Giustizia: Costituzione dimenticata, squilibri accusa-difesa… non è un "giusto processo" di Roberto Cossu L’Unione Sarda, 29 settembre 2015 "Guardando un processo penale si capisce tutto di un Paese", dice il docente Giorgio Spangher. Se non altro perché si chiariscono "i rapporti col governo, dove stanno i poteri". Povera Italia, allora. "Mai arrivati a livelli così bassi". "Abbiamo perso tutte le grandi battaglie" del crocevia Costituzione-processo: sentenze colte ieri mattina al Forte Village, nel Congresso straordinario dell’Unione delle camere penali. Già il titolo somma tutto: "La Costituzione dimenticata. Il processo tradito". Se si guarda alla storia recente, pochissimi i passi in avanti, "riviviamo i problemi del 1988", quando si discuteva della riforma del Codice di procedura penale. "Gli stessi vuoti di allora", abbrevia un altro docente, Delfino Siracusano. L’esplorazione a tappeto conferma: c’è sempre un problema di cultura della legalità. Prescrizione, contraddittorio, terzietà del giudice: tutto è da aggiustare (e rispettare). Mentre la riforma passata alla Camera - si attende la discussione in Senato - non sembra andare nella direzione giusta. Ecco, il ddl sulla riforma. Gli avvocati riuniti a Santa Margherita di Pula vorrebbero sentire il parere del ministro della Giustizia, ma Andrea Orlando non arriva. Peccato, anche perché nelle ore precedenti il Guardasigilli ha aperto a possibili modifiche. Forse, in generale, ha ancora ragione Spangher: "Continuiamo a non capirci", dice nel dibattito - coordinato da Anna La Rosa - che occupa quasi tutta la mattina. Un punto, in particolare: qual è la durata ragionevole del processo? Finora il concetto è stato utilizzato "per ridurre le garanzie". E se c’è una cosa che "fa venire l’orticaria ai magistrati è il tema dei termini". Peggio, "oggi è più facile difendere un colpevole che non un innocente". È stato creato "un meccanismo premiale per il colpevole". Ma l’innocente quali diritti ha? Si pone, tra gli altri, un problema di riconoscimento delle spese di difesa. Risarcimenti. "Ed è questa la battaglia", dice il professore dell’università La Sapienza. Buone domande per Rodolfo Maria Sabelli, presidente dell’Associazione nazionale magistrati. Che punta il dito sulla spaventosa durata dei processi. Un’udienza dibattimentale ingoia tre anni, il 70 per cento delle prescrizioni scatta durante le indagini preliminari. "Vogliamo fare qualcosa?". Constatando che certe norme, come quelle sui termini per l’archiviazione, nascono con la consapevolezza che non potranno essere rispettate. Il fatto è, secondo Sabelli, che "la riforma non affronta in modo organico i problemi del processo penale". Un processo che oggi appare "barocco" mentre i termini della giustizia "sono spesso oggetto di scontro politico". Così come è evidente "la genericità di certe deleghe, e non solo sull’intercettazione". Il presidente dell’Anni tra l’altro ha "forti dubbi sull’approvazione del disegno di legge. Non credo che fra tre anni vedremo grandi cambiamenti". E si torna all’impietoso esame degli avvocati. E al tema principale del Congresso: la Costituzione. Per Leonardo Filippi, certi "valori della Carta" sono dimenticati. Un esempio? Il giudice terzo. "Oggi il giudice italiano non è equidistante dalle parti". Sicuramente non lo è dal pubblico ministero. Rimane, insomma, il tema scottante della separazione delle carriere. Gli squilibri sono tanti ("Il Gup, nella maggior parte dei casi, è un passacarte") e riaffiora la questione intercettazioni: "Il Parlamento lascia carta bianca al governo", sottolinea Filippi. Si rivede anche la formula del disegno Alfano, "che fu bocciata con l’accusa di bavaglio alla stampa". Nel migliore dei casi, dice l’avvocato e docente a Cagliari, il disegno di legge portato da Orlando "ha più note negative che positive". Nel peggiore dei casi è palpabile la "schizofrenia legislativa". Giustizia: ricerca Eurispes-Ucpi "negli ultimi 50 anni incarcerati 4 milioni di innocenti" di Romina Rosolia thinknews.it, 29 settembre 2015 False rivelazioni, indagini sbagliate, scambi di persona. E così decine di innocenti, dopo essere stati condannati al carcere, diventano vittime di ingiusta detenzione. Errori giudiziari che non solo segnano pesantemente e profondamente le loro vite, trascorse - ingiustamente - dietro le sbarre, ma che costano caro allo Stato. Quanto spende, quindi, l’Italia per gli errori dei giudici? La legge prevede che vengano risarciti anche tutti quei cittadini che sono stati ingiustamente detenuti, anche solo nella fase di custodia cautelare, e poi assolti magari con formula piena. Solo nel 2014 sono state accolte 995 domande di risarcimento per 35,2 milioni di euro, con un incremento del 41,3% dei pagamenti rispetto al 2013. Dal 1991 al 2012, lo Stato ha dovuto spendere 580milioni di euro per 23.226 cittadini ingiustamente detenuti negli ultimi 15 anni. In pole position nel 2014, tra le città con un maggior numero di risarcimenti, c’è Catanzaro (146 casi), seguita da Napoli (143 casi). Eurispes e Unione delle Camere penali italiane, analizzando sentenze e scarcerazioni degli ultimi 50 anni, hanno rilevato che sarebbero 4 milioni gli italiani dichiarati colpevoli, arrestati e rilasciati dopo tempi più o meno lunghi, perché innocenti. Errori non in malafede nella stragrande maggioranza dei casi, che però non accennano a diminuire, anzi sono in costante aumento. Sui casi di malagiustizia c’è un osservatorio on line, errorigiudiziari.com. Mentre sulla pagina del Ministero dell’Economia e delle Finanze si trovano tutte le procedure per la chiesta di indennizzo da ingiusta detenzione. Gli errori più eclatanti. Il caso Tortora è l’emblema tra gli errori giudiziari italiani. Fino ai condannati per la strage di via D’Amelio: sette uomini ritenuti tra gli autori dell’attentato che costò la vita al giudice Paolo Borsellino e alle cinque persone della scorta il 19 luglio 1992. Queste stesse persone sono state liberate dopo periodi di carcerazione durati tra i 15 e i 18 anni, trascorsi in regime di 41 bis. Il 13 febbraio scorso, invece, la Corte d’appello di Reggio Calabria ha riconosciuto un altro grave sbaglio: è innocente anche Giuseppe Gulotta, che ha trascorso 21 anni, 2 mesi e 15 giorni in carcere per l’omicidio di due carabinieri nella caserma di Alcamo Marina (Trapani), nel 1976. Trent’anni dopo, un ex brigadiere che aveva assistito alle torture cui Gulotta era stato sottoposto per indurlo a confessare, ha raccontato com’era andata davvero. Altro caso paradossale risale al 2005: Maria Columbu, 40 anni, sarda, invalida, madre di quattro bambini, venne condannata con l’accusa di eversione per dei messaggi goliardici diffusi in rete, nei quali insegnava anche a costruire "un’atomica fatta in casa". Nel 2010 fu assolta con formula piena. Per l’ultimo giudice, quelle istruzioni terroristiche erano "risibili" e "ridicole". Tra gli ultimi casi, la carcerazione e la successiva liberazione, nel caso Yara Gambirasio, del cittadino marocchino Mohamed Fikri, accusato e subito scagionato per l’omicidio della ragazza. Sono fin troppo frequenti i casi in cui si accusa un innocente? Perché la verità viene fuori così tardi? Perché non viene creduto chi è innocente? A volte si ritiene valida - con ostinazione - un’unica pista, oppure la verità viene messa troppe volte in dubbio. Forse, ampliare lo spettro d’indagine potrebbe rilevare e far emergere molto altro. Giustizia: i diritti dell’uomo un optional, Italia tra i Paesi più multati dalla Corte europea di Carmine Gazzanni La Notizia, 29 settembre 2015 Ben 10 mila procedure aperte alla Corte europea. Solo nel 2014 risarcimenti per 30 milioni di euro. Una montagna di ricorsi pendenti, una serie di violazioni imputabili nella maggior parte dei casi a ritardi del governo italiano nell’adeguarsi a norme europee e una spesa per risarcimenti colossale. È questo il triste bilancio che emerge dalla relazione consegnata al Parlamento italiano e riguardante lo "stato di esecuzione delle pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo nei confronti dello Stato italiano". Insomma, in Italia il rispetto dei diritti dell’uomo resta un optional. Difficile dire il contrario se si legge un dato su tutti: contro il nostro Stato, sono 10.100 i ricorsi ancora pendenti a Strasburgo. Siamo secondi solo all’Ucraina che, nel 2014, ha raggiunto quota 13.650. In altre parole, alla Corte europea ci sono più pratiche riguardanti l’Italia che ricorsi sulla violazione dei diritti dell’uomo contro Paesi come la Russia (10 mila tondi) o la Turchia (9.500). Dagli omosessuali alla Diaz. Per carità: occorre precisare che rispetto al 2013, nell’anno passato c’è stato un importante calo dei ricorsi che sono passati da oltre 16 mila a, come detto, poco più di 10 mila. Eppure il dato resta clamoroso. Soprattutto per le materie oggetto delle procedure. Tra i casi ricordati dalla Corte, ad esempio, spuntano ricorsi di stringente attualità, dalla "sperimentazione umana su embrioni umani" ai diritti delle coppie omosessuali, fino al caso di due coniugi che, non potendo avere bambini, hanno "affittato" una madre surrogata in Russia che ha partorito loro un bambino e, in linea con la legge di Mosca, sono stati riconosciuti genitori del neonato. Un riconoscimento che, però, non è avvenuto al loro rientro in Italia. Qui, infatti, "ai ricorrenti è stata rifiutata la registrazione della nascita del minore nei Comune di residenza". Non mancano, ancora, casi che ci portiamo avanti da tempo. Su tutti non si può non ricordare il ricorso presentato da 31 soggetti, tra cittadini italiani e stranieri, arrestati dopo i fatti della scuola Diaz e detenuti nella caserma di Bolzaneto "dove i ricorrenti hanno lamentato di essere stati sottoposti a tortura e a trattamenti disumani e degradanti". Nonostante svariate sollecitazioni e nonostante una condanna per violazione dei diritti umani, l’Italia ancora non introduce il reato di tortura nel codice penale. Ma il punto è anche un altro. Sulla questione, infatti, potrebbero presto esserci ulteriori novità, "non ancora comunicati al Governo italiano, che aggravano il quadro delle possibili, future condanne a carico dell’Italia", scrive la Corte, Tanto che "è all’attenzione delle competenti amministrazioni l’ipotesi di una soluzione bonaria del contenzioso, per scongiurare il rischio di ulteriore condanna per violazione del divieto di tortura". La spesa. Insomma, meglio pagare meno piuttosto che pagare molto di più in seguito a una condanna definitiva. Anche perché il nostro Stato già ora sborsa non poco a causa delle procedure aperte nei suoi confronti per violazione dei diritti dell’uomo. Prendiamo i casi di "equa soddisfazione", ovvero i casi in cui - secondo quanto stabilisce l’art. 41 della Convenzione europea - la Corte ritiene sussistente la violazione del Trattato e, poiché lo Stato non prevede nel proprio diritto interno gli strumenti per una totale riparazione del danno, accorda alla parte lesa un risarcimento. Ebbene, nel solo 2014 il nostro Stato ha sborsato oltre 29 milioni (erano 71 nel 2013) che sì aggiungono ai 5 milioni spesi "per l’esecuzione delle sentenze". Una cifra decisamente alta, se si tiene conto che l’Italia, per lo stesso tipo di procedure, ha incassato l’anno scorso solo 1,6 milioni. Sentenze in aumento. Arriviamo infine al capitolo delle sentenze per violazione. Sono ben 44, in aumento rispetto al 2013. E anche in questo caso, le ragioni sono tra le più varie: dalla retroattività delle leggi e, dunque, l’ingerenza del legislatore nell’amministrazione della giustizia (11 casi di violazione) alla irragionevole durata dei processi (4), dalle 7 sentenze che hanno accertato "trattamenti disumani e degradanti" fino alla violazione dell’articolo 14, "divieto di discriminazione". Giustizia: salgono a 109 gli internati Opg che hanno ricorso per "detenzione illegittima" di Teresa Valiani globalist.it, 29 settembre 2015 L’associazione "L’altro diritto" ha già raccolto 109 istanze dai pazienti di tre delle cinque strutture ancora aperte. "Violata la costituzione". Raggiunge quota 109 il piccolo esercito di internati che dagli Ospedali Psichiatrici Giudiziari sta dichiarando guerra allo Stato. L’ultima ondata di ricorsi arriva dall’Opg di Reggio Emilia: 24 istanze per detenzione illegittima, cioè sequestro di persona. "Pressoché la totalità dell’istituto - commenta Emilio Santoro, presidente dell’associazione L’Altro Diritto - se si considera che i pazienti in totale sono 27 e che il giorno del nostro ingresso un internato era in ospedale e solo due persone non hanno voluto sottoscrivere le istanze". Impegnata in una battaglia "contro la detenzione illegale dei pazienti ancora reclusi negli Opg", negli ultimi tre mesi L’Altro Diritto ha raccolto 58 ricorsi dall’Opg di Montelupo Fiorentino, 27 da quello di Barcellona Pozzo di Gotto e 24 a Reggio Emilia. Con tre sole strutture sulle cinque ancora aperte (Mancano Aversa e Napoli) è stata cioè raggiunta quasi la metà del totale degli attuali 226 internati. "Dall’1 aprile 2015 gli internati non devono essere più ristretti negli Opg bensì nelle Rems, le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza - prosegue Santoro. Il cambio non è nominalistico: le Rems sono strutture senza polizia penitenziaria, senza un direttore appartenente all’amministrazione penitenziaria, insomma non sono carceri travestiti da ospedali, ma ospedali in senso proprio. La violazione dell’art. 13 della Costituzione è evidente e preoccupante". L’Altro Diritto ha investito della questione la magistratura di sorveglianza aiutando gli internati a redigere le istanze con le quali si denuncia l’illegittimità della detenzione. "Per il nostro ufficio si tratta dei primi reclami - spiega il presidente del tribunale di sorveglianza di Bologna e Reggio Emilia, Francesco Maisto. Quello di Reggio Emilia è l’Opg più piccolo d’Italia nel senso che ospita il numero di internati minore rispetto alle altre strutture del territorio nazionale. La percentuale delle istanze è notevole, se si considera il totale della popolazione. Come capo dell’ufficio provvederò ad assegnare subito i casi ai magistrati competenti in modo che la loro trattazione avvenga nel più breve tempo possibile. È un’iniziativa lodevole quella dell’associazione L’Altro Diritto, sempre sensibile alla questione del trattamento delle persone recluse a qualsiasi titolo e attenta, soprattutto, alla tutela del diritto alla salute". Che succede quando queste istanze arrivano sui vostri tavoli? "Succede che il magistrato al quale viene assegnato il caso instaura un vero e proprio procedimento: da una parte c’è l’interessato, coadiuvato dal suo tutore e dal suo difensore, dall’altra c’è lo Stato, c’è l’amministrazione penitenziaria, che viene rappresentata dall’avvocatura dello Stato. Il procedimento inizia con una citazione in giudizio, si fissa l’udienza e, nel corso di questa, si sente l’interessato, si ascoltano le sue ragioni e il parere del pubblico ministero. Segue un’ordinanza che a seconda della situazione accoglie il reclamo o lo rigetta. Nel caso in cui l’istanza sia accolta, il giudice dispone che l’amministrazione penitenziaria abbia una certa condotta. Nei giudizi di questo tipo, se la parte che è inottemperante è una regione che non ha realizzato la Rems, il magistrato cita in giudizio anche la regione. Come esito del giudizio, il magistrato può condannare la regione a ospitare l’internato in una Rems. E se la Rems non c’è, la regione la deve realizzare. Per l’eventuale sequestro di persona, invece, procede la procura della Repubblica del tribunale competente per territorio". Perché ci sono ancora internati negli Opg? Da dove arrivano i ritardi? "C’è un ritardo non solo da parte delle regioni, per le Rems, ma anche a livello di amministrazione centrale, nel senso che la legge 81 ha indicato dei termini che sono stati abbondantemente superati. Non è solo una questione organizzativa, ma di tutela del diritto alla salute perché le Rems non sono la semplice alternativa all’Opg, ma realtà completamente diverse. Dalla legge vengono qualificate come strutture sanitarie. E non sono comunque la sola alternativa. L’obiettivo è sempre il programma terapeutico individualizzato e, dove possibile, il ricovero in vista di una sistemazione futura: in una famiglia, in una comunità protetta e così via". Lei coordina il tavolo 10 degli Stati generali dell’esecuzione penale, proprio quello che si occupa di sanità e salute mentale. A quali conclusioni state arrivando? "Abbiamo superato il primo step con la raccolta da parte di tutti gli esperti delle segnalazioni sulle criticità del sistema penitenziario. Ci ritroveremo il primo ottobre per fare la sintesi e indicare le prospettive di carattere organizzativo e normativo. È emerso un quadro molto deludente perché le aspettative che si erano create legittimamente con il passaggio al servizio sanitario nazionale risultano realizzate molto parzialmente. C’è poco movimento in avanti per assicurare maggiore tutela del diritto alla salute. Le maggiori criticità arrivano da quelle regioni in cui il passaggio non è stato mai realizzato, dalle regioni in cui non c’è alcuna parvenza di tele medicina, soprattutto dove gli istituti sono molto lontani dai centri ospedalieri". Giustizia: Raffaele Cutolo è sepolto vivo in regime di 41bis, in totale isolamento da 34 anni di Mirko Crocoli liberoreporter.it, 29 settembre 2015 Raffaele Cutolo, capo indiscusso della Nuova Camorra Organizzata, vive in regime di 41bis da tantissimo tempo. A 74 anni suonati, il carcere duro per lui non si è mai ammorbidito. Abbiamo intervistato uno dei legali del Boss di Ottaviano, l’Avvocato Aufiero, per capire le ragioni di tale durezza, essendo comunque ben consci che al giorno d’oggi, il "professore", non può certamente avere la stessa pericolosità di un tempo. "Se parlo crolla mezzo Parlamento". Queste le ultime dichiarazioni di Raffaele Cutolo in un’intervista a Repubblica datata 2 marzo 2015. Parole molto forti e che sicuramente fanno riflettere. Che i rapporti ci siano stati non è un mistero, se pensiamo che "il principe" di Ottaviano, il "professore" tanto amato dai suoi conterranei, le ha veramente aiutate le nostre istituzioni, quando fu sequestrato l’On. Cirillo ad opera delle Brigate Rosse e - sicuramente - per altre faccende un "tantino" scomode e a noi poco note. Eravamo ancora nel tempo della cosiddetta prima Repubblica, quella in cui gli intrighi di palazzo tra politica, apparati deviati e cosche malavitose erano ben ramificati. Raffaele Cutolo, a cui si attribuisce la responsabilità di aver fondato la Nco (Nuova Camorra Organizzata) sembra che sia colui che abbia pagato più di tutti, tra i vari boss e capi di organizzazioni malavitose di cui la nostra penisola è "straricca" Un prezzo altissimo se si considera i suoi anni di permanenza nei carceri italiani e soprattutto ancora in regime di 41bis alla veneranda età di 74 anni. Un uomo anziano, stanco e rinchiuso come una "belva", con tante di quelle restrizioni da far venir meno la voglia di vivere. Un trattamento che lascia sconcertati numerosi personaggi illustri del mondo della società civile, della cultura e non solo, che hanno speso parole di misericordia nei confronti di Cutolo, chiedendo non la grazia ma clemenza nello sconto della pena e un alleggerimento della morsa del carcere duro. Già, perché Don Raffaele non chiede libertà, chiede solamente un po’ di dignità all’interno del penitenziario. La vuole scontare questa "benedetta" condanna ma con un sistema più umano, non di certo in regime di durezza estrema come è il 41bis. Ad oggi, l’ex Padrino di Ottaviano, ormai isolato da anni, marito di Immacolata Iacone e padre di una splendida creatura di nome Denise, non è più pericoloso, non lo è da decenni ormai e la sua organizzazione ha smesso di esistere già nei primi anni Ottanta con l’avvento dei Casalesi. Perché allora questa inspiegabile perseveranza giudiziaria nei suoi confronti È quello che si domanda anche uno dei suoi avvocati, da noi raggiunto in esclusiva per il gruppo Libero Reporter. Ci siamo quindi fatti due chiacchiere con l’Avvocato Gaetano Aufiero, attivo nel foro di Avellino, il legale che difende il noto Ottavianese da diversi anni. Non potendo chiederlo a Cutolo lo abbiamo fatto tramite il Dott. Aufiero che, insieme alla moglie, è tra i pochi (se non gli unici) che conoscono veramente la disperata situazione del suo assistito e che hanno rapporti diretti con lui. Gentile Avvocato, ci sa dire come mai questa durezza nei confronti di Cutolo? "In tutta sincerità, una spiegazione giuridica, logica e razionale, non so darmela. So per certo che la detenzione di Raffaele Cutolo è una sconfitta per lo Stato di Diritto in cui ci pregiamo di vivere. Infatti, Raffaele Cutolo ha ad oggi espiato oltre 50 anni di carcerazione, gli ultimi 34 in totale e inviolato isolamento: ovviamente, non mi sento di dire che lo Stato abbia applicato nei suoi confronti una forma di "vendetta" per la sua mancata collaborazione, ma mi sento di poter dire che la sua carcerazione costituisce la più clamorosa smentita dei principi su cui si fonda il nostro Stato di Diritto e, soprattutto, il vigente Ordinamento Penitenziario". Perché "amico" dello Stato quando ce n’era bisogno e poi abbandonato da tutti? Chi ha interesse di chiudere la bocca per sempre a Cutolo? "Anzitutto, mi sento di escludere che Cutolo sia stato "amico dello Stato", anche se è indubbio - e lo dicono sentenze passate in giudicato - che a Cutolo Raffaele almeno in un’occasione lo Stato si rivolse per risolvere l’intricata vicenda del sequestro Cirillo. È altrettanto indubbio che dopo quella vicenda - pagina certamente imbarazzante della storia del nostro Paese - Cutolo fu letteralmente spedito in isolamento in un carcere-topaia riaperto proprio per "ospitarlo"; è altrettanto certo che da allora Cutolo è ininterrottamente isolato, ancor prima dell’entrata in vigore del 41bis che si sarebbe avuta solo nel 1992. Non sono del tutto d’accordo sul fatto che Cutolo sia stato "abbandonato da tutti", così come non condivido il fatto che qualcuno abbia "interesse a chiudergli la bocca per sempre", perché la scelta di non collaborare con la giustizia e di affrontare con dignità la propria carcerazione è una scelta che Cutolo rivendica ed ha il diritto di rivendicare. Allo stesso modo, nessuno può pretendere, e nemmeno Cutolo lo ha mai preteso, atteggiamenti o condotte di gratitudine nei suoi confronti per la vicenda Cirillo, perché, ci fossero state, sarebbero state anche esse la negazione dello Stato di Diritto o, magari, espressione di una sorta di trattativa Stato-camorra che per fortuna non c’è stata. Nessuna gratitudine, quindi, né considerazione per quanto Cutolo fece in occasione di quella triste vicenda, ma non me la sento di dire che Cutolo sia stato abbandonato. Ovviamente, tutt’altra cosa è quella sorta di accanimento di cui ho già detto e che mi sembra negli ultimi decenni sia stato attuato nei suoi confronti. Posso dire, senza alcun timore di smentita, che con Cutolo lo Stato ha sbagliato 2 volte, la prima quando si rivolse a lui per la vicenda Cirilo, la seconda con questo accanimento nei suoi confronti. Ma respingo altre interpretazioni. Caro Avvocato, che tipo di trattamento è tutt’ora riservato a Raffaele? Dalle nostre informazioni ci risulta che può vedere poco la moglie, la figlia e anche Lei. È realtà? "Cutolo Raffaele è isolato da oltre 33 anni, da oltre 23 è sottoposto a 41 bis e subisce le restrizioni imposte da quel tipo di regime detentivo. Come tutti i detenuti sottoposti a 41 bis, incontra la moglie e la figlia un’ora al mese, senza alcuna possibilità di deroga". A chi vi siete rivolti? Avete tentato con la Presidenza della Repubblica? "Abbiamo provato tutte le forme di impugnazione, soprattutto quelle di carattere giudiziario. Non abbiamo tentato con la Presidenza della Repubblica, perché la legge non attribuisce al Capo dello Stato alcuna competenza riguardo lo stato di detenzione dei detenuti. Anche le notizie riguardanti interviste tese ad ottenere la grazia dal Presidente della Repubblica pubblicate qualche anno fa sono destituite di ogni fondamento". Secondo Lei, ad oggi, Raffaele Cutolo a 74 anni è ancora da ritenersi un uomo pericoloso? Perché questa necessità del carcere duro? Gli organi giudicanti ancora lo reputano da 41 bis? "Non sta certamente a me esprimere valutazioni sulla persistente o residuale pericolosità di Cutolo Raffaele, anche se mi resta difficile credere che dopo oltre 50 anni di carcerazione (fatta salva una breve parentesi di latitanza risalente comunque ad oltre 36 anni fa) un uomo possa essere ancora tanto pericoloso da meritare il regime del carcere duro. Se poi si pensa a come in questi decenni sia cambiata la criminalità e la criminalità organizzata in particolare, se penso a che cosa sia oggi la camorra in Campania, non posso che concludere che il 41 bis imposto da 23 anni a Cutolo Raffaele, sulla base sempre delle stesse informative, altro non sia che una forma di "patente irrevocabile" concessa al personaggio, che in alcun modo può essere considerato pericoloso come lo fu, si pensi, ben 4 decenni fa". Avvocato Aufiero, pensa che prima o poi ci sarà vera giustizia e clemenza nei confronti del suo assistito? Arriverà prima o poi questa attesissima decisione di alleggerirgli la permanenza nei carceri italiani? "Noi continuiamo a sperare e ad intraprendere tutte le azioni che la legge ci consente di adottare, anche se, devo dire, che è lo stesso Cutolo che da alcuni anni ha comunicato a me e all’Avv. Paolo Trofino, che da oltre 30 anni difende Cutolo Raffaele, di non voler più ricevere alcuna assistenza legale, avendo egli constatato che ogni nostro sforzo difensivo si infrangeva contro il muro di informazioni datate e prive di ogni attuale fondamento sulla base delle quali il 41 bis viene periodicamente confermato. La richiesta che Cutolo ci fece già qualche anno fa di desistere da ulteriori iniziative difensive è purtroppo la spia del suo stato di profonda sfiducia nei confronti del sistema giudiziario italiano". Ancora un paio di domande. Non trova un po’ utopico il pensiero che tutti i mali d’Italia siano da attribuire a Raffaele Cutolo? "Io non credo che sia giusto fare del facile vittimismo, nel senso di ritenere Cutolo una vittima del sistema. Tantomeno credo che tutti i mali d’Italia siano attribuibili a Cutolo Raffaele. Posso peraltro dire con certezza che Cutolo mi ha più volte riferito e scritto di essere "pentito" per davvero delle gravissime e terribili azioni delittuose commesse e di esserlo davanti a Dio, senza alcuna intenzione di intraprendere un percorso di collaborazione con la giustizia. Dico questo per affermare che Cutolo Raffaele ha certamente commesso reati di assoluta ed accertata gravità, ma aggiungo che egli da anni ne è pienamente consapevole, da sempre respingendo l’idea di voler assurgere a vittima. Resta il fatto che egli ha pagato, paga e continuerà a pagare con dignità le colpe per i reati commessi". Lo ha più sentito, lo sente? Cosa dice? Quanto è demoralizzato? Qual è il sentimento più vivo nell’animo di quello che è stato considerato uno dei più "particolari" Boss del Novecento? Ci può descrivere delle emozioni? "È un po’ di tempo che non lo vedo, l’ultima volta è stato circa 3 anni fa, allorquando era stato da poco trasferito nel supercarcere dell’Aquila. Come ho già detto, nutre un sentimento di profonda sfiducia nei confronti della giustizia. Non credo sia demoralizzato, anche se, ribadisco, è un po’ di tempo che non lo vedo. Posso dire che la nascita della figlia, la piccola Denise, gli ha certamente dato grande gioia e posso solo immaginare quanta ne provi Cutolo Raffaele ogni volta che riceve quell’ora di visita mensile che il 41 bis concede a lui, alla moglie ed alla bambina". Nel marzo del 2015 Cutolo dichiarò in un’intervista che se avesse parlato sarebbe crollato mezzo Parlamento. A cosa si riferiva e come mai queste parole? Son un po’ forti e di sicuro fanno riflettere. "È evidente che Cutolo possa conoscere fatti e circostanze da nessuno mai riferiti e, probabilmente, solo in parte sfiorati dalle tante indagini effettuate e dai tanti processi celebrati. Ovviamente, non conosco nemmeno io quei fatti e quelle circostanze, ma credo che, se rivelati, sarebbero di grande interesse investigativo e non solo. Certo, il riferimento al Parlamento costituisce una forzatura dialettica, ma è indubbio che Cutolo conosca verità non ancora accertate". Legali specialisti in forse di Beatrice Migliorini Italia Oggi, 29 settembre 2015 Il regolamento sulle specializzazioni legali rischia di arenarsi ancora prima di iniziare a produrre i suoi effetti. A poco meno di due settimane dalla pubblicazione in G.U. del regolamento del ministero della giustizia per il conseguimento e il mantenimento del titolo di avvocato specialista arriva l’annuncio della prima impugnazione di fronte al Tar Lazio da parte dell’Associazione nazionale forense che si appresta ad essere, in base a quanto risulta a Italia Oggi, solo il primo di una lunga serie. In coda, infatti, ci sarebbero anche i consigli degli ordini di Roma e Napoli, mentre l’Oua è in procinto di convocare le associazioni maggiormente rappresentative dell’avvocatura per decidere il da farsi. Il tutto, entro il 14 novembre, termine ultimo per impugnare il testo uscito dal dicastero di via Arenula. E sotto i riflettori finiscono più aspetti del testo: alcuni di merito e uno di carattere procedurale. Per quanto riguarda quest’ultimo aspetto, infatti, ad avviso dell’Anf non è ammissibile che "la specializzazione sia ottenuta a seguito di un percorso esclusivamente teorico e culturale. E, allo stesso tempo", ha sottolineato il numero uno dell’Associazione Luigi Pansini, "la valutazione della qualità degli incarichi ai fini della comprovata esperienza non è ancorata ad alcun criterio oggettivo ma rimessa ad un apprezzamento ingiustificatamente discrezionale". Ma secondo l’Anf, c’è anche un aspetto di merito che non deve essere sottovalutato: l’aver mantenuto la macro-categoria del diritto penale e del diritto amministrativo a fronte di una frammentazione eccessiva del diritto civile. Ma non è tutto. "Perplessità sorgono anche con riferimento alle norme in materia di concorrenza e non solo relativamente alla frequenza dei corsi obbligatori per il mantenimento del titolo e al potere del Cnf di riconoscere le associazione specialistiche con le quali successivamente curare, d’intesa, il mercato della formazione specialistica. Queste e tutte le altre criticità erano state portate all’attenzione della politica, delle istituzioni forensi e del Ministero ma sono rimaste morta. Alla luce di tutto ciò", ha concluso Pansini, "la sensazione che si sia perso tempo prezioso è palese e dunque non abbiamo potuto far altro che decidere di rivolgerci al giudice". Processi lenti, mora ridotta di Dario Ferrara Italia Oggi, 29 settembre 2015 Quando il Tesoro deve pagare l’equa riparazione al cittadino vittima del processo-lumaca, la penalità di mora a carico dell’amministrazione decorre non dalla sentenza ma dal giorno della notificazione dell’ordine di pagamento fatta dal giudice dell’ottemperanza. Lo chiarisce la sentenza 4414/15, pubblicata il 21 settembre dalla quarta sezione del Consiglio di stato. Accolto il ricorso del Mineconomia contro la sentenza pronunciata dal Tar Lazio nell’ambito della controversia sulla legge Pinto: la pronuncia fa scattare l’astreinte al momento della scadenza del termine di centoventi giorni decorrente dalla notifica del titolo esecutivo. E la decisione contraria di palazzo Spada è motivata proprio rispetto alla natura di "spinta forzosa" alla francese dell’ipotesi di cui all’articolo 114 comma 4 lettera e) del codice del processo amministrativo. La norma, osservano i giudici di appello, parla chiaro: "Il giudice, in caso di accoglimento del ricorso, salvo che ciò sia manifestamente iniquo e se non sussistono altre ragioni ostative, fissa, su richiesta di parte la somma di denaro dovuta dal resistente per ogni violazione e inosservanza successiva, ovvero, per ogni ritardo nell’esecuzione del giudicato; tale statuizione costituisce titolo esecutivo". La penalità di mora serve appunto per indurre indirettamente l’amministrazione a eseguire tempestivamente l’ordine di pagamento formulato dal giudice: lo strumento "coercitivo", dunque, non risulta utilizzabile per gli inadempimenti pregressi, che producono piuttosto obbligazioni di natura risarcitoria. Insomma: ha ragione il ministero dell’economia e delle finanze quando sostiene che l’astreinte avrebbe dovuto operare per il futuro e non per il pregresso inadempimento. D’altronde tutto ciò rientra nella natura stessa della penalità di mora, che è un istituto mutuato dall’ordinamento francese e consiste in una "spinta forzosa" all’obbligato inadempiente per costringerlo a provvedere, in forza della condanna al pagamento di una somma di denaro per ogni giorno di ritardo, con una sorta di coazione all’adempimento. Le spese di giudizio sono compensate. Il processo Meredith : non tutto è colpa delle indagini di Paolo Tonini Il Sole 24 Ore, 29 settembre 2015 La sentenza della Cassazione (36080) sull’omicidio di Perugia, nella lettura apparsa sulla stampa, pare semplificare eccessivamente il problema quando afferma che la maggior parte degli errori sta nelle indagini. Nel riconoscere che manca la prova di reità al di là del ragionevole dubbio, la sentenza parla di "clamorose defaillance o "amnesi" investigative e di colpevoli omissioni di attività di indagine". E, se non vi fossero state queste, allora sarebbe stato possibile da subito "delineare un quadro, se non di certezza, quanto meno di tranquillante affidabilità" dei fatti. In sintesi, in questa ricostruzione gran parte della colpa di ciò che è avvenuto nei precedenti quattro gradi di giudizio sta nelle omissioni delle indagini. Una ricostruzione del genere non ci pare razionalmente accettabile per i seguenti motivi. Sulla base di indagini imperfette ben tre corti giudicanti (primo grado, cassazione, rinvio) hanno condannato e due (appello e, ora, cassazione) hanno ritenuto gli imputati non colpevoli. Se fosse stato soltanto un problema di indagini errate, il processo avrebbe dovuto concludersi subito, senza tanti sussulti, rivolgimenti, colpi di scena. E allora, come mai tre corti giudicanti non hanno svolto la loro funzione ed hanno condannato? Se vi erano stati errori nelle indagini, la funzione dei giudicanti doveva essere di correggerli, di fronte a imputati presunti innocenti. Evidentemente, non tutte le colpe stanno nelle indagini imperfette. Il vero nodo sta nel "come" gli esiti di quelle indagini sono stati utilizzati nel processo e valutate dalle corti giudicanti. A uno sguardo disincantato, emerge che nel processo sui fatti di Perugia si sono scontrati due modi differenti di concepire la scienza e il giudizio sulla scienza. Dal 2002 tra i giudici italiani è in atto un forte scontro tra una concezione del passato ed una che accetta le acquisizioni moderne. Nel passato si riteneva che spettasse allo scienziato affermare quale era la conclusione da trarre dalle circostanze indizianti; il giudice non poteva valutare se la legge scientifica era valida in generale e se era stata correttamente applicata nel caso concreto. Quindi, l’errore scientifico non era emendabile nel processo. In base ad una concezione più moderna, e cioè dalla famosa sentenza Franzese della Cassazione del 2002, il giudice deve, in sintesi, controllare se la legge scientifica è valida in generale e, poi, se in concreto vi sono fatti che fanno ritenere che gli effetti constatati possano essere ricondotti all’operare di differenti cause. Non basta più che un consulente (della polizia o del pubblico ministero) impegni la sua parola su quali sono le cause dei fatti accertati; occorre che ad un altro esperto sia permesso di tentare di smentire tale ricostruzione, perché il ragionamento possa essere definito "scientifico". Nel processo del nuovo millennio la scienza non è Vangelo, può e deve essere messa in dubbio e sottoposta a controlli serrati. Ebbene, nel caso di Perugia gli imputati in primo grado avevano chiesto invano che il giudice nominasse un perito per operare il predetto tentativo di smentita, ma la corte giudicante, legata alla vecchia concezione della scienza e del processo, lo aveva negato. La corte di appello, aperta alla nuova concezione, lo aveva concesso ed erano apparse subito chiare le "colpevoli omissioni di attività di indagine" delle quali parla oggi la Cassazione. Di conseguenza, è stato applicato il nuovo principio di diritto, introdotto in Italia nel 2006, secondo cui, se l’accusa non prova la reità al di là di ogni ragionevole dubbio, l’imputato deve essere assolto. Sempre in sintesi, la prima decisione della Cassazione non ha applicato questo principio ed il giudice di rinvio l’ha seguita. Soltanto l’ultima sentenza della Cassazione ha accolto la visione moderna dei rapporti tra scienza e processo. La causa degli errori non sono state soltanto le indagini imperfette, ma anche, e soprattutto, il modo in cui è giudicato su tali indagini. Il conduttore non risarcisce i danni dell’incendio doloso di ignoti di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 29 settembre 2015 Corte di cassazione - Sezione VI civile - Sentenza 26 settembre 2015 n. 19126. Il conduttore non deve risarcire il proprietario del negozio se l’incendio che l’ha distrutto è il frutto di un’azione dolosa condotta da terzi. Lo ha deciso la Corte di cassazione, sentenza 19126/2015, chiarendo che l’affittuario va esente da responsabilità anche se l’identità dell’autore rimane ignota. La vicenda - La Corte di appello Trieste, riformando la sentenza di primo grado, aveva invece stabilito che "essendo rimasta ignota la causa dell’incendio, la responsabilità doveva essere posta a carico del conduttore", e lo aveva condannato a pagare 172mila euro per i danni subiti dall’immobile, oltre al pagamento dei canoni di locazione maturati dopo l’incendio. Il negoziante però si era difeso sostenendo che nel corso del procedimento penale seguito all’incendio, la perizia disposta dal pubblico ministero aveva accertato che una "persona ignota si era introdotta nottetempo nell’immobile, mediante effrazione della recinzione e della porta di accesso" ed "aveva cosparso il pavimento di liquido infiammabile e poi vi aveva dato fuoco". E che tutto questo era accaduto mentre era in vacanza ad Amalfi. L’indagine era stata poi archiviata perché l’autore dell’illecito era rimasto ignoto. La motivazione - Nell’accogliere il ricorso, la Suprema corte ricorda che secondo il codice civile (articolo 1588 ) il conduttore è responsabile della perdita o del deterioramento del bene locato, anche se derivanti da incendio, qualora non provi che si sono verificati per causa a lui non imputabile. Il ricorrente, però, tramite gli accertamenti compiuti nel corso dell’inchiesta penale, ha dimostrato che l’incendio si è verificato a causa dell’atto doloso di un terzo, rimasto sconosciuto. La Corte di appello, dunque, ha "erroneamente equiparato il mancato accertamento dell’identità dell’autore dell’incendio al mancato accertamento della causa che ha provocato l’incendio, mentre si tratta di concetti distinti". In particolare, prosegue la sentenza, il fatto che l’autore sia rimasto ignoto "non esclude che sia stata offerta la prova della non imputabilità al conduttore dei danni che ne sono derivati". Né, del resto, il locatore ha dimostrato qualche "colposa omissione di custodia" a carico del conduttore tale da giustificare una sua responsabilità. Per cui la sentenza è stata cassata, con rinvio ad altra Sezione del giudice territoriale, nella parte in cui ha escluso che il conduttore abbia fornito la prova liberatoria "equivocando fra il mancato accertamento della causa dell’incendio - il cui rischio è a carico del conduttore - e la mancata individuazione dell’autore dell’illecito che ha provocato il danno: mancata individuazione che rimane irrilevante, ove sia dimostrato che la causa che ha provocato i danni non è imputabile al conduttore. Lettere: una città, il suo giornale e un dovere comune di Andrea Orlando (Ministro della Giustizia) Il Mattino, 29 settembre 2015 Conosco Napoli per esserci stato a lungo, negli scorsi anni, e come tutti quelli che conoscono la città non manco di ritornarvi appena possibile. Conosco il Mattino, che è molto più del giornale della città. Il Mattino è un’istituzione, e delle istituzioni mantiene anzitutto il tempo, la lunga durata, e l’autorevolezza guadagnata in una vicenda ormai secolare. Cosa hanno in comune questa città e il suo giornale? Provo a dirlo senza guardare al passato, così durevole e influente, alle illustri firme del giornale o ai momenti decisivi in cui ha raccontato la storia di Napoli, ma pensando piuttosto al futuro: alle scelte che Napoli e il Mezzogiorno dovranno compiere di qui in avanti, insieme con il resto del Paese. Direi allora così: entrambi, la città e il giornale, portano la responsabilità di organizzare il contesto - sia fisico che sociale e intellettuale - in cui i napoletani dovranno prendere le loro future decisioni. Sono, nell’ambiente fisico come in quello intellettuale della città, e insieme alle altre voci quotidiane di uno spazio ricco di espressioni plurali e di testate autorevoli, i primi architetti delle scelte che verranno. Dalla posizione che mi trovo ad occupare, nel governo del Paese, credo di poter dire senz’altro che Napoli e il Sud possono e debbono farcela. Lo ha ripetuto ieri il presidente della Repubblica Sergio Mattarella: la storia di questa città, di questa straordinaria capitale della cultura e dell’ingegno umano, la candida ad essere protagonista del futuro del nostro Paese. In questi mesi, a seguito della pubblicazione di nuovi studi e rapporti e ricerche - e, devo dire, grazie anche all’impegno profuso da questo giornale nel tenere vivo il dibattito delle idee - l’antica questione meridionale è tornata prepotentemente alla ribalta. Per fortuna, aggiungo. È finito il tempo delle sterili rivendicazioni o dei facili vittimismi, ma è finito anche il tempo del rimpallo delle responsabilità, degli egoismi economici e sociali, delle sperequazioni che la stagione del leghismo ha scaricato sulle spalle del Mezzogiorno. Qui c’è un compito grande e, anzi, addirittura epocale per l’intera classe dirigente del Paese, e dunque anche per II Mattino: radunare tutti i contributi possibili, aprire il confronto il più ampio possibile sulle politiche da mettere in campo, non spegnere i riflettori sul Mezzogiorno e provare a portare l’intero Paese, tutto insieme, fuori dalla più grave crisi della sua storia repubblicana. Di più: avere l’ambizione di restituire un Paese, dal Sud al Nord, migliore di quello che nella crisi era entrato. Il film realizzato per illustrare il rapporto profondo che lega questo giornale alla città è rivolto anzitutto ai ragazzi, alla giovani generazioni. Da loro dipende il futuro di Napoli. A loro si è rivolto il Capo dello Stato, quando ha detto che mafia e camorra possono essere sconfitte. A loro credo abbiano pensato anzitutto gli autori della proposta di realizzare a Castelcapuano, in un luogo simbolo della città, un memoriale per le vittime innocenti della camorra, iniziativa che, come ministro della Giustizia, appoggio e sostengo con grande determinazione, in sintonia con il Comune di Napoli e il Sindaco Luigi de Magistris. Possiamo fare di quegli spazi un polo di rinascita civile della città. Il senso della legalità, i valori della giustizia costituiscono infatti una precondizione fondamentale per lo sviluppo di Napoli. Dal Mattino sono venuti tanti esempi - a cominciare da quello di Giancarlo Siani, di cui ricorrono proprio in questi giorni i trent’anni dall’assassinio, che ho voluto ricordare recandomi la scorsa settimana a Torre Annunziata - esempi di questa strenua lotta contro la corruzione, la violenza, la criminalità che non dobbiamo mai smettere di condurre, e che possiamo combattere e vincere nel pieno rispetto dello Stato di diritto, ma prosciugando anzitutto le condizioni di bisogno in cui il malaffare prospera, e la camorra arruola le sue nuove leve. Questa è la sfida, questo è il futuro che vogliamo costruire. E continuare a leggere ogni giorno, con tenacia e passione, sulle colonne del Mattino. Lettere: dalla vita al teatro, passando per l’Opg di Anita Eusebi matmodena.it, 29 settembre 2015 "János Boka fissò pensosamente davanti a sé, e per la prima volta nella sua anima di ragazzo balenò l’idea di ciò che è propriamente questa vita, per la quale noi, suoi schiavi, ora con gioia ora con dolore, lottiamo." Con queste parole si chiude I ragazzi della via Pál di Ferenc Molnár, tra i più noti classici della letteratura per ragazzi. Nel ricco cartellone di spettacoli teatrali che andranno in scena nel corso di Màt 2015, Ragazzi della via Paal, conversa/azione in un tempo a cura della Società Italiana Formazione Psichiatria Penitenziaria e Forense è liberamente tratto proprio dal romanzo ungherese. Ricontestualizzato nella realtà drammatica degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, lo spettacolo, che si terrà martedì 20 ottobre alle ore 21.00 presso il Teatro Tempio a Modena, vede protagonisti sul palco Adolfo Ferraro, ex direttore del manicomio giudiziario "Filippo Saporito" di Aversa, e Giuseppe Rosano, ex internato, e giocando sulle due diverse esperienze racconta l’istituzione dal punto di vista di chi per anni l’ha vissuta, al di là del cancello e delle mura. Pochi oggetti sulla scena, ma significativi. Simboli dei ricordi dolorosi della reclusione, della libertà sognata, di una quotidianità di oggi che sempre è nuova conquista verso la costruzione di un futuro tutto da reinventare. Luci soffuse accompagnano l’intimità di riflessioni ed emozioni. Parole amare e al tempo stesso piene di speranza raccolte in un copione scritto a quattro mani da Ferraro e Rosano, in un dia-logos teatrale tra l’una e l’altra esperienza. "Eviterei di parlare in senso stretto di spettacolo. Non a caso lo abbiamo chiamato conversa/azione: è cioè una conversazione con degli agiti che vuole raccontare la reclusione e l’emarginazione di chi non è omologato, con tempi, schemi e meccanismi che sono in qualche modo quelli del teatro", afferma Ferraro. "L’idea è nata quando ho smesso di essere direttore dell’Opg di Aversa e sono andato in pensione. Tra i molti rapporti che ho mantenuto con i miei ex pazienti c’è stato in particolare quello con Peppe. Parlando con lui mi sono accorto via via che le nostre vite avevano avuto molti punti in comune, fino all’incontro nella modalità dolorosissima della reclusione della malattia mentale in Opg. Chissà in quante occasioni e situazioni ci eravamo già incrociati senza saperlo! È così che ci è tornato in mente il romanzo I ragazzi della via Pál, ci siamo immaginati come due che si rincontrano dopo tanti anni in una sorta di altrove indefinito, all’inizio non si riconoscono, poi si confrontano e man mano riaffiorano i ricordi. La legnaia di un tempo a Budapest si trasforma negli ambienti bui dell’Opg, le sopraffazioni dei fratelli Pasztor si traducono nell’assenza di diritti". Ragazzini che giocavano insieme da piccoli e che la vita ha poi allontanato secondo destini differenti, si ritrovano ormai vecchi e stanchi e dialogando scoprono di essersi spesso incrociati senza riconoscersi e di aver condiviso in particolare nella loro vita l’esperienza dell’Opg, ma con ruoli ben diversi. Vittime e carnefici, entrambi, in modo altrettanto diverso. Inizia così la conversa/azione tra i due protagonisti sui temi del disagio mentale, di una cura improbabile in un ambiente che è insieme carcere e manicomio, della contenzione, dei maltrattamenti, dei suicidi in Opg, dello stigma sociale, dell’assenza delle istituzioni, dei diritti negati. In un’atmosfera amichevole, quasi leggera, domande, dubbi e riflessioni si alternano a racconti di vita vera, vissuta sulla propria pelle, con piena consapevolezza degli errori e orrori di ciascuno. "Ferraro come ex direttore dell’Opg e io come ex internato abbiamo deciso di mettere su questo spettacolo non tanto per lo spettacolo in sé, quanto per lanciare un messaggio alla cittadinanza, per sensibilizzare l’opinione pubblica. Molte persone non sanno come funzionano queste cose, come vengono trattate le persone con problemi psichici. Riteniamo invece sia giusto che la gente sappia", commenta Rosano. Non banale l’idea di un dialogo teatrale tra un ex direttore e un ex internato. Ma com’era nella realtà il rapporto tra il direttore di Opg e un internato? "Come "direttori" di Opg, eravamo un misto di direttore di carcere e direttore di manicomio, dotati direi di un certo delirio di onnipotenza che personalmente ho sempre cercato di tenere a freno. Io vengo dalla scuola di Sergio Piro, mi ha insegnato che è molto importante avere un rapporto con i pazienti, stabilire una relazione, e questo è quello che ho sempre fatto. All’interno delle mura dell’Opg il mio rapporto con i miei pazienti era assolutamente umano", sottolinea Ferraro. Intenso anche l’altro punto di vista: "Mentre ero internato Adolfo Ferraro per me era "il direttore", e lo è rimasto anche dopo, per molto tempo" racconta Rosano. "Sarebbe finito là questo rapporto nato come medico-paziente se non fosse stato per il fatto che casualmente ci siamo rincontrati, e abbiamo iniziato a frequentarci come due persone che hanno avuto esperienze diverse. Facciamo parte dello stesso tessuto sociale e la vita ci ha portato a incontrarci in varie situazioni, pur con ruoli differenti, ma ciò non costituisce un muro, una barriera, un tabù. Ormai l’abbiamo superata questa cosa. Oggi possiamo dire di essere due uomini che sono diventati "quasi amici". Anche attraverso l’istituzione. Soprattutto direi, nonostante l’istituzione. Ora ci diamo finalmente del tu, non mi è stato semplice superare la sua identità di direttore dell’Opg, ma mi è venuto incontro e il rapporto si è trasformato nel tempo, per volontà di entrambi. Non più un rapporto tra medico e paziente, ma fra due persone. E così, ragionando insieme, è nata l’idea dello spettacolo". "Il copione ha vari livelli di lettura, ha sì alcuni elementi "spettacolari", ma vuole essere soprattutto il racconto di un’esperienza doppiamente importante perché non univoca, ma bilaterale", spiega Ferraro. "Quando mi chiamavano nelle università o in altre occasioni a parlare di Opg, invece di andare da solo e portare il mio punto di vista io andavo con Peppe, che aveva modo così di raccontare anche il suo punto vista. Naturalmente, oltre al raccontare "per gli altri", si è trattato di un lavoro interno, molto personale, per entrambi. Peppe mi chiamava ancora "direttore" fino a poco tempo fa. Ora non più. Via via si è passati al rispetto in relazione alle persone, e non più ai ruoli. Per cui in questo momento io rispetto Peppe non per il suo essere un mio ex paziente, ma per quello che è come persona. A gennaio è venuto a Napoli il giornalista del Tg2 Valerio Cataldi, autore dell’inchiesta del 2007 sugli Opg Pazzi criminali, per un’intervista e tra le varie cose ha chiesto a Peppe "ma ora tu e il direttore che cosa siete?" e Peppe ha risposto "quasi amici", proprio come nel film". Una particolare attenzione quella per le attività teatrali da parte di Ferraro, nota anche negli anni durante i quali è stato direttore dell’Opg. "Il fatto di recludere il disagio mentale è un qualcosa che toglie la possibilità di esprimersi, e la toglie a tutti, sia internati che direttori. Anche a direttori come me che hanno sempre cercato di denunciare tutta una serie di situazioni", precisa Ferraro. "Quando ero direttore ci tenevo che i miei pazienti facessero laboratori teatrali, e intendo l’essere in grado si esprimere se stessi attraverso il meccanismo del teatro. Certo, c’è sempre il rischio del "guarda il pazzo che fa lo spettacolo", perché poi questo è lo stigma alla fine, però occorre non farsi fermare da questo tipo di commenti e pregiudizi. Il teatro è stato un aiuto fondamentale alla cura, ha permesso a molte di queste persone di tirare fuori una parte di loro stessi. E questo è ciò che importa. Ricordo con emozione quando facemmo lo spettacolo Aspettando Godot di Samuel Beckett, Peppe interpretò Vladimiro e fu bravissimo. Che dire, uno che sta in Opg veramente aspetta Godot…". "Devo ringraziare Adolfo - replica Rosano - per aver scoperto questa mia passione per il teatro. Ho iniziato a fare dei laboratori grazie a lui, ci teneva molto che in Opg si facesse questo tipo di attività. Era importante tirare fuori dal guscio le persone con problemi, molti si chiudevano in se stessi fino all’abbandono totale. Una volta abbiamo recitato anche al Mercadante di Napoli, davanti a una platea di 500 persone, ti lascio immaginare l’emozione, da lì in poi la paura del pubblico è passata di botto. Si trattava di Aspettando Godot, io ero uno dei due attori principali. E oggi il fatto di fare ancora teatro è molto importante per me. Il teatro mi dà la possibilità come di guardarmi allo specchio, di vedere certe sfaccettature del mio essere che normalmente invece mi sfuggono, e quindi di approfondire la conoscenza di me stesso. Di lavorare su me stesso. Questo è un aspetto che forse lo spettatore non coglie. È importante da un lato sensibilizzare il pubblico, ma è altrettanto importante continuare a lavorare su se stessi, sempre". Le parole di entrambi esprimono con forza quanto sia importante portare in teatro i temi della salute mentale, sia per sensibilizzare il pubblico sia per l’aspetto terapeutico per le persone con problemi psichici quando sono loro stesse gli attori sul palco, e a maggior ragione quando re-interpretano esperienze vissute direttamente in prima persona. "Sul palco racconto diversi passaggi del mio vissuto - ribadisce Rosano - io la contenzione l’ho vissuta realmente. E la voglio raccontare, è un messaggio che voglio trasmettere. Il senso di sgomento, la paura, i trattamenti brutali… Perché degli operatori debbano obbligarti a subire certe cose proprio non lo capisco! C’erano addirittura infermieri che maltrattavano i malati, aizzavano i più scombinati psichicamente verso i più deboli, con minacce e metodi bruschi. La giustificazione? Rispondevano "si è sempre stato fatto così", e quindi continuavano a fare così. Io ho letto alcuni libri di Franco Basaglia, come L’istituzione negata, e so bene che le cose dovrebbero funzionare in modo diverso. Ci vogliono persone competenti, preparate adeguatamente, per aiutare chi ha problemi psichici, ci vogliono i dovuti modi, dialogo e impegno. Io sono del parere che le persone vadano trattate diversamente, se una persona ha bisogno di cure, l’istituzione deve fornirle e decentemente. Legare una persona non significa curarla, significa mettere da parte la ragione, e il cuore. Sono queste le contraddizioni assurde dell’Opg". A sei mesi dalla chiusura per legge degli Opg, quello di Aversa, come gli altri, è ancora aperto. "Ci sono oggi circa 50 persone. Stanno avviando la costruzione di due Rems e l’Opg diventerà a breve un carcere a custodia attenuata. Molto probabilmente gli internati pericolosi che sono ancora in Opg andranno a finire in una sezione psichiatrica del carcere", spiega Ferraro. "Io non penso comunque che le Rems possano essere la vera soluzione, certamente non è quello per cui abbiamo lottato. Lo scopo non è quello di avere un "manicomio migliore", così facendo il modello culturale manicomiale non cambia, e non a caso Castiglione da Opg è diventato Rems senza cambiare di una virgola". Anche Rosano commenta con un filo di amarezza, "Per legge sarebbe chiuso l’Opg di Aversa. In realtà non è così, mancano le misure alternative, e ancora molte persone restano prigioniere dei ritardi, diciamo così". Adolfo Ferraro e Giuseppe Rosano saranno anche tra gli ospiti della tavola rotonda Teatro e Salute Mentale che si terrà a Màt 2015 il 21 ottobre. L’incontro, nell’ambito del quale sarà presentato il progetto "Teatro e Salute Mentale" della Regione Emilia-Romagna, sarà occasione per tanti attori e operatori a livello nazionale di raccontare la propria esperienza teatrale, terapeutica e artistica, quale importante contributo alla costruzione di una salute mentale di comunità. Abruzzo: Manconi "Rita Bernardini la più qualifica per il ruolo di Garante dei detenuti" radicali.it, 29 settembre 2015 Dichiarazione di Luigi Manconi, senatore, presidente della commissione Diritti Umani: "Se c’è una persona che merita di essere nominata garante dei diritti dei detenuti in Abruzzo, quella è Rita Bernardini. E ciò in ragione della sua solidissima competenza in materia, acquisita sul campo, grazie a una ininterrotta vigilanza sui nostri istituti di pena. La Bernardini conosce le carenze del sistema dell’esecuzione penale e pertanto è la persona più titolata a coprire quell’importantissimo ruolo. A impedirlo, pare, c’è un codicillo che la interdice a causa della sua fedina penale non immacolata. In particolare, le sue condanne dovute al fatto di aver violato intenzionalmente la normativa sulle sostanze stupefacenti, al fine di dimostrarne l’illogicità e il carattere criminogeno. In un tale quadro, appare chiaro come quello che attualmente rappresenta un impedimento alla nomina della Bernardini sia in realtà un definitivo elemento di merito, che la colloca dalla parte del diritto". Campania: il Presidente De Luca contro Raitre, l’azienda valuta una querela di Micaela Bongi Il Manifesto, 29 settembre 2015 Il presidente della Campania contro Report: "Atti di camorrismo giornalistico". Anche per il Pd in Vigilanza sono "parole inaccettabili". Il tiro a Raitre, sport un tempo prediletto dai forzisti, ha preso ultimamente piede in casa Pd. Prima Ballarò (criticato da Matteo Renzi in persona), poi Presadiretta, il programma di Riccardo Iacona ritenuto reo di aver nascosto ai telespettatori le meraviglie del Jobs Act. E ora nella lista compare anche Report. Domenica mattina, ospite a Salerno della festa di Scelta Civica, il governatore della Campania, il dem Vincenzo De Luca, in uno dei suoi show si è scagliato contro il programma di Milena Gabanelli che lo aveva intervistato sul caso Crescent (il mastodontico complesso edilizio progettato proprio sul lungomare di Salerno, per il quale l’ex sindaco è a giudizio). Ma anche contro Presadiretta, che nella sua prima puntata della stagione si è occupato anche del Pd campano. E in generale è partito a testa bassa contro la terza rete: "La più grande fabbrica di depressione", la "lobby radical chic del Paese" responsabile, secondo il governatore, di "atti di camorrismo giornalistico, attacchi personali, atti di imbecillità, ma non ingenua". "La camorra è una roba seria, ci sono giornalisti che sono morti per camorra, bisognerebbe avere l’intelligenza di non usare questi termini per fare polemiche", la risposta arrivata ieri da Iacona, che invita De Luca a svolgere i suoi "compiti difficilissimi in Campania", lasciando perdere la critica televisiva. Eccessiva, la sortita di De Luca, anche per gli esponenti dem della commissione di vigilanza: "Parole inaccettabili", le aveva definite già domenica il capogruppo Vinicio Peluffo. E troppo, questa volta, anche per i vertici Rai. Ieri sul fare della sera l’azienda è intervenuta con una nota: "L’attacco del governatore Vincenzo De Luca a Raitre è offensivo e ingiustificato. La definizione di ‘camorrismo giornalisticò usata nei confronti di una rete del servizio pubblico è intollerabile per l’azienda e i tanti professionisti che vi lavorano. Un conto è il diritto di critica, un conto accostare il rigoroso lavoro giornalistico a realtà criminali". Dunque viale Mazzini "valuterà con i suoi legali gli estremi di un’eventuale azione a tutela della rispettabilità". E così all’ora di cena (nel pomeriggio era intervenuto anche il presidente della commissione di vigilanza Rai, il 5 Stelle Roberto Fico, chiedendo al Nazareno di battere un colpo, così come aveva fatto Nicola Fratoianni di Sel), interviene anche il vicesegretario del Pd, Lorenzo Guerini: "Solidarietà a Raitre e a tutte le professionalità che ci lavorano. Non condivido le parole del governatore De Luca - dice il vice di Renzi - che reputo sbagliate. L’eventuale dialettica che può nascere tra informazione e politica non deve trasformarsi in affermazioni che oltrepassano il confronto, anche aspro, per scadere nell’offesa". Insomma, si attacchino pure i programmi sgraditi, ma senza strafare. Anche perché il rischio è che poi qualcuno sospetti, come fanno i 5 Stelle, che "il nuovo corso del Pd renziano" sia "intimidire in maniera violenta chi fa informazione". Piemonte: il Garante dei detenuti Mellano; al via settimana iniziative dedicate alle carceri Ansa, 29 settembre 2015 Per il sistema carcerario del Piemonte - che è stato un modello in Italia negli anni 80 e 90 ma oggi non sfugge a una situazione generale in cui l’Italia è stata condannata per pene inumane e degradanti - è al via un autunno di iniziative eccellenti, seppure di nicchia. Le ha presentate oggi a Torino il garante dei detenuti del Piemonte, Bruno Mellano, insieme ai responsabili delle cooperative e associazioni che svolgono il lavoro con i detenuti: l’Università di strada del Gruppo Abele, l’associazione Antigone, il mercatino Valelapena, il laboratorio teatrale Le voci erranti, il Charity shop Marte. Si spazia dal seminario sul dolore in programma ad Avigliana il 29 e 30 settembre all’approfondimento sulla tortura che si svolgerà a Saluzzo dall’1 al 4 ottobre. Sempre a Saluzzo ci sarà nelle stesse date uno spettacolo teatrale mentre ad Alba, dove in questi giorni i detenuti stanno vendemmiando, si terrà un mercatino di prodotti provenienti dal carcere. "Il lavoro - ha osservato Mellano - dà al detenuto una opportunità di riscatto e di reddito, e lo aiuta in modo significativo ad abbattere le recidive. Purtroppo in Piemonte, come in Italia, le eccellenti iniziative esistenti restano esperienze di nicchia. Si deve invece cercare di estenderle, nell’interesse dei detenuti che hanno diritto a una pena che non sia inumana e degradante, e della società, che abbattendo la recidiva abbatterebbe i costi del sistema penitenziario e del sistema giudiziario". Pesaro: detenuto suicida, era in carcere per resistenza a pubblico ufficiale Ansa, 29 settembre 2015 Un detenuto marocchino si è tolto la vita nel carcere di Villa Fastiggi a Pesaro, impiccandosi alle sbarre della cella. Anas Zemzami, di 25 anni, aveva patteggiato una condanna ad un anno di reclusione per resistenza a pubblico ufficiale, un reato commesso a Roma. Nella casa circondariale pesarese era arrivato da poco, dopo un periodo di detenzione ad Ascoli Piceno. Inutili i soccorsi degli agenti di custodia. Il comunicato del Sappe "Avrebbe guadagnato la libertà nel mese di aprile del prossimo anno o, forse, tra qualche settimana se la magistratura di sorveglianza avesse celebrato l’udienza già fissata per la concessione di misure alternative. E, invece, ha deciso di porre fine alla propria esistenza nel penitenziario di Villa Fastiggi che lo ha ospitato per cinque mesi perché colpevole dei reati di false attestazioni e resistenza alla forza pubblica ed in cui aveva fatto rientro qualche ora prima a seguito delle dimissioni dalla sezione psichiatrica del carcere di Ascoli". È quel che dichiarano Donato Capece e Claudio Tommasino, rispettivamente segretario generale e segretario provinciale di Pesaro del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, dando notizia dell’ennesimo suicidio di un detenuto in carcere, avvenuto sabato nella struttura detentiva di Pesaro. "L’ennesima tragedia, il suicidio di un uomo nemmeno trentenne con trascorso importante di tossicodipendenza e problemi di natura psichiatrica, ripropone la questione del se può il carcere farsi carico della missione risocializzante quando il soggetto cui si rivolge non è in grado di comprendere né il disvalore delle proprie condotte né recepire le azioni di sostegno", aggiungono i sindacalisti del Sappe. "E così ancora una volta il sistema lascia alla Polizia Penitenziaria il compito di impedire le azioni suicide in attesa dei tempi: basti pensare che a livello nazionale, negli ultimi vent’anni, le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria hanno salvato la vita, sventandone il suicidio, a più di 19mila detenuti". Capece e Tommasino rivendicano "i meriti dell’azione della Polizia Penitenziaria che quotidianamente combatte il mal di vivere di molti detenuti cui salva la vita. Sono quegli stessi uomini e quelle stesse donne, ormai disincantati dalle teorie del nuovo modello di sorveglianza che resta dinamico nelle intenzioni ma fermo nei crudi dati della statistica. E si consideri che il carcere di Pesaro non ha neppure un direttore titolare ma è retto provvisoriamente dal dirigente a capo di un altro penitenziario". Napoli: a Poggioreale arriva la visita a sorpresa del ministro Andrea Orlando di Claudia Procentese Il Mattino, 29 settembre 2015 Visita ispettiva a sorpresa, ieri sera, del ministro della Giustizia Andrea Orlando nel carcere di Poggioreale. Accompagnato dal suo capo di Gabinetto Giovanni Melillo, il guardasigilli ha voluto fare il giro di alcuni padiglioni, tra cui l’Avellino destro appena ristrutturato e riorganizzato nelle procedure e nell’intervento del personale sanitario. Il reparto, infatti, di recente era stato protagonista dello scandalo sulla "cella zero", dopo le denunce di pestaggi da parte di alcuni detenuti, e di un’interrogazione parlamentare sulla presenza, in questa sezione, di reclusi affetti da disagi di natura psichiatrica e tenuti in isolamento, violando le leggi del regolamento penitenziario. Da qualche mese le stanze cosiddette "lisce" dell’Avellino destro, cioè senza suppellettili per evitare atti di autolesionismo, sono state invece arredate e ritinteggiate. Il sopralluogo senza preavviso, durato un paio d’ore, ha riguardato anche il padiglione Roma, che ospita transessuali, sex offenders, ovvero chi si è macchiato di reali sessuali, e tossicodipendenti in trattamento al metadone, il Milano parzialmente ristrutturato e l’Avellino con i detenuti dell’alta sicurezza. I detenuti hanno accolto favorevolmente il blitz fuoriprogramma del ministro durante la sua giornata trascorsa a Napoli. Orlando è entrato nelle celle, intrattenendosi a parlare con loro che hanno sottoposto alla sua attenzione le difficoltà quotidiane, dovute al cronico sovraffollamento, seppure il numero di detenuti non raggiunge le allarmanti cifre del passato e si aggira oggi sulle 1900 presenze, e la speranza in provvedimenti di clemenza come l’amnistia. "Abbiamo apprezzato la visita - ha detto Donato Capece, segretario del Sappe - mi auguro che si possa tradurre anche in progetti concreti per impiegare i detenuti in lavori di Pu; e che si adotti ogni utile provvedimento finalizzato a rendere davvero rieducativa la pena e per un nuovo e qualificato ruolo operativo della Polizia Penitenziaria nell’esecuzione penale esterna". Palermo: "Vale la pena", un progetto di giustizia riparativa per imputati e famiglie di Marzia Paolucci Italia Oggi, 29 settembre 2015 Si chiama "Vale la pena", il progetto di giustizia riparativa finalizzato al reinserimento sociale e lavorativo messo in campo a Palermo per le persone in esecuzione penale. La particolarità è infatti quella di non fermarsi al singolo recluso classificato come "beneficiario diretto" ma di coinvolgere tra i "beneficiari indiretti", le famiglie dei destinatari dell’intervento e la comunità intesa come cittadinanza "sensibilizzata alla reintegrazione delle persone sottoposte a procedimenti penali secondo il modello riparativo", si legge nelle note del progetto. La durata prevista è di 36 mesi presso il Centro diaconale "La Noce" Istituto valdese di Palermo, partner del progetto con l’Ufficio di esecuzione penale esterna della città. A guidarlo un pedagogista e criminologo, un educatore, un volontario psicologo, un medico Asl e un funzionario Uepe - Ufficio esecuzione penale esterna, tutte professionalità indicate per l’operatività del progetto. Nell’elenco delle attività, sono previsti: un progetto educativo individuale e colloqui di verifica periodica, l’affiancamento nella ricerca attiva del lavoro con bilancio di competenza, stesura cv, lettura di giornali per la ricerca lavoro e scouting aziendale insieme allo sviluppo di percorsi di autonomia abitativa, laboratori di genitorialità e creazione di network e spazi di socialità a partire dal coinvolgimento delle varie realtà di volontariato presenti nel territorio. Gli obiettivi che il progetto insegue son tanti, a cominciare dalla costruzione e sviluppo della rete locale di accoglienza per le persone sottoposte a procedimenti penali e dal potenziamento degli interventi di accompagnamento sociale ed educativo per le persone accolte fino allo sviluppo di partnership. Dal punto di vista lavorativo, vanno identificati eventuali fabbisogni di formazione, un progetto individualizzato e l’affiancamento alla ricerca attiva del lavoro con avvio di tirocini e borse lavoro per arrivare all’offerta di risorse e occasioni concrete di inserimento lavorativo in azienda. I professionisti coinvolti saranno tenuti a testare la disponibilità dei soggetti ad avviare eventuali percorsi di mediazione e giustizia riparativa con l’accompagnamento, presa in carico e mantenimento delle relazioni con la famiglia del soggetto dalla fase di detenzione alla fase di reinserimento sociale. Mentre sul piano personale, la persona dovrà lavorare sul potenziamento della propria autostima e autonomia riappropriandosi della dignità personale e dell’autoconsapevolezza ferma restante la promozione della cultura della legalità e la sensibilizzazione della cittadinanza alla reintegrazione secondo il modello riparativo che orienta tutto il progetto. Il progetto si inquadra nell’ambito della legge 67/2014, la legge sulle misure alternative al carcere e di riforma del sistema sanzionatorio, "Delega al governo in materia di depenalizzazione, sospensione del procedimento con messa alla prova, pene detentive non carcerarie, nonché sospensione del procedimento nei confronti degli irreperibili", conosciuta come "messa alla prova". Un provvedimento che prevede importanti misure di carattere strutturale e di sistema per ridurre il problema del sovraffollamento carcerario attraverso l’istituto della messa alla prova o probation, la previsione di pene detentive non carcerarie e la depenalizzazione di un’ampia categoria di reati. A tal riguardo, va sottolineato che l’Uepe, con questa legge delega, acquisisce nuove competenze istituzionali in ambito di Messa alla Prova: prende in carico l’imputato ammesso dal giudice alla messa alla prova e alla fine del periodo di sospensione del procedimento per messa alla prova, è chiamato a scrivere una relazione conclusiva su cui si baserà il giudice per la sua decisione finale che in caso di esito positivo, porta all’estinzione del reato. Firenze: l’offerta dei detenuti di Sollicciano "costruiamo noi l’altare per Papa Fancesco" di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 29 settembre 2015 I detenuti di Sollicciano coltivano un’altra speranza. Dopo che Papa Francesco ha risposto alla loro lettera, adesso sognano ancora più in grande: vorrebbero costruire l’altare su cui il Pontefice celebrerà la messa allo stadio Artemio Franchi. È un desiderio, ma sta prendendo forma nelle celle di Sollicciano. I reclusi avrebbero voluto che il Pontefice, durante la sua visita a Firenze il prossimo novembre, trovasse il tempo di passare anche dal carcere. Ma visto che è alquanto improbabile, l’idea è quella di portare al Papa un pezzo di Sollicciano. Così nasce l’idea dell’altare, una vera e propria opera d’arte che potrebbe essere costruita all’interno del penitenziario sotto la guida di esperti falegnami. Il Vaticano deve ancora dare il via libera al progetto, ma sognare non costa niente e all’interno di Sollicciano si starebbe già pensando all’architettura dell’opera, all’artista e agli operai da coinvolgere. Tra i 700 detenuti ci sono diversi falegnami, che potrebbero essere coadiuvati nel progetto anche dai reclusi che prima di entrare in cella erano imbianchini. La costruzione dell’altare sarebbe una possibilità storica per i detenuti, l’occasione per creare qualcosa da far ammirare al mondo intero. Qualche speranza c’è, se si guarda al rapporto che si è instaurato nelle ultime settimane tra i detenuti e Francesco con lo scambio di lettere. "È stato un messaggio molto importante - ha detto il cardinale Giuseppe Betori sulla lettera di Bergoglio. Era immaginabile che il Pontefice rispondesse ai detenuti data la sua attenzione su questi temi. Purtroppo non sarà possibile una visita a Sollicciano, visto che la sua non è una visita pastorale bensì per un convegno ecclesiale. Però - ha aggiunto Betori - probabilmente ci sarà ugualmente spazio per un legame tra il Santo Padre e i detenuti fiorentini". Chissà che questo legame non si possa rinsaldare proprio attraverso la costruzione dell’altare. Sarebbe un altro potente messaggio che il Vaticano lancerebbe al mondo dietro le sbarre. Un sogno non soltanto dei detenuti, ma condiviso dagli agenti penitenziari e dalla direttrice del carcere Maria Grazia Giampiccolo: "Sollicciano deve diventare un luogo della città". E sulla lettera scritta dai reclusi al Papa: "È una richiesta di attenzione ai tanti problemi che si vivono quotidianamente dentro il carcere". Pavia: Ufficio Esecuzione Penale Esterna in crisi, 1.000 casi da trattare e solo sei operatori di Manuela Marziani Il Giorno, 29 settembre 2015 Mille casi di cui occuparsi e dietro ad ognuno c’è una storia con tutto il suo carico di speranze. L’Ufficio di Esecuzione Penale Esterna (Uepe) di Pavia, servizio specialistico del ministero della Giustizia, opera per il reinserimento degli imputati e dei condannati, competente per la provincia di Pavia e per 22 comuni dell’hinterland milanese, lavora da anni in disperate condizioni operative determinate dalla grave carenza d’organico e dal costante aumento del carico di lavoro. Sono sei, infatti i funzionari a fronte di una pianta organica di 21, ognuno dei quali deve occuparsi di 170 casi. Una carenza di organico pari al 72% e con un carico di lavoro, riconosciuto dai Superiori Uffici dell’Amministrazione Penitenziaria, come tra i più alti della nazione. Soprattutto ora che con l’apertura dei nuovi padiglioni nelle strutture penitenziarie di Pavia e Voghera si è avuto un aumento di circa 500 detenuti (300 Pavia, 200 Voghera), che ha aggravato ulteriormente il carico di lavoro dei funzionari di servizio sociale. Ieri i lavoratori si sono riuniti in assemblea e, su segnalazione della Fp Cgil, è stato invitato a partecipare anche il parlamentare di Sel Franco Bordo che interrogherà il ministro della Giustizia Andrea Orlando riguardo allo specifico caso di Pavia. Che è forse un po’ più grave di quanto accade nel resto d’Italia, non si discosta molto. Complessivamente, infatti, gli assistenti sociali che svolgono questo delicato lavoro sono del tutto insufficienti. In Italia sono circa 900 (dovrebbero essere circa 1.600), hanno in carico circa 33mila misure e sanzioni non detentive (affidamento in prova al servizio sociale, detenzione domiciliare, lavoro di pubblica utilità, messa alla prova, ecc.), 29mila richieste per l’attività di indagine e consulenza svolta per il carcere e la magistratura, 6mila casi per i lavori di pubblica utilità per violazione del codice della strada, 3mila persone che svolgono la messa alla prova e 9mila richieste di indagine per ottenere la messa alla prova. L’investimento su tali uffici rappresenta solo circa il 2,5% dell’intero costo del sistema penitenziario e in 20 anni le misure alternative e le sanzioni non detentive seguite dagli Uepe sono aumentate del 700%. Avellino: altri undici agenti di Polizia penitenziaria in arrivo al carcere di Ariano Irpino di Maria Elena Grasso Il Mattino, 29 settembre 2015 Dal primo ottobre assumeranno servizio presso la Casa circondariale di Ariano Irpino altri undici agenti di polizia penitenziaria. L’istituto arianese è stato inserito nel piano di potenziamento degli organici, dei servizi e delle infrastrutture. Ad annunciare il provvedimento è Aldo Di Giacomo, responsabile regionale del Sindacato Polizia Penitenziaria, nel corso di un vertice sindacale svoltosi nella città del Tricolle. "Questa volta - spiega Di Giacomo - non partiamo dalle solite notizie negative, ma da un provvedimento che contribuisce a garantire maggiore sicurezza nell’istituto arianese, dove non sono mancati negli ultimi tempi episodi di aggressione ai danni di agenti penitenziari, proprio per la mancanza di personale". "Il fatto estremamente positivo - aggiunge Di Giacomo - è che queste unità lavorative arrivano qui per restarvi. In pratica sono distaccate in attesa di trasferimento. Non si tratta quindi assegnazioni temporanee, ma definitive. Certo, non si risolvono tutti i problemi relativi alla carenza di organico, ma qualcosa si muove e altro è in arrivo". Per Di Giacomo va affrontato con immediatezza anche un altro problema: il comandante di reparto non è sempre presente nella struttura arianese perché impegnato anche altrove. "Ebbene sia con il direttore - continua - che con l’interessato pongo una questione di fondo: molti episodi interni al carcere potrebbero essere dipesi anche da un mancato coordinamento della forza. Insomma, qui il comandante di reparto deve essere sempre presente". Il carcere dì Ariano Irpino, come hanno evidenziato anche le viste di esponenti politici, dì associazioni che si richiamano ai diritti dell’uomo e di rappresentanti sindacali interni, ha bisogno, inoltre, di ulteriori urgenti interventi strutturali. "C’è davvero tanto da fare - ribadisce con determinazione Di Giacomo. Per esempio, ci sono ascensori che non funzionano. Non più tardi di qualche giorno fa abbiamo assistito alla difficoltà di un detenuto disabile di potei essere tempestivamente trasportato altrove per cure. Ma dopo un confronto con il Provveditore è arrivato l’impegno non solo per riparare gli ascensori, ma anche per migliorare diverse strutture interne. Certo, bisogna fare i conti con le risorse disponibili. Si farà qualcosa entro i prossimi mesi". Al palo, tuttavia, restano le aspettative per realizzare qualche impianto sportivo. L’area sulla quale è stato ultimato il nuovo moderno padiglione, c’era un campo sportivo. I detenuti, pertanto, per le attività sportive devono arrangiarsi. O al chiuso o nello spazio destinato all’ora d’aria. Ci sono progetti di associazioni esterne (Rotary Club Centenario Avellino Est o Lions Club di Ariano) per realizzare mini impianti, ma sono tutti da verificare. Cremona: Sappe; agente aggredito da detenuto extracomunitario armato di una lametta Adnkronos, 29 settembre 2015 Un poliziotto penitenziario è stato aggredito da un detenuto extracomunitario armato di una lametta al rientro dalle attività al campo sportivo. È accaduto nei giorni scorsi ma lo rende noto oggi il Sappe. L’agente era solo in mezzo a trenta detenuti e si è salvato grazie al tempestivo intervento di un altro ristretto e di altri poliziotti in servizio accorsi nell’immediatezza. Per Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria "non capisco come possa esserci chi dica che "adesso nel carcere di Cremona si respira aria nuova", schierandosi tout court dalla parte del direttore reggente, che per altro non ha neppure la titolarità del carcere cremonese, senza invece domandarsi perché accadono sistematicamente eventi critici in questo carcere e quanto invece incidano sul verificarsi di tali eventi la pessima organizzazione del lavoro e della vita detentiva come organizzata da direttore reggente e comandante di reparto?. Noi, primo e più rappresentativo Sindacato della Polizia Penitenziaria ?aggiunge Capece- continueremo a pretendere una trasparenza reale della gestione della cosa pubblica, un reale rispetto delle regole e della democrazia in materia di organizzazione del lavoro dei poliziotti di Cremona, di salubrità dei posti di lavoro, di rispetto dei diritti inviolabili di ogni singolo Agente, Sovrintendente, Ispettore di Polizia Penitenziaria. Ad ognuno la libertà di scegliere da che parte schierarsi: i numeri delle adesioni sindacali parlano da soli". Roma: Teatro Libero di Rebibbia, i detenuti attori protagonisti in "Dalla Città Dolente" rbcasting.com, 29 settembre 2015 Martedì 13 ottobre alle ore 16.00 al Teatro della C.C. Roma Rebibbia N.C. - nell’ambito del Festival dell’Arte Reclusa, organizzato dal Centro Studi Enrico Maria Salerno - si terrà un nuovo interessante appuntamento che vedrà protagonisti i detenuti attori del Teatro Libero di Rebibbia. Il teatro della casa circondariale ospiterà infatti Segnalibro, Teatro - Carcere - Editoria - II Edizione, dove verrà presentato il volume "Dalla Città Dolente - Colpa, Pena, Liberazione attraverso le visioni dell’Inferno di Dante", dalla Divina Commedia, copione teatrale annotato e illustrato presentato dai detenuti attori del Teatro Libero di Rebibbia - G12 A.S. Drammaturgia e Regia sono a cura di Fabio Cavalli. Ingresso libero con accreditamento obbligatorio entro il 04 Ottobre 2015. Radio: la prigione è davvero in grado di rieducare? Ne parla "Pane Quotidiano" (Rai 3) Askanews, 29 settembre 2015 Otto anni dietro le sbarre per scoprire di essere un grande attore. Consacrato dal film "Cesare deve morire", dei fratelli Taviani, l`ex detenuto Salvatore Striano è un esempio di riabilitazione attraverso il carcere. Ma quanto rappresentativo? La prigione è davvero in grado di rieducare? Se ne parla nella puntata di Pane Quotidiano, il programma di Rai3 condotto da Concita De Gregorio, in onda martedì 29 settembre, alle 12.45. Oltre a Striano, risponde a questa domanda Luigi Manconi con una proposta che può sembrare provocatoria: abolire il carcere, luogo di recidive che mescola ladri di polli a criminali efferati, per i reati meno gravi, allineandosi così ai paesi europei che stanno drasticamente riducendo le aree di detenzione. Cinema: al Festival di Annecy due premi per il cortometraggio "A tempo debito" Ansa, 29 settembre 2015 Il documentario "A tempo debito" vince il Grand Prix du Documentaire e il Premio della Giuria Giovani al 33mo Festival del cinema italiano di Annecy, in Francia. Un riconoscimento internazionale importante che premia la produzione padovana e che consacra questo documentario come uno dei più interessanti prodotti cinematografici indipendenti dell’ultimo anno. A confermare l’importante successo, il fatto che è la prima volta in 33 anni che un documentario vince entrambi i premi. La premiazione del regista Christian Cinetto è avvenuta di fronte a 1.000 spettatori, tra cui Ettore Scola e Sergio Castellitto. Annecy Cinéma Italien, fondato nel 1983 e il più grande festival del cinema italiano in Francia, si svolge ogni anno in ottobre ed ha come presidente onorario Ettore Scola. "A tempo debito" è un "road movie", un viaggio tra i corridoi, le stanze e gli spazi angusti del carcere; la mini troupe della casa di produzione padovana Jenga Film ha frequentato per cinque mesi la casa circondariale di Padova. L’idea era quella di offrire ai detenuti in attesa di giudizio la possibilità di frequentare un corso di cortometraggio, a seguito del quale sarebbe stato prodotto il corto "Coffee, Sugar and Cigarettes". Da questa esperienza, umana prima che artistica, è nato il documentario "A tempo debito", che racconta 5 mesi di incontri e di volti. Si è portati a pensare che i film ambientati in carcere parlino di necessariamente carcere, di sbarre, di violenza, di soprusi. Ci si aspetta di vedere il lato oscuro di un luogo, di sentire parlare i detenuti di libertà, di pena, di delitti, di ingiustizia. "A tempo debito" ha molto poco di tutto ciò. Vederlo serve a dare risposta alla domanda sul senso del corso di cortometraggio, ma questa è l’unica risposta data. Per il resto, è un lavoro che lascia pieni di nuove domande, non sul carcere, ma su di noi, che eravamo così convinti, prima, di sapere dov’è il giusto e dove lo sbagliato. Immigrazione, la nostra risorsa Il Manifesto, 29 settembre 2015 Proposta-appello. Cambiare le leggi e organizzare con i sindaci un piano per dare lavoro e riportare alla vita le aree interne, una volta ricche e poi abbandonate, del nostro paese. Il tema non è nuovo. Alcuni degli scriventi ne hanno trattato sul manifesto. La sinistra ha, in Italia, la possibilità di indicare una soluzione non contingente né transitoria al problema gigantesco dell’immigrazione. Lo può fare nel migliore dei modi, risolvendo al tempo stesso alcuni suoi drammatici problemi demografici, territoriali, economici e sociali. Noi possiamo indicare agli italiani, contro la politica della paura e dell’odio, una prospettiva che non è solo di solidarietà e di umano e temporaneo soccorso a chi fugge da guerre e miseria. Con le donne, gli uomini e i bambini che arrivano sulle nostre terre noi possiamo costruire un inserimento stabile e cooperativo, relazioni umane durevoli, fondate su nuove economie che gioverebbero all’intero Paese. Gli scriventi ricordano che l’Italia soffre di un grave squilibrio nella distribuzione territoriale della sua popolazione. Poco meno del 70% di essa vive insediata lungo le fasce costiere e le colline litoranee della Penisola, mentre le aree interne e l’osso dell’Appennino, soprattutto al Sud, sono in abbandono. Sempre meno popolazione, in queste zone, fa manutenzione del territorio, controlla i fenomeni erosivi, sicché nessun filtro e protezione - come è accaduto per secoli - si oppone alle alluvioni che di tanto in tanto precipitano con violenza nelle valli e nelle pianure. Non solo dunque la gran parte della popolazione, ma la ricchezza nazionale (città e abitati, aziende, infrastrutture viarie e ferroviarie, ecc.) è sempre più priva, a monte, di difese rispetto ai fenomeni atmosferici estremi dei nostri anni. Ma non dobbiamo soltanto fronteggiare tale minaccia. Lo spopolamento, l’invecchiamento di popolazione, la denatalità delle aree interne costituisce, in sé, una perdita incalcolabile di ricchezza. Vengono abbandonate terre fertili che erano state sedi di agricolture, i boschi si inselvatichiscono e non vengono più sfruttati, gli allevamenti di un tempo scompaiono. Al tempo stesso borghi e paesi decadono, perdono i presidi sanitari, le scuole, i trasporti. E in tale progressivo abbandono degradano case, palazzi edifici di pregio, monumenti, piazze: in una parola un immenso patrimonio di edificato rischia di andare in rovina insieme ai territori rurali. Ebbene, queste aree non hanno bisogno che di popolazione, di nuove energie, di voglia di vivere, di lavoro umano. Queste terre possono rinascere, ricreare le economie scomparse o in declino con nuove forme di agricoltura che valorizzino l’incomparabile ricchezza di biodiversità dell’agricoltura italiana. In questi luoghi si può creare reddito con nuove forme di allevamento, in grado di utilizzare immensi spazi oggi deserti, controllando le acque interne ora in disordine e trasformandole da minacce in risorse. In questi paesi può nascere un vasto movimento di edilizia da restauro dell’esistente, capace di rimettere in sesto il patrimonio abitativo. Senza dire che in molti di questi borghi anche i nostri giovani possono sperimentare un nuovo modo di vivere il tempo quotidiano, di sfuggire alla fretta che svuota l’animo e frammenta ogni soggettività, di creare relazioni solidali, di scoprire la bellezza del paesaggio, di curare la natura e gli animali. Si ciancia sempre di crescita, mai di arricchire di senso la nostra vita. Ebbene in che modo, con che mezzi, con quali forze si può perseguire un così ambizioso progetto? La prima cosa da fare è cancellare la legge Bossi-Fini e cambiare atteggiamento di legalità di fronte a chi arriva. Occorre dare agli immigrati che vogliono restare la possibilità di trovare un lavoro in agricoltura, nell’edilizia, nella selvicoltura, nei servizi connessi a tali settori, nel piccolo artigianato. Non si capisce perché i giovani del Senegal o dell’Eritrea debbano finire schiavi come raccoglitori stagionali di arance o di pomodori e non possano diventare coltivatori o allevatori in cooperative, costruttori e restauratori delle case che abiteranno, dei laboratori artigiani in cui si insedieranno altri loro compagni. Ricordiamo che oggi l’ agricoltura non è più un semplice settore produttivo di beni agricoli, ma è un ambito economico multifunzionale. Nelle aziende agricole oggi si fa trasformazione artigianale dei prodotti, piccolo allevamento, cucina locale, commercio, turismo, assistenza sociale, attività didattica. È una rete di attività e al tempo stesso un mondo di relazioni umane. La seconda cosa da fare è avviare e mettere insieme un vasto movimento di sindaci. Su tale fronte, la strada è già aperta. Mimmo Lucano e Ilario Ammendola, sindaci di Riace e Caulonia, in Calabria, hanno mostrato come possano rinascere i paesi con il concorso degli immigrati, se ben organizzati e aiutati con un minimo di soccorso pubblico. I sindaci dovrebbero fare una rapida ricognizione dei terreni disponibili nel territorio comunale: patrimoniali, demaniali, privati in abbandono e fittabili, ecc. E analoga operazione dovrebbero condurre per il patrimonio edilizio e abitativo. A queste stesse figure spetterebbe il compito di istituire dei tavoli di progettazione insieme alle forze sindacali, alla Coldiretti, alle associazioni e ai volontari presenti sul luogo. Se i dirigenti delle Cooperative si ricordassero delle loro origini solidaristiche potrebbero dare un contributo rilevantissimo a tutto il progetto. Sappiamo che a questo punto si leva subito la domanda: con quali soldi? È la risposta più facile da dare. Soldi ce ne vogliono pochi, soprattutto rispetto alle grandi opere o alle altre attività in cui tanti imprenditori italiani e gruppi politici sono campioni di spreco. I fondi strutturali europei 2016-2020 costituiscono un patrimonio finanziario rilevante a cui attingere. E per le Regioni del Sud costituirebbero un’ occasione per mettere a frutto tante risorse spesso inutilizzate. E qui le forze della sinistra dovrebbero fare le prove di un modo antico e nuovo di fare politica, mettendo a disposizione del movimento i loro saperi e sforzi organizzativi, le relazioni nazionali di cui dispongono, il contatto coi media. Esse possono smontare pezzo a pezzo l’edificio fasullo della paura su cui una destra inetta e senza idee cerca di lucrare fortune elettorali. L’immigrazione può essere trasformata da minaccia in speranza, da disagio temporaneo in progetto per il futuro. Così cessa la propaganda e rinasce la politica in tutta la sua ricchezza progettuale. In questo disegno la sinistra potrebbe gettare le fondamenta di un consenso ideale ampio e duraturo. Sottoscrivono: Piero Bevilacqua, Franco Arminio, Vezio De Lucia, Alfonso Gianni, Maurizio Landini, Tonino Perna, Marco Revelli, Edoardo Salzano, Enzo Scandurra, Guido Viale. Ius soli, ci vorrà un soggiorno lungo per la cittadinanza di Ilario Lombardo La Stampa, 29 settembre 2015 Soltanto un compromesso nella maggioranza: non basterà che il genitore sia in Italia da 5 anni. "È vero, è un compromesso" risponde Marilena Fabbri, Pd, relatrice del disegno di legge sullo ius soli. Celeste Costantino di Sei dice di più, parla di "compromesso al ribasso". "Certo, per noi di sinistra, lo è - continua Fabbri - Ma le leggi non si fanno da soli, soprattutto con una maggioranza così diversa. Sta di fatto che alla fine ci saranno persone che questo diritto potranno rivendicarlo". Ieri alla Camera è iniziata la discussione in aula sul ddl che introduce lo ius soli in forma temperata. Cittadinanza agli stranieri e unioni civili sono la dote che Matteo Renzi deve portare alla parte di sinistra dell’elettorato. Il Pd spera di incassare l’ok della Camera entro ottobre, prima che dal Senato arrivi la legge di Stabilità. Il tempo c’è e le posizioni sono abbastanza chiare. Contrarissima la Lega Nord, contraria, ma senza troppa convinzione, Forza Italia. Tutti gli altri dovrebbero votare a favore dello ius soli. Con qualche distinguo. Questa mattina Sel sarà accanto alle 24 associazioni (tra le quali Libera, Acli, Arci, Caritas, Cgil) promotrici della campagna "L’Italia sono anch’io" che nel 2013 ha portato a due proposte di legge di iniziativa popolare: "Un testo di riforma della cittadinanza molto meno restrittivo di quello ora in discussione" spiega il vicepresidente Arci Filippo Miraglia. Il provvedimento all’esame prevede una versione soft dello ius soli. Ma mentre nella formulazione precedente bastava che i genitori di bambini nati in Italia avessero la residenza legale da almeno 5 anni, l’ultima declinazione del testo ha accolto emendamenti di Ncd e Sel che vincolano la cittadinanza al possesso, da parte del padre o della madre, del permesso di soggiorno di lunga durata. Il che comporta una serie di requisiti più stringenti: alloggio idoneo, reddito minimo e adeguata conoscenza della lingua italiana. La platea si riduce, com’è ovvio: "Ma abbiamo preferito tener conto del radicamento della famiglia" dice Fabbri. Anche il contesto, spiega, ha avuto il suo peso, e visto l’esodo di migranti in corso "non si è voluto prestare il fianco alle strumentalizzazioni". Secondo "Italia sono anch’io", che proponeva come condizione la residenza di un anno, gli standard abitativi ed economici richiesti "potrebbero invece portare all’esclusione di molti bambini". Reddito minimo vuol dire di base 450 euro circa, una cifra che aumenta a seconda del numero dei figli. La legge richiede poi che tali requisiti siano validi al momento della nascita del bambino, non dopo. Per chi invece è nato in Italia da genitori non in possesso di un permesso di soggiorno di lungo periodo, varrà lo ius culturae, introdotto per chi arriva in Italia entro il dodicesimo anno di età. In questo caso servirà un intero ciclo scolastico. La novità è che non basterà la sola frequenza, ma almeno il "superamento con successo" della scuola primaria. Papa Francesco "no ai muri per i migranti… alla fine crollano sempre" di Gian Guido Vecchi Corriere della Sera, 29 settembre 2015 Nove giorni di viaggio senza tregua. Eppure Francesco si presenta sereno ai giornalisti in fondo all’aereo, "grazie del lavoro, da un posto all’altro, io almeno ero in macchina!", sorride: "A vostra disposizione". Lo "Shepherd One" è appena decollato da Filadelfia. Il Papa risponde per cinquanta minuti: dalla Cina ("Mi piacerebbe tanto andarci, io amo il popolo cinese, sarebbe una gioia avere un Paese amico come la Cina") alla pace in Colombia ("Sono contentissimo, l’ho sempre voluto, ho parlato due volte col presidente, la Santa Sede è aperta ad aiutare"). Ripete che "le donne nella Chiesa sono più importanti degli uomini" ma conferma: "Le donne sacerdote non si può. Giovani Paolo II lo ha detto chiaramente". E sul Papa "potente" diventato "una star": "Il vero potere è servire, il Papa è "servo dei servi di Dio". Le stelle sono belle, ma si spengono e cadono". Santità, la crisi migratoria: in Europa si fanno barriere di filo spinato, che ne dice? "La crisi è un processo lungo. La guerre dalle quali la gente fugge ci sono da anni. La fame è fame da anni. Quando penso all’Africa mi viene da dire: il continente sfruttato. Gli schiavi, le risorse. E adesso le guerre, tribali o no, hanno dietro interessi economici. Invece di sfruttare, bisognerebbe fare investimenti perché quella gente abbia un lavoro. È vero, questa è una crisi di rifugiati mai vista dall’ultima guerra. Ma sa come finiscono i muri: crollano, tutti. Oggi, domani o fra cent’anni, ma crolleranno. Ora l’Europa è in difficoltà, è vero. Dobbiamo essere intelligenti, capire il perché di questa ondata. Non è facile, ma con il dialogo tra Paesi si devono trovare soluzioni. I ponti sono sempre soluzioni, i muri mai: il problema rimane, ma con più odio". Il motu proprio che facilita le nullità matrimoniali: cosa risponde a chi parla di divorzio cattolico? "Nella riforma ho chiuso la porta alla via amministrativa per la quale poteva entrare il divorzio. La risposta è no: non esiste un divorzio cattolico, chi lo pensa sbaglia. Sulle seconde nozze, i divorziati con nuova unione, mi sembra un po’ semplicistico dire che la soluzione è che possano fare la comunione. Non è l’unica soluzione. E non è l’unico problema". Sosterrebbe i funzionari governativi che, per motivi di coscienza, non dessero la licenza a matrimoni gay? "Io non posso avere in mente tutti i casi. Ma posso dire che l’obiezione di coscienza è un diritto. In ogni struttura giudiziaria deve entrare perché è un diritto umano. Da ragazzo ho letto molte volte la Chanson de Roland e mi ha sempre commosso quando c’erano i maomettani in fila e davanti avevano il fonte battesimale o la spada. E dovevano scegliere: non era permessa loro l’obiezione di coscienza. Se vogliamo fare pace, dobbiamo rispettare tutti i diritti". Tanti sacerdoti non hanno chiesto perdono per gli abusi su minori commessi. Lei li perdona? "Se una persona ha fatto del male, ne è consapevole e non chiede perdono, io chiedo a Dio che ne tenga conto. Io lo perdono, però lui non riceve il perdono, è chiuso. Una cosa è dare il perdono, tutti dobbiamo perché tutti siamo stati perdonati, altra è riceverlo. Si può solo pregare perché il Signore apra la porta. Così si spiega che ci sia gente che finisce la vita male, e non può sentire la carezza di Dio". Capisce famiglie e vittime che non vogliono perdonare? "Sì, li capisco. Non li giudico, prego per loro. Una donna mi ha detto: "Quando mia madre è venuta a sapere che avevano abusato di me, ha bestemmiato contro Dio, ha perso la fede ed è morta atea". Io la comprendo. E Dio, che è più buono di me, la comprende. Sono sicuro che Dio l’ha accolta. Ciò che è stato distrutto era la sua propria carne, la carne di sua figlia". Che ne pensa dei bombardamenti francesi in Siria? "Non conosco bene la situazione, non so che dirvi. Ma quando sento le parole bombardamento morte, sangue, ripeto: bisogna evitare queste cose". Il sindaco di Roma Ignazio Marino ha detto che a Filadelfia lo ha invitato lei. Come è andata? "Io non ho invitato il sindaco Marino, chiaro? Ho chiesto agli organizzatori, e neppure loro lo hanno invitato. Lui si professa cattolico ed è venuto spontaneamente. Chiaro?". Il tocco magico che l’Onu non può avere di Angelo Panebianco Il Corriere della Sera, 29 settembre 2015 La settantesima sessione plenaria dell’Assemblea generale dell’Onu si è aperta in una fase delicata della vita del pianeta. Si spara in molti luoghi e, in altri, rumori minacciosi preannunciano tempeste. Nel Mar della Cina la volontà egemonica dell’Impero celeste mette a rischio la pace mondiale entrando in collisione con gli interessi vitali di tanti Paesi, ivi compresi alcuni alleati degli Stati Uniti come Giappone o Filippine. In Europa la guerra, ancorché di bassa intensità, è tornata nelle regioni orientali dell’Ucraina e la Russia non chiede ma pretende che ci si dimentichi dell’annessione della Crimea rivendicando il suo ruolo nella lotta allo Stato Islamico in Medio Oriente. L’abulia strategica degli occidentali (degli americani in primo luogo ma anche degli europei alle prese con la difficoltà di governare gli ingenti flussi migratori) lascia vuoti che altri, dai russi agli iraniani ai turchi - con i loro interessi non coincidenti con quelli occidentali - vanno riempiendo a modo loro. L’incontro che si è svolto ieri tra Obama e Putin forse porterà a una svolta (e forse no), innescherà, nelle prossime settimane, il salto di qualità che tutti attendono all’azione di contrasto allo Stato islamico (condizione indispensabile perché si possa un giorno costruire un ordine accettabile in Siria). Ma è un fatto che è Putin a guidare il gioco e i suoi interessi non sono necessariamente coincidenti con quegli degli Stati Uniti o con quelli dell’Europa. Mentre i rumori di guerra si diffondono e a New York si danno convegno potenze coinvolte in giochi "misti" (parziale coincidenza di interessi su alcuni temi unita a una dura competizione su molti altri), l’Onu non rinuncia all’ideologia onusiana e, in suo omaggio, si impegnerà anche in questa occasione a votare a favore della distribuzione a tutti dell’elisir della felicità. Tra gli impegni che verranno solennemente presi ci saranno cose come bloccare i cambiamenti climatici in atto, assicurare a tutti la sicurezza alimentare, il disarmo, eccetera. Chi non è d’accordo? Non si tratta solo di ipocrisia. È anche un omaggio al mito fondante dell’Onu. L’Onu fu voluta da Franklin Delano Roosevelt per rilanciare l’utopia che durante la Prima guerra mondiale aveva spinto il presidente Woodrow Wilson a concepire la Società delle Nazioni. Quell’utopia era uno dei lasciti del pensiero liberale del secolo diciannovesimo: l’idea era che imbrigliandoli entro organizzazioni guidate da un nuovo diritto internazionale, gli Stati avrebbero cessato di farsi la guerra, direttamente o per procura, come avevano fatto per secoli. Si sarebbero assoggettati al diritto dirimendo le loro controversie pacificamente, allo stesso modo in cui i cittadini degli Stati liberali dirimono le loro. La conquistata armonia degli interessi avrebbe consentito agli Stati di cooperare lealmente per risolvere i problemi del mondo. Non è andata così. Il compito ambizioso che era stato attribuito all’Onu si rivelò irrealizzabile non appena esplose la competizione fra Usa e Urss. Dopo la Guerra fredda, molte illusioni sul ruolo dell’Onu rinacquero ma si scontrarono quasi subito, e di nuovo, con l’impossibilità di sostituire la "armonia" alla competizione e al conflitto fra gli Stati. Così come si era dovuta adattare alla distribuzione bipolare del potere durante la Guerra fredda, l’Onu si è poi piegata (anche se con molte tensioni) all’unipolarismo americano successivo. Allo stesso modo, oggi va adattandosi al multipolarismo emergente. Ciò non rende inutile l’Onu, essa continua a servire come vetrina e tribuna, un consesso in cui ciò che accade racconta a tutti noi quali siano il clima imperante e lo stato dei contenziosi in atto. Non si tratta di pretendere che l’Onu rinunci ai suoi miti fondanti, alla sua ideologia ufficiale e a quel tanto di ipocrisia che vi è inevitabilmente appiccicato. Si tratta solo, per chi ne ha voglia, di guardare alle cose con realismo. Non è vero che i problemi mondiali si risolverebbero tutti facilmente se solo ci fosse la "buona volontà". Chi ragiona così non vede che in un mondo di scarsità non c’è verso di sfuggire alla competizione. Ed è proprio l’idea di scarsità, e delle conseguenze della scarsità, che manca, e non solo nell’ideologia ufficiale dell’Onu. Si pensi alla lodevole richiesta di papa Francesco di dare terra, casa, lavoro a tutti gli uomini. Anche nel suo caso c’è la sottovalutazione del vincolo della scarsità. Come nel proposito onusiano di assicurare a tutti la sicurezza alimentare, c’è in Francesco l’idea che le risorse siano tutte a disposizione e che la scarsità, anziché un vincolo obiettivo, sia piuttosto l’effetto di una congiura delle classi dominanti ai danni dei poveri del pianeta. Tanto in Francesco quanto nella visione ufficiale onusiana si sentono echi dell’ideologia ottocentesca del progresso (sia in variante liberale che socialista), l’idea secondo cui l’umanità sarebbe ormai entrata nell’era dell’abbondanza illimitata. Non è così. Non ci sono risorse illimitate che possano cadere dal cielo rinnovando il miracolo della manna. La scarsità non è venuta meno. La povertà, ad esempio, non può essere eliminata con la bacchetta magica. Gli unici strumenti che l’hanno ridotta e che promettono di ridurla ulteriormente in futuro, sfortunatamente, sono proprio quelli che al Papa non piacciono e che, per giunta, non possono essere evocati esplicitamente in sede Onu, data la diversa costituzione economico-sociale di numerosi membri dell’Assemblea: il mercato e il capitalismo di mercato. In un mondo di scarsità ove, per giunta, non sono affatto superate le sovranità territoriali, la competizione fra gli Stati, in barba alla mission dell’Onu, resta endemica e ineliminabile. Si possono anche mandare soldati per infoltire i caschi blu come ha fatto Renzi in omaggio a quell’ideologia onusiana che qui in Italia conta tanti adepti. A patto però di non dimenticare che esistono poi interessi (nostri e dell’Europa), in competizione con gli interessi di altri, e che l’Onu, di sicuro, non può tutelare. Francia: il 4 ottobre marcia per Erri De Luca e la libertà di parola di Chiara Milanesi e Carlo Baghetti Il Manifesto, 29 settembre 2015 È nata in ambito accademico francese, da un’iniziativa di Chiara Milanesi e Carlo Baghetti, l’organizzazione di una marcia in montagna (domenica 4 ottobre sulla Sainte-Victoire, nei pressi di Aix-en-Provence) per sostenere simbolicamente Erri De Luca e la libertà di parola, nella triste vicenda che vede coinvolto l’autore, molto tradotto e letto Oltralpe, in un processo, per aver espresso la sua opinione circa la costruzione della Tav Torino-Lione e le lotte ambientaliste in Val di Susa. Grande alpinista e ambientalista convinto, De Luca ha spesso descritto la montagna nei suoi romanzi; per questo motivo, l’organizzazione di una camminata fino in cima al monte più simbolico dell’intera Provenza è sembrato il modo più naturale di esprimere il dissenso verso l’imbarazzante situazione in cui si trova la democrazia italiana, che processa i suoi scrittori. L’iniziativa ha incontrato subito il sostegno entusiasta e l’adesione di molte persone, tra cui artisti e intellettuali, diffondendosi tramite il web e il passaparola. La marcia si svolgerà il 4 ottobre prossimo, con partenza dal Barrage du Bimont alle 10.30 e arrivo in cima della Sainte-Victoire previsto per le 12.30. Una volta raggiunto il punto più alto verranno recitati da attrici francesi e italiane alcuni brani tratti dall’opera di Erri De Luca, che parlano di montagna e libertà di espressione. Tra gli obiettivi dell’iniziativa il collegamento con altri "camminatori" delle montagne ovunque essi si trovino. Afghanistan: assalto talebani al carcere di Kunduz, liberati 500 detenuti Aki, 29 settembre 2015 I Talebani hanno preso il controllo di un carcere di Kunduz e hanno liberato circa 500 detenuti, compresi militanti del movimento fondato dal mullah Omar. Lo riferisce la Bbc, che cita il portavoce della polizia di Kunduz, Sayed Sarwar Hussaini, dopo più di 12 ore di battaglia a Kunduz City tra gli insorti, che controllerebbero la metà della città, e le forze di sicurezza afghane. Repubblica Centrafricana: maxi evasione dal carcere di Ngaragba, in fuga 500 detenuti Reuters, 29 settembre 2015 Hanno approfittato dei disordini nella città capitale della Repubblica Centrafricana per darsi alla fuga. La maxi evasione a Ngaragba, la prigione di Bangui, è stata confermata da fonti giudiziarie. Da tempo vige una semi anarchia, con bande di miliziani armati che stanno saccheggiando le sedi delle organizzazioni umanitarie internazionali. Solo negli ultimi giorni, negli scontri sono rimaste uccise 42 persone. Burundi: rapporto Onu denuncia aumento delle violenze nel carcere di Bujumbura Nova, 29 settembre 2015 L’Alto commissario delle Nazioni unite per i diritti umani, Ràad Zeid Al Hussein, ha riferito di un allarmante aumento del numero di arresti, detenzioni e uccisioni in Burundi dall’inizio di settembre. In una dichiarazione rilasciata a Ginevra, Zeid ha indicato che quasi ogni giorno i corpi senza vita dei detenuti vengono lasciati lungo le strade di alcuni quartieri della capitale Bujumbura. In molti casi, le vittime sembrano essere state uccise da colpi sparati a distanza ravvicinata. I cadaveri spesso mostrano segni di torture e vengono trovati con le mani legate dietro la schiena. Queste morti inspiegabili hanno lo scopo di "instillare una profonda paura tra la popolazione, in particolare nei quartieri noti per il loro sostegno alle forze politiche di opposizione", spiega il rappresentante Onu. L’Alto commissario riferisce che l’Onu ha registrato 134 omicidi dallo scorso aprile, così come centinaia di arresti e detenzioni arbitrarie, in particolare 704 dall’inizio di settembre. I detenuti vengono solitamente rilasciati dopo pochi giorni, ma a volte alcuni rimangono in carcere per mesi, ha aggiunto Zeid. Il diplomatico infine ha indicato che finora, gli autori di torture e omicidi non sono stati puniti dalla giustizia del paese e ha sottolineato l’importanza della cooperazione, già in corso, con le autorità del Burundi esortandole a combattere contro l’impunità.