Giustizia: l’Italia prima in Europa per sentenze Corte Strasburgo inapplicate Ansa, 27 settembre 2015 Il Consiglio d’Europa denuncia "problema strutturale del Paese". L’Italia è al vertice della classifica dei Paesi del Consiglio d’Europa che non applicano le sentenze della Corte europea dei diritti umani. All’inizio di quest’anno erano 2.622 le decisioni della Corte non rispettate. Un numero altissimo in confronto al totale delle sentenze non applicate da tutti i 47 Stati membri del Consiglio d’Europa, che ammonta a quasi 11mila. Ma anche un numero che allarma l’Assemblea parlamentare dell’organizzazione paneuropea che discuterà la questione mercoledì prossimo, visto che fotografa problemi, spesso di natura strutturale, che il Paese non è riuscito a risolvere. Nel caso dell’Italia la questione tocca potenzialmente tutti i cittadini, visto che la maggior parte delle sentenze della Corte di Strasburgo rimaste inapplicate riguarda "l’endemica" questione dell’eccessiva durata dei processi. Ma nella compilazione dei problemi che l’Italia deve affrontare, contenuta nel rapporto del senatore olandese socialista Klaas de Vriers ‘Esecuzione delle sentenze della Corte europea dei diritti umani’, ci sono anche quelli legati alla violazione del diritto di proprietà (espropriazioni), e violazioni dei diritti di detenuti, malati e migranti. Nel testo l’Italia si divide la scena con altri otto paesi, Turchia, Russia, Ucraina, Romania, Grecia, Polonia, Ungheria e Bulgaria, che tutti assieme contano per l’80% delle sentenze della Corte di Strasburgo non applicate. Nonostante le sentenze riguardino problemi a volte molto differenti, legati al contesto specifico di ciascuno Stato, secondo il parlamentare Klaas de Vriers, hanno tutti alcune caratteristiche comuni e la loro non applicazione punta a responsabilità precise delle autorità nazionali, ma anche del comitato dei ministri del Consiglio d’Europa che ha il compito di vegliare sull’esecuzioni delle decisioni dei giudici di Strasburgo. Le sentenze non applicate riguardano questioni legate a problemi strutturali, oppure politicamente sensibili o che richiedono investimenti anche ingenti, ma che possono avere anche tutte e tre le caratteristiche. Questo spiega la lentezza con cui i Paesi si mettono alla ricerca di possibili soluzioni, ma anche la mancanza di volontà politica a farlo che, denuncia il rapporto, si trasforma in vero e proprio ostracismo. Per questo si chiamano le autorità, Governi e Parlamenti, ad assumersi le loro responsabilità nel dare risposte tempestive alle sentenze della Corte. Ma si invita anche il Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa ad assumere un ruolo più attivo e a pensare a sanzioni per gli Stati che non si conformino in tempi ragionevoli. Giustizia: Legnini (Csm) "si intravede un disegno per una giustizia più efficiente" Il Sole 24 Ore, 27 settembre 2015 L’ispezione a Palermo del vice presidente del Consiglio superiore della magistratura Giovanni Legnini "ha permesso di raccogliere materiale inquietante". A dirlo è lo stesso vice presidente del Csm, presente ieri a Rimini alla giornata conclusiva dell’undicesima conferenza di Cassa forense. L’indagine vede coinvolta Silvana Saguto, ex presidente della sezione misure di prevenzione sui beni confiscati alla mafia, con altri quattro magistrati e alcuni professionisti. Legnini, davanti alla platea del Palacongressi riminese, è stato intervistato su diversi temi, in primis la riforma della giustizia. "Il legislatore negli ultimi 20 anni non ha avuto una visione organica della giustizia - afferma - in questo momento storico questa strategia di riforma organica c’è, gli interventi sono sì settoriali e alcuni sono pendenti, si comincia però a vedere un disegno per una giustizia più efficiente". Sulle criticità rileva che "gli strumenti non sono adeguati, un caso è il processo digitale, sono state fatte 3mila assunzioni ma la copertura necessaria è di 9mila". E sulla riforma del processo penale, in merito alle intercettazioni, commenta così: "Questo disegno di legge non limita il ricorso alle intercettazioni, anzi, in alcuni casi come per i reati contro la pubblica amministrazione l’uso viene rafforzato. Inoltre tutela il diritto alla riservatezza; un aspetto critico- prosegue - è invece una delega troppo ampia al Governo". Legnini, che è avvocato e iscritto a Cassa forense, ha apprezzato il lavoro svolto da Nunzio Luciano e dal suo team: "Una Cassa di previdenza si gestisce così, con conti a posto, in equilibrio, immaginando investimenti nell’economia reale, facendo investimenti mirati e non rischiosi e incrociando il disagio di larghe fasce dell’avvocatura italiana". Non poteva poi mancare un riferimento alla relazione, spesso conflittuale, tra avvocati e magistrati: "Sto lavorando per affinare strumenti che migliorino le relazioni" racconta Legnini, senza però entrare nel dettaglio. Questo tema è emerso in diverse sessioni della conferenza, in merito al processo telematico, per esempio dove la collaborazione tra le due anime della giustizia è stata determinante per il buon funzionamento della nuova procedura. Ma non è tutto, come ricorda Valter Militi, vice presidente di Cassa forense: "Una novità importante è la nomina di un avvocato nel ruolo di vice capo dell’ufficio legislativo anticipata dal Guardasigilli Orlando giovedì da questo palco; fino adora i ruoli apicali del dicastero di Via Arenula sono stati affidati a magistrati che, come è ovvio, portano avanti la loro esperienza, ma i soggetti della giustizia sono due e quando uno dei due manca l’assetto è per forza sbilanciato". Giustizia: pronta lista di reati da tagliare, decreto legislativo al Cdm entro due settimane di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 27 settembre 2015 L’omesso versamento dei contributi fino a 10mila euro diventerà illecito amministrativo. La depenalizzazione rompe gli indugi. È ormai pronto il decreto legislativo che taglia un pacchetto di reati per trasformarli in illeciti amministrativi. Il testo, messo a punto dalla commissione Palazzo, è adesso all’esame del ministero dell’Economia per il concerto, ma dovrebbe approdare in Consiglio dei ministri nell’arco delle prossime due settimane. I tempi, del resto, stringono, visto che la delega deve essere esercitata entro la metà di novembre. La novità è emersa nel corso del congresso delle Camere penali in svolgimento a Cagliari. Un appuntamento dove a guidare la discussione sono state appunto le novità in arrivo sia sul piano del diritto sostanziale sia su quello procedurale. Sul primo punto la depenalizzazione provvede a trasformare in illeciti amministrativi le contravvenzioni punite con la pena dell’arresto o dell’ammenda con l’eccezione di alcune materie come l’ambiente e la sicurezza pubblica. A venire trasformato in illecito amministrativo sarà anche l’omesso versamento contributivo, nella soglia di 10mila euro, ponendo fine alla questione che ha visto impegnata la giurisprudenza sulla efficacia precettiva della legge delega in assenza del decreto delegato. L’intervento si iscrive in quel binario delle politiche della giustizia che negli ultimi tempi ha visto il debutto di istituti come la messa alla prova e la nuova causa di non punibilità per tenuità del fatto - andando a bilanciare peraltro, almeno quanto a impatto sul sistema giudiziario, la stretta sui reati contro la pubblica amministrazione, già in vigore - e quella, per ora contenuta nel disegno di legge sulla approvato in prima lettura dalla Camera, per furti e rapine. Decisione quest’ultima che è stata difesa di fronte alla perplessità dei penalisti, dal vicecapo dell’ufficio legislativo del ministero della Giustizia, Giuseppe Santalucia: si sono toccati i minimi di pena e non i massimi e si è sterilizzato l’effetto delle circostanza, ha sottolineato. Come pure l’inasprimento delle pene sulla corruzione, ha sempre puntualizzato Santalucia, oltre che sollecitato in sede europea ha permesso di realizzare un meccanismo tutto sommato equilibrato, dove all’aumento delle sanzioni fa da contraltare l’attenuante per chi collabora con la giustizia. Schermaglie poi tra la platea congressuale e il presidente dell’Anm, Rodolfo Maria Sabelli, sul tema della prescrizione. Con Sabelli a sottolineare, facendo appello alla sua esperienza di pubblico ministero, che se è vero che il 70% delle prescrizioni avviene nella fase delle indagini preliminari, questo si verifica per la lentezza del sistema che fissa udienze dibattimentali a distanza di anni. Lentezze del sistema che, a giudizio di Sabelli, rischiano di rendere del tutto irrealistico la disposizione del disegno di legge sulla procedura penale che chiede l’esercizio dell’azione penale entro tre mesi dalla chiusura delle indagini. Dai penalisti però arriva il richiamo a quanto previsto dalla legislazioni penali di altri Paesi, soprattutto di common law, dove il mancato rispetto dei termini per l’esercizio dell’azione penale è sanzionato con la nullità. Giorgio Spangher, docente di Procedura penale alla Sapienza di Roma, ha ricordato la necessità di accompagnare la ragionevole durata del processo con sanzioni per assicurarla. Spancher poi, non fosse che come provocazione, ha ricordato che per l’innocente che finisce invischiato in un processo penale i rimedi sono inesistenti: perché non pensare allora alla rifusione delle spese di giustizia? Giustizia: al Csm è guerra tra correnti per le nuove nomine di Liana Milella La Repubblica, 27 settembre 2015 Raccontano al Csm che il vice presidente Giovanni Legnini, dopo l’ennesima, estenuante riunione su una delle centinaia di nomine da fare per i vertici degli uffici giudiziari italiani, sia esploso in un annuncio- minaccia: "Se non la smettete con i vostri equilibri correntizi mi metto a votare anche io e ve li mando all’aria". Abitualmente la seconda carica del Consiglio non vota, salvo casi rari, per mantenere un ruolo sopra le parti. C’è pure chi fornisce della battuta una versione più hard, in cui si parla esplicitamente di "giochetti". Ovviamente Legnini, sentito sul punto, smentisce categoricamente. Ma palazzo dei Marescialli, ormai da mesi e in vista di nomine importanti come, nell’ordine, i vertici della Cassazione, la procura di Milano, il tribunale di Firenze, rigurgita di polemiche. Come quella fatta dal consigliere Aldo Morgigni, ex Magistratura indipendente e ora con Pier Camillo Davigo in Autonomia e indipendenza, che ha minacciato di bloccare i lavori e di rivolgersi al presidente Sergio Mattarella contro i pacchetti di nomine concordati tra Mi, Area (il cartello di sinistra tra Magistratura democratica e Movimento giustizia) e i tre laici della destra. Alleanza politicamente anomala, che emargina e inquieta i centristi di Unicost. Artefice dell’operazione viene considerato l’attuale sottosegretario alla Giustizia Cosimo Maria Ferri, ex Csm, record man di preferenze quando si candidò, sfiorato da inchieste ma mai indagato, che nonostante il distacco in politica continuerebbe a incidere sulla strategia della sua corrente. L’obiettivo, in queste ore, sarebbe portare alla presidenza della quinta commissione, che nomina i capi degli uffici, la forzista Elisabetta Alberti Casellati. Due anni fa manifestava sotto il palazzo di giustizia di Milano per i processi di Berlusconi, ora vota con Md. Scherzi della politica, come quello del Pd sulle intercettazioni. Ma tant’è. La partita delle nomine è importante. E quelle appena fatte lasciano l’amaro in bocca. Sfuggenti, per non dire anomale, certe esclusioni. Singolari i cambi di fronte dei gruppi nel passaggio tra commissione e plenum. Evidenti i famosi "pacchetti", per cui se ci sono da scegliere, tanto per fare un caso, cinque procuratori generali, va rispettato un equilibrio tra le correnti, della serie uno a me e uno a te. Qualche esempio. 30 luglio, si sceglie il presidente del tribunale di Milano. Votato da tutti vince Roberto Bichi, che regge una sezione civile. Solo il laico Pd Giuseppe Fanfani propone Claudio Castelli, vice capo dei gip, responsabile dell’innovazione del tribunale, toga storica di Md. Ma proprio Md, con Mi e i laici di centrodestra punta su Bichi. Unicost vorrebbe Marina Tavassi, che Schifani propose per la Consob. Rinunciano Castelli e Tavassi, vince Bichi. L’unanimità copre pure lo scontro sulla procura generale di Milano che il 17 giugno viene affidata a Roberto Alfonso. ex procuratore di Bologna. Sconfitto Francesco Greco, pm esperto di crimini economici e storico componente del pool Mani pulite. Chi ne fece parte non ha fortuna. Il 14maggio,sempreall’unanimità, Pier Camillo Davigo viene battuto da Arturo Soprano, presidente di una sezione penale a Milano, per il vertice della procura generale di Torino. In quel caso Claudio Galoppi, uomo di Ferri al Csm, pare abbia detto: "Se votate per Davigo, noi contesteremo ogni nomina". Galoppi del resto non perdona. Lui, lecchese, è stato relatore per la scelta del presidente del tribunale di Lecco. Ovviamente il 12 marzo vince uno di Mi, Ersilio Sechi, sconfitta Ezia Maccora di Md, gip a Bergamo ed ex Csm. Singolare la gara per la procura di Santa Maria Capua Vetere: 2 luglio, vince Maria Antonietta Troncone proposta da Unicost, sconfitto Fausto Zuccarelli di Mi, prima appoggiato ma poi abbandonato da Mi, ma soprattutto perde Lucia Lotti, Md, che bene ha fatto alla procura di Gela. Che succederà per la procura di Milano? Il 16 novembre lascia Edmondo Bruti Liberati. In gara Ilda Boccassini, Alberto Nobili ,ma pure Greco e Davigo. A fine anno il presidente della Cassazione, in corsa Giuseppe Maria Berruti, capo del Massimario, il presidente della Corte d’appello di Milano Giovanni Canzio, notissime toghe di piazza Cavour come Renato Rordorf e Franco Ippolito. Sarà per tutto questo che Legnini continua incontrarsi con Mattarella? Giustizia: caso Aldrovandi, cosa è cambiato da quel tragico 25 settembre estense.com, 27 settembre 2015 Lindo Aldrovandi: "La memoria sarà la condanna di chi uccise senza una ragione". Le cifre tonde, nelle ricorrenze, inducono sempre a fare un bilancio, ha detto ieri sera Patrizia Moretti. E la conferenza organizzata per la mattina di sabato 26 alla sala Estense aveva proprio l’intenzione di tirare le somme a dieci anni dalla tragica scomparsa del diciottenne ferrarese. "Reato di Tortura, numeri identificativi foto, democratizzazione. Cosa (non) ha ottenuto il movimento?" era il titolo dell’incontro, moderato da Cinzia Gubbini, giornalista. Nell’introdurre il tema e gli ospiti, la considerazione che è stata fatta dalla coordinatrice del dibattito, è che "la storia di Federico è stata un punto di svolta, che ha catalizzato una grande attenzione mediatica e la solidarietà quasi immediata della comunità". Restano ovviamente luci ed ombre, nel "dopo" di quel tragico 25 settembre. "Sicuramente molto è cambiato nell’atteggiamento delle persone di fronte ad episodi simili" ha detto la Gubbini, che ha riscontrato un abbandono progressivo della retorica, con cui spesso vengono presentati simili avvenimenti, del "è andata a finire male". "Ma si attende ancora il giorno in cui le autorità preposte all’ordine pubblico diranno ‘abbiamo sbagliato’" ha aggiunto di seguito. Ma le note stonate non mancano, dall’atteggiamento pregiudiziale delle stesse forze di polizia a quello della politica, restia ad intervenire decisamente sui tre punti individuati fondamentali dalla giornalista: "numero identificativo, introduzione del reato di tortura e regolamenti interni più stringenti". Nel suo intervento "schegge impazzite", Lino Aldrovandi, papà di Federico, con parole tanto commoventi quanto decise, ha ricordato quella notte di "orrori ed errori". La notte in cui "quattro pregiudicati che non rappresenteranno mai e poi mai la Polizia" gli strapparono un figlio. "La memoria" ha concluso papà Lino, "sarà la condanna di chi uccise senza una ragione". Il quadro sull’avanzamento del disegno di legge sul reato di tortura, è stato affidato ad Antonio Marchesi, presidente di Amnesty International Italia, che ha definito il testo prodotto "peggio di niente". Il disegno di legge che approderà al Senato, nella sua redazione "insoddisfacente" ha incontrato "enormi ostacoli di tipo culturale" ha precisato Marchesi, aggiungendo che "non è negli interessi di rispettabilità della Polizia recepire le indicazioni circa i numeri identificativi e la fattispecie del reato di tortura". Una prospettiva non positiva, condivisa anche dal giornalista Checchino Antonini, presente in veste di rappresentante di Acad (associazione contro gli abusi in divisa), che ha tracciato un drammatico bilancio dello "stato dell’arte" che vede "crescere la repressione, e la tortura, dalla Val Susa alle carceri dove aumentano i morti". Secondo Antonini la Polizia, e le Forze dell’Ordine sono "allergiche ai tentativi di democratizzazione e trasparenza", d’altra parte "la politica", ha proseguito rincarando la dose "è sempre più ripulsa dall’idea di rendere più umano il sistema della prevenzione del crimine e della detenzione". Secondo l’avvocato Elia De Caro dell’associazione Antigone "il numero dei detenuti e il dibattito intorno alle carceri generato dalla sentenza Torreggiani (adottata l’8 gennaio 2013 e che ha condannato lo Stato italiano per la violazione dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti umani) è scemato" senza influenzare positivamente un trend riformatore che avrebbe dovuto giustificare l’introduzione del reato di tortura. "La teoria delle mele marce non può più reggere" ha aggiunto il portavoce dell’associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale "finché non si danno strumenti per prevenire e punire certi comportamenti criminali si è corresponsabili dei comportamenti stessi". Giustizia: Rita Bernardini (Ri) lo Stato si accanisce sul corpo di Bernardo Provenzano radicali.it, 27 settembre 2015 Dichiarazione di Rita Bernardini, segretaria di Radicali Italiani: "Provo un brivido lungo la schiena. Oggi sono state scritte parole prive di qualsiasi contenuto di umanità, di ragionevolezza, di diritto. Lo Stato, attraverso la Corte suprema di Cassazione, si accanisce sul corpo di Bernardo Provenzano - un ultraottantenne completamente "incapace di intendere e di volere" e totalmente immobilizzato in un letto - sentenziando che il carcere duro, il 41-bis per quel vecchio è necessario alla sua salute, altrimenti morirebbe". "È uno Stato, il nostro, forte della violenza cieca degli impotenti, incapace di vincere il crimine con gli strumenti del diritto nel rispetto delle carte fondamentali sui diritti umani universalmente acquisiti". "I lottatori antimafia hanno il bisogno vitale che quel corpo straziato, fino a che non avrà esalato l’ultimo respiro, non sia raggiunto dalla carezza di un parente, di un figlio: è nei loro confronti, in fin dei conti, che i cosiddetti uomini di legge praticano una cieca e sciagurata vendetta. Lettere: riforma delle intercettazioni, non è una "legge bavaglio" di Riccardo Arena ilpost.it, 27 settembre 2015 La Camera dei deputati ha approvato il disegno di legge che delega il governo a predisporre una serie di riforme che riguardano la giustizia penale. Ora il provvedimento dovrà essere esaminato dal Senato, ma intanto sono divampate critiche, spesso fuorvianti, e polemiche, spesso infondate, sul progetto di riforma delle intercettazioni. A guidare le fila di queste reazioni scomposte c’è Beppe Grillo che su Twitter ha tuonato: "La Camera ha distrutto il diritto di cronaca". Interessante! Ma domando al leader del Movimento 5 Stelle: da quando esercitare il diritto di cronaca significa sputtanare le persone pubblicando atti di indagine? In verità, anche se tanti tra magistrati e giornalisti se lo sono dimenticato, le intercettazioni servono per la prosecuzione delle indagini preliminari e non servono per l’informazione. In sintesi: l’atto delle intercettazioni, come il verbale delle perquisizioni, serve alla giustizia e non al diritto di cronaca. E badate bene, questa non è un’opinione personale. È ciò che afferma l’articolo 15 della Costituzione e l’articolo 267 del codice di procedura penale. Non a caso, già oggi la legge vieta la pubblicazione di qualsiasi atto di indagine, comprese le intercettazioni. (vd. articolo 684 c.p. e 114 c.p.p.). Divieto che però viene quotidianamente ignorato perché manca una sanzione efficace, tanto da determinare il legislatore a intervenire. Ma vi è di più. A leggere il testo della legge delega sulle intercettazioni ci si accorge che non è affatto una "legge bavaglio", così come impropriamente è stata definita. E infatti il progetto di legge si pone due obiettivi che da un lato svelano il nostro decadimento e che dall’altro non ledono in alcun modo il corretto esercizio del diritto di cronaca. Il primo: vietare la pubblicazione di conversazioni irrilevanti ai fini dell’indagine. Il secondo: vietare la pubblicazione di intercettazioni che riguardano persone estranee al procedimento penale. Dunque, non una "legge bavaglio", ma casomai un tentativo per arginare la gogna mediatica, il gossip giudiziario, la macchina del fango. Già, un tentativo. Ma anche un tentativo che non convince. E infatti, al di là delle buone intenzioni, il testo appare timido, denota poco coraggio e manca di chiarezza. Più razionale sarebbe stato rimodulare il divieto di pubblicazione delle intercettazioni rendendolo più chiaro. Più coraggioso sarebbe stato prevedere, in caso di violazione, non una sanzione penale a carico del giornalista, ma una sanzione amministrativa da infliggere all’editore: una multa, e pure salata. Alla fine: riusciranno i nostri eroi a ritrovare la civiltà misteriosamente scomparsa in Italia? Lettere: così la legge Severino paralizza la politica e la società civile di Astolfo Di Amato Il Garantista, 27 settembre 2015 La legge Severino ha colpito ancoro. Nei confronti del Presidente della Regione Lazio, Zingaretti, l’Autorità Anticorruzione, presieduta da Cantone, ha deliberato la sospensione del potere di disporre nomine amministrative. Come rivela La Repubblica, la colpa sarebbe da attribuire alla scelta di Giovanni Agresti a commissario straordinario dell’Ipab di Gaeta, fatta da Zingaretti senza verificare eventuali incompatibilità. Il provvedimento adottato ricorda, sotto molti aspetti, quello del 5 settembre scorso, che ha colpito il governatore della Calabria, Mario Oliveiro. In questa sede non interessa analizzare se l’Autorità anticorruzione abbia fatto buon uso o no dei poteri conferiti dalla legge Severino, e se, perciò, siano effettivamente sussistenti i presupposti previsti dalla legge per adottare la sanzione della sospensione. La Repubblica riferisce di una indagine approfondita e rigorosa che ha portato alla adozione del provvedimento, e non vi sono motivi per dubitarne. Il tema, perciò, riguarda ancora una volta la legge Severino. Che, ovviamente non è apparsa sulla Gazzetta Ufficiale sbucando dal nulla, né può essere considerata il parto del solo ministro di cui porta il nome. Essa, come è agevole controllare leggendo i resoconti dell’epoca, è stata approvata a furor di popolo, o meglio di certo popolo, e chi si permetteva di avanzare delle perplessità sul suo contenuto era subito bollato come amico dei corrotti e dei mafiosi. È vero proprio il contrario! La lotta alle mafie ed alla corruzione è vincente solo se portata avanti dalla classe politica e dalla società civile. Si tratta, difatti, di una lotta che coinvolge aspetti che attengono largamente alla sensibilità sociale ed ai valori socialmente accettati. Si tratta, spesso, di estirpare elementi di sottocultura, che hanno un radicamento profondo in alcuni spezzoni della società. Non si comprenderebbe, del resto, altrimenti, la diffusione e la frequenza delle condotte che occorre combattere. Gli apparati repressili, quali possono essere gli organi di giustizia o l’Autorità anticorruzione, sono impotenti quando il fenomeno da combattere ha dimensione sociale. Nel momento in cui occorre muoversi nella prospettiva del cambiamento del costume e dei valori di riferimento della società, abbandonando ad esempio il familismo, gli strumenti idonei ad incidere sono quelli della dialettica politica e della censura sociale. Se questo non avviene, gli interventi punitivi rischiano di avere addirittura un effetto contrario, introducendo spaccature in una società attraversata e divisa da sottoculture, che finiscono con il chiudersi in sé stesse. La legge Severino favorisce tutto questo. Nel momento in cui ha spostato sul piano esclusivamente burocratico e giudiziario la lotta alla corruzione, ha dato un evidente segnale di sfiducia nei confronti della classe politica e della società civile. Le cui capacità di lotta contro le mafie e la corruzione sono stata platealmente negate e depotenziate. Oggi queste misure, con il loro effetto di perdita del consenso, aggiungono un altro nome, quello di Zingaretti, alla lunga lista di politici esposti al pubblico ludibrio nell’ambito delle varie vicende di rilievo giudiziario ed amministrativo che hanno riguardato Roma. Il risultato è che lo stesso istituto della rappresentatività popolare finisce con il perdere consenso. Ed a quel punto, nella repubblica giudiziaria che si va articolando con sempre maggiore puntualità, chi la farà la vera lotta alla corruzione ed alle mafie? Dei pubblici ministeri scollati dalla società? Ed a che prezzo? Quello di considerare fuorilegge intere collettività? È questa, del resto, la sola prospettiva che può aver indotto la presidente della Commissione antimafia, Rosy Bindi, a dare un giudizio pesantemente negativo della intera popolazione della Campania. La vicenda Zingaretti conferma, ancora una volta, che la legge Severino è figlia di quella cultura. Umbria: il Sappe denuncia 90 eventi critici in 6 mesi. M5S: subito ispezione umbria24.it, 27 settembre 2015 Sindacato a Terni denuncia gravi criticità e paventa proteste, contraccolpi su chiusura ospedali psichiatrici. Sponda da Gallinella e Ciprini (M5S) e arriva l’interrogazione parlamentare. "Il ministro Andrea Orlando implementi il personale di polizia penitenziaria in organico alle quattro carceri dell’Umbria e disponga subito un’ispezione ministeriale". Questo l’intervento dei deputati del Movimento 5 stelle, Stefano Gallinella e Tiziana Ciprini, dopo la visita ispettiva compiuta dai delegati sindacali del Sappe all’interno del carcere di Terni. Sappe visita il carcere di Terni A margine del controllo, il segretario generale Donato Capece e quello regionale Fabrizio Bonino hanno denunciato una situazione fortemente critica sotto il profilo della carenza di organico degli agenti della penitenziaria e resa nota la disponibilità dei poliziotti in servizio a Sabbione a scendere in piazza per trovare risposte. In questo senso i due Cinquestelle hanno presentato al ministro della Giustizia un’interrogazione a risposta scritta, che tocca anche il caso dell’aggressione compiuta nel carcere di Spoleto da un detenuto con problemi psichiatrici ai danni di due agenti, criticità connessa alla chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari, a cui da marzo sono subentrate le residenze per l’esecuzione della misura di sicurezza (Rems). Nel documento vengono anche resi noti gli ultimi dati raccolti dallo stesso Sappe in cui si evidenzia un calo del numero di detenuti presenti tra Perugia, Terni, Spoleto e Orvieto, passati dai 1.534 rilevati nel 2014 ai 1.320 contati il 30 luglio scorso (capienza 1.324). "Alla diminuzioni di reclusi però - evidenziano Gallinella e Ciprini - non ha corrisposto alcun miglioramento sul fronte degli eventi critici: nel primo semestre 2015 secondo il sindacato - si legge nell’interrogazione - nelle quattro carceri dell’Umbria si sono registrati 53 atti di autolesionismo, 34 colluttazioni con gli agenti, 12 poliziotti feriti, un suicidio e un decesso per cause naturali". Carenza personale Sul fronte del deficit sul personale stabilito dalla pianta organica non vengono forniti dati, ma ci si limita a evidenziare "come il numero degli agenti sempre ridotti non fa che aggravare la situazione nonostante ci siano molti giovani che hanno già svolto i concorsi e sono risultati idonei, ma restano fermi o dirottati a servizi di altri ministeri". Gli ultimi sulla carenza di personale si fermano per il momento alla fine del 2014 quando il Sappe tirò le fila dell’anno, emerse un deficit di 135 poliziotti nei quattro istituti umbri. A fronte dei 1.022 agenti previsti quelli che risultavano effettivamente in servizio tra Perugia, Terni, Spoleto e Orvieto erano 887. Interrogazione parlamentare M5s Sempre nell’interrogazione parlamentare i deputati Gallinella e Ciprini al ministro Orlando portano anche il messaggio del Sappe: "Secondo il sindacato il Dap (dipartimento di amministrazione penitenziaria, ndr.) è molto orientato a garantire il benessere dei detenuti, ma troppo poco orientato a tutelare il personale di polizia che ogni giorno si trova a gestire le tensioni spesso improvvise e violente che scoppiano negli istituti". Infine le richieste: "Alla luce delle criticità - è l’interrogazione parlamentare - il ministro intende intervenire per implementare la dotazione del personale penitenziario all’interno delle carceri umbre e se, in ogni caso, e a fronte dei gravi episodi di violenza che ogni giorno si perpetrano negli istituti penitenziari dell’Umbria, non intenda avviarvi una ispezione ministeriale". Rimini: inaugurata ludoteca dove i bambini potranno giocare insieme ai papà detenuti smtvsanmarino.sm, 27 settembre 2015 Rimini, ai Casetti inaugurata una ludoteca dove i bambini potranno giocare insieme ai papà. Per un attimo la doppia distanza si annulla in un abbraccio e nella ludoteca tutto nuova i figli dei detenuti ritrovano il diritto all’affettività, pur nella ristrettezza dei tempi e degli spazi. L’inaugurazione della sala e del giardino allestito con gazebo e giochi per rendere più sereno l’incontro diventa una festa ai Casetti. La forza del legame come riscatto, perché non si smette di essere genitori dietro le sbarre. Mentre le famiglie si ritrovano negli spazi nuovi, con le pareti disegnate dagli stessi detenuti, la Casa Circondariale riscopre la finalità rieducativa del periodo detentivo e mette in calendario i corsi scolastici o per acquisire nuove competenze: tirocini e stage da spalmare entro la fine dell’anno prossimo. Per i 107 detenuti, 54 dei quali stranieri, occasione di arricchimento personale e professionale anche se è il legame affettivo quello che fa la differenza per il riscatto dal vissuto di nostalgia e colpa. La vicinanza dell’amministrazione nella presenza del vice sindaco Gloria Lisi, che da operatrice ha conosciuto questa realtà e da assessore ai servizi sociali ha favorito il rapporto con gli operatori del Centro per la Famiglia A tutti i bimbi è stato donato il libro "Un folletto per amico" scritto dall’assistente capo di Polizia penitenziaria Silvio Biondi e dall’educatore penitenziario Amedeo Blasi. In giochi e letture, nella ludoteca, saranno coinvolti una volta al mese da un’educatrice, insieme ai loro papà. Un po’ per voltare pagina un po’ per evitare che il mestiere più difficile del mondo, dietro alle sbarre, diventi impossibile. Avellino: al carcere l’evento del Rotary, presentate due opere realizzate dai detenuti ottopagine.it, 27 settembre 2015 Ieri mattina presso la casa circondariale di Ariano Irpino si è svolto un incontro organizzato dal Rotary Est Avellino Centenario per presentare due opere realizzate dai detenuti, curate dalla Professoressa Carolina Maestro e dalla Professoressa Paola Silano. Presenti all’incontro il direttore del carcere, dottor Gianfranco Marcello, il Presidente del Rotary Av est, dottor Silvio Sallicandro, sua Eccellenza Reverendissima Monsignor Sergio Melillo, il preside del liceo artistico "Ruggero II, dottor Francesco Caloia, la vicepreside dell’istituto comprensivo "don Milani" dottoressa Nicoletta Melito. Ha coordinato i lavori l’avvocato Guerino Gazzella. Nel corso dell’incontro sono state sottolineate l’importanza dell’istruzione come primaria fonte del trattamento rieducativo. Dal percorso di studi dei detenuti sono state realizzate con determinazione e professionalità le due opere presentate. La prima opera "Parole da dentro. Voci e vite dal carcere di Ariano Irpino" curato dalla Professoressa Carolina Maestro, vincitrice del 43esimo concorso promosso dall’Ecole Instrument de Paix Italia in collaborazione con la Direzione per lo studente del ministero dell’Istruzione e con il ministero della giustizia, racchiude pensieri, parole ed emozioni dei detenuti. La seconda "Un orto virtuale in carcere" curato dalla Prof.ssa Paola Silano è un lavoro di ricerca in cui sono state selezionate 18 piante, compilate una scheda con le caratteristiche per ognuna di esse, ma come importante novità un confronto tra tradizioni, proverbi e proprietà delle varie piante dell’Irpinia e del napoletano. L’avv. Gazzella ha sottolineato l’attenzione del Rotary alla riabilitazione dei detenuti e lo spirito di collaborazione con la casa circondariale di Ariano Irpino, che già da alcuni anni mette in essere progetti per offrire più che una speranza una concreta possibilità di reinserimento sociale. Varese: cerca di portare droga al compagno detenuto, donna denunciata La Prealpina, 27 settembre 2015 Donna entra nel carcere dei Miogni con il figlioletto e un "rigonfiamento" sospetto della tasca. Perquisita, aveva in tasca una dose di marijuana: denunciata. Con un figlioletto, chi vuoi che mi controlli? Deve avere pensato così la donna che sabato 26 ha tentato di portare in carcere della droga al suo uomo. La donna, 30 anni, residente in uno dei comuni più vicini al capoluogo, ha pensato di poter tranquillamente portare sostanza stupefacente ai Miogni, magari consegnandola al marito. D’altronde, con un bimbo piccolo, di nemmeno due anni, al seguito, la signora deve aver pensato che tutta l’attenzione sarebbe stata sul piccolo, che una mamma con il figlioletto mai avrebbe tentato di portare della droga in carcere. E invece non è andata così. I controlli sono costanti tra le persone che hanno diritto di parlare con i propri cari detenuti nella casa circondariale di via Felicita Morandi. E sono scattati puntuali sabato mattina. E dal controllo è venuta fuori la verità. La donna era nervosa perché aveva addosso qualche grammo di marijuana. Non l’aveva nemmeno nascosta bene. La droga non era nascosta nella biancheria intima, modalità spesso utilizzata, ma semplicemente infilata nella tasca dei pantaloni. Un pezzetto nascosto così, senza involucro, nella piccola tasca-occhiello dei jeans. Uno spazio esiguo: il rigonfiamento determinato dalla presenza del pezzetto di marijuana è stato subito notato. La donna è stata fermata e denunciata. Ha provato a difendersi, giustificando in modo confuso il possesso di droga. Gl agenti della Polizia penitenziaria hanno dunque gestito di estendere i controlli anche nell’abitazione della donna. Non è emerso però nulla di illegale, non c’era altra droga, né custodita né nascosta, tra le pareti dell’abitazione. Il marito della donna, che è stata denunciata a piede libero per detenzione di sostanza stupefacente. è detenuto ai Miogni per reati collegati alla droga e dovrà scontare una pena di un paio d’anni. Torino: il Salone del Libro esclude l’Arabia Saudita "no alla decapitazione dell’attivista" di Emanuela Minucci La Stampa, 27 settembre 2015 Non sarà più il Paese ospite nel 2016. Fassino: inaccettabile. Ali al-Nimr, a 17 anni, aveva manifestato contro la monarchia. L’Arabia Saudita non sarà più il Paese ospite del prossimo Salone del Libro di Torino. A deciderlo, anticipando le conclusioni del consiglio d’amministrazione della Fondazione previsto il 6 ottobre, all’unisono, il sindaco Fassino e il presidente della Regione Piemonte Chiamparino. A chiedere loro di prendere una rapida posizione in merito, prima un tweet lanciato dal consigliere dell’Associazione Adelaide Aglietta Silvio Viale: #NoArabia Saudita ospite d’onore #Salone Del Libro poi una mozione in Comune e infine un appello dei Radicali all’assemblea regionale. Centoquaranta caratteri per contestare quell’Arabia Saudita "che ha deciso la vergognosa condanna a morte di Ali al-Nimr con decapitazione e crocifissione per aver partecipato da minorenne a una manifestazione contro il regime". Qualche ora dopo, il sindaco Fassino ha risposto all’appello con poche, ferme righe: "Si risparmi la vita di Al Nimr. Nessuna ragione di Stato, politica o religiosa giustifica che si condanni un giovane alla decapitazione e alla crocifissione". Poi la conclusione: "È evidente che una condanna a morte negherebbe in radice quelle ragioni di dialogo che erano alla base dell’invito all’Arabia Saudita quale Paese ospite dell’edizione 2016 del Salone del Libro". Poi è arrivata la dichiarazione del governatore Chiamparino: "Riteniamo che sia necessario riconsiderare tale invito, data l’importanza, soprattutto in questo momento storico, di trasmettere messaggi univoci e coerenti in tema di rispetto dei diritti universali della persona". La decisione di ospitare un Paese destinato a dividere l’opinione pubblica, va detto, non è stata assunta dall’attuale presidente Giovanna Milella, ma dal suo predecessore Rolando Picchioni nel 2014 anche perché trattative di questo tipo durano minimo un anno. E già a maggio di quest’anno la presidente Milella, a poche ore dalla sua nomina, criticò la scelta: "Dobbiamo ripensarci su". "L’Arabia che divide" diventò così all’inizio dell’estate un caso politico-diplomatico. Sembrava un po’ un film già visto nel 2008, quando l’ospite scelto dal Salone era Israele, nei 60 anni dello Stato ebraico: anche lì la questione scatenò un’accesa discussione fra scrittori, intellettuali e politici. E nei cortei si arrivò a incendiare la bandiera israeliana. L’Arabia Saudita fin dall’inizio non ha gradito certe critiche. L’ambasciatore saudita a Roma, Rayed Khalid A. Krimly scrisse che "La partecipazione a un evento culturale non può essere viziata da un’interpretazione eurocentrica, univoca e xenofoba". Per concludere: "Desta stupore constatare che quanti si ergono a promotori del liberalismo e del pluralismo stiano manifestando ostilità alla partecipazione di rappresentanti di altre culture in un evento di cultura internazionale". E non si era ancora arrivati alla bocciatura definitiva. Medio Oriente: giornalista italiano picchiato e ferito da soldati israeliani di Michele Giorgio Il Manifesto, 27 settembre 2015 Andrea Bernardi, 32 anni, videoreporter italiano dell’agenzia francese Afp, è stato aggredito, senza alcuna ragione, da alcuni soldati israeliani mentre era nel villaggio di Beit Furik (Cisgiordania)- Descriverla come una "disavventura" è riduttivo. Andrea Bernardi, 32 anni, videoreporter italiano dell’agenzia francese Afp, è stato aggredito fisicamente, senza ragione, da alcuni soldati israeliani due giorni fa mentre era nel villaggio di Beit Furik (Cisgiordania) in occasione dei funerali di un giovane palestinese, Ahmed Khatatbeh. Oltre a qualche costola lussata e un colpo ricevuto al viso, Bernardi ha anche visto la sua attrezzatura fatta a pezzi. Soldati dal pugno facile e, qualche giorno fa, anche dal grilletto facile. Amnesty International ha descritto come una "esecuzione" l’uccisione avvenuta a inizio settimana ad un posto di blocco israeliano di una ragazza palestinese, Hadil Hashlamoum, 18 anni. Ieri abbiamo intervistato Andrea Bernardi, ancora scosso per l’accaduto sul quale, afferma un portavoce militare israeliano, è stata aperta un’inchiesta. Andrea, cosa è successo venerdì? "Con un collega palestinese, il fotografo Abbas Momani, sono arrivato all’ingresso di Beit Furik. Appena scesi dall’auto alcuni agenti della guardia di frontiera ci hanno chiesto i documenti. Ho mostrato la mia tessera stampa, quella rilasciata da Israele, e non ci sono stati problemi. Ci siamo incamminati verso la linea dove erano schierati alcuni soldati israeliani, eravamo alle loro spalle, mentre i dimostranti palestinesi erano dall’altra parte. Abbas ha cominciato a scattare qualche foto, io mi sono fermato perchè avevo un problema alla videocamera. Un attimo dopo ho visto uno dei soldati che cercava di strappare di mano al mio collega la macchina fotografica. Siamo giornalisti, siamo giornalisti… ho urlato in inglese per fermare il militare. A quel punto è arrivato un altro soldato che ha dato un pugno alla mia telecamera spaccando il microfono. Mi ha gridato contro frasi del tipo… cosa fai qui, cosa vuoi qui, vai via dal mio Paese…poi mi ha strappato la videocamera (principale) e l’ha sbattuta per terra. Il numero dei soldati intorno a noi è subito aumentato, alcuni di loro hanno caricato le armi e ho detto al fotografo di andare via". Ti hanno aggredito di nuovo, c’è anche un filmato dell’agenzia palestinese Palmedia che lo mostra... "Ci siamo accorti che un soldato ci correva dietro. Dopo averci raggiunto ha cominciato a svuotarci le tasche per prenderci le memory card dell’altra videocamera e dell’altra macchina fotografica. A quel punto un altro soldato salta fuori da una jeep, corre verso di noi, prende la videocamera che avevo in mano e la sbatte a terra per due volte con la ferma intenzione di romperla". Dopo sei tornato indietro, perché "Per recuperare le attrezzature distrutte, in modo da dimostrare il danno e le aggressioni che avevamo subito. Mi sono avvicinato lentamente e ho scattato qualche foto dei materiali distrutti. Quando ho preso da terra ciò che restava della videocamera, la jeep si è improvvisamente diretta verso di me. Il soldato alla guida è uscito con una pistola in pugno, altri due mi hanno buttato per terra. Mi hanno immobilizzato premendo forte con il ginocchio sulle costole e sul collo. Uno di loro mi ha dato uno schiaffo e mi hanno preso di nuovo la videocamera. Non avevo fatto nulla di sbagliato, solo il mio lavoro, come mostra chiaramente il filmato. E che non ci sia stato nulla di improprio nel mio comportamento è provato dal fatto che i soldati non mi hanno arrestato. Sono rimasto in silenzio, ho cercato di evitare qualsiasi scontro o provocazione. Loro invece mi hanno sbattuto per terra senza motivo, senza chiedermi di identificarmi e di mostrare un documento. I soldati volevano solo far sparire le immagini che, peraltro, non c’erano perchè ero appena arrivato sul posto e non avevo girato nulla. La verità è che quei militari hanno fatto qualcosa di osceno, di molto grave. In tanti anni di lavoro in Medio Oriente una cosa del genere non mi era mai capitata". Pensi che questa aggressività dei soldati israeliani nei confronti di giornalisti sia frutto indiretto dei toni usati e dei provvedimenti approvati nei giorni scorsi dal governo Netanyahu che, anche a Gerusalemme, ha allentato ulteriormente le regole di ingaggio e le disposizioni per l’uso della forza da parte delle forze di polizia e militari. "Vedremo cosa accadrà a Gerusalemme nei prossimi giorni. Quello che posso dire è che in Cisgiordania queste regole sono già lente e che negli ultimi mesi è crescita l’aggressività di soldati e poliziotti israeliani nei confronti dei fotografi. A Nabi Saleh un mio collega è stato preso a sassate da un militare, un altro fotografo è stato picchiato per due volte consecutive dai poliziotti nella città vecchia di Gerusalemme durante i recenti scontri sulla Spianata delle moschee". Stati Uniti: detenuto si offre di donare il midollo al giudice che lo ha condannato di Paola Arosio Corriere della Sera, 27 settembre 2015 Una cella di pochi metri quadrati, con una piccola finestra da cui si possono scorgere brandelli del mondo fuori. È qui che vive Charles Alston, il detenuto che, apprese le gravi condizioni di salute del giudice che lo ha condannato, si offre di donandogli il midollo. Un gesto di straordinaria generosità che commuove il magistrato e suscita una vasta eco in tutta la contea. Tutto comincia molto tempo fa, quando Charles commette un furto con scasso. Arrestato dalla polizia, viene trascinato in tribunale e condannato dal giudice Carl Fox a una pena severa. Passano venticinque anni da allora: e Charles li trascorre tutti in galera, al Franklin Correctional Center della città di Bunn, in Carolina del Nord. Lo scorso aprile Fox si ammala di leucemia. È urgente trovare un donatore e il giudice cerca di sensibilizzare l’opinione pubblica attraverso la campagna Save the Fox. È così che Charles viene a conoscenza della vicenda e decide di scrivere una lettera a Fox, offrendosi di donare il proprio midollo, se compatibile. "Non c’è odio nel mio cuore verso di te", scrive il detenuto. "Non serbo alcun rancore per la condanna, visto che se non fossi stato condannato non sarei diventato un uomo migliore". Pur se molto colpito dal gesto, il giudice non può accettare l’offerta perché i detenuti non sono autorizzati a donare sangue o midollo per l’alto rischio di malattie infettive. "Non avrei mai pensato che Alston mi avrebbe contattato e si sarebbe offerto di fare un sacrificio per salvare la mia vita", commenta Fox. "Gli sono molto grato perché è grazie a lui che si è riaccesa in me la speranza". Romania: segretario Affari europei; nessuna prove su esistenza carceri della Cia Nova, 27 settembre 2015 Non ci sono nuove prove che attestino l’esistenza di istituti di detenzione della Cia in Romania. Lo ha dichiarato il segretario di Stato romeno agli Affari Europei, George Ciamba, secondo il quale non ci sono neanche dati che confermino che gli aeroporti romeni siano stati utilizzati dai servizi segreti statunitensi per il trasporto o la detenzione di prigionieri sospettati di terrorismo. Ciamba ha parlato nel corso di un incontro con una delegazione del Parlamento europeo che stava indagando su questo tema. Il rappresentante governativo, inoltre, ha ricordato che è in fase di svolgimento un’inchiesta giudiziaria della Procura generale sulla vicenda. Anche nel 2006 l’Europarlamento indagò sull’eventuale presenza di carceri della Cia in Romania. La questione delle carceri della Cia era riemersa lo scorso aprile e il premier romeno, Victor Ponta, era intervenuto per confermare che da quando aveva assunto l’incarico non erano emerse informazioni in merito. "Negli ultimi tre anni, ovvero da quando sono diventato primo ministro, non ho mai ricevuto alcun tipo di informazioni sull’esistenza di queste prigioni. Se ci siano state o meno prima non lo so, dato che non ricoprivo posizioni di rilievo nelle istituzioni statali e posso parlare solo di quello che so per certo", ha detto Ponta. Le parole del capo del governo romeno si riferiscono all’intervista rilasciata nei giorni precedenti al principale settimanale tedesco "Der Spiegel" dall’ex presidente della Repubblica, Ion Iliescu. L’ex capo dello stato aveva dichiarato di aver consentito nel 2002-03 la creazione di un centro di detenzione della Cia in Romania. Tuttavia, Iliescu aveva riferito di non essere inizialmente a conoscenza del fatto che si sarebbe trattato di un’unità di detenzione, quanto più di un centro di comando dislocato sul territorio di un paese amico. I dettagli dell’accordo erano stati stabiliti da Ioan Talpes, che all’epoca era capo di gabinetto del presidente romeno e direttore del Dipartimento di sicurezza nazionale della presidenza. Il nome di Talpes, che era stato direttore del Servizio d’intelligence estero romeno (Sie) dal 1992 al 1997, è tornato alla ribalta lo scorso dicembre quando aveva dichiarato che la Cia gestiva "una o due" carceri in Romania. Le parole di Talpes si riferivano a uno scottante rapporto di 6.700 pagine (di cui solo poco più di 500 sono state rese pubbliche) pubblicato nel 2014 dalla commissione intelligence del Senato statunitense. Nel documento si accusava la Cia di aver compiuto delle torture su alcuni detenuti, atti illeciti che peraltro si sarebbero rivelati "inutili". Secondo il documento la Cia avrebbe gestito dei centri di detenzione in Romania, e non solo (in Europa spiccano i nomi di Lituania e Polonia) dove venivano reclusi sospetti terroristi di al Qaeda. "Nel nostro paese c’è stato almeno un centro di transito per i detenuti sospettati di terrorismo, ma potrebbero essere stati anche due", aveva detto Talpes il quale aveva confermato che "le carceri venivano gestite esclusivamente dalla Cia" e che le autorità romene intendevano "soltanto offrire collaborazione per poter ottenere l’adesione alla Nato". "Non siamo mai stati al corrente delle attività svolte all’interno del centro di detenzione", aveva aggiunto Talpes. Subito dopo le dichiarazioni dell’ex esponente dell’intelligence romena, Iliescu aveva assicurato di "non sapere nulla su quanto rivelato da Senato Usa", una versione dei fatti smentita a qualche mese di distanza dallo stesso ex presidente. L’ultimo rapporto di Amnesty International, pubblicato lo scorso febbraio, aveva segnalato particolari problemi nel rispetto dei diritti umani in Romania. Un’intera parte del rapporto sul paese balcanico si concentra sulla questione delle "carceri segrete". Amnesty citava le parole di Talpes e riportava le dichiarazioni, risalenti al 2012, di Abd al Rahim al Nashiri, un saudita che si trova attualmente in carcere a Guantánamo. Al Nashiri ha presentato una denuncia contro la Romania alla Corte europea dei diritti dell’uomo, sostenendo di essere stato detenuto in segreto a Bucarest tra il 2004 e il 2006. Il 24 luglio scorso la Polonia è stata condannata proprio dal tribunale di Strasburgo a risarcire due persone che avevano accusato Varsavia di aver subito delle torture in prigione della Cia dislocata nel paese est europeo.