasi catturate dalle intercettazioni ambientali: "Non aprire a nessuno", "Pure quando veniamo noi guarda sempre attraverso lo spioncino", "Nel caso, butta tutto dentro al bagno". Non sono sicuramente i primi fatti di sangue che vedono come protagonisti ragazzi di giovane età se non addirittura minorenni. Ma è la frequenza a destare preoccupazione e a far sorgere più di un interrogativo sulla natura di questa violenza che sembra soffocare Napoli in maniera incontrollabile. Prendiamo l’ultima delle tre notizie, quella relativa agli apprendisti spacciatori: in questo caso appare chiaro come la mentalità criminale non sia più quella delle periferie di pasoliniana memoria, in cui i ragazzi di vita cresciuti troppo in fretta sono costretti a delinquere per mera sopravvivenza. I nostri sono piuttosto degli adolescenti viziati e individualisti, senza cognizione dei limiti o del pericolo, educati dai genitori al culto dell’illegalità e del benessere a tutti i costi. Il problema delle nuove generazioni sta tutto nei modelli familiari sbagliati: adulti che abdicano al ruolo di genitori per diventare amici, complici o, nella peggiore delle ipotesi, veri e propri addestratori criminali. Dallo spacciare cocaina per accumulare denaro in tempo breve al rapinare con una pistola in pugno il passo è breve. In un contesto del genere è chiaro che qualunque ipotesi di lotta alla violenza è destinata al fallimento se intesa solo dal punto di vista repressivo. Certo, l’aumento dell’organico di polizia, il potenziamento degli impianti di videosorveglianza o il miglioramento della sinergia tra le strutture investigative sono un buon segnale lanciato dal ministero dell’Interno negli ultimi giorni. Resta da capire però quale sia il progetto di lunga durata e di investimento sul futuro: la devianza giovanile è infatti un fenomeno prettamente culturale, frutto degli eccessi della nostra società e, come visto, di un’educazione familiare distorta. Lo Stato non coincide solo con la presenza pur auspicabile delle forze dell’ordine, ma soprattutto conia diffusione di valori sani e l’offerta di alternative. Non è un caso che il presidente Mattarella, durante la visita a Napoli, abbia ringraziato gli insegnanti e abbia rivolto un accorato appello ai ragazzi, impegnandosi a combattere l’abbandono scolastico e a difendere gli spazi e le strutture educative. È questa la forma di prevenzione più efficace per contrastare la cultura del crimine l’educazione alla violenza dilagante: rieducare e ricostruire il tessuto civile valorizzando tutte le realtà presenti sul territorio, a partire dalle scuole ad arrivare ad associazioni di volontariato e operatori sociali. Occorre che politica e istituzioni si muovano in sinergia e con decisione, pianificando interventi rapidi e mirati. Altrimenti, quanto tempo abbiamo dalla nostra, prima che i minorenni sbandati di oggi si trasformino irreversibilmente nei criminali adulti e patentati del futuro? Ergastolo "mediatico" di Donato Bilancia Lettera dal carcere di Padova, 30 settembre 2015 Qualche tempo fa ho letto un articolo scritto da un compagno di detenzione il cui nome è Carmelo Musumeci. Pur apprezzandone l’esposizione dei contenuti, non mi trovo affatto d’accordo quando sostiene vi siano solo due tipi di ergastolo, quello normale e quello ostativo. Ho ragione di credere che ne esista un terzo che paradossalmente si chiama ergastolo "mediatico". Senza fare inutili esempi entrando nello specifico, posso comunque affermare con fondata certezza che, dopo aver parlato per i primi anni successivi alla tragedia che mi ha visto responsabile di fatti gravissimi, tutti i mezzi d’informazione hanno continuato e continuano a parlare di me attaccandomi. Da sempre, per qualsiasi cosa che di clamoroso accada a Genova come a Padova, vengo tirato in ballo pur non c’entrandoci mai per nulla. Sono sicuro che in questi ultimi diciassette anni non siano mai trascorsi ininterrottamente sei mesi senza che qualche giornale, rivista, talk televisivi, persone che hanno scritto libri ed altri, non abbiano parlato di me. Si pensi che viene persino proiettato periodicamente anche il film realizzato sulla mia storia. Questo tanto feroce quanto ingiustificato accanimento mediatico penalizza ulteriormente in tutto e per tutto il mio già non facile percorso penitenziario. Questo parlare di me soprattutto a vanvera, serve soltanto ad acuire l’acrimonia in tutte le persone con le quali a vario titolo devo confrontarmi giornalmente all’interno della struttura penitenziaria, figuriamoci l’impatto che avrà in quelle al di là del muro di cinta. Pur di sottrarmi definitivamente a questa gogna mediatica, qualche anno fa, favorito dalla condizione d’isolamento durato per ben undici anni, durante i quali presi anche coscienza di ciò che mi era capitato, colto da grande sconforto avevo pensato di farla finita ma poi, solo per mera vigliaccheria, mi è mancato il coraggio di mettere in atto il gesto estremo. Come potrò mai dare un briciolo di dignità al rimanente non lunghissimo percorso di vita rimastomi (ho 64 anni) se tutte le possibilità mi verranno precluse a prescindere solo perché mi chiamo Donato Bilancia? Come potrò mai porre anche un piccolo rimedio al male fatto se il muro di mattoncini che riesco a costruire pian pianino, mettendone lì uno dopo l’altro con enorme fatica, viene subito abbattuto senza alcuna apparente ragione? Con grande difficoltà ho iniziato da tempo un complicato percorso per riuscire a riconquistare la fede, questo mi porta a credere che perfino il nostro Papa Francesco si ribellerebbe se venisse a conoscenza di questo attanagliamento mediatico posto in atto nei miei confronti. Certo, lo ripeto, i fatti dei quali mi sono reso responsabile sono gravissimi, questo è indiscutibile, che vi sia poi stata la volontà oppure no, in questo preciso momento non ha alcuna rilevanza. Tuttavia l’Art. 27 della Costituzione italiana parla chiaro in relazione allo scopo che deve avere la detenzione di qualsiasi persona condannata in via definitiva, ed in vero non ricordo di aver letto che in calce vi sia scritto: "Asterisco, Donato Bilancia escluso". Intercettazioni, nessun segreto se c’è il diritto di cronaca di Caterina Malavenda (Avvocato esperta in diritto dell’informazione) Corriere della Sera, 30 settembre 2015 La legge sulla divulgazione delle conversazioni dovrebbe tenere conto che il giornalista può scegliere cosa pubblicare. È il giudice che deve valutarne la correttezza se la persona coinvolta lo chiede. Caro Direttore, la Camera ha approvato la legge che delega il governo, fra l’altro, a riscrivere le norme sulla divulgazione delle intercettazioni "avendo speciale riguardo alla tutela della riservatezza delle comunicazioni e delle conversazioni delle persone occasionalmente coinvolte nel procedimento e delle comunicazioni comunque non rilevanti a fini di giustizia penale", legge che passa ora all’esame del Senato. I più hanno paventato si tratti di un bavaglio per l’informazione, in misura minore hanno plaudito alla stretta sulla "libertà di sputtanamento", un modo elegante per indicare la pubblicazione di conversazioni a volte davvero irrilevanti. E c’è stato chi ha evidenziato, con competenza e una certa fondatezza, possibili profili di incostituzionalità. Il governo non ha replicato nel merito, consapevole com’è che, fra qualche giorno, l’attenzione di gufi e detrattori, ma anche quella di simpatizzanti ed estimatori, verrà calamitata da altri provvedimenti, che alimenteranno nuove polemiche. E, tuttavia, al ministro Orlando, giurista e persona perbene, è scappato un commento che lascia intendere più di quanto probabilmente non volesse: "Non vogliamo mettere il bavaglio, piuttosto vogliamo chiudere il buco della serratura. Dal buco della serratura bisogna guardare solo quanto è funzionale all’interesse collettivo". E se il buco della serratura è quello che restituisce il "materiale intercettativo" - brutta espressione per indicare l’insieme delle "comunicazioni e delle conversazioni telefoniche e telematiche oggetto di intercettazione", prima di qualsiasi scrematura - basta intendersi sul concetto di interesse collettivo, appagato solo quando circolano liberamente informazioni di rilievo pubblico, quale che sia la loro provenienza, come Strasburgo ci insegna. Un principio, quello ricordato dal ministro, già recepito nella legge sulla privacy, che tutela, in via generale, la riservatezza dei dati personali, fra i quali rientrano anche quelli desumibili dalle conversazioni intercettate, il che pone qualche dubbio sulla effettiva necessità di legiferare ancora sul tema. Si tratta di dati liberamente utilizzabili dai giornalisti, solo se sono essenziali per l’informazione, cioè appunto, come il ministro ha sottolineato, se sono funzionali all’interesse collettivo, così come possono essere diffuse, secondo l’ultima modifica, introdotta nella stessa legge, le intercettazioni fra presenti, nell’ambito del diritto di cronaca. Che i divieti alla circolazione di notizie possano esser derogati, in presenza di un interesse pubblico è, dunque, pacifico. Anche perché, quale che sia la sanzione, è impossibile, oltre che non previsto dal codice, impedire la circolazione dei contenuti delle intercettazioni, una volta venuti a conoscenza delle parti, in fase di selezione e, quindi, non più segreti; mentre sarebbe incostituzionale inibire la diffusione di quelle che appaiano di manifesto interesse pubblico, al di là della loro rilevanza penale, sanzionando chi esercita quello stesso diritto di cronaca. E allora, caro direttore, mi perdoni se, avendo una discreta esperienza in materia, pur scrivendo a lei, ne approfitto per rivolgermi direttamente al ministro, per quel che ha detto e per quel che potrà fare. Un suggerimento, non un lodo, per carità: invece di impelagarsi in lavori di una commissione creata ad hoc, estenuanti e probabilmente inutili, perché il governo non introduce un solo articolo che punisca severamente chi diffonde intercettazioni che coinvolgono terzi, estranei alle indagini o penalmente irrilevanti, a meno che ciò non avvenga nell’esercizio del diritto di cronaca, trattandosi di conversazioni essenziali per l’informazione? La selezione rimarrebbe di competenza del giornalista - cui occorre pur dare la necessaria fiducia, oltre che cento codici deontologici - e la valutazione della correttezza della sua scelta sarebbe del giudice, cui l’interessato potrà rivolgersi se non la condivide. In fondo, non è così che si fa in uno Stato di diritto? Calabria: è bufera sul ragazzino undicenne interrogato dai pm "va tutelato e protetto" di Angela Panzera Il Garantista, 30 settembre 2015 L’antimafia e l’osservatorio dei minori in trincea. Giovanardi accusa stampa e magistrati. Il parere dell’avvocato Gianpaolo Catanzariti dell’Unione delle Camere penali:"ll solo contatto con il pianeta giudiziario provoca turbamento ai minorenni. E comunque il teste è soggetto vulnerabile". La Dda non poteva fare a meno di interrogarlo. Anche se ha solo undici anni, è una persona informata sui fatti. Il figlio della testimone di giustizia Annina Lo Bianco, ex compagna del boss di San Ferdinando coinvolto nell’operazione "Eclissi", ha riferito al pm antimafia reggino Giulia Pantano in merito a presunti traffici di droga e armi nonché di diverse dinamiche criminali. La scelta della Dda di sentirlo durante due interrogatori è oggetto al momento di numerose polemiche. Ma il patrimonio conoscitivo di cui il ragazzo è, suo malgrado, in possesso è stato ritenuto così vasto e necessario che non solo il pm lo ha dovuto interrogare, ma ha indotto già il gup Cinzia Barillà ad acquisire in udienza preliminare le sue dichiarazioni. Non manca però il confronto con esperti, giuristi e tecnici. Ne abbiamo parlato con l’avvocato reggino Giapaolo Catanzariti, consigliere e referente dell’Osservatorio carcere dell’Unione Camere penali italiane, che ci ha rilasciato l’esaudiente parere che segue. "Non è mio intendimento - dice l’avvocato Catanzariti - entrare nel merito della vicenda processuale e ciò non solo per ragioni di deontologia professionale. Ostentare sicumera, entrando in un proscenio simile, mi renderebbe simile a un elefante all’interno di una cristalleria. Un dramma che comunque colpisce un intero nucleo familiare. Francamente ritengo fuori luogo esprimere una aprioristica attendibilità (o, per converso, inattendibilità). La cultura del dubbio, che pervade ogni mia condotta, mi impedisce di assumere verità assolute, non corroborate da adeguate prove e verifiche. Certo è che allorquando un minore - in questo caso, un bambino di 11 anni che sta narrando fatti e circostanze avvenuti per certo negli anni precedenti - diventa un testimone in grado di riferire attività delittuose poste in essere da altri soggetti e, primo fra tutti, dal proprio genitore, la cautela e l’esigenza di tutela da ogni interferenza diventa massima. Non è un caso se il minore testimone di reato è un vero e proprio teste "vulnerabile" ovvero un soggetto "debole" a causa di caratteristiche strutturali o di dipendenze traumatiche dai fatti. Ed infatti è vulnerabile "non solo (e non tanto) chi è vittima del reato, ma anche chi accusa effetti negativi (traumatici a volte) dalla rievocazione del fatto in ambiente procedimentale e\o processuale". Il solo contatto con il pianeta giudiziario provoca turbamento ai minorenni, al punto che, ai sensi dell’articolo 471 del codice procedura penale, non sono nemmeno ammessi quali spettatori di un processo penale. A tal proposito, proprio per evitare interferenze, suggestioni, incongruenze, la questione della prova dichiarativa del minore è avviluppata da un serrato e delicato dibattito teso ad individuare cautele, dovendosi tutelare, da un lato il minore, ma dall’altro comunque garantire la posizione di chi è raggiunto dalle stesse dichiarazioni che non può essere sacrificato in virtù di logiche emozionali, per quanto giustificabili o condivisibili. In buona sostanza, non si deve mai perdere di vista la necessità del bilanciamento tra il diritto del testimone vulnerabile ad essere tutelato dal processo e il diritto di difesa dell’accusato. Occorre, perciò, maneggiare con cura e usare mille e più precauzioni, in misura inversamente proporzionale, all’età specie ove si consideri, come afferma la Corte di Cassazione, che "gli studi sulla memoria infantile hanno comprovato come i bambini siano influenzabili da stimoli potenzialmente suggestivi e - non avendo adeguate risorse critiche e di giudizio e un distinto sentimento del sé - tendano a non differenziare le proprie opinioni da quelle dello interlocutore". È vero, nel caso reso noto dal Garantista, non si tratta di reati per i quali il legislatore nazionale - perdendo così un’occasione formidabile - ha predisposto, recependo la Convenzione di Lanzarote, lo speciale percorso fatto di mediatori esperti tra il minore e l’autorità giudiziaria o l’avvocato che compie attività di indagine difensiva. Tuttavia le esigenze razionali della tutela e della cautela non possono lasciare spazio ad emotive e irrazionali scorciatoie. Il processo penale avrà il suo percorso. Purtroppo, i suoi esiti, quali che siano, non potranno scalfire un’indubitabile verità: quella di assistere, comunque, ad una profonda e inguaribile ferita familiare e sociale". Abruzzo: i penalisti "Rita Bernardini persona giusta per il ruolo di Garante dei detenuti" Ansa, 30 settembre 2015 "Come noto la Regione Abruzzo, con determinazione sottoscritta dal dirigente Servizio Affari Istituzionali ed Europei del Consiglio Regionale d’Abruzzo, ha ritenuto ineleggibile Rita Bernardini alla candidatura di Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale. Una decisione che va respinta". Lo afferma, in una nota, l’Unione delle Camere Penali Italiane. I penalisti, infatti, sottolineano che "la valutazione di indegnità o inidoneità a svolgere mansioni pubbliche, sottesa alla decisione della Regione Abruzzo, deve essere respinta, oltre che per le ragioni giuridiche che saranno espresse nell’opportuna sede, soprattutto per l’alto impegno profuso da sempre da Rita Bernardini nella difesa e nella valorizzazione dei diritti e della dignità dei detenuti e degli ultimi, che non potrebbero avere migliore garanzia delle sue capacità e della sua passione". "Ci auguriamo - conclude l’Ucpi - che i meriti di chi da sempre si occupa con dedizione, abnegazione e competenza alla causa di chi è privato della libertà vengano al più presto riconosciuti, proprio nell’interesse di costoro e di chi ha a cuore che le garanzie dei detenuti vengano sempre e comunque rispettate". Puglia: dopo 10 anni assolti l’ex Presidente Fitto e Angelucci, erano accusati di corruzione di Michele De Feudis Il Tempo, 30 settembre 2015 L’imprenditore non pagò 500mila euro per corrompere l’ex governatore. Per entrambi revocate le confische. Il Pm entrò poi nella giunta di Vendola. "Il fatto non sussiste". La sentenza della Corte di Appello di Bari ha stabilito che l’imprenditore Gianpaolo Angelucci non finanziò con 500 mila euro la lista civica di centrodestra "La Puglia Prima di Tutto" al fine di corrompere Raffaele Fitto, all’epoca presidente della Regione Puglia, per ottenere l’appalto da 198 milioni di euro per la gestione di undici Residenze sanitarie assistite. Nel febbraio 2013, nel giudizio di primo grado, il Tribunale aveva condannato Fitto (la procura aveva chiesto l’autorizzazione all’arresto non concessa dalla Camera) a 4 anni di reclusione, per corruzione, illecito finanziamento ai partiti e un episodio di abuso d’ufficio (e assolto dai reati di peculato e da un altro abuso d’ufficio). Angelucci, arrestato nel 2006, era stato condannato a 3 anni e sei mesi per corruzione e illecito finanziamento. I 500 mila euro, sequestrati e confiscati dopo la sentenza di primo grado saranno restituiti alla lista civica, mentre la Corte di Appello ha confermato anche l’assoluzione per Fitto da un episodio di abuso d’ufficio, dichiarando la prescrizione degli altri reati (l’illecito finanziamento, contestato anche ad Angelucci, e altri due episodi di abuso d’ufficio). Sono state anche revocate le confische per 6 milioni di euro alle società di Angelucci, Consorzio San Raffaele e gruppo Tosinvest. Del pool che indagò in fase di indagini preliminari nel primo grado ne fece parte il pubblico ministero Lorenzo Nicastro, poi entrato in politica con L’Italia dei Valori e divenuto assessore regionale nella seconda giunta di Nichi Vendola. La reazione di Raffaele Fitto, eurodeputato e leader dei Conservatori, è stata dai due volti: "In pochi minuti mi sono passati nella mente quasi 10 anni della mia vita. Era il 20 giugno del 2006 quando mi fu notificata un’ordinanza di custodia cautelare con il sequestro dei miei beni. La Camera, nonostante la mia richiesta di autorizzare l’arresto, la respinse all’unanimità. Sono molto soddisfatto per la sentenza di assoluzione con formula piena ma al tempo stesso molto amareggiato. Non è il giorno delle polemiche o dei festeggiamenti". L’avvocato Gianni Di Cagno, difensore di Giampaolo Angelucci: "A questo punto non solo l’opinione pubblica ma alcuni organi dello Stato debbano delle scuse a qualcuno. Questa vicenda decennale ha creato un gravissimo danno economico al consorzio San Raffaele". Di parere opposto il procuratore della Repubblica di Bari, Giuseppe Volpe che ha puntualizzato che la decisione della Corte di Appello al termine del processo La Fiorita ha "confermato la fondatezza dell’ipotesi accusatoria". Immediata la replica di Nitto Palma, presidente della Commissione Giustizia al Senato, nonché esponente di Fi: "Sono allibito per il comunicato del Procuratore, che parla suggestivamente di fondatezza dell’ipotesi accusatoria, dimenticando il reale significato della prescrizione secondo la costante giurisprudenza della Corte di Cassazione". Telegrafico Maurizio Sacconi, del Ncd: "Fitto, felice per assoluzione. Chi gli ripaga i danni?". Piacenza: Garante regionale in visita "solo tre educatori per oltre 200 detenuti definitivi" Ristretti Orizzonti, 30 settembre 2015 Giudizio positivo per il nuovo padiglione e per l’area verde dedicata ai colloqui con i figli. Critiche invece le condizioni dei vecchi spazi: "Necessità di un intervento strutturale, ma non ci sono finanziamenti". Da una parte "la carenza di un numero adeguato di professionalità con competenze giuridico-pedagogiche", "l’assenza in carcere del magistrato di sorveglianza territorialmente competente", "un’inadeguata offerta di opportunità lavorative" e un "grave degrado igienico-sanitario nel vecchio padiglione"; dall’altra un nuovo padiglione che si caratterizza per "la assoluta congruità degli ambienti dal punto di vista degli spazi e della luminosità, anche con le docce nel bagno all’interno della cella" e una "ben attrezzata area verde, con altalene e giochi per i bambini, in cui i detenuti svolgono i colloqui con i figli". La Garante regionale delle persone private della libertà personale, Desi Bruno, delinea un quadro con luci e ombre dopo la sua visita alla Casa circondariale di Piacenza di domenica mattina, dove è stata accompagnata dalla direttrice Caterina Zurlo e dal Garante comunale dei detenuti, Alberto Gromi. Non si ravvisano profili di sovraffollamento, riferisce la Garante: risultano presenti 329 detenuti del circuito media sicurezza (fra questi 18 donne), di cui 203 stranieri e 149 i tossicodipendenti; 6 detenuti possono lavorare all’esterno. Però "il numero dei condannati in via definitiva, 223, è significativo" e quindi "presenta profili di criticità la carenza di un numero adeguato di professionalità con competenze giuridico-pedagogiche, deputate a seguire direttamente l’osservazione e il percorso trattamentale della popolazione detenuta": infatti, avverte Bruno, "sono operativi solo 3 educatori" e proprio per questo motivo "i due Garanti, d’iniziativa congiunta, avevano già segnalato, durante l’estate, il caso alla Direzione generale del personale e della formazione del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, senza, allo stato, ricevere riscontro". In particolare, aggiunge Bruno, "a seguito della riorganizzazione del circuito penitenziario regionale, l’istituto si è caratterizzato per una forte presenza di detenuti autori di reati sessuali - 97 - per i quali non sono ancora stati avviati progetti terapeutici compiutamente finalizzati a prevenire il rischio di recidiva". I detenuti, prosegue la figura di Garanzia dell’Assemblea legislativa, "hanno poi lamentato l’assenza in carcere del magistrato di sorveglianza territorialmente competente con il quale, secondo quanto riferito, hanno fatto richiesta di colloquio da oltre un anno senza ricevere alcun riscontro". I ristretti, aggiunge la Garante, "i detenuti hanno la possibilità di stare fuori dalla camera di pernottamento per almeno per otto ore giornaliere, ma, nei fatti, non riescono a riempire di contenuti utili il proprio tempo in ragione di un’inadeguata offerta di opportunità lavorative". Anche se, premette Bruno, "sono in cantiere alcuni nuovi progetti, come un laboratorio per la pasta fresca, per il quale sono già stati stanziati i fondi e sono stati individuati gli ambienti, e che attende l’avvio con la formazione dei detenuti e uno per la coltivazione di piante officinali". Infine, dal punto di vista strutturale, conclude la Garante, "il nuovo padiglione si caratterizza per la assoluta congruità degli ambienti dal punto di vista degli spazi e della luminosità, anche con le docce nel bagno all’interno della cella" e inoltre "è risultata ben attrezzata l’area verde, con altalene e giochi per i bambini, in cui i detenuti svolgono i colloqui con i figli". Allo stesso tempo però "nel vecchio padiglione, invece, esiste una situazione di grave degrado igienico-sanitario, in particolare nei locali delle docce comuni in cui, la mancanza di un impianto di aspirazione, ha generato vaste muffe sui muri: c’è la necessità di un intervento strutturale per il quale però non ci sono finanziamenti". Firenze: a Sollicciano dopo i crolli chiuso il camminamento della ronda sul muro di cinta Ansa, 30 settembre 2015 Chiuso, a seguito di controlli da parte dei tecnici, il camminamento di ronda lungo tutto il muro di cinta del carcere fiorentino di Sollicciano. Al momento la sorveglianza da parte degli agenti di polizia penitenziaria viene garantita con ronde in auto all’esterno e all’interno del perimetro del carcere. Il camminamento di ronda è stato chiuso a seguito delle verifiche scattate dopo il crollo di una porzione di circa 10 metri di muro, verificatosi il 22 settembre scorso. In base a quanto appreso, il nuovo dispositivo di sorveglianza, con ronde armate e automunite sui due lati del muro, richiede un numero di agenti maggiore dei sei o sette per turno che normalmente venivano impiegati nel servizio di ronda. Padova: Rosetellato (Pd) "recupero dei detenuti alla comunità civile attraverso il lavoro" padova24ore.it, 30 settembre 2015 Gessica Rostellato, deputata del Partito Democratico, ha presentato una interrogazione al Governo sul rischio che alcuni detenuti presenti nel carcere di Padova possano essere spostati in altre strutture, interrompendo così il loro percorso di recupero che si sta sviluppando in maniera positiva nell’istituto della città del Santo. "Nel mese aprile 2015, era stato programmato il trasferimento di cento detenuti delle sezioni di Alta Sicurezza di Padova presso altri istituti. A seguito della mobilitazione di molte realtà del volontariato, cooperative, operatori, scuola e Università, l’associazione Ristretti Orizzonti e anche grazie ad una nuova circolare sulle "declassificazioni", alcuni trasferimenti sono stati evitati. Molti ancora rischiano di vedere vanificato il percorso trattamentale fino ad ora svolto, a causa di valutazioni sulla personalità che si rifanno a episodi ormai di venti o trent’anni addietro. La casa circondariale di Padova è un carcere-laboratorio, dove si sperimentano forme di pena "dignitose e sensate", tese alla rieducazione del detenuto. Vi è l’umanizzazione vera dei rapporti delle persone detenute con le famiglie, attraverso due telefonate in più per tutti, la possibilità di chiamare indistintamente telefoni fissi e cellulari, l’uso di Skype per i colloqui, anche per i detenuti di Alta Sicurezza, se le famiglie sono troppo lontane. Se questi detenuti non saranno declassificati cioè portati ad un livello che permetta loro di rimanere a Padova, potrebbe arrivare il loro trasferimento immediato in altro istituto di detenuti che da anni sono in 41bis e che nella Casa di reclusione hanno già avviato percorsi rieducativi con ottimi risultati". "A differenza di ciò che si potrebbe intendere - continua Gessica Rostellato - la declassificazione non dà grandi vantaggi, anzi, è una vita per certi versi ancora più dura per chi, abituato ai "ghetti rassicuranti" dell’Alta Sicurezza, si ritrova nelle sezioni comuni: perde, se ce l’aveva, la cella singola (l’unica condizione accettabile per chi ha una pena lunga o l’ergastolo), si deve confrontare con un mondo di sofferenza, confusione, incertezza, come sono oggi le sezioni di media sicurezza. Quindi chi chiede di essere declassificato chiede di perdere qualche piccolissimo vantaggio, ma anche uno status di "cattivo per sempre", e accetta di confrontarsi con le contraddizioni, i disagi, il disordine delle sezioni comuni". "Mi auguro fortemente - conclude la deputata - che il Ministro si interessi a queste situazioni perché il nostro ordinamento parla chiaro ed intende il carcere come una occasione di recupero delle persone e non di punizione: interrompere il percorso di recupero che si sta sviluppando potrebbe portare gravi danni non solo ai detenuti ed alle loro famiglie, ma renderebbe vano lo sforzo collettivo fatto sin qui". Padova: il sindaco-sceriffo che blinda la città per prendersi tutto il Veneto di Eleonora Bujatti Il Fatto Quotidiano, 30 settembre 2015 Stop al kebab, parco vietato agli adulti, via i mediatori culturali dalle scuole. Ma il sindaco leghista tollera l’antenna ecomostro. Massimo Bitonci, oltre a essere sindaco di Padova ed esponente di primo piano della Lega Nord, è soprattutto un maestro di comunicazione. Sbaglia chi individua nel suo operato falle logiche, o chi ne fa una questione politica. Parliamo di cose serie. Il suo cliente (in questo caso i cittadini - tantissimi - che l’hanno votato) ha posto una questione, semplicissima nella sua complessità, che si chiama sicurezza. E il sindaco, ottimo allievo di ottimi maestri, mette in atto quotidianamente la sua efficace strategia. Era appena stato eletto e tutti ricordiamo il suo spot con il botto: "Nelle scuole ci va un bel crocifisso obbligatorio regalato dal Comune. E guai a chi lo tocca". Per consolidare il messaggio, subito dopo è arrivata la dichiarazione di non voler riconoscere autorizzazioni per le celebrazioni del Ramadan nelle palestre comunali. Poi l’ordinanza anti-Ebola (divieto di dimora nel Comune per gli africani senza un certificato medico che ne attestasse lo stato di salute, poi bocciato dal Tar). È questo che intendeva quando annunciava che la sua giunta avrebbe avuto un profilo francescano? E, ancora, la città dei divieti: no al bivacco nei parchi pubblici, no agli artisti di strada, divieto di accattonaggio con sequestro delle donazioni e multe rinforzate. Vera o falsa che sia la sostanza, questo è il messaggio che passa. E scatta la standing ovation: vai sceriffo, mandali tutti a casa. È passato un anno e il primo cittadino di Padova continua a non deludere i suoi committenti. È datata aprile 2015 l’ordinanza che impone la chiusura di kebabbari, market e negozi etnici situati in piazzale della Stazione e zone limitrofe. Ordinanza che, va detto, il Tar ha confermato. Così, sull’onda dell’entusiasmo, quando in pieno centro cittadino si consuma una grave aggressione tra stranieri, Bitonci decide di spingere oltre la propria determinazione. Fedele all’insegnamento di Aristotele, applica il suo stringente sillogismo. Premessa maggiore: i protagonisti sono stranieri; premessa minore: l’aggressione è avvenuta in centro storico; conclusione: il kebabbaro del centro deve chiudere alle 14. Questa sì che è fedeltà al brand (e pazienza se questa volta il Tar lo boccia). Altra mossa strategica che gli è valsa molti punti riguarda il prefetto di Padova, Patrizia Impresa. Il prefetto riceve dal governo indicazioni relative all’accoglienza dei profughi: la quota assegnata dal Viminale alla provincia padovana è di due profughi per ogni Comune. Un rapporto tollerabile, se ognuno facesse la sua parte. Il prefetto cerca un dialogo con il sindaco per individuare strutture idonee, ma non trova collaborazione. Così, mette temporaneamente a disposizione l’un ic a struttura che, essendo un sito governativo, è nella sua diretta disponibilità: un’ex caserma militare dismessa che si trova in centro città. Vergogna, una tendopoli in centro! Patrizia Impresa via da Padova! Uno slogan efficace, si sa, deve essere sintetico, imperativo e facile da ricordare. Ha di nuovo fatto centro. E siccome noi siamo per la politica del fare (anche questo suona noto), assumiamo nuovi vigili, aggiungiamo qualche telecamera, vietiamo il parco agli adulti senza bambini (due fidanzati valgono ben una massa di extracomunitari migranti profughi delinquenti - che talvolta passano come sinonimi) e assumiamo un assessore con un’unica, impegnativa delega: pronto intervento cittadino. Mentre l’assessore alla Cultura si occupa, nell’ordine, di: Ambiente, Urp -Rete civica, Contratti, Avvocatura, e infine Cultura Musei Spettacolo. Troppo lavoro, povero ragazzo. Per forza qualche questione di minor rilievo può sfuggire al controllo. Come ad esempio la costruzione di un traliccio ecomostro di oltre 100 metri (più alto delle guglie del Santo) che ospiterà ogni tipo di antenna, voluto da una società proprietaria di radio locali sul terreno di un’istituzione pubblica di assistenza e beneficenza, nel cuore di una zona residenziale, polmone verde a 2 km dal centro della città, vicino a scuole e parchi pubblici, la cui concessione edilizia è stata data dal Comune con un silenzio assenso. E ora, dopo la rivolta dei cittadini, il sindaco prova a rimediare offrendo all’emittente radiofonica un’area comunale in zona industriale a titolo gratuito. Ma le questioni importanti non sfuggono alla giunta, che pochi giorni fa ha eliminato con un colpo di spugna i mediatori culturali nelle scuole, non rinnovando la convenzione con le cooperative che fornivano un supporto agli studenti "li n g u a zero" nelle classi. La morale è sempre quella. Perché ciò che conta davvero per Bitonci è che il cliente sia soddisfatto e il target raggiunto. Così potrà puntare al primo premio: la presidenza della Regione Veneto. Vibo Valentia: Sappe; stato di agitazione per il personale della Polizia penitenziaria corrierequotidiano.it, 30 settembre 2015 Stato di agitazione tra il personale della polizia penitenziaria del carcere di Vibo Valentia che ha organizzato un’astensione dalla mensa di servizio alla quale ha partecipato oltre il 90 per cento dei poliziotti in servizio nella casa circondariale vibonese. Lo rende noto il Sappe (Sindacato autonomo polizia penitenziaria) che in una nota spiega come l’iniziativa odierna sia diretta a "promuovere un incontro con il direttore del carcere di Vibo finalizzato a risolvere i problemi di sua competenza, mentre per altri sono stati interpellati i superiori uffici del Dap di Roma". Per quanto riguarda la pulizia della caserma degli agenti, il Sappe denuncia che un solo detenuto è preposto al compito di pulire pure tutta la zona esterna e ciò "determina che da oltre 30 giorni la caserma non viene pulita". Il Sappe lamenta poi "infiltrazioni di acqua nella caserma, il mancato rispetto del menù nella mensa dei poliziotti penitenziari, con cibo scadente per quantità e qualità, assistenti capo chiamati a svolgere incarichi di sorveglianza generale, turni serali con l’assenza di preposti, servizio postale affidato alla polizia penitenziaria pur in presenza di personale del comparto ministeri che potrebbe svolgerlo, grave carenza di organico, assenza di mezzi nuovi e di fondi per la loro riparazione, assenza di vestiario che da più di tre anni non viene distribuito al personale penitenziario". Milano: due detenuti evasi dal permesso di lavoro ad Expo, sono stati ripresi nel comasco di Paola Pioppi Il Giorno, 30 settembre 2015 Erano spariti da una settimana, dopo avere ottenuto un lavoro come manutentori all’interno di Expo. Samuel Ferrera, 26 anni di Cantù e Vito Lanzillotti, 42 anni di Taranto, non avevano più fatto rientro alla sera nel carcere di Opera, dove erano detenuti. Entrambi avevano ottenuto la misura alternativa del lavoro esterno: Ferrario da inizio settembre, mentre Lanzillotti da luglio. Facevano parte di un gruppo di detenuti che, per caratteristiche comportamentali positive e per periodo di pena già scontata, avevano ottenuto il diritto a svolgere un lavoro al di fuori del carcere, con uscita mattutina, rientro serale e un percorso fisso dal quale non potevano sgarrare. Un privilegio concesso a pochi, per il quale ci sono richieste ben superiori alle possibilità di impiego esterno. Ma martedì della scorsa settimana, a Opera non li hanno più rivisti. Sono stati ritrovati ieri, al termine delle indagini condotte dalla Polizia Penitenziaria della casa di reclusione milanese, che ha organizzato una sorte di task force per arrivare a individuare il loro nascondiglio. Per localizzarli, gli agenti sono riusciti a risalire a un telefono che i due avevano ottenuto in uso, le cui mappature negli ultimi giorni si erano concentrate nella zona di Lomazzo. A quel punto le pattuglie hanno iniziato una serie di appostamenti, sia in auto che a piedi, per cercare di localizzare i due detenuti, che si riteneva fossero ancora in zona. Un servizio nel quale sono stati coinvolti polizia e carabinieri, riuscendo a ritrovare i due uomini di cui conoscevano bene i volti. Per primo è stato notato Lanzillotti, fermato mentre stava per salire su un treno diretto a Milano: con lui c’era anche un secondo uomo che tuttavia, più veloce a rendersi conto della presenza delle forze di polizia, è scappato a piedi. Si trattava di un parente del secondo evaso, che tuttavia è stato rintracciato e identificato poco più tardi, nella sua abitazione di Lomazzo, dove c’era anche Samuel Ferrera. Mentre i due ricercati venivano arrestati e portati in carcere al Bassone, in attesa della decisione del magistrato di turno della Procura di Como, Massimo Astori, il parente di Ferrera è stato denunciato a piede libero, per violazione di una misura di sicurezza a cui era sottoposto, che prevedeva il divieto di dimora a Lomazzo, dove invece è stato trovato. Ora sono in attesa dell’interrogatorio di convalida dell’arresto, in seguito al quale gli atti saranno trasmessi alla Procura di Milano, competente per territorio in quanto l’evasione è materialmente avvenuta a Opera. Tolmezzo (Ud): denaro e promesse da detenuti, condannata un’ex infermiera del carcere udinetoday.it, 30 settembre 2015 Un anno e otto mesi di reclusione - con la sospensione condizionale della pena - per un’ex infermiera del carcere di Tolmezzo. Avrebbe aiutato anche un boss della Camorra. Un’ex infermiera - in servizio presso il carcere di Tolmezzo - di 60 anni ha patteggiato oggi davanti al gup del tribunale di Udine Florit la pena di un anno e otto mesi di reclusione con la condizionale. Era accusata di aver ricevuto denaro o la promessa di denaro da alcuni detenuti o dai loro familiari, anche sotto forma di prestiti da restituire, per portare loro notizie della famiglia o viceversa, comprese notizie in merito al loro stato di salute. Tra i detenuti che avrebbe aiutato in questo modo figurano anche un boss della camorra e due in regime di alta sicurezza. A un detenuto avrebbe anche prestato un cellulare per comunicare con l’esterno. Gli episodi si sarebbero verificati tra il 2010 e il 2011. Le somme richieste variavano dai 300 ai 3.000 euro. Ha patteggiato la pena a 10 mesi di reclusione, sospesa, anche la moglie di uno dei detenuti, 41 anni di Palermo, chiamata in causa per uno degli episodi in contestazione. Il giudice ha prosciolto un familiare di un altro detenuto, disponendo nel contempo 5 rinvii a giudizio per gli altri imputati. Stralciata la posizione del boss della camorra e di due suoi familiari, per il legittimo impedimento di uno e del difensore degli altri. Rovigo: incontro in Accademia dei Concordi "la prigione è una sconfitta, vi spiego perché" Rovigo Oggi, 30 settembre 2015 Il Centro Francescano di ascolto presenta in Accademia dei Concordi il libro di Livio Ferrari "No Prison. Ovvero il fallimento del carcere". L’appuntamento è per l’8 ottobre alle 17.30 Il libro di Livio Ferrari, edito da Rubbettino sarà presentato giovedì 8 ottobre alle ore 17.30 presso la sala degli arazzi dell’Accademia dei Concordi a Rovigo. Sarà presente l’autore, con Luciano Eusebi, che ha scritto la postfazione, docente di diritto penale dell’Università Cattolica di Milano e della Pontificia Lateranense, che è stato collaboratore a suo tempo con il cardinal Martini sulle problematiche della giustizia. Il libro prende spunto dall’omonimo manifesto, che si trova all’interno, scritto a quattro mani con il professore Massimo Pavarini di Bologna. Cos’è il carcere, oggi e in Italia? La fotografia è impietosa e al tempo stesso eloquente in quanto non lascia scampo a dietrologie e giustificazioni. Sono infatti trascorsi 40 anni dall’approvazione della Legge 354, circa 50 dall’inizio della sua gestazione, "e possiamo affermare senza possibilità di smentita - spiega Ferrari - che è fallita su tutti i fronti. I dati di questo fallimento sono davanti agli occhi di tutti coloro che a vario titolo hanno a che vedere con il mondo penitenziario, e lo sono sia sotto l’aspetto punitivo, che rieducativo, nonché di sicurezza. È necessario ripensare completamente le modalità di esecuzione delle condanne, eliminando innanzi tutto dal nostro lessico il termine "pena", che tanto ricorda la gogna e il suo retaggio culturale e corporale nell’afflizione e sofferenza, ridando dignità agli esseri umani coinvolti, sia ai condannati che agli operatori pubblici e privati". Insomma: l’impianto e le convenzioni che ruotano attorno al mondo della giustizia e della conseguente esecuzione sono da resettare e ricostruire dalla radice. Intanto si parte con un libro. Ferrara: incontro sul teatro-carcere; Horacio Czertok e l’esperienza in Casa circondariale estense.com, 30 settembre 2015 Venerdì 2 ottobre alle 11 alla libreria Ibs+Libraccio, nell’ambito del partecipato al Festival di Internazionale, si terrà l’incontro dibattito "Carcere più Teatro = meno Recidiva. Considerazioni sull’efficacia dell’azione del teatro nelle carceri". All’incontro partecipa Horacio Czertok, maestro e regista del Teatro Nucleo e direttore dal 2006 del laboratorio di teatro nella casa circondariale di Ferrara. Durante l’incontro, a ingresso libero, sarà presentato il volume "Diritti e castighi" di Lucia Castellano e Donatella Stasio. Lucia Castellano, ex direttrice del carcere Opera di Milano, sarà presente al dibattito. Cristina Valenti, docente presso il Dams di Bologna, presenterà la rivista, da lei diretta, "Quaderni del Teatro-Carcere" edita dal coordinamento Teatro-Carcere Emilia-Romagna. Vito Martiello direttore di "Astrolabio", giornale della casa circondariale di Ferrara, presenterà il giornale. Saranno inoltre presenti Andrea Pugiotto, ordinario di Diritto Costituzionale dell’Università di Ferrara, Chiara Sapigni, assessore alla Sanità, Servizi alla Persona del Comune di Ferrara, Marcello Marighelli, garante dei detenuti di Ferrara, Pietro Buffa, provveditore all’Amministrazione Penitenziaria della Regione Emilia-Romagna e Maurizio Pesci, Asp Ferrara. Sabato 3 ottobre alle 13 presso la Casa circondariale di Ferrara, all’interno del programma ufficiale del Festival di Internazionale, nell’ambito del progetto del Coordinamento Regionale Teatro Carcere: "La Gerusalemme Liberata del Tasso nelle carceri di Bologna, Castelfranco Emilia, Ferrara, Forlì, Modena, Parma", il Teatro della Casa Circondariale di Ferrara presenta "Me che libero nacqui al carcer danno" tratto dalla "Gerusalemme liberata" di Torquato Tasso, diretto da Horacio Czertok con la collaborazione di Andrea Amaducci, partitura musicale Federico Fantoni, video di Marinella Rescigno, foto di Luca Gavagna, con: Lesther Batista Santisteban, Desmond Blackmore, Federico Fantoni, Mario Fantoni, Alberto Finessi, Sotirios Kalantzis, Peter Omozogie, Edin Ticic, Simone Zappaterra, attori detenuti della Ccf. Produzione teatro Nucelo, con il patrocinio del Comune di Ferrara/Asp. Scrive il regista: "Dalla Gerusalemme abbiamo scelto di lavorare sul "Combattimento di Tancredi e Clorinda". Ci troviamo l’essenza della tragedia. Combattere senza requie né respiro contro un altro che ci pare un nemico mortale e che ne dà a noi quante ne prende. Finché uno cade affogato nel proprio sangue. E quando la pietà si impone sopra la soddisfazione della vittoria, dell’avercela fatta, scoprire che hai ucciso ciò che più al mondo ami, ciò che fino a quel momento ha dato senso al tuo esistere". "Tanto da capire. La complessità con cui procede il racconto impone la riflessione su molteplici livelli. Cogliamo la sapienza del poeta nel scegliere e fare lavorare le parole e la metrica per costruire i sentimenti. Tutto è lì, in quelle sedici ottave, un messaggio in codice che dobbiamo scoprire. Di storie ne sentiamo tante oggi, dal telegiornale ai vari racconti, ai film e ai serial, persino da certe pubblicità ben costruite ed eseguite - le migliori menti della nostra generazione oggi lavorano per la pubblicità, mica per l’opera lirica. Là nel profondo 600 Tasso aveva solo quello per mostrare tanto, perciò ogni parola è impregnata, ogni verso conta. Prendere in consegna questo testo è accettare che ti modifichi, ti cambi, ti liberi". "Abbiamo lavorato pure con Monteverdi: il combattimento segna la nascita dell’opera lirica, e con questo cimento gli attori, molti provenienti da Paesi diversi, rendono omaggio a uno dei momenti più alti dell’arte italiana e occidentale. Così, la Gerusalemme libera. La parola chiave è: cambiamento. Trasformazione. Come Tancredi cambia, guerriero sanguinario, alla vista dell’amore morto per sua mano ahi vista, ahi conoscenza, così si trasforma l’attore che lo interpreta attraverso la poesia che gli lavora dentro". Libri: "Europa anno zero", l’onda nera del populismo nel vecchio continente di Guido Caldiron Il Manifesto, 30 settembre 2015 "Europa anno zero" di Eva Giovannini per Marsilio. Dall’Inghilterra all’Ungheria, un’inchiesta sulla crescita dei partiti xenofobi e razzisti. Il volume sarà presentato oggi a Roma. Un viaggio scandito da istantanee che documentano impoverimento, marginalità, decadenza e, soprattutto, rancore. In una parola, la crisi economica e sociale del Vecchio continente e il mostro che da questo ventre che ribolle di inquietudine e paura ha iniziato ad emergere con sempre maggiore forza, fino ad assumere i tratti sinistri di una rinascita del nazionalismo e di un’idea della cittadinanza che sembra tornare a volgersi ai miti funesti "del sangue e del suolo". Fenomeni che accompagnano la crescita sul piano politico di un’estrema destra che anche quando non raggiunge, ancora, percentuali di voto significative, vede sempre più spesso le proprie idee "promosse" nella sfera di governo e banalizzate presso l’opinione pubblica, come ha fatto osservare di recente il politologo Cass Mudde, tra i maggiori studiosi dei nuovi populismi europei. Nella sua bella inchiesta dal titolo Europa anno zero. Il ritorno dei nazionalismi, appena pubblicata da Marsilio/ Rai Eri (pp. 208, euro 16) - che sarà presentata mercoledi 30 settembre alle 18,30 al Tempio di Adriano a Roma, con gli interventi dell’autrice, di Laura Boldrini e Lucia Annunziata -, Eva Giovannini propone una geografia ragionata della minaccia che incombe sulle nostre società, approfondendo il lavoro svolto come inviata di Ballarò. Articolato attraverso sei tappe in altrettanti paesi, il percorso della giornalista cerca "di ricostruire in presa diretta", anche grazie ad interviste esclusive ad alcuni dei maggiori leader populisti, da Le Pen a Salvini, cosa stia accadendo, fissando il "fermo immagine di un momento cruciale come pochi altri, dalla caduta del Muro di Berlino, per la tenuta democratica, e non solo economica, del nostro continente". Reso evidente in modo drammatico nelle ultime settimane dalle reazioni violente emerse nei confronti di profughi e migranti, il tema del ritorno sulla scena del feticcio insanguinato dello Stato-nazione, che nel concreto si è materializzato nel moltiplicarsi di "muri" che dovrebbero comprimere, controllare, escludere - a partire da quelli voluti dal premier ungherese Viktor Orbán -, per quanto possa apparire come una sorda eco delle pagine più terrificanti del Novecento, è però tutt’altro che un epifenomeno. Se la cultura alter-globalista mostra per molti aspetti la corda, il "no-global" dei sostenitori delle piccole patrie etniche o produttive, o il nuovo "socialismo degli imbecilli" che mira ad una salvaguardia del welfare solo per i "compatrioti" o in ragione di identità e appartenenze comunitarie, rappresenta un brand in ascesa da tempo. Consapevole di tutto ciò, Giovannini legge lo sviluppo dei populismi xenofobi e delle nuove destre estreme come una sorta di doppelgänger della crisi, non l’unica causa scatenante il fenomeno, ma quella in grado di alimentarlo meglio, assicurandogli una dinamica apparentemente inarrestabile. L’indagine procede perciò su due piani paralleli, destinati ad intersecarsi nel corso del cammino. Da un lato, quello rappresentato dalle conseguenze scaturite dalle grandi ristrutturazioni economiche degli ultimi decenni e dalle politiche di rigore della stagione odierna, e su tutte il consolidarsi della disoccupazione di massa e di nuove povertà e forme di emarginazione; dall’altra, la contemporanea crescita di una propaganda politica in forma di narrazione complottista che offre facili capri espiatori al malessere diffuso, su tutti, migranti e rom - ma anche l’euro e la stessa Unione europea finiscono per assolvere su altri piani alla medesima funzione - e ridisegna i contorni di un gratificante "romanzo nazionale", consolatorio, egoista e regressivo, per società sfigurate dall’austerità economica e dall’assenza di prospettive. Sfilano di fronte a noi le voci e le immagini della Grecia in ginocchio, con i neonazisti di Alba Dorata che continuano a tessere la loro tela d’odio in un’Atene che ha ormai "il volto di un donna percossa". All’angolo opposto del Continente, nell’Inghilterra del sud, scopriamo località balneari orfane di un turismo working-class spazzato via dalla crisi, che ha lasciato dietro di sé "un cimitero di strutture alberghiere dove la sera rimbomba il silenzio". Luoghi divenuti l’epicentro del risveglio sovranista britannico che propone ad una platea di disoccupati e pensionati una sola alternativa: quella tra l’euroscetticismo razzista dello Ukip e la demagogia xenofoba dei Conservatori di Cameron. Passata la Manica, ci si imbatte nel porta a porta martellante del "Front National" nelle periferie sociali e culturali di Francia, le banlieue come le aree rurali, all’ascolto di una popolazione che si sente abbandonata dai partiti tradizionali. La campagna dà i suoi frutti perfino a Clichy sur Bois, dove nel 2005 prese il via la rivolta dei banlieusard, tra i figli e i nipoti dei vecchi immigrati. "Lavoro, pensioni, sicurezza: con queste parole d’ordine Marine Le Pen è penetrata come una nave fendighiaccio perfino in una zona dove la disoccupazione giovanile supera il 40% e la maggioranza delle persone prega Allah". Un altro passo e sono le bandiere tedesche fatte in casa e le teste rasate di Dresda, capitale della Sassonia, ad attirare l’attenzione. Qui, nell’ex Germania Est, dove "il rischio di una bomba sociale e evidente" visto che i redditi medi sono due terzi di quelli dell’Ovest e i disoccupati il doppio del resto del paese, c’era il cuore della mobilitazione anti-islamica di Pegida e ora cova la rivolta contro le politiche di accoglienza di Merkel. Infine, conosciamo la rabbia di chi lavora al mercato del pesce di Catania e si dice vittima della legislazione europea. Matteo Salvini si propone di dare voce anche a questa parte del paese, dopo aver battezzato, previo abbraccio con i fascisti del terzo millennio, la sua nuova Lega "nazionale" all’insegna della marcia delle ruspe sui campi rom. Questo mentre l’Ungheria, "plasmata da cinque anni di governo dell’autocrate nazionalista Viktor Orbán", appare come il vero laboratorio del nuovo populismo europeo. Un "modello" da imitare, come è diventato evidente nelle ultime settimane, e dove ad una svolta autoritaria e nazionalista dell’esecutivo, ha corrisposto il radicarsi nella società degli estremisti razzisti e antisemiti di Jobbik e il diffondersi delle violenze contro i rom. L’itinerario alla scoperta dei "professionisti della paura e del pessimismo, che stanno incassando i dividendi di un’Europa debole e impoverita", volge al termine, e Giovannini si concede un solo auspicio, vale a dire che il progetto politico continentale riveda rapidamente il proprio patto fondativo, dando voce alle istanze dei cittadini, prima che l’onda nera dei nuovi nazionalismi possa travolgerlo. Televisione: il format di Palazzo Chigi che assomiglia a TeleKabul di Stefano Folli La Repubblica, 30 settembre 2015 Le strategie politiche non si riflettono solo nelle grandi scelte, tipo la riforma del Senato e il conseguente referendum finale, concepito già oggi come momento di consacrazione del leader e del suo partito. Anche gli episodi minori sono significativi e talvolta assai rivelatori. È il caso del duro attacco mosso sul "Corriere della Sera" da un parlamentare del Pd, Anzaldi, alla terza rete della Rai e al Tg3. L’accusa è di non essersi accorti che a Palazzo Chigi tutto è cambiato e che Renzi è diverso dai suoi predecessori figli della tradizione comunista o post-comunista. Un tempo si diceva TeleKabul, oggi il tono non è meno aspro. La differenza è che una volta il maggiore partito della sinistra difendeva TeleKabul, mentre oggi l’offensiva viene da ambienti vicini al presidente del Consiglio che è anche segretario del Pd. Al punto che un altro parlamentare, questa volta anonimo, parla della necessità di usare "il lanciafiamme" per abbattere le resistenze di quei conservatori di Saxa Rubra. Qualcuno aggiunge che i programmi della terza rete spesso sono brutti e non si puó abolire il diritto di critica, nemmeno se viene esercitato dai parlamentari. Il che è un argomento sbagliato alla radice. E non si può ignorare che poche ore prima il governatore della Campania, De Luca, si era lanciato in un’arringa verso le stesse trasmissioni con un linguaggio ben più violento di Anzaldi, senza suscitare particolare indignazione. Giorni fa, come è noto, lo stesso presidente del Consiglio non aveva lesinato giudizi pesanti su certi "talk show" a suo dire troppo spostati a sinistra e come tali in perdita di ascolti. Peccato che non sia compito suo o dei sui collaboratori valutare i programmi televisivi e nemmeno reclamare una linea più o meno ottimista, più o meno comprensiva verso il governo. La verità è che la relazione fra stampa e potere è come sempre lo snodo cruciale per capire un passaggio politico. In questo caso la progressiva trasformazione del Pd nel partito di un leader risoluto e poco propenso alle mezze misure. Sia che si tratti di riforme costituzionali sia che il tema coinvolga l’informazione del servizio pubblico. Sul quale peraltro governo e maggioranza si sono garantiti un sicuro controllo istituzionale, senza che sia indispensabile ricorrere alle invettive peroniste. Il faro resta l’opinione pubblica, che Renzi è certo di conoscere e interpretare come nessun altro. E l’opinione pubblica, si ritiene a Palazzo Chigi, è favorevole ai metodi sbrigativi quando c’è da smantellare vecchie trincee e consolidate rendite di posizione. Perché è evidente che Renzi giudica la minoranza del Pd e tutto quello che ne deriva, compreso - a torto o a ragione - il mondo del Tg3, un residuo del passato senza veri legami con la società italiana di oggi. Per cui la frase rivolta ai sindacati dopo lo sciopero degli impiegati del Colosseo ("la musica è cambiata") resta emblematica di un modo di rivolgersi al Paese. Le mediazioni, semmai, riguardano altri terreni: la politica economica, le pensioni, le tasse. Ma nel fondo il messaggio è esplicito: il Pd così com’è non serve più; e non servono nemmeno le sue storiche propaggini nell’informazione di Stato. Ne deriva che la prospettiva può essere solo plebiscitaria: la vittoria personale del leader coincide con il trionfo del "partito della nazione". Che è tale proprio perché rispecchia fino in fondo il leader. I poli sono destinati a "disaggregarsi per poi riaggregarsi in forme nuove", dice il nuovo alleato Verdini, riecheggiando in modo inconsapevole una celebre frase di Moro. Ma Verdini pensa alla disgregazione di Forza Italia da ricomporre nel partito egemone di Renzi. E la sinistra? Nella concezione renziana o si converte o è, appunto, residuale. Tuttavia non è spinta verso la scissione, a meno che per scissione non si intenda la fuoriuscita alla spicciolata, inoffensiva, dei Fassina e dei Civati. Sullo sfondo la Rai è come sempre lo specchio privilegiato di una certa concezione del potere. Oggi la si vuole funzionale a un cambio di stagione politica, quasi come accadde ai tempi di Berlusconi. Quando invece Renzi prometteva di essere alternativo, nel merito e nel metodo, al suo predecessore. Televisione: piccoli Rambo crescono di Vincenzo Vita Il Manifesto, 30 settembre 2015 Chi ha paura di Rai3? Gli spiriti profondi che albergano nel partito democratico sembrano proprio rinverdire gli editti berlusconiani. Naturalmente, dalla tragedia alla farsa il transito può essere veloce. Tuttavia, al di là della loquacità meno paludata del deputato Anzaldi o dell’urlo di guerra del governatore della Campania, non è difficile capire che la bufera è in arrivo. Magari meno spiccia e plateale, ma pur sempre puntuta. E sì, perché la terza rete - quella nazionale, dopo l’esperienza regionale partita nel dicembre del 1979 - è qualcosa di più di un canale televisivo. La nuova era iniziò nel 1987, con la direzione di Angelo Guglielmi. Da quel laboratorio sono scaturite le matrici di grande parte della migliore offerta del servizio pubblico, che ancora resistono al tempo e hanno contaminato nel frattempo le altre reti. Per certi versi accadde qualcosa di analogo con la seconda rete di Massimo Fichera del decennio precedente, ma lì il tema era diversificare il palinsesto troppo omologato dell’ammiraglia. Qui, invece, c’era da proporre la giusta miscela tra informazione (con Sandro Curzi e la squadra combattiva del Tg3) e cultura: "alta" e "bassa", con l’intuizione felice che il consumo moderno richiedeva di abbassare un po’ la prima e di alzare altrettanto la seconda. Non per caso nei media studies se ne scrive molto. Ha senso parlare di una "rete di partito", cui le angoscianti critiche di oggi alludono -con un albo genealogico che correrebbe dal Pci al Pd - supponendo qualche dovuta fedeltà alla "linea" e al segretario? Grottesco e persino surreale. Siamo di fronte a una storia straordinaria, costruita sull’indipendenza, sulla qualità sovversiva, sul rifiuto di qualsivoglia comando. Certamente diversi di coloro che ne hanno inventato e costruito la fisiologia avevano e hanno opinioni e coraggio, ma come una vera e propria tendenza culturale, in grado di dare voce - a esempio- alla prima fase della Lega nord, alla tormentata trasformazione del Msi in Alleanza nazionale, ai movimenti della società prima ancora che assumessero sembianze politiche. È persino impossibile elencare tutto e tutti, trattandosi di un’orchestra ampia e plurale. Insomma, si chiede l’allineamento a chi pratica una sintassi e un’ortografia assai lontane dal classico incrocio con i partiti. In verità, simili attacchi, uniti agli strali contro i talk, rei anch’essi di rompere il conformismo, ci interpellano sulla situazione reale dell’Italia in crisi. È comprovato che, quando si è costretti a richiamare la "linea", è quest’ultima che mostra crepe vistose. E di questo dovrebbero preoccuparsi coloro che indossano ora l’innaturale abito dei censori. Ha risposto alle polemiche con efficacia l’attuale direttore della rete "incriminata" Andrea Vianello. E così ha fatto anche Riccardo Iacona, la cui eccellente trasmissione Presadiretta è pure "attenzionata". Hanno giustamente sottolineato i rappresentanti della Federazione della stampa e dell’UsigRai, sentiti dalle commissioni parlamentari sulla (contro)riforma del servizio pubblico, che meglio sarebbe se il governo ripensasse il testo varato lo scorso luglio dal Senato. Che, con la sua smania di accentramento della guida aziendale sull’amministratore delegato, deve aver dato alla testa degli emuli diffusi dell’"uomo solo al comando". Rambo batte i talk del martedì e non c’è da stupirsi. Del resto, lo stesso Renzi nel salotto di Vespa nella prima stagionale del 7 settembre le buscò da "Buongiorno papà". È la politica che non va. Così è, se vi pare. Ius soli all’italiana di Luca Fazio Il Manifesto, 30 settembre 2015 Diritti. È in discussione alla Camera la nuova legge sulla cittadinanza proposta dalla maggioranza (Pd, Ncd, Scelta Civica) per facilitare un diritto che si dovrebbe acquisire per nascita sul territorio italiano. Peccato che si tratti di una corsa a ostacoli per quei i genitori stranieri che hanno avuto un figlio in Italia. Per le associazioni che hanno proposto la campagna sulla cittadinanza si tratta di "un compromesso molto al ribasso". Nei prossimi giorni tornerà alla Camera l’esame della nuova legge sulla cittadinanza proposta dal governo (Pd, Ncd, Scelta Civica) per facilitare - si fa per dire - quel diritto che si dovrebbe acquisire per nascita sul suolo italiano. Riguarda i bambini piccoli, i ragazzini nati in Italia che frequentano le scuole italiane e che da anni vivono e giocano con i loro coetanei indigeni. Difficile chiamarli stranieri, ma per il "nostro" paese non sono ancora italiani. Bene, era ora. Si tratta forse, finalmente, di una buona legge per accontentare almeno un poco quell’elettorato "di sinistra" che in questi due anni con Matteo Renzi al governo ha ingoiato di tutto? Tutt’altro. Le associazioni e le organizzazioni che più di un anno fa hanno promosso la campagna per i diritti di cittadinanza "L’Italia sono anch’io" parlano di "compromesso molto al ribasso", dicono che è "meglio di niente", e "ci aspettavamo qualcosa di più ma è un passo avanti". In effetti si tratta di una sotto specie di Ius soli all’italiana, un combinato di parametri restrittivi che disegna una corsa a ostacoli complicata per quei genitori che vorrebbero chiedere la cittadinanza per il figlio nato in Italia. Molto probabilmente ce la faranno le famiglie già integrate, con un reddito garantito e una casa decente (e con un figlio diligente: chi viene bocciato a scuola, infatti, non può diventare cittadino italiano). Insomma, come si sarebbe detto una volta, è un’idea di cittadinanza un tantino "classista". Il testo in discussione prevede il riconoscimento per nascita a quei minori che abbiano almeno un genitore in possesso di "un permesso Ue per soggiornanti di lungo periodo" (cinque anni). Dunque non basta più la residenza legale in Italia da almeno cinque anni. Inoltre, per ottenere la cittadinanza i genitori devono avere un reddito non inferiore all’importo annuo dell’assegno sociale, devono vivere in una casa che risponda ai requisiti di idoneità previsti per legge (anche igienico sanitari) e anche superare un test di conoscenza della lingua e della cultura italiana. In più, mamma e papà devono essere "non pericolosi per l’ordine pubblico o la sicurezza dello Stato". Insomma, chi è povero, chi è figlio di un lavoratore in nero, chi abita in una casa malmessa (per ovvi motivi), o chi è figlio di persone che hanno avuto a che fare con la giustizia non ce la farà mai. Sarà possibile correggere il tiro? Difficile, anche se ieri, con una conferenza stampa convocata alla Camera, alla presenza della relatrice del ddl Marilena Fabbri (Pd), ventitré associazioni hanno chiesto che alla fine della discussione si arrivi a "una legge più avanzata". In particolare viene contestato il fatto che il provvedimento si rivolga soltanto i minori escludendo di fatto coloro che qui in Italia ormai sono diventati adulti. Nel testo, infatti, ancora non è chiaro come verrà risolta la questione della retroattività: le nuove regole varranno solo per le persone nate in Italia dal momento dell’entrata in vigore della nuova legge o saranno valide anche per chi è nato qui in precedenza? Altro punto sgradito, il permesso di soggiorno di lunga durata, non fosse altro per il fatto che il 50% degli stranieri residenti in Italia ne è sprovvisto e quindi verrebbe tagliato fuori dalla nuova legge: "Il requisito è discriminante perché solo la metà dei bambini avrebbe diritto alla cittadinanza", dice Kurosh Danesh della Cgil. Critiche sono state espresse anche su quella sorta di "reddito minimo" richiesto alle famiglie. Ciononostante, forse considerata la miseria culturale che ispira questa sorta di selezione della specie proposta dal governo, c’è anche chi tutto sommato si ritiene soddisfatto. "L’intesa della maggioranza sul ddl è un segnale positivo - spiega Isaac Tesfave della Rete G2 - e ora bisogna provare a migliorare il testo". Anche la deputata di Sel Celeste Costantino sottolinea la stessa necessità e annuncia la presentazione di cinque emendamenti. Filippo Miraglia (Arci) punta il dito contro diversi elementi discriminanti del ddl ma non nasconde le difficoltà di ragionare sul tema delle migrazioni con questo governo, e con quello che si agita all’opposizione. "Non ci piace, ma è un passo avanti". Ventimiglia: blitz all’alba, sgomberato il presidio dei migranti sugli scogli Corriere della Sera, 30 settembre 2015 La polizia e i carabinieri sono intervenuti alle prime ore del giorno: 200 uomini e camionette per rimuovere la tendopoli. Un gruppo di militanti ancora sugli scogli. Sgomberato all’alba l’accampamento di migranti e attivisti "no border" al confine tra l’Italia e la Francia, a Ventimiglia. Erano circa un centinaio gli stranieri ancora accampati insieme a militanti dei centri sociali in un presidio durato circa cento giorni. Una cinquantina tra migranti e attivisti, soprattutto francesi, si sono nuovamente rifugiati sugli scogli, guardati dagli agenti. "Non ce ne andiamo, resistiamo sugli scogli", dicono via Twitter dall’account NoBorder Ventimiglia. Alle prime ore del mattino polizia e carabinieri sono intervenuti con circa 200 uomini e decine di blindati, circondando la tendopoli organizzata dagli attivisti italiani e francesi che ospitava gli immigrati. Non ci sono stati episodi di resistenza o violenza, dicono le forze dell’ordine. Il presidio è stato sgomberato ma, come detto, alcuni attivisti rimangono ancora sugli scogli. Dopo giorni di tensioni e polemiche, dal 13 giugno la polizia francese ha bloccato il confine impedendo a profughi e migranti arrivati a Ventimiglia di attraversare. Di fronte al tentativo della polizia di sgomberare l’accampamento che si era formato sulla aiuole del varco di San Ludovico, circa un’ottantina di immigrati erano scappati sulla scogliera, pronti a tuffarsi in mare. Era iniziata così la cosiddetta "rivolta degli scogli" che è stata a lungo al centro dell’attenzione nazionale e non solo. Poi, col tempo, la situazione è cambiata ma è rimasta una "tendopoli" in cui, accanto ai migranti, c’erano attivisti "no border" che aiutavano le persone presenti con assistenza di vario tipo. Nei giorni scorsi c’era stato anche un tentativo di "forzare" il confine ma i militanti erano stati respinti. La Liguria, governata da Giovanni Toti, chiedeva lo sgombero del presidio. Le porte aperte dell’Europa per i migranti (se sono ricchi) di Paolo Valentino Corriere della Sera, 30 settembre 2015 I migranti economici non sono tutti uguali, nemmeno per l’Unione europea: se sono sufficientemente facoltosi da potersi "comprare" una nazionalità, l’ingresso è rapido. E garantito. Una delle distinzioni più discusse e causa di polemica nella vicenda dei migranti è quella tra profughi (persone in fuga da guerre e atroci dittature) e immigrati economici, disperati in fuga dalla miseria e in cerca di una nuova opportunità di vita. I primi, secondo la narrativa dominante, vanno accolti come impongono le convenzioni internazionali, i secondi andrebbero rimpatriati, come se la prospettiva della fame o della carestia non sia motivo degno per affrontare i nuovi cammini della speranza. Eppure non tutti i migranti economici sono così indesiderati. Alcuni sono più uguali di altri. E molti Paesi fanno a gara per accaparrarseli. Collezionisti di passaporti. È la nuova élite globale, parte di quell’1% della popolazione del pianeta nelle cui mani si concentra una fetta sempre più cospicua e smisurata della ricchezza mondiale. Da sempre votati all’acquisto di proprietà immobiliari, opere d’arte, gioielli - talismani della loro sicurezza economica - i moderni paperoni hanno scoperto una nuova forma di bene rifugio: dimenticate ville, quadri e diamanti, adesso collezionano passaporti. Una corsia preferenziale da 2 miliardi. È in crescita esponenziale il numero di ricchi investitori, disposti a spendere diversi milioni di euro per mettersi in sicurezza da situazioni politiche o economiche instabili nei loro Paesi d’origine. Sono in gran parte milionari e miliardari delle economie emergenti, Cina, Russia, Paesi mediorientali, nazioni asiatiche o sudamericane, ansiosi di trovare usbergo per se e i propri familiari in luoghi stabili, dove i sistemi giuridici, economici ed educativi mettono al riparo da sorprese. Con meno disdegno dei loro emuli più poveri, tecnicamente vengono definiti "cittadini economici". Nel 2014 hanno speso più di 2 miliardi di dollari per assicurarsi un secondo o terzo passaporto e la domanda è così alta da aver innescato un vera e propria corsa tra i Paesi che offrono corsie preferenziali per ottenere visti di lunga durata o la cittadinanza tout- court a prezzi sempre più alti. Le tariffe. All’inizio, trent’anni fa, fu l’isola caraibica di St. Kitts a lanciare per prima il Citizen Investment Program, in base al quale ancora oggi per avere il passaporto basta acquistare una proprietà da 400 mila dollari. Molto più contese sono le offerte di cittadinanza di Paesi dell’Unione europea, come Malta, Spagna, Portogallo, Grecia e Cipro, privilegiate porte di accesso allo spazio di Schengen e ai suoi vantaggi. Vediamo alcune tariffe: per avere la cittadinanza maltese, bisogna pagare 650 mila euro, oltre ad acquistare proprietà immobiliari per almeno 350 mila e titoli pubblici per 150 mila, senza nessun vincolo di residenza. Un successone: nei primi sei mesi del programma, 200 persone hanno sottoscritto il programma, con un incasso di oltre 200 milioni di euro per il governo di La Valletta. A Cipro, la cifra dell’investimento complessivo sale di molto, 5 milioni di euro per un passaporto, ma non c’è alcun obbligo. Spagna, Portogallo e Regno Unito. Le condizioni cambiano nella penisola iberica: in Portogallo, dove l’investimento immobiliare richiesto è di 500 mila euro, si può richiedere la cittadinanza solo dopo 6 anni e occorre avere anche una conoscenza colloquiale della lingua. La Spagna ha lanciato un anno fa il programma "Golden Visa" per cittadini extracomunitari: anche qui occorrono almeno 500 mila euro di investimento, ma c’è in più il vincolo di passare almeno 183 giorni l’anno dentro i confini spagnoli. Nell’Unione europea, ma fuori da Schengen, anche il Regno Unito partecipa alla gara: occorrono infatti 2 milioni di sterline per ottenere, dopo 5 anni, il permesso di residenza illimitato. Ma di recente il governo di Sua Maestà ha inaugurato una corsia veloce, dove per 5 milioni di pound il permesso ve lo danno in 3 anni e per 10 milioni in appena 2: un affare. Interessante notare che la metà dei "visti Vip" del governo britannico sono andati fin qui a ricconi russi e cinesi. "La cittadinanza non può essere in vendita". "Avere più passaporti è un modo per i ricchi di diversificare ulteriormente il rischio", spiega Christian H. Kalin, presidente di Henley & Partners, società di consulenza londinese specializzata nel settore. Ma la pratica del passport-shopping solleva anche molte obiezioni, non ultimo perché ha un forte lato negativo: quello di essere un potenziale porto sicuro per chi ha costruito la propria fortuna sulla corruzione o su attività illegali. Nel 2013, l’allora Commissario europeo responsabile per la giustizia, Viviane Reading, fu molto esplicita in proposito: "La cittadinanza non può essere in vendita". "Li paghiamo perché arrivino". Secondo i fautori del programma, invece, i visti permanenti per i miliardari globali portano molti benefici ai Paesi ospiti: gli "economic citizens" infatti investono in nuove aziende, comprano nuove case, spendono in ristoranti, moda, scuole e personale. "In più portano competenze e talento", dice Nadine Goldfoot, avvocato del gruppo Fragoment. Ma secondo David Metcalf, docente della London School of Econimics e membro del Migration Advisory Committee, questi vantaggi sono annullati dall’aumento dei prezzi delle case e dei servizi, prodotto dall’arrivo di investitori che non badano a spese. Inoltre, spiega Metcalf, gli interessi versati dallo Stato sui titoli pubblici, che sono parte dell’investimento richiesto per avere il visto permanente, significano "pagare di fatto gli oligarchi perché vengano nel Regno Unito". L’Europa che invecchia salvata dai migranti, senza nuovi lavoratori l’industria è a rischio di Stefan Von Borstel, Martin Greive e Benno Müchler La Repubblica, 30 settembre 2015 La crisi demografica. L’Ocse: entro il 2020 la popolazione in età produttiva calerà di 7,5 milioni di unità. Il maestro artigiano Ulrich Benke è entusiasta del suo nuovo apprendista. È sveglio e molto diligente. "Quello che vorrei anche nei miei apprendisti tedeschi. Lui ha qualcosa in più". Yamoussa Sylla, un ragazzo della Guinea, è arrivato in Germania da solo, a 15 anni, come profugo. Ora il giovane, che parla perfettamente tedesco, sta svolgendo un tirocinio come saldatore presso l’azienda di laminati Benke, a Schwerte, nella Renania Settentrionale-Vestfalia. Secondo l’Ocse, quest’anno un milione di persone verrà in Europa in cerca di asilo. Non sono mai stati così tanti dai tempi della Seconda guerra mondiale. Solo la Germania attende fino a 800 mila profughi - uno su due con meno di 25 anni. Molti Paesi della Ue vedono i profughi come una minaccia e si chiudono, mentre i migranti possono essere un arricchimento, come dimostra l’esempio di Yamoussa Sylla. Possono contribuire perlomeno ad attenuare il problema demografico della Germania e dell’Europa. Si prevede che già fra il 2013 e il 2020 la quota di popolazione in età lavorativa in tutta Europa calerà di circa 7,5 milioni, mentre in tutti gli Stati dell’Ocse crescerà nella medesima proporzione. "La realtà oggi è tale che in molti Paesi dell’Ue il fabbisogno dei rispettivi mercati del lavoro non può più essere coperto con manodopera esclusivamente indigena", ha scritto la Commissione europea in un rapporto dell’anno scorso. Perciò l’Europa, nel suo stesso interesse, deve poter contare su profughi come Yamoussa Sylla. Oggi in Germania i richiedenti asilo sono accettati più che negli anni Novanta. Ciò è dovuto anche al fatto che allora la pressione demografica non era forte come oggi. Nel confronto internazionale l’invecchiamento della società tedesca è particolarmente drammatico. La Fondazione Bertelsmann ha recentemente stimato che per mantenere stabile fino al 2050 il numero dei suoi lavoratori e il suo sistema sociale, la più grande economia europea ha un fabbisogno netto annuo di mezzo milione di immigrati. Perciò l’artigianato tedesco accoglie a braccia aperte i richiedenti asilo. Quest’anno l’economia tedesca non è in grado di assegnare decine di migliaia di posti di apprendista perché non ci sono richieste. Il numero dei diplomati si sta riducendo e sempre più giovani decidono di iscriversi all’università. Perciò i profughi, che possono dare una mano, sono benvenuti. "I giovani sono molto motivati", dice il presidente della camera dell’artigianato di Dortmund, Berthold Schröder. Per loro, poter imparare a fondo un mestiere da artigiano è una grande opportunità". Nel suo distretto venti richiedenti asilo stanno ricevendo una formazione nell’ambito di un progetto pilota. Imparano, fra gli altri, i mestieri di falegname, carpentiere, elettricista o meccatronico autoriparatore - professioni nelle quali poi potranno aiutare la ricostruzione dei loro Paesi, come sottolinea la camera dell’artigianato. Per la durata della loro formazione sono "ammessi" in Germania, anche se non sono ancora profughi riconosciuti, e non possono essere espulsi. Anche in altre città sono stati avviati progetti come quello di Dortmund. Così la Berliner Stadtmission intende fornire ai profughi, al più tardi entro l’inizio del prossimo anno, una formazione professionale come tecnici e venditori di biciclette. Già da due mesi, in un’officina presso la stazione centrale, i profughi riparano biciclette offerte. Al giovane siriano Baschar Albdiwi piacerebbe imparare come si assemblano le componenti delle biciclette. Abita in un caseggiato nei pressi dell’officina "Rückenwind - Biciclette per profughi", un’associazione senza fini di lucro gestita da giovani berlinesi, che intende collaborare al progetto della Berliner Stadtmission. "In Germania vorrei diventare costruttore meccanico", dice Albidwi. In Siria i suoi voti erano sufficienti soltanto per imparare la seconda delle sue professioni preferite, cioè un impiego nel settore alberghiero. Però a causa della guerra è stato costretto ad interrompere dopo poco più di un anno il corso di studi quinquennale e a fuggire. Ora Albidwi spera in una vita migliore in Germania. Molto dipende dal successo che potrà avere il tentativo di integrare nel mercato del lavoro i richiedenti asilo come lui. Gli esperti dell’Ocse elencano quello che è necessario a questo scopo: "I profughi hanno bisogno di corsi di tedesco, di assistenza intensiva, di una tempestiva valutazione delle loro capacità. Hanno bisogno di accedere al sistema formativo, devono essere risolti i loro problemi sanitari e sociali e, non ultimo, i datori di lavoro devono dare ai richiedenti asilo un’opportunità di impiego". L’economia è senz’altro preparata a tutto questo. Tuttavia, i politici e gli studiosi mettono in guardia da un’eccessiva euforia. Il ministro federale degli Interni, Thomas de Maiziere ( Cdu), è convinto che l’afflusso di profughi non sia la panacea contro il rapido invecchiamento e il calo a lungo termine della popolazione tedesca. "In Germania mancano operai specializzati e qualificati - non abbiamo bisogno di quelli privi di qualifiche", dice anche l’esperto di mercato del lavoro Bernd Raffelhüschen. "Le esperienze delle precedenti crisi dei profughi hanno dimostrato che i migranti possono dare un contributo prezioso al benessere economico e sociale", scrive anche l’Ocse nel suo più recente rapporto sull’emigrazione. Comunque, Yamoussa Sylla è contento di trovarsi nell’azienda di venti persone di Schwerte. Forse, spera il ragazzo, dopo il suo apprendistato potrò fare il capo. "O addirittura creare una mia azienda". Droghe: relazione governativa di transizione di Leopoldo Grosso Il Manifesto, 30 settembre 2015 La Relazione annuale al Parlamento sulla questione "droga" costituisce un debito informativo che la legge, la 309 del ‘90, impone al Governo con l’obiettivo di monitorare un fenomeno in continua e veloce trasformazione e di suggerire al Legislatore le indicazioni più opportune di cambiamento. Dalla voluminosa Relazione del 2015, appena pubblicata, si sottolineano "a caldo" tre aspetti, due di contenuto e uno di metodo. Dal questionario Espad, che indaga il consumo di sostanze psicoattive tra gli studenti dai 15 ai 19 anni rispetto al mese precedente all’intervista, guardando ai consumi nell’ultimo mese, si ha la conferma che la cannabis forma, insieme al tabacco e all’alcol, la "triade" di sostanze psicoattive di gran lunga più utilizzate dalla stragrande maggioranza dei consumatori. Quasi uno studente su sei (15,9%) ha utilizzato cannabis negli ultimi 30 giorni, uno su tre-quattro (29%) fuma tabacco, uno su due (54,2%) assume bevande alcoliche. Al contrario, tutte le altre sostanze psicoattive illegali, cocaina compresa, sono tutte sotto la linea di consumo dell’1%. La cannabis non è quindi l’anticamera dell’eroina e il suo consumo e abuso si configurano molto più simili a quello di tabacco e alcol, per cui si rende necessario realizzare misure di prevenzione e di promozione alla salute anziché di mera repressione. L’indebolimento dei servizi. L’utenza di 164.000 persone in cura presso i servizi pubblici e del privato-sociale è rimasta stabile in questi ultimi anni, tra consumatori d’eroina e oppiacei (71%), utilizzatori di cocaina (16,9%), alcol-dipendenti, consumatori di cannabis e giocatori d’azzardo patologici. Ciò che si riducono sono invece le risorse a disposizione dei servizi. Per via dei ripetuti tagli lineari alla sanità, il personale, sia dei Serd che del privato-sociale, non ha ricambi. Ne risente la qualità delle prestazioni: gli utenti tossicodipendenti non testati per l’Hiv aumentano al 66,1%, più 7% rispetto all’anno precedente. Ma sono soprattutto le funzioni della riabilitazione e della prevenzione, a essere maggiormente colpite: un milione di euro in meno (su sei!) per i reinserimenti lavorativi, ed un taglio alla prevenzione primaria del 44,2% e del 38,9% a quella secondaria. La metodologia della Relazione. Rispetto a quest’ultimo aspetto, si coglie una importante discontinuità nei confronti della "reggenza" Giovanardi-Serpelloni, ma permangono ancora troppi lasciti della "vecchia macchina". Da un lato si prende atto, con prudenza anziché onnipotenza, dei limiti intrinseci della rilevazione dei dati e delle stime conseguenti, si dà ampio spazio alla trasparenza delle fonti informative e dei metodi utilizzati, ci si adegua agli standard europei dell’Osservatorio di Lisbona, si reintroduce l’approccio della Riduzione del danno e si costruisce una Relazione maggiormente partecipata. Dall’altro lato alcuni studi appaiono ridondanti (rispetto alle stime dei consumi), altri meno attendibili (le rilevazioni sulla popolazione generale tramite questionario postale che ottengono risposte del 16%), altre ancora di dubbia utilità e significatività (le stime di consumatori problematici "eleggibili" al trattamento), altri infine lacunosi (i dati sui risultati dei trattamenti da parte dei Serd, delle comunità e del carcere). Manca infine un ampliamento di sguardo su fenomeni che per troppo tempo ignorati, pur ben documentati da ricerche anche nazionali, di cui non si è tenuto conto, come il fenomeno affatto secondario dell’autoregolazione dei consumi da parte di chi fa uso di sostanze psicoattive. Il social network della cannabis: così l’erba si compra online di Riccardo Luna La Repubblica, 30 settembre 2015 Boom di startup per i consumatori e per chi ne ha bisogno per curarsi. Per la marijuana è arrivato il "momento startup": il momento in cui i giovani imprenditori applicano il loro talento e le tecnologie digitali per costruire nuove aziende, legali naturalmente, basate sulla coltivazione, la distribuzione, il commercio e il consumo dell’erba più famosa del mondo: la cannabis. Tecnicamente, uno stupefacente; in molti paesi, una droga e quindi vietata. Ma negli Stati Uniti, anche grazie alla spinta di alcuni referendum popolari, le cose stanno cambiando. In fretta. Quanto in fretta lo si è visto all’ultimo "Tech Crunch Disrupt" di San Francisco. Di fatto è l’Olimpiade degli startupper: si candidano in migliaia, ne vengono scelti 25 per la selezione finale, e poi in sei si giocano il titolo di campione, ovvero 50 mila dollari ed una coppa che di solito attira investimenti milionari dei venture capitalist. La settimana scorsa l’evento annuale è andato in scena al " Pier 70" di San Francisco, un monumentale edificio affacciato sulla baia, che un tempo aveva un utilizzo industriale e oggi è tutto ruggine e polvere. Invaso di ragazzi che sognano di diventare milionari, ha il suo fascino. Che fosse un’edizione speciale lo si è capito dal primo giorno quando sul palco è salito Snoop Dogg, il famosissimo rapper. Era lì per lanciare una nuova piattaforma editoriale "Merry Jane": "Mary Jane" è uno dei modi popolari di chiamare la marijuana; "Merry Jane" è per mettere in evidenza l’uso felice ("merry", come il Natale) dell’erba. "Lo faccio per far uscire i consumatori dal gabinetto e fargli ammettere con tutti che gli piace fumare". Praticamente, un social network per fare outing. Sarà online a fine ottobre, per ora ci si può solo iscrivere lasciando la propria mail. Ma la sorpresa è stata la gara. La vittoria finale se la sono giocata una startup legata agli orti, Agrilyst (che poi ha vinto), e la prima startup del mondo dedicata alla marijuana. Si chiama GreenBits e di fatto è un software gestionale che aiuta i commercianti che vendono l’erba. Lo ha realizzato un giovane genietto del digitale: si chiama Ben Curren, ed è da poco diventato milionario vendendo la sua precedente startup, Outright (una piattaforma per gestire operazioni finanziarie) al colosso Go Daddy. Insomma era ricco, Ben Curren, e si annoiava. Ha bussato alle porte di Google, ha costruito dei droni, ma dopo un po’ si è accorto che sognava solo la sua prossima startup: "Allora ho riguardato i miei appunti sul telefonino e ho trovato questa frase, segui l’evoluzione dell’industria della cannabis. E ho pensato che fosse arrivato il momento di realizzare uno strumento che consentisse ai negozi di comprare e vendere marijuana in maniera facile e sicura con una app sul proprio iPad". In effetti in America su questo fronte è in corso una trasformazione che può diventare rivoluzione culturale. Non solo quattro stati (Colorado, Oregon, Alaska e Washington) hanno legalizzato la vendita e il possesso di marijuana anche per uso non medico; molti altri sono andati verso la depenalizzazione sulla spinta dell’opinione pubblica che a larga maggioranza spinge in questa direzione. I risultati sono clamorosi: a settembre il Colorado ha fatto sapere che le entrate fiscali dovute alla cannabis sono quasi raddoppiate in un anno (da 76 milioni di dollari nel 2014 ai 125 previsti entro il 2015) e hanno superato quelle per gli alcolici; un successo che motiva l’istituzione di un "tax free day", un giorno in cui fumare senza tasse (il 16 settembre scorso). E nel South Dakota, in un territorio abitato dagli indiani Sioux, aprirà il primo resort dedicato alla marijuana, con un bar dove ordinarla e un lounge dove fumare in santa pace. In questo contesto effervescente, nel quale una ricerca dell’università del Michigan sostiene che fra i ragazzi il "fumo" di erba sia diventato più popolare delle sigarette " perché fa meno male", la startup di Ben Curren potrebbe avere successo ed essere la prima di una lunga serie. Infatti in Italia sta per debuttare "Let’s Weed", che si candida a diventare il primo riferimento online per i consumatori di cannabis a fini terapeutici. L’impressione è che questa storia sia solo all’inizio. Verso l’Italia le nuove atomiche Usa di Manlio Dinucci Il Manifesto, 30 settembre 2015 Stanno per arrivare in Italia le nuove bombe nucleari statunitensi B61-12, che sostituiscono le precedenti B61. Lo conferma autorevolmente da Washington, con prove documentate, la Federazione degli scienziati americani (Fas). Lo scienziato nucleare Hans Kristensen, direttore del Nuclear Information Project alla Fas, scrive che è in corso a tale scopo l’upgrade della base della U.S. Air Force ad Aviano (Pordenone) e di quella di Ghedi Torre (Brescia). Lo prova una foto satellitare, che mostra la costruzione ad Aviano di una doppia barriera attorno a 12 bunker con copertura a volta, dove gli F-16C/Ds della 31st Fighter Wing Usa sono pronti al decollo con le bombe nucleari. Analoghi preparativi sono in corso nella base aerea tedesca di Buchel, dove si stanno ristrutturando le piste, dotandole di nuove strumentazioni: documenti del Pentagono, citati dalla televisione pubblica tedesca Zdf, mostrano che la base sta per ricevere le nuove bombe nucleari B61-12. Lo stesso - documenta la Fas - avviene nella base aerea turca di Incirlic, dove sono in corso lavori per rafforzare "l’area Nato" dotata di 21 bunker, che accoglierà le nuove bombe nucleari. Si stanno rafforzando anche le basi nucleari in Belgio e Olanda, in attesa della B61-12, testata lo scorso luglio nel poligono di Tonopah in Nevada, dove si svolgeranno entro l’anno gli altri due test necessari per la messa a punto della bomba. Non si sa quante B61-12 saranno schierate in Europa e Turchia. Secondo le ultime stime della Fas, gli Usa mantengono oggi 70 bombe nucleari B61 in Italia (50 ad Aviano e 20 a Ghedi), 50 in Turchia, 20 rispettivamente in Germania, Belgio e Olanda, per un totale di 180. Nessuno sa però con esattezza quante effettivamente siano: ad Aviano, ad esempio, ci sono 18 bunker in grado di stoccarne oltre 70. Tantomeno si sa quante bombe nucleari si trovino a bordo delle portaerei Usa nei porti e nelle acque territoriali europee. Il programma del Pentagono prevede la costruzione di 400-500 B61-12, con un costo di 8-12 miliardi di dollari. Importante non è però solo l’aspetto quantitativo. Intervistato dalla Zdf, Hans Kristensen conferma quanto scriviamo da anni (vedi il manifesto, 23 aprile 2013): quella che arriverà tra non molto in Italia e in altri paesi europei, non è una semplice versione ammodernata della B61, ma una nuova arma nucleare polivalente, che sostituirà le bombe B61-3, -4, -7, -10 nell’attuale arsenale nucleare Usa. La B61-12, con una potenza media di 50 kiloton (circa il quadruplo della bomba di Hiroshima), svolgerà quindi la funzione di più bombe, comprese quelle penetranti progettate per "decapitare" il paese nemico, distruggendo i bunker dei centri di comando e altre strutture sotterranee in un first strike nucleare. A differenza delle B61 sganciate in verticale sull’obiettivo, le B61-12 vengono sganciate a grande distanza (circa 100 km) e si dirigono verso l’obiettivo guidate da un sistema satellitare. Si cancella così, in gran parte, la differenza tra armi nucleari strategiche a lungo raggio e armi tattiche a corto raggio. Nell’intervista alla Zdf, il direttore del Nuclear Information Project della Fas dichiara che gli alleati europei (Italia compresa), consultati da Washington, hanno approvato lo schieramento in Europa delle bombe nucleari Usa B61-12. Anche la Germania, nonostante che il Bundestag avesse deciso nel 2009 che gli Usa ritirassero tutte le loro armi nucleari dal territorio tedesco. L’ex sottosegretario di Stato tedesco Willy Wimmer (già portavoce per la Difesa nella Cdu, lo stesso partito della cancelliera Merkel, la quale ha ignorato la decisione del Bundestag), ha dichiarato che lo schieramento delle nuove bombe nucleari Usa in Germania costituisce "una consapevole provocazione contro il nostro vicino russo". Non c’è quindi da stupirsi che la Russia prenda delle contromisure. Alexander Neu, parlamentare di Die Linke, ha denunciato che la presenza dell’arsenale nucleare Usa in Germania viola il Trattato di non-proliferazione delle armi nucleari. Ciò vale anche per l’Italia. Gli Stati Uniti, quale Stato in possesso di armi nucleari, sono obbligati dal Trattato a non trasferirle ad altri (Art. 1). Italia, Germania, Belgio, Olanda e Turchia, quali stati non-nucleari, hanno l’obbligo di non riceverle da chicchessia (Art. 2). Per di più, nel 1999, gli alleati europei firmarono un accordo (sottoscritto dal premier D’Alema senza sottoporlo al Parlamento) sulla "pianificazione nucleare collettiva" della Nato, in cui si stabilisce che "l’Alleanza conserverà forze nucleari adeguate in Europa". Hans Kristensen conferma, inoltre, che a Ghedi Torre sono stoccate le bombe nucleari Usa "per i Tornado italiani". Piloti italiani, analogamente a quelli degli altri paesi che ospitano tali bombe, vengono addestrati all’attacco nucleare sotto comando Usa. Non a caso l’esercitazione Nato di guerra nucleare, la Steadfast Noon, si è svolta nel 2013 ad Aviano e nel 2014 a Ghedi-Torre. A quest’ultima hanno partecipato anche cacciabombardieri F-16 polacchi. Poiché a fornire le bombe nucleari ci pensano gli Usa, i paesi che le ospitano si accollano (per i due terzi o totalmente) le spese per il mantenimento e l’upgrade delle basi. Paghiamo così, anche economicamente, la "sicurezza" che ci forniscono gli Usa schierando in Europa le loro armi nucleari. Ancora quattro italiani prigionieri in Guinea, venerdì fiaccolata davanti al Vaticano di Francesca Musacchio Il Tempo, 30 settembre 2015 Il dossier con le accuse formali non è ancora arrivato, mentre la Farnesina e l’Ambasciata in Camerun con delega in Guinea stanno seguendo il caso con estrema attenzione. Di fatto, però, cinque italiani sono bloccati da marzo nel paese africano, alcuni in carcere altri privati del passaporto, considerati colpevoli di reati di cui ancora i legali non hanno piena contezza. Si tratta dei romani Filippo e Fabio Galassi, padre e figlio, Fausto e Daniel Candio (anche loro padre e figlio) e di un quinto uomo che ha scelto di non divulgare le proprie generalità per motivi familiari. Lunedì scorso davanti all’Ambasciata della Guinea a Roma si è svolta una manifestazione in solidarietà dei nostri connazionali e venerdì, alle 20.30, si svolgerà anche una fiaccolata in via della Conciliazione. L’ansia della famiglia cresce di giorno in giorno. Carla Strippoli e Patrizia Galassi, madre e sorella rispettivamente di Filippo e Fabio Galassi, attraverso Il Tempo hanno già lanciato un appello alle istituzioni "perché si occupino dei nostri familiari detenuti in Guinea. Non si sa per quale motivo sono in carcere da mesi senza un capo di imputazione. È dal 21 marzo che un uomo di 61 anni si trova in un carcere della Guinea equatoriale. La nostra è una vita lacerata". La vicenda ha mosso anche la politica. "Esprimiamo piena solidarietà e sostegno ai famigliari dei 5 italiani sequestrati da mesi, senza neanche un capo d’imputazione. Puntiamo il dito contro la Farnesina e i passi, peraltro risibili, della diplomazia italiana, peraltro già artefice del "capolavoro" sui marò: chiediamo luce su questa assurda vicenda", hanno dichiarato in una nota il consigliere regionale del Lazio Fabrizio Santori e l’ex vicepresidente del Consiglio comunale di Roma, Fabio Sabbatani Schiuma, rispettivamente presidente onorario e segretario nazionale del movimento Riva Destra. "Le interpellanze parlamentari presentate dai democratici - hanno aggiunto - sono lacunose e contraddittorie: a tal proposito stiamo fornendo nuovi dati per ripresentarne altre, più complete e chiare". L’incubo di Fabio e Filippo è iniziato il 21 marzo scorso, quando la polizia guineana li ha arrestati con l’accusa di tentare la fuga dal paese con le valigie cariche di soldi. Non è chiaro se questo denaro, ove mai fosse esistito, è considerato il frutto di una truffa, di una frode o forse un furto. In ogni caso quello che lega i cinque italiani è il fatto di essere dipendenti dell’azienda General Work, con sede appunto in Guinea, e che sarebbe stata in gravi difficoltà economiche. In ogni caso nei bagagli gli agenti hanno ritrovato solo effetti personali, ma l’esito negativo della perquisizione non ha comunque impedito l’arresto e i due sono stati condotti in carcere. Il 25 marzo Filippo viene rilasciato, ma privato del passaporto, mentre il padre continua a restare in carcere. Il 24 giugno, però, la situazione si complica ulteriormente. Mentre Fabio è in Tribunale, Filippo viene arrestato nuovamente insieme a Daniel, mentre a Fausto viene tolto il passaporto, così come ad un quinto dipendete della stessa azienda. Da questo momento in poi inizia una vera e propria odissea. Nonostante siano passati mesi le autorità guineane non hanno ancora formulata alcuna accusa formale e il dossier con i capi di imputazione non è ancora arrivato ai legali. L’avvocato della famiglia Galassi, Renato Boccafresca, attraverso Il Tempo, nelle settimane scorse ha annunciato di aver "mandato una lettera di messa in mora alla proprietaria dell’azienda, per avere la documentazione relativa ai suoi dipendenti perché, anche se non formalmente, l’accusa è legata all’azienda o a chi ne era responsabile". Da alcuni elementi raccolti dalla famiglia, infatti, la General Work aveva problemi economici tali da non consentire il pagamento degli stipendi da mesi. Forse a causa della mancata entrata delle commesse da parte dello Stato. L’azienda, inoltre, era partecipata da Teodorìn Nguema, figlio del presciente guineano, destinatario di un mandato di cattura internazionale emesso dalla Francia con l’accusa di riciclaggio di denaro e appropriazione indebita di soldi pubblici e processato in America per riciclaggio di proventi di attività corruttive. Il rampollo guineano era in affari anche con Roberto Berardi, un altro imprenditore italiano detenuto in Guinea e rilasciato a luglio scorso, sempre per vicende legate a presunti ammanchi di soldi nell’azienda. Guinea Equatoriale: "liberateli tutti", l’appello disperato per i detenuti italiani di Andrea Spinelli crimeblog.it, 30 settembre 2015 Quattro donne incatenate di fronte all’ambasciata della Guinea Equatoriale a Roma per chiedere con forza il rispetto dei diritti del prigioniero e la liberazione dei quattro connazionali che da mesi si trovano rinchiusi nel carcere di Bata, una delle peggiori prigioni d’Africa. Ieri mattina si è tenuta una manifestazione nella quale le protagoniste femminili hanno mostrato una determinazione senza pari, segno che la forza della speranza si declina anche questa volta al femminile: "Fabio, Filippo e Daniel sono detenuti da mesi ma noi continuiamo a non avere alcun contatto con loro" dice Carla Strippoli, madre di Filippo Galassi, 24 anni di Roma, in carcere dal 27 giugno. La vicenda comincia il 21 marzo scorso quando Fabio Galassi, 61 anni, viene arrestato perché colto in flagrante con il figlio Filippo mentre cercava di caricare in auto due trolley pieni di denaro di proprietà dell’impresa presso la quale lavoravano, la General Works: "La verità è che in quelle valigie c’erano solo effetti personali" dice Patrizia Galassi, sorella di Fabio, "nonostante questo mio fratello è stato ugualmente fermato". Dopo pochi giorni Filippo Galassi ottiene i domiciliari e sembrava che la situazione potesse risolversi in breve, poi la svolta: "Il 27 giugno Fabio è stato autorizzato ad andare a casa a prendere dei documenti, accompagnato da una guardia" spiega la sorella; un’autorizzazione che si è rivelata una trappola, quando un giornalista della TV di Stato ha ripreso Galassi mentre cercava di entrare in casa, confezionando un servizio televisivo che lo dipingeva come "un ladrone" che provava a forzare i sigilli giudiziari. Dopo poche ore il figlio Filippo fu nuovamente portato in carcere, stavolta con il suo amico d’infanzia e coinquilino Daniel Candio, anch’egli 24 enne. Da quel momento anche il padre di Daniel, Fausto, si trova ai domiciliari: "Non c’è nessun motivo valido per cui Daniel si trova in carcere, non lo sento dal giorno prima dell’arresto: a suo carico non c’è nulla, come è possibile che sia ancora là dentro?". A parlare è Donatella Candio, madre di Daniel e moglie di Fausto: "Le nostre istituzioni devono aiutarci, devono fare il possibile affinché vengano rispettati i diritti del prigioniero e quelli delle loro famiglie". L’impresa edile General Works è di proprietà al 49% del dittatore della Guinea Equatoriale Teodoro Obiang Nguema Mbasogo, che governa il suo paese con pugno di ferro dal 1979, e al 51% di Anna Maria Moro, che ereditò l’azienda dal defunto marito Igor Celotti, morto in uno strano incidente aereo in Guinea nel 2008. I Galassi erano partiti per l’Africa nel 2010, all’epoca Fabio era in cassa integrazione, raggiunti nel 2012 dai Candio: i problemi sono cominciati nell’autunno 2014, quando la Camera di Commercio della Guinea Equatoriale ha dichiarato lo Stato "insolvente" nei confronti delle aziende straniere. La General Works non ha più versato gli stipendi e una ventina di dipendenti, tra cui altri italiani, hanno denunciato Fabio alla magistratura: le autorità guineane avevano assicurato rapide indagini e il rispetto delle procedure giudiziarie ma dopo mesi è fermi a un punto morto. Presente alla manifestazione c’era anche Roberto Berardi, imprenditore scarcerato a luglio dopo 2 anni e mezzo di inferno da innocente proprio nel carcere di Bata: "Sono addolorato per i nostri connazionali, che ho conosciuto in carcere. Le nostre istituzioni devono avere più peso con quella dittatura: già io li avvisai, quando ero detenuto, della pericolosità e della crudeltà della famiglia Obiang. Oggi ne paghiamo le conseguenze". Venerdì 2 ottobre alle 20:30 sarà il momento per una nuova azione, questa volta una fiaccolata con preghiera in via della Conciliazione a Roma, con vista sulla Basilica di San Pietro. Pakistan: impiccato Ansar Iqbal, la condanna per un omicidio compiuto a 15 anni Adnkronos, 30 settembre 2015 È stato impiccato ieri mattina in Pakistan Ansar Iqbal, il pakistano condannato a morte con l’accusa di aver commesso un omicidio 16 anni fa quando, secondo la difesa, aveva 15 anni. Per le autorità era invece un ventenne. Iqbal, che si dichiarava innocente, è stato impiccato nel carcere di Sargodha, nella provincia del Punjab, secondo un funzionario del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Muhammad Akmal, citato dall’agenzia di stampa Dpa. "Il corpo è già stato consegnato alla famiglia per la sepoltura", ha aggiunto. L’ong per i diritti umani Reprieve aveva lanciato un appello al presidente Mamnoon Hussain affinché concedesse la grazia a Iqbal. In un comunicato l’ong ha denunciato come "tutte le prove documentate presentate in tribunale durante il processo indichino che era un bambino all’epoca del presunto reato" e come "tuttavia i tribunali abbiano deciso di credere alle stime degli ufficiali di polizia secondo cui era un ventenne". All’inizio di agosto aveva suscitato sdegno la notizia dell’impiccagione, sempre in Pakistan, di un giovane condannato a morte per l’omicidio nel 2004 di un bambino di sette anni, un reato commesso quando - secondo la difesa - aveva 14 anni. In Pakistan non è prevista l’applicazione della pena di morte nei confronti dei minori di 18 anni. Dopo il sanguinoso attacco dello scorso dicembre contro una scuola di Peshawar, in cui sono rimaste uccise 150 persone (per lo più bambini), le autorità pakistane hanno deciso la revoca della moratoria sulla pena di morte per i sospetti terroristi. A marzo, poi, è stata annunciata la revoca totale della moratoria, che era in vigore dal 2008. Secondo l’ultimo Rapporto sulla pena di morte nel mondo di Nessuno Tocchi Caino, lo scorso anno in Pakistan sono state eseguite sette condanne a morte per impiccagione. Quest’anno da gennaio a giugno, stando allo stesso rapporto, almeno 174 condanne a morte sono state eseguite per impiccagione. Dallo scorso dicembre le esecuzioni sono state più di 200. Stati Uniti: uccise il marito, donna giustiziata malgrado l’appello del Papa e dei figli di Lucia Tironi La Repubblica, 30 settembre 2015 Kelly Renee Gissendaner è stata giustiziata. La commissione di libertà vigilata della Georgia, negli Stati Uniti, incaricata di esaminare il caso, ha respinto per la seconda volta il suo appello confermando la condanna per la donna, colpevole di aver ucciso il marito. Ha ricevuto nella notte italiana l’iniezione letale. L’esecuzione, prevista inizialmente per le 19 (l’una in Italia) nel carcere della Jackson County, era stata ritardata dall’appello ed è avvenuta prima della mezzanotte ora locale. I figli hanno perdonata la donna e si sono appellati con forza ai giudici perché fermassero l’esecuzione. Anche Papa Francesco aveva lanciato un appello per salvarla. Con una lettera scritta dal nunzio, Carlo Maria Viganò, il pontefice aveva chiesto a un’apposita commissione della Georgia di fermare il boia. La commissione non ha voluto accogliere la richiesta di rinvio, e i suoi membri non hanno voluto fornire una motivazione per la decisione, precisando soltanto che hanno esaminato con molta attenzione la sua richiesta d’appello prima di pronunciarsi. Nell’istanza presentata dai suoi avvocati, si sosteneva che la condanna a morte è inappropriata perché la Gissendaner non aveva materialmente commesso l’omicidio del marito che è invece avvenuto per mano dell’allora amante, Gregory Owen. Owen è stato invece condannato all’ergastolo, dopo aver testimoniato contro di lei, ma nel 2022 potrebbe uscire in libertà condizionata. La Gissendaner, 47 anni, è la prima donna condannata a morte in 70 anni nello stato di Georgia. Doveva essere giustiziata il 25 febbraio scorso, ma l’esecuzione fu rinviata al 2 marzo a causa del maltempo. Anche in questo caso, i suoi legali riuscirono a posticipare l’esecuzione perché le fiale letali, con le quali doveva essere giustiziata, apparivano contenere parti estranee. Le esecuzioni di donne negli Usa sono un fatto raro e ne sono state giustiziate solo 15 (contro 1.400 uomini) da quando nel 1976 la Corte Suprema ha ripristinato la pena di morte. E la mano del boia non si ferma. In Oklahoma è prevista per mercoledì la condanna a morte di Richard Glossip, nel braccio della morte per il suo ruolo nell’uccisione nel 1997 del proprietario del motel Oklahoma City. Glossip si dichiara innocente e ritiene di essere stato incastrato dal vero killer, che sta scontando l’ergastolo e che è stato il testimone chiave per l’accusa di Glossip. A meno di un intervento della Corte Suprema, a Glossip sarà somministrata l’iniezione letale. E giovedì prossimo è prevista l’esecuzione di Alfredo Prieto, 49 anni, originario di El Salvador, colpevole di aver ucciso 9 persone in California e Virginia tra il 1988 e il 1990. Nel 1992 ha invece stuprato e ucciso una 15enne in California. Nello stesso anno, in Virginia, ha massacrato tre giovani poco più che ventenni. Tuttavia, nonostante sia giudicato un serial killer, Prieto è affetto da disabilità mentale e solo la Corte Suprema può bloccare all’ultimo momento l’esecuzione. L’ultima condanna capitale eseguita in Virginia risale al 2013. Prieto sarà giustiziato con un’iniezione letale. Israele: detenuto minorenne rischia di perdere un piede a causa della negligenza medica infopal.it, 30 settembre 2015 Il Comitato dei detenuti palestinesi ha rivelato che si sono aggravate le condizioni di salute di un prigioniero minorenne ferito da un proiettile a espansione israeliano. L’avvocato del comitato, Tareq Barghout, ha dichiarato che il detenuto tredicenne, Essa Ahmad al-Muti, potrebbe perdere il piede destro a causa di una lacerazione dovuta alla pallottola. Dal momento dell’arresto, avvenuto lo scorso 18 settembre, il ragazzino è stato trattenuto nell’ospedale Hadassah, legato al letto, sotto rigide misure di sicurezza. "Stiamo cercando di farlo rilasciare per via della sua giovane età e del grave stato di salute in cui versa", ha dichiarato l’avvocato, ritenendo i soldati israeliani responsabili della salute del minore. Barghout ha sottolineato che gli spari contro i bambini palestinesi sono in linea con le ultime decisioni del governo israeliano riguardo ai lanciatori di pietre. "Le risoluzioni del governo israeliano sono ordini premeditati di esecuzioni di massa", ha denunciato. Un intervento chirurgico è stato effettuato sul piede del ragazzo, ma l’esito negativo di questa operazione rende probabile l’amputazione, che lo lascerebbe invalido a vita. Centinaia di minori palestinesi, inclusi coloro che riportano ferite da pallottole, sono detenuti nelle carceri israeliane tra l’incuria dei medici. Fyrom: presentata strategia per sviluppo del sistema penitenziario Nova, 30 settembre 2015 È stata presentata ieri a Skopje la strategia nazionale per lo sviluppo del sistema penitenziario dell’ex Repubblica jugoslava di Macedonia (Fyrom). L’obiettivo del progetto presentato oggi è quello di garantire una gestione professionale ed efficiente delle strutture di detenzione, rispettando i diritti delle persone recluse. Il ministro della Giustizia, Adman Jasari, ha evidenziato l’importanza della strategia adottata dal governo, che va a coprire un periodo di cinque anni (2015-2019). L’ambasciatore dell’Ue a Skopje, Aivo Orav, ha affermato che sebbene lo stato delle prigioni nella Fyrom sia piuttosto scadente, si intravedono sforzo volti al miglioramento del trattamento: "l’Ue sostiene gli sforzi per ridurre il sovraffollamento delle carceri al fine di migliorare la funzione di reintegrazione sociale della detenzione", ha detto Orav. Nei gironi scorsi nella Fyrom ci sono state delle proteste davanti al palazzo del parlamento per richiedere la riduzione o la cancellazione delle pene, per i carcerati condannati per reati minori. Lo riferisce il sito d’informazione "Balkan Insight". I manifestanti hanno come obiettivo il raggiungimento di 10 mila firme per presentare una richiesta di amnistia per tutti i carcerati per reati meno gravi, che sarebbero "il 40 per cento" di tutti le persone recluse nella Fyrom. Le proteste sono esplose dopo che è circolata la notizia che una serie di persone sono state imprigionate per "traffico di esseri umani", avendo favorito il trasporto dei migranti che hanno invaso il paese negli ultime settimane. Gli organizzatori delle proteste, in prevalenza familiari delle persone condannate, evidenziano come le condizioni delle carceri nella Fyrom sono caratterizzate da "sovraffollamento" e non rispettino gli standard richiesti dall’Ue. In particolare viene denunciata la situazione "allarmante" del carcere di Idrizovo, predisposto per accogliere 900 carcerati mentre attualmente ne ospita il doppio. L’ultima amnistia nella Fyrom è stata concessa nel 2001, dopo l’accordo di pace di Ocrida, che ha messo fine alle violenze inter-etniche che hanno visto coinvolta la comunità albanese.