Giustizia: "cattivi per sempre", no alla rieducazione dei condannati per mafia e terrorismo di Maria Brucale L’Opinione, 26 settembre 2015 I mal di pancia giustizialisti tengono a freno i propositi di riforma dell’ordinamento penitenziario. Nessuno spazio per le aspirazioni di reinserimento dei condannati per mafia e terrorismo; uno sbarramento populista vuole i "cattivi" "cattivi per sempre", in carcere fino alla morte. Viene da chiedersi quale spinta dovrebbe indurre un detenuto senza speranza al rimorso, alla rielaborazione del suo vissuto, al cambiamento; quale senso dovrebbe avere la "buona condotta in carcere", quando ogni anelito di libertà, ogni possibilità di godere di trattamenti premiali, sono esclusi. Ma tant’è! Eppure, la effettività rieducativa della pena è stata posta dal ministro della Giustizia, Andrea Orlando, quale fulcro dei criteri della delega di governo depositata il 23 dicembre 2014. Ha ammesso, il ministro, che l’articolo 27 della Costituzione è rimasto una norma di programma mai compiutamente attuata ed ha palesato l’esigenza che il carcere, ancora un luogo carcerogeno che si traduce troppo spesso in una spinta alla recidiva, debba, invece, essere programmato quale momento costruttivo verso un concreto reinserimento del detenuto nella società civile. Ha espresso, pertanto, la cogente esigenza di "un allineamento dell’ordinamento penitenziario agli ultimi pronunciamenti della corte costituzionale che ha più volte affermato l’illegittimità di un sistema sanzionatorio che si fondi su automatismi o preclusioni assolute". Orlando ha sempre chiarito che massima attenzione sarebbe stata rivolta alle esigenze di sicurezza a fronte della mai sopita gravità dei fenomeni di criminalità organizzata. L’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario, che allo stato preclude in assoluto, a chi abbia commesso determinati reati, di accedere a qualsivoglia percorso di rieducazione - salvo che collabori con la giustizia - non può, dunque, nell’idea del ministro, esser soppresso ma sussiste la concreta esigenza che se ne rivisiti il contenuto in una proiezione di legittimità costituzionale e di aderenza agli scopi della sanzione penale. Ecco, allora, la esplicitazione di principi e criteri direttivi della legge delega tesi a restituire un senso ed una proiezione costituzionali a qualunque carcerazione: "eliminazione di automatismi e di preclusioni che impediscono o rendono molto difficile, sia per i recidivi sia per gli autori di determinate categorie di reati, l’individualizzazione del trattamento rieducativo e revisione della disciplina di preclusione dei benefici penitenziari per i condannati alla pena dell’ergastolo". Anche chi è condannato all’ergastolo ostativo (reati contemplati dall’articolo 4 bis) deve poter sperare di tornare alla vita, se è vero che nessuna carcerazione - nel rispetto della volontà dei padri costituenti e degli imperativi comunitari (Vinter c/Regno Unito) - può essere, aprioristicamente ed in astratto, sottratta alla riammissione della persona detenuta nel tessuto sociale, alla aspirazione alla libertà, alla speranza di restituzione. Nessuna previsione, dunque, che ammetta i condannati per i più gravi reati a godere - sic! - dei benefici penitenziari, bensì l’inserimento nel quadro ordinamentale di una possibilità per i soggetti che abbiano, nel corso della carcerazione, dimostrato di avere proficuamente avviato una revisione critica del sé, di essere gradualmente restituiti alla vita. Una possibilità che sarebbe vagliata da operatori intramurari e magistrati di sorveglianza attraverso la capillare attività di verifica e di controllo svolta dagli organi investigativi, soltanto una "possibilità - per usare le parole del ministro - per chi ha sbagliato di reinserirsi positivamente nel contesto sociale, non commettendo nuovi reati", cuore del percorso di studio e di approfondimento denominato: "Stati Generali dell’esecuzione penale". Le propensioni alla attuazione della Costituzione estrinsecate dal ministro Orlando, tuttavia, hanno trovato un feroce sbarramento in chi, sventolando la polverosa bandiera della paura, ha capziosamente paventato la abrogazione tacita della pena perpetua e la rimessione in libertà di soggetti pericolosi appartenenti alle consorterie mafiose. Nulla di più falso, lo si è detto. La tensione riformatrice è nel senso di lasciare aperto uno spiraglio di emenda; di consentire a ogni uomo che abbia commesso un reato, qualunque reato, di pentirsi - pentirsi nell’animo, ricrearsi, cambiare (che è cosa assai diversa dal collaborare con la giustizia) - di dare un senso ed una concretezza ad una norma - l’articolo 27 della Costituzione - che viene radicalmente svilita dalla insuperabile previsione di morte per pena connaturata all’ergastolo ostativo. E però la paura - anche ottusa, ignorante, artificiosa, ingannevole - vince. Con una modifica della legge delega, la presidente della Commissione Giustizia, Ferranti (Pd) spazza via qualunque spinta riformatrice verso l’attuazione della Costituzione escludendo dalla revisione della disciplina di preclusione dei benefici penitenziari per i condannati alla pena dell’ergastolo, "i casi di eccezionale gravità e pericolosità e in particolare per le condanne per i delitti di mafia e terrorismo anche internazionale". La modifica annienta il senso del progetto di cambiamento semplicemente precludendo il cambiamento. Oggi i pochi condannati all’ergastolo per reati diversi da mafia e terrorismo accedono già - in caso di positivo compimento del personale percorso di rieducazione intramuraria e di conforme valutazione da parte del tribunale di sorveglianza competente - al graduale reinserimento in società. La paura vince, la Costituzione perde. Giustizia: Orlando; il carcere non produce sicurezza, abbiamo recidiva più alta in Europa piacenzasera.it, 26 settembre 2015 "Per molto tempo si è sentito dire che più carcere era uguale a più sicurezza: in Italia si investono quasi 3 miliardi di euro sulle carceri, ma il tasso di recidiva è tra i più alti d’Europa". Così il ministro della Giustizia Andrea Orlando, venerdì pomeriggio a Piacenza ospite del Festival del Diritto. Orlando è intervenuto nell’ambito dell’incontro, ospitato a Palazzo Gotico, "Il futuro della giustizia", insieme al presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati Rodolfo Maria Sabelli, al professor Massimo Brutti e alla giornalista Donatella Stasio. Tanti gli argomenti trattati, dalla riforma della giustizia, alla questione intercettazioni. "La giustizia ha detto Orlando - è stato nel nostro paese il tema più divisivo degli ultimi 20 anni e come governo abbiamo scelto di non affrontarlo con un provvedimento unitario, ma "spacchettando" i vari temi. Uno di questi riguarda l’esecuzione della pena e il sovraffollamento carcerario: "Il ricorso al carcere sempre più frequente, anche su temi di carattere sociale, non ha portato più sicurezza - ha sottolineato Orlando - ma ha invece moltiplicato le insicurezze". Orlando ha poi parlato anche della norma sulle intercettazioni, al centro di molte polemiche: "Non è fatta per colpire i giornalisti o tutelare i politici" - ha detto, evidenziando come non ci sia l’orientamento di prevedere il carcere per i cronisti. Con il Ministro ha dialogato il presidente Anm Sabelli, che non ha mancato di far notare alcune criticità a suo dire contenute sulla riforma in discussione: "Il futuro della giustizia è stato tracciato nel passato, con la nostra Costituzione. Dobbiamo chiederci perché non si riescono a fare riforme efficaci: la realtà è che i temi della giustizia sono stati troppo a lungo oggetto di scontro politico piuttosto che di riflessione e questo è un danno, perché blocca la possibilità di fare riforme sensate". "La risposta agli appetiti giustizialisti non è un aumento di pena. L’ingiusta detenzione, non è sempre colpa dei magistrati, ma anche di chi ha fatto leggi poi ritenute incostituzionali". "È chiaro che indagini e processi devono essere per quanto possibili rapidi, ma la soluzione non è prevedere astrattamente dei termini per l’esercizio dell’azione penale quando è chiaro che le condizioni concrete non permetteranno di rispettarli". "Da tempo - ha replicato Orlando - mi sto occupando di riorganizzazione, da qui alla fine dell’anno firmeremo numerosi provvedimenti su questo tema. Va però detto che, da una nostra analisi sui tribunali, è emerso come a parità di contenziosi, di numero di magistrati e di personale, vi siano tribunali che hanno performance eccellenti e altri che non vanno. Esiste un problema di selezione di dirigenza". Giustizia: "Italia prima fra i Paesi più multati". Lettera al presidente Sergio Mattarella di Marco Pannella e Maurizio Turco (Radicali Italiani) Il Tempo, 26 settembre 2015 Il prossimo 30 settembre l’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa discuterà la Risoluzione su "L’attuazione delle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo". Il Consiglio d’Europa conta 47 membri, ci sono tutti i 28 paesi membri dell’Unione europea e, tra gli altri, la Turchia e la Russia. Il rapporto denuncia che quasi l’80% delle sentenze a cui non si è dato seguito, ovvero non si sono presi i provvedimenti necessari a evitare il ripetersi delle violazioni, riguarda solo 9 paesi. Al primo posto c’è l’Italia seguita da Turchia, Russia, Ucraina, Romania, Grecia, Polonia, Ungheria e Bulgaria. Ancora una volta l’Italia è al primo posto tra i 7 paesi che totalizzano il maggior numero di denunce ripetitive, ovvero riguardanti le stesse violazioni. Sono più di 8.000 le domande relative alla non ragionevole durata di processi e all’esecuzione delle decisioni prese ai sensi della legge Pinto, la famosa legge che avrebbe dovuto prevenire i ricorsi alla Corte e che denunciammo da subito come foriera di ulteriori ricorsi. Inoltre, dal 1959 al 2014, l’Italia è il paese che ha subito più condanne dopo la Turchia e il 51% delle condanne sono per la non ragionevole durata dei processi. Nel 2010 il Comitato dei Ministri ha riconosciuto che le prime sentenze risalgono "agli inizi degli anni ‘80" e nelle quali si denunciavano i "problemi strutturali a causa della non ragionevole durata dei processi civili, penali e amministrativi". Sull’alto profilo criminale del nostro Paese non ci sono dubbi. "Nel corso degli anni ‘90 le importanti riforme... avevano portato la Commissione a chiudere l’esame di questi aspetti". Riforme evidentemente inefficaci visto che, in seguito, "nuove constatazioni di violazioni hanno portato il Comitato a riprendere l’esame di tali procedure" e quindi "il Comitato ha deciso di mantenere questi casi all’ordine del giorno fino a quando l’attuazione di riforme efficaci e fino alla inversione di tendenza a livello nazionale in termini di durata dei processi è assolutamente confermata". Ma, a tutt’oggi, continuiamo ad essere condannati, per una perdurante violazione che, ripetiamo, è stata sanzionata a partire dagli inizi degli anni 1980. E che violazione! "I ritardi eccessivi nell’amministrazione della giustizia costituiscono un pericolo grave per il rispetto dello Stato di diritto, portando ad una negazione dei diritti sanciti dalla Convenzione". È evidente, al punto da essere accecante, ed infatti ormai non è nemmeno più una notizia, che se le violazioni perdurano da trent’anni, è patente che siamo di fronte non già a un pericolo grave ma a una violazione conclamata dello Stato di diritto. Non c’è da sorprendersi, questo è un particolare che racchiude il problema generale, perché la costante violazione della legalità costituzionale e degli obblighi internazionali, oltre che dei diritti umani, è rilevata anche nelle relazioni del Comitato Prevenzione Tortura e dei Commissari ai diritti umani del Consiglio d’Europa e dell’Onu. Come pure costante è anche la violazione del diritto comunitario, nonché del recepimento delle direttive dell’Unione europea. A ciò si aggiunga che tutto questo ha anche un costo economico che porta a far pesare il debito pubblico come una vera e propria ipoteca sul futuro delle libertà. Abbiamo quindi colto l’occasione di questa Risoluzione per scrivere al Presidente della Repubblica e proporre una iniziativa del Partito radicale che interrompa e superi questa situazione da "regime di democrazia reale" che caratterizza oggi l’Italia contro lo Stato di Diritto formalmente vigente. Riteniamo infatti che la risposta di Governo e di Riforma, oltre che necessaria e urgente per il nostro Paese, debba puntare a una transizione, a livello mondiale, verso lo Stato di Diritto contro la Ragion di Stato attraverso l’affermazione del Diritto alla Conoscenza, che è innanzitutto conoscenza di quel che il Potere fa per conto dei cittadini in nome dei quali governa. A questo proposito va ricordato che, in Italia, malgrado l’intervento delle autorità competenti nessun dibattito radiotelevisivo pubblico e nessun vero dibattito parlamentare è mai stato possibile sullo stato del Diritto e della Giustizia a seguito del messaggio alle Camere del Presidente Giorgio Napolitano. Dall’Italia che viola ripetutamente la legalità e per questo è sanzionata si faccia tesoro dell’obiettivo all’Onu della transizione verso lo Stato di Diritto e il diritto alla conoscenza e su questo si candidi a membro del Consiglio di sicurezza. Giustizia: congresso Ucpi per denunciare il processo tradito e la Costituzione dimenticata di Vincenzo Comi (Componente del consiglio direttivo della Camera Penale di Roma) Il Velino, 26 settembre 2015 I penalisti rivendicano da sempre l’essenzialità di recuperare i fondamentali principi costituzionali e i valori che devono contraddistinguere il processo penale. L’obiettivo è assicurare a tutti una difesa effettiva e di qualità in ogni processo e per tutti gli imputati. È ai nastri di partenza il congresso annuale degli avvocati penalisti italiani. L’appuntamento è a Cagliari dal 25 al 27 settembre. Quest’anno il titolo del congresso è particolarmente evocativo: "La Costituzione dimenticata, il processo tradito". Hanno già confermato la presenza non solo il ministro della giustizia Andrea Orlando, ma anche viceministro Enrico Costa, il sottosegretario alla giustizia Cosimo Maria Ferri, il capo di gabinetto di Giovanni Melillo e il capo ufficio legislativo Giuseppe Santalucia. Il congresso cade in un momento particolarmente importante, visto il fermento politico di questi giorni sui temi della giustizia penale. Nell’interesse dei cittadini, i penalisti rivendicano da sempre l’essenzialità di recuperare i fondamentali principi costituzionali e i valori che devono contraddistinguere il processo penale. L’obiettivo è assicurare a tutti una difesa effettiva e di qualità in ogni processo e per tutti gli imputati, da quelli più noti a quelli sconosciuti, che spesso nel quotidiano sono maggiormente pregiudicati. L’Unione dei penalisti, che in questi anni ha conquistato una forte soggettività politica e un ruolo continuo di interlocuzione nelle dinamiche legislative, tramite tutti i rappresentanti e in particolare il suo presidente nazionale, Beniamino Migliucci, in tutte le occasioni di partecipazione alla vita politica, ha rivendicato l’importanza di recuperare la centralità di alcuni principi cardine "come quello di uguaglianza, del valore rieducativo della pena e del giusto processo". In questa prospettiva è obiettivo dei penalisti denunciare la debolezza della politica nei rapporti con gli altri poteri dello Stato e in particolare con la magistratura: La politica deve fare la politica e la magistratura svolgere il compito che la Costituzione le assegna, senza esondare in ambiti non suoi: il processo penale non può e non deve essere un sistema per controllare la legalità o spesso la moralità della società. Con l’approvazione definitiva della legge delega del 22 settembre u.s. il processo penale si prepara ad un restyling. Tra le altre novità il Parlamento ha trovato la quadra sulle intercettazioni; il governo è delegato a emanare norme finalizzate a evitare la pubblicazione di conversazioni irrilevanti ai fini dell’indagine in corso e attinenti soggetti estranei, con la sanzione fino a 4 anni per la diffusione di captazioni fraudolente di conversazioni tra privati fatte circolare al solo fine di recare danno alla reputazione e all’immagine, salvo quando le registrazioni siano utilizzate per l’esercizio del diritto di difesa e del diritto di cronaca. Le indagini preliminari avranno un termine effettivo scaduto il quale il pubblico ministero dovrà decidere se archiviare andare a processo. Basta con iscrizioni nel registro degli indagati a tempo indeterminato. Aumenteranno i poteri della persona offesa nella fase delle indagini preliminari e aumenteranno le pene per i reati di furto, rapina e voto di scambio politico-mafioso. Modifiche significative interverranno sui processi a carico di detenuti per i quali sarà prevista regolarmente la video conferenza così come cambieranno alcune regole per l’esecuzione della pena (sarà facilitato il ricorso alle misure alternative, eliminando automatismi e preclusioni all’accesso ai benefici penitenziari, valorizzando il lavoro e riconoscendo il diritto all’affettività, sempre con l’esclusione dai benefici per i condannati all’ergastolo per mafia e terrorismo e i casi di eccezionale gravità e pericolosità). Su queste novità e su tutte le altre contenute nella legge delega si discuterà a Cagliari, dove parteciperanno tutti i rappresentanti dei penalisti, senza trascurare anche temi riguardanti i rapporti tra le norme interne e quelle internazionali oggi sempre più importanti, la legge professionale e il nostro ruolo nella società. Da quest’anno compariranno sulle targhe degli studi legali i primi avvocati dotati del titolo di specialista e grande attenzione si dovrà assicurare ai percorsi di attribuzione della qualifica. Lo specialista deve essere dotato di estrema competenza nelle materie penalistiche, ma non basta. È necessaria una grande consapevolezza del ruolo e un’etica della responsabilità per tutelare il cittadino utente nella scelta del professionista. Nell’interesse dei cittadini è stata introdotta la specializzazione, voluta prima di tutti dagli avvocati penalisti. Per rivendicare in maniera forte e convincente i nostri diritti dobbiamo prima di tutto rispettare i nostri doveri. È questo il viatico per il riconoscimento del ruolo nella società di garanti dei diritti e non di meri prestatori di servizi, che parte dalla formazione dei giovani, dalla deontologia e dall’aggiornamento professionale. Il congresso sarà scandito da tre tavole rotonde in programma: una sul processo, una sul diritto penale sostanziale e una che avrà ad oggetto la riforma dell’ordinamento giudiziario anche alla luce della neonata commissione ministeriale di riforma nominata in questi giorni. Giustizia: penalisti; forti timori per la riforma della prescrizione do la sentenza Corte Ue di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 26 settembre 2015 Nel dettaglio, un forte allarme sulla prescrizione e per le modifiche in arrivo sul diritto penale sostanziale. Ma più in generale, a preoccupare le Camere penali, il cui congresso si è aperto ieri con la relazione del presidente Beniamino Migliucci, è un clima generale nel quale emerge ancora una volta la debolezza della politica nella difficoltà ad affrontare il tema delle riforme utili al Paese. Il tutto aggravato da un periodo di crisi economica che favorisce una visione della giustizia che tende a valorizzare il tema dell’efficienza operativa e a rafforzare le politiche repressive al di fuori degli spazi costituzionali del giusto processo sul terreno insidioso delle misure di prevenzione, di quelle patrimoniali, delle confische allargate e per equivalente. Il processo, anche quello penale, diventa allora inutile, o, meglio, utile solo se procede senza troppi impedimenti e garanzie. In questo contesto, sottolinea Migliucci, la stessa magistratura vede spesso concretizzarsi impropriamente quell’aspirazione a essere impropria protagonista delle riforme che ne caratterizza la storia non solo recente. Dalle procure si moltiplicano così i travasi alla politica, con Pm che passano direttamente ad assessorati da Palermo a Roma. Il che contribuisce allo squilibrio di tutto il sistema, già compromesso dall’insediamento del potere giurisdizionale negli uffici legislativi e nelle commissioni ministeriali. Sulla prescrizione, il timore dei penalisti corre sulla scia delle conseguenze della sentenza della Corte di giustizia europea, con la Cassazione che ha già stabilito la disapplicazione della norma nei casi controversi, mentre la Corte d’Appello di Milano ha, più correttamente, rinviato alla Corte costituzionale; ma non si nasconde insoddisfazione per la piega che preso l’intervento più generale in discussione in Parlamento, con la previsione del congelamento dei termini, anche se è stato scongiurato il rischio di un intervento più pesante come quello sollecitato dalla magistratura con il blocco anticipato all’esercizio dell’azione penale. Il disegno di legge che riscrive il processo penale ha rappresentato uno dei temi chiave della relazione di Migliucci. Su questo si addensano ombre, con qualche luce. Tra queste ultime, come ovvio, le misure che meno piacciono alla magistratura, dall’obbligo per il Pm di esercizio dell’azione penale entro 3 mesi dalla conclusione delle indagini (scelta che tra l’altro potrebbe contribuire ad attenuare la criticità del moltiplicarsi delle prescrizioni nella fase delle indagini preliminari, per l’inerzia dei pubblici ministeri, sostengono i penalisti, nella trattazione dei fascicoli una volta chiusa la fase investigativa), alla previsione di una relazione al Parlamento sui casi di ingiusta detenzione. Ma a convincere sono anche i vincoli in materia di iscrizione tempestiva nel registro degli indagati. Perplessità invece per le norme che rendono assai più estesa la modalità di partecipazione a distanza al processo e per l’aumento delle pene per furti e rapine. Un passaggio quest’ultimo che contraddice recenti istituti come la messa alla prova e la non punibilità per tenuità del fatto è che a Migliucci sembra il frutto di una spinta populista e demagogica. In sospeso il giudizio sulle intercettazioni, dove la cancellazione dell’udienza filtro potrebbe compromettere la necessità del contraddittorio in una materia tanto delicata. Giustizia: Orlando "no al carcere per le intercettazioni fraudolente" di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 26 settembre 2015 Più tempo per portare a termine le indagini sulla corruzione, la possibilità di passare da tre a sei mesi per le altre inchieste e niente carcere per le intercettazioni abusive. Il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, annuncia, in occasione del suo intervento di ieri al Festival del diritto di Piacenza, che in Senato sarà possibile rivedere alcuni aspetti del disegno di legge sul processo penale. La disponibilità a ritoccare la norma è emersa nel corso di un confronto vivace e costruttivo con il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Rodolfo Maria Sabelli, e con il professor Massimo Brutti. Per Sabelli è, infatti, una missione impossibile mettere la parola fine alle indagine in tre mesi, quando sul tavolo del magistrato arrivano circa 109 procedimenti al mese e un’udienza può essere fissata anche dopo un anno. Orlando si dice disponibile a introdurre modifiche in Senato che dilatino i tempi a disposizione delle toghe per mettere la parola fine alle inchieste. Da Palazzo Madama, assicura Orlando, non uscirà una norma che preveda il carcere per le intercettazioni fraudolente: ci sarà un tetto di pena che scongiura il rischio detenzione. Ancora un annuncio di Orlando riguarda un passo avanti verso l’emanazione dei decreti che attuano la depenalizzazione trasformando in illeciti amministrativi quasi tutti i reati puniti oggi con la sola multa, a iniziare dall’omissione dei contributi sotto la soglia dei 10mila euro: la chiave per rendere effettiva la punibilità con la sola sanzione è ora all’esame del ministero dell’Economia e delle finanze. Una volta realmente operativa la norma dovrebbe avere un forte effetto deflattivo. Ma per Sabelli la giustizia è ancora troppo terreno di scontro tra forze politiche per produrre le riforme efficaci che nascono dal confronto. E sul campo del confronto scende il guardasigilli per chiedere la disponibilità dell’Associazione nazionale magistrati a mettere mano a una riorganizzazione interna, a iniziare dalle funzioni del Csm e dalle specializzazioni. Un fronte, quest’ultimo, sul quale il governo si è mosso con la riforma della geografia giudiziaria. Quando il confronto si sposta sull’incisività degli interventi, a cominciare dalla norma sulle pene alternative, Orlando ammette che è stato necessario tenere conto "del senso comune alimentato dagli imprenditori della paura", ma si dice certo che alla fine anche in Italia "avremo un sistema penale più simile a quello di altri Paesi". L’Italia ha ancora la maglia nera della recidiva più alta, frutto di un ricorso al carcere ancora eccessivo, mentre per il guardasigilli la strada sta "nell’uscire dalla logica del dentro o fuori". Sabelli prende atto del populismo e invita a combatterlo rendendo più efficiente il processo e l’appello e, sul punto, il ministro della Giustizia è pronto. "La prima delega che attueremo - spiega Orlando - sarà quella sulle impugnazioni e il primo gruppo di lavoro sarà sull’appello". Per Orlando "c’è molta carne al fuoco ma va a cottura solo se la magistratura è disponibile a mettere mano per cambiare prassi consolidate" e sgombrare il campo dall’impressione "che meno si cambia meglio si sta". Da Massimo Brutti arriva l’invito a "coinvolgere nei tavoli di lavori gli intellettuali che non fanno propaganda". E anche qui Orlando ricorda che per l’esecuzione della pena i tavoli di lavoro sono stati 18 per un lavoro svolto ad ampio raggio con la collaborazione di magistrati e giornalisti. Il ministro, inserendosi nel dibattito sui rapporti tra giustizia ed economia, sottolinea che il ruolo della giurisdizione non è quello di far funzionare l’economia. Sollecitato dalla coordinatrice del dibattito Donatella Stasio a confermare le voci su un coinvolgimento del professor Stefano Rodotà nella Commissione sulle intercettazioni il ministro non dà conferme e dichiara di non avere deciso. Dopo l’uscita del ministro arriva però il diretto interessato e alla domanda girata a lui, Rodotà esclude di voler ricoprire l’incarico, anzi ricorda che "non si possono affidare diritti fondamentali a una legge delega". Giustizia: intercettazioni, il parlamento espropriato di Stefano Rodotà La Repubblica, 26 settembre 2015 Vi è un filo tenace che lega le norme già approvate sui controlli a distanza dei lavoratori e quelle che si annunciano sulle intercettazioni telefoniche. In entrambi i casi siamo di fronte ad interventi che incidono su diritti fondamentali delle persone. In entrambi i casi è il governo che ha il potere finale di decidere in materie così delicate. Bisogna seguire con attenzione vicende come queste per comprendere come stiano cambiando le nostre istituzioni. E non farsi soltanto fuorviare dalle non edificanti schermaglie intorno alle modalità di elezioni del Senato. Il meccanismo messo a punto è molto semplice. Il Governo chiede ed ottiene dal Parlamento una delega per regolare questioni della massima importanza, che riguardano la vita delle persone e i caratteri che viene assumendo la stessa democrazia. Le apparenze sono quelle di un pieno rispetto della legalità costituzionale. La sostanza è quella di un suo non indifferente svuotamento. La Costituzione, infatti, prevede che il Parlamento possa delegare al Governo potere normativo, in base però a precisi principi e criteri direttivi che esso stesso individua. La voce del Parlamento torna poi a farsi sentire quando è chiamato ad esprimere un parere, sia pure non vincolante, sui decreti predisposti dal Governo. Ma che cosa accade quando la delega è sostanzialmente in bianco, o tale da attribuiti una larghissima discrezionalità, e il parere parlamentare viene considerato del tutto ininfluente? Si determinano una espropriazione del Parlamento e un trasferimento al Governo della parola ultima e definitiva addirittura in materia di diritti fondamentali. Un corto circuito che svuota di senso la garanzia costituzionale, fa nascere un problema di legittimità di questo modo di legiferare e chiamerà in causa la Corte costituzionale. Non dimentichiamo che i temi dei controlli a distanza e delle intercettazioni erano stati finora affidati a norme di leggi la cui approvazione aveva visto il Parlamento come unico protagonista. Ora assistiamo ad un ulteriore accentramento di poteri nelle mani del Governo, che così si libera del Parlamento di cui viene certificata l’irrilevanza. E tutto questo avviene all’insegna di una forte perdita di trasparenza del processo legislativo nel suo insieme con il passaggio dalla sede parlamentare, sempre controllabile dall’opinione pubblica, alle opache stanze del governo. Si ricordi che la caduta della " legge bavaglio" sulle intercettazioni, di cui questo giornale fu protagonista, fu resa possibile proprio dall’esistenza di una situazione istituzionale che consentiva di intervenire e mobilitare l’opinione pubblica mentre l’iter parlamentare di quella legge era ancora in corso. Inoltre, i due casi qui discussi mostrano che si stanno mettendo le mani sulla prima parte della Costituzione quella dei principi e dei diritti, di cui a parole viene dichiarata l’intoccabilità. Si possono accettare questi slittamenti progressivi, questa strisciante erosione delle garanzie? Controlli a distanza e intercettazioni riguardano la stessa materia, quella della tutela della sfera privata. Vale la pena di ricordare, allora, che la norma sui controlli a distanza si trovava nello Statuto dei lavoratori e che - insieme a quelle sulle informazioni relative alle opinioni, sulle informazioni e i controlli medici - aveva creato la prima disciplina sulla sfera privata delle persone. Storicamente considerata come un diritto dell’"età dell’oro della borghesia", il diritto alla privacy entra nel sistema italiano attraverso i diritti dei lavoratori, ventisette anni prima del riconoscimento per tutti della tutela dei dati personali. Aggiornarla per effetto dell’incidenza delle nuove tecnologie? Certo, ma non come ha fatto il Governo, che la ha mantenuta per i controlli con telecamere, mentre la ha sostanzialmente cancellata per i controlli sui lavoratori effettuati raccogliendo i dati relativi all’uso di computer, telefoni cellulari, iPhone, iPad. La logica avrebbe voluto che le antiche garanzie fossero estese alle nuove tecnologie, assai più invasive di quelle passate perché consentono una sorveglianza continua su ogni mossa del singolo lavoratore, così legato da una sorta di guinzaglio elettronico a chi vuole controllarlo. Con una singolare, e rivelatrice, schizofrenia istituzionale, mentre la sfera personale dei lavoratori viene assoggettata ad una assoluta trasparenza, si vuol far diventare opaca la sfera personale delle persone intercettate. Intendiamoci. La tutela di persone estranee all’oggetto delle intercettazioni merita d’essere tutelata, a condizione però che tutto questo non determini una compressione del diritto costituzionale all’informazione sul suo duplice versante, quello di chi informa e quello di chi deve essere informato. Non dimentichiamo che il codice sull’attività giornalistica, a suo tempo approvato dal Garante per la privacy, prevede che le informazioni riguardanti le figure pubbliche sono tutelate solo se non hanno "alcun rilievo" per l’informazione dei cittadini. Questo è un criterio di carattere generale, che ha come fine la possibilità di esercitare un controllo diffuso sia su chi ha responsabilità e ruoli pubblici, e per ciò non può pretendere coperture di segretezza, sia su chi è chiamato a dare un seguito alle informazioni raccolte, magistrati compresi. Inoltre, le modalità di selezione delle informazioni prodotte possono incidere sul diritto di difesa, precludendo l’accesso a materiali che le parti potrebbero ritenere necessari appunto per le strategie difensive. La garanzia di tutti questi diritti fondamentali viene sottratta non solo alla competenza diretta del parlamento ma, chiusa come sarà in una commissione ministeriale, pure allo sguardo dell’opinione pubblica, alla quale viene sottratta la possibilità di seguire il modo in cui si inciderà su quei diritti e di contribuire beneficamente ad una migliore disciplina. Si deve poi aggiungere che, come molti hanno sottolineato, la delega presenta oscurità e lacune tali da configurare, dietro l’apparenza delle precisazioni, un’attribuzione di larga discrezionalità a chi dovrà attuarla. Saggezza vorrebbe che si interrompesse un procedimento legislativo così contorto e pericoloso. Si stralci al Senato la parte sulle intercettazioni e si restituisca al Parlamento il pieno potere di legiferare e all’opinione pubblica quello di far sentire la sua voce. Giustizia: intercettazioni, il diritto di essere informati di Nadia Urbinati La Repubblica, 26 settembre 2015 La Camera ha approvato in questi giorni l’articolo del disegno di legge sulla giustizia penale che delega il Governo a riformare le norme in materia di intercettazioni telefoniche. In questa occasione il Pd ha votato compatto. Il disegnò di legge recepisce un emendamento passato in commissione Giustizia, relatrice Donatella Ferranti (Pd), che espone questo provvedimento ad una giustificata critica e a richieste di modifica richiamando l’attenzione del pubblico sul potere che la legge delega concede al Governo in una materia così delicata per i nostri diritti. Il testo approvato elimina la possibilità di un’udienza filtro nel corso della quale le parti (il giudice e gli avvocati) avrebbero dovuto decidere le intercettazioni rilevanti da portare al processo, prima di poterle depositare, ovvero renderle a tutti gli effetti visibili e soprattutto pubblicabili. La modifica del disegno di legge con questo emendamento è all’origine di quella che possiamo denotare come una gemmazione della mai domata tentazione di chi esercita il potere di mettere limiti al diritto di cronaca, rendendo più arduo il lavoro di chi ha la funzione di reperire informazioni e il dovere deontologico di farle conoscere con precisione ai cittadini. Questo provvedimento limita il diritto all’informazione. Certo, non replica la logica falsificatrice e manipolatrice della legge bavaglio che il governo Berlusconi ha cercato, invano, di far passare (e che una straordinaria mobilitazione di cittadini o operatori della stampa e dell’editoria fermò). Esso lascia tuttavia aperta una falla sulla liceità della pubblicazione dei verbali delle intercettazioni che lo rende criticabile e non difendibile. Contrariamente alla legge bavaglio, in questo caso non vengono ostacolati gli organi giudiziari nel reperimento delle informazioni per mezzo di intercettazioni come strumento d’indagine. Tuttavia, viene impedito di dar notizia delle intercettazioni sino all’udienza preliminare (il che in Italia può richiedere anni). L’argomento portato dal Pd per giustificare questa decisione è che la possibilità di pubblicazione dei testi delle intercettazioni potrebbe essere lesiva dei diritti di tutti coloro che sono in qualche modo coinvolti nelle conversazioni, benché il prosieguo delle indagini ne dimostri poi l’estraneità al reato. Ma l’udienza filtro, che il provvedimento approvato elimina, serviva proprio ad ovviare a questo problema, che è indubbiamente serio perché mette a repentaglio la dignità della persona con il rischio palese di consegnare il suo nome alla gogna mediatica. L’udienza filtro avrebbe dovuto "selezione del materiale intercettativo nel rispetto del contraddittorio tra le parti e fatte salve le esigenze di indagine". Il Pd si difende appellandosi al principio della privacy. Sostiene che mentre le intercettazioni non si devono impedire, nell’ammetterle si deve prestare attenzione a conciliare due diritti: quello all’informazione e quello alla privacy. Ma il testo approvato alla Camera più che conciliare questi due diritti sembra essere sbilanciato a favore del secondo. Stabilisce tra l’altro che nell’attuazione della delega concessagli dal Parlamento, il governo preveda la reclusione fino a quattro anni come pena per "la diffusione, al solo fine di recare danno alla reputazione o all’immagine altrui, di riprese audiovisive o registrazioni di conversazioni, anche telefoniche, svolte in sua presenza ed effettuate fraudolentemente". La questione da far valere criticando questo provvedimento non è genericamente il potere della casta. Molto più concretamente si tratta qui di una questione di diritti civili. È quindi in nostro nome, come cittadini, che dobbiamo criticare questo provvedimento e chiedere che venga cambiato. In nostro nome perché, come ha spiegato Ezio Mauro su Repubblica Tv, la pubblicazione di certe intercettazioni consente, per esempio, ai cittadini di avere una conoscenza preliminare più completa dei candidati presenti nelle liste dei partiti. Il diritto all’informazione è in questo senso al servizio del diritto politico, perché consente agli operatori della stampa di fornire agli elettori dati e notizie che serviranno loro costruirsi un’opinione quanto più possibile informata su chi votare o non votare. Anche per questa ragione basilare, l’idea di limitare la pubblicazione delle intercettazioni giudiziarie dovrebbe mobilitare il nostro giudizio critico fino a chiedere al Pd e alla maggioranza un ripensamento. La dignità della persona, che questo provvedimento giustamente rivendica, deve essere rispettata anche in relazione al cittadino nel suo diritto ad essere informato, tenendo conto del fatto che nelle società complesse nessuno di noi ha il potere di accedere direttamente alle fonti delle informazioni e deve poter quindi contare su una sfera pubblica aperta e libera. Deve certamente essere possibile evitare di esporre le conversazioni di terzi casualmente finiti nelle intercettazioni senza limitare il diritto di cronaca; ma questo deve e può essere ottenuto senza menomare il diritto all’informazione, un pilastro della dignità del cittadino. Giustizia: caso Sare Mamoudou "inseguito per nove chilometri e sparato alla schiena" di Gianmario Leone Il Manifesto, 26 settembre 2015 Il compagno ferito dovrà convivere con un proiettile conficcato nel petto. La follia dei proprietari terrieri si scatena per pochi meloni. Aggrediti, insultati, picchiati, inseguiti per nove chilometri e sparati alle spalle. È questa al momento la ricostruzione più fedele ai fatti accaduti lunedì in contrada Vaccarella, tra Foggia e Lucera, ai tre braccianti originari del Burkina Faso, Sare Mamoudou, Kadago Adam e Souleiman. Si erano mossi dalla mattina dal grande ghetto di Rignano Garganico con una Fiat Uno bianca per andare in cerca di lavoro nelle campagne del foggiano. Fermatisi vicino a dei campi alla vista di un contadino, gli chiedono un lavoro. Pur essendo negativa la risposta, il dialogo è tranquillo, amichevole. A pochi metri da loro c’è un campo dove sono stati raccolti dei meloni: alcuni sono marci, altri buoni. Gli chiedono se possono prenderne qualcuno: il campo non è il suo ma il contadino dice loro di sì, anche perché di lì a poco sarebbero andati buttati o distrutti. È a questo punto che arriva Raffaele, 27enne figlio di Ferdinando Piacente, 67enne proprietario del terreno da dove Sare e i suoi amici hanno preso i meloni che hanno caricato in auto. Anche a lui chiedono un lavoro: il ragazzo però è poco disponibile, dice subito di no, ma soprattutto si accorge della presenza dei meloni in macchina. Li accusa di averli rubati dal campo di sua proprietà. Li aggredisce verbalmente, partono i primi spintoni, scoppia una rissa durante la quale pare che Raffaele Piacente venga colpito al naso. I tre braccianti del Burkina Faso riescono però a divincolarsi, salgono in macchina e vanno via. È qui che scatta la furia cieca dei Piacente: il ragazzo entra in casa, avvisa il padre, prendono i fucili e partono all’inseguimento della Uno Bianca per nove chilometri: poi parte un colpo che fora una ruota della vettura che finisce fuori strada e costringe i tre alla fuga a piedi nei campi. A questo punto non è ancora chiaro chi, tra padre e figlio prenda la mira e spari i tre colpi fatali: due feriscono mortalmente Sare, mentre un terzo coglie in pieno petto Kadago Adam che resta a terra. L’ultimo dei tre, Souleiman, riesce a fuggire nei campi salvandosi la vita e a chiamare i soccorsi una volta che i Piacente si sono dileguati. Così, dopo l’assemblea di mercoledì nel ghetto di Rignano, l’ambasciata del Burkina ha inviato da Roma dei rappresentanti per garantire assistenza ai due sopravvissuti e per organizzare insieme alla Flai Cgil Puglia una grande manifestazione che il 30 settembre sfilerà per le vie di Foggia. Intanto, Kadago Adam non è in pericolo di vita ma rischia di convivere per sempre con una cartuccia di fucile conficcata nel petto: i medici hanno deciso di non operarlo per i rischi troppo alti. Stranamente però, hanno manifestato sin da subito la voglia di dimetterlo e di rimandarlo nel ghetto: dove rischierebbe la vita viste le scarse condizioni igieniche del luogo. L’avvocato di Cerignola contattato dalla Flai Cgil ha scongiurato questa possibilità. Adesso si lavora con il sindaco di San Severo, con cui da anni c’è un filo diretto per dare assistenza ai braccianti, per trovare un alloggio dove ospitare Kadago. Nello stesso tempo si cerca una strada per ottenere il permesso di soggiorno, magari attraverso l’applicazione della direttiva europea 52 del 2009, che oltre alla sanzioni per gli sfruttatori dei lavoratori prevede anche la concessione di un permesso di soggiorno in casi eccezionali, ed è stata recepita dalla legge Turco-Napolitano. Infine ieri si è recata a Taranto la Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali. Tra gli incontri avuti anche quello con il marito della bracciante di San Giorgio Ionico Paola Clemente, morta nelle campagne di Andria il 13 luglio, e Giuseppe De Leonardis, segretario della Flai Cgil regionale, che lo accompagnava. Che si ripeterà nuovamente tra due settimane a Roma per iniziare il tema delle audizioni sul tema del caporalato. "Speriamo in un tempo celere di dare risposte alle vittime e alle famiglie delle vittime e giustizia a chi lo merita", ha dichiarato la senatrice Camilla Fabbri (Pd), presidente della Commissione. E nelle ultime ore sono state 19 le persone denunciate dai carabinieri di Taranto, al termine di un controllo finalizzato al contrasto del fenomeno del caporalato, dell’intermediazione e dello sfruttamento del lavoro nell’ambito delle attività agricole. Sono 24 le aziende agricole ispezionate, di cui 21 risultate irregolari: 290 posizioni lavorative di cui 90 risultate irregolari; 17 i lavoratori completamente "in nero" e un lavoratore "clandestino". In totale contestate sanzioni amministrative per oltre 91 mila euro, e ammende per oltre 634 mila euro. Impresa e giustizia, reprimere non basta di Roberto Garofoli* Corriere della Sera, 26 settembre 2015 Caro direttore, negli ultimi mesi le pagine di questo giornale hanno ospitato un articolato dibattito sul rapporto tra giustizia e impresa: con crescente intensità, ci si interroga su come conciliare il contrasto efficace ai reati di impresa con l’esigenza di non compromettere gli interessi di rilievo collettivo (sociali, occupazionali, di politica industriale) soddisfatti dall’esercizio di talune attività imprenditoriali. È utile al riguardo tener conto di due linee di tendenza da tempo emerse nella legislazione e in talune prassi giudiziali: il coinvolgimento dello stesso mondo imprenditoriale nell’organizzazione dei meccanismi di contrasto e la previsione di strumenti di risposta ai reati di impresa aventi una logica "terapeutica" anziché soltanto punitiva e repressiva. Della prima opzione è espressione la disciplina dettata dal decreto legislativo n. 231 del 2001 che ha introdotto un sistema di responsabilità dell’impresa legata alla mancata adozione di idonei modelli di organizzazione in funzione preventiva. L’efficacia di tale sistema presuppone, tuttavia, che il mondo delle imprese segua un approccio non burocratico nella predisposizione delle regole organizzative volte a prevenire il verificarsi di illeciti e, per converso, che la magistratura ripudi opzioni interpretative ispirate a diffidenza e non in linea con la logica stessa del modello preventivo. Soprattutto, a 14 anni dal varo del decreto legislativo n. 231, c’è da chiedersi come rafforzare quel modello di contrasto di tipo preventivo, per esempio con l’introduzione di meccanismi premiali per le imprese che collaborino con l’autorità giudiziaria o che adeguatamente tutelino l’attività di whistle-blowing (informazioni dall’interno, ndr). Quanto alla seconda linea di tendenza, sono numerose ormai le attestazioni normative di una volontà del legislatore di reagire ai crimini di impresa senza trascurare le esigenze di tipo pubblicistico che la continuità aziendale soddisfa. Lo stesso decreto legislativo n. 231 del 2001 prevede in taluni casi che, pure in presenza di una responsabilità dell’impresa accertata dal giudice penale, quest’ultimo debba applicare, in luogo della sanzione dell’interruzione dell’attività di impresa, quella del commissariamento con prosecuzione dell’attività aziendale. E gli stessi giudici hanno applicato quella disciplina evitando di comminare la sanzione interdittiva 0 lo stesso commissariamento all’intera azienda, ma limitandoli al solo ramo 0 comparto produttivo interessato dalla commissione del reato. Ad una logica analoga rispondono i poteri che l’articolo 32 del decreto legge n. 90 del 2014 riconosce all’Anac (Autorità nazionale anticorruzione) e all’autorità prefettizia nel proporre e adottare le "misure straordinarie di gestione, sostegno e monitoraggio di imprese", così come quelli disciplinati dall’art. 34 del Codice antimafia. Sono ormai numerose quindi le norme che prendono atto dell’esigenza di conciliare il contrasto al crimine di impresa con le ragioni della continuità aziendale, ed è perciò doveroso chiedersi se nell’esercizio della giurisdizione non si debba riconoscere l’esistenza di un principio generale dell’ordinamento, principio peraltro non diverso da quelli di adeguatezza e proporzionalità della pena e della misura cautelare che la giurisprudenza da tempo conosce e spesso applica. *Magistrato e Capo di Gabinetto del ministero dell’Economia e delle Finanze Firenze: Fp-Cgil denuncia "crolla muro a Sollicciano e il Ministero tagli i fondi" nove.firenze.it, 26 settembre 2015 Sono 10 i metri di muro del carcere di Firenze Sollicciano che sono crollati all’interno dell’intercinta del penitenziario. Su 20 istituti penitenziari in Toscana solo uno ha le caratteristiche per restare aperto senza pericoli per gli operatori o per i detenuti. Le carenze strutturali ed architettoniche, con diverse intensità, riguardano tutti gli istituti toscani, Lucca, Pisa, Pistoia, San Gimignano, solo per citarne alcuni. La Fp-Cgil ha denunciato e denuncia le difficoltà e i rischi che comporta lavorare all’interno delle carceri; neanche a farlo apposta all’inizio di agosto 2015, dopo un sopralluogo al Carcere di Sollicciano, abbiamo scritto in una lettera inviata ai vertici dell’Amministrazione Penitenziaria della nostra regione, alla Asl, al Sindaco di Firenze, al Presidente della Regione Toscana, al garante dei Detenuti e ai vertici del Dap di Roma che "La cinta muraria, causa cedimento parziale, risulta parzialmente chiusa in un settore e la restante parte presenta garitte antiquate, porte divelte, garitte da chiudere" "I continui tagli dei finanziamenti al Ministero della Giustizia, oltre la mancanza cronica di personale non aiutano e mettono in grave pericolo lo svolgimento di qualsiasi servizio. È ora che il governo e l’amministrazione penitenziaria mettano mano a quei provvedimenti che consentano di garantire la sicurezza all’interno delle strutture penitenziarie. La giustizia e la sicurezza sono beni primari che hanno bisogno di adeguate politiche e attenzioni. Così non si può andare avanti, non è giusto che i lavoratori si facciano carico e subiscano le conseguenze della incapacità della politica di decidere. La Fp Cgil sollecita tutti i soggetti che hanno un ruolo amministrativo diretto o indiretto nel carcere fiorentino (Prap, Comune, Regione, Asl, Dap e Garante dei detenuti) a convocare senza ulteriori dannosi e pericolosi ritardi una "conferenza di servizio per il Carcere di Sollicciano", coinvolgendo il sindacato, per decidere una buona volta azioni concrete per garantire a chi lavora nel carcere e a chi vi è costretto a soggiornare la possibilità di stare in sicurezza senza rischiare danni, anche irreparabili, alla persona. L’unica cosa che riteniamo insopportabile, per la comunità tutta, è continuare ad andare avanti così nell’indifferenza totale delle Istituzioni" concludono Donato Nolè, responsabile regionale Fp Cgil Polizia Penitenziaria e Donato Petrizzo responsabile Giustizia della Fp Cgil di Firenze. Castiglione delle Stiviere (Mn): addio al carcere-ospedale, ecco la prima residenza protetta di Luca Cremonesi Gazzetta di Mantova, 26 settembre 2015 Sei nuovi edifici sostituiranno la vecchia struttura di detenzione. Svolta nell’assistenza ai malati mentali. Il vescovo: la speranza è centrale. Giornata di sole e di festa, ieri, in quello che da questo momento può essere definito l’ex Opg di Castiglione delle Stiviere. In località Ghisola dalle 14 si è proceduto al taglio del nastro della prima delle sei Rems (Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza) previste dalla riforma, realizzate nella stessa località che per decenni ha ospitato l’ospedale psichiatrico giudiziario. Nella stretta di mano fra l’ex direttore dell’Opg, Antonino Calogero, e l’attuale direttore, Andrea Pinotti, c’è il senso di questo lungo lavoro che nasce dall’opera della commissione parlamentare d’inchiesta guidata da Ignazio Marino (l’attuale sindaco di Roma) che proprio durante il periodo di direzione di Calogero arrivò in visita alla Ghisiola. Ieri la senatrice Emilia De Biasi, che fece parte di quella commissione, ha inaugurato il progetto Rems che è stato ultimato durante la direzione di Pinotti. "Oggi apre la prima Rems, ed è un bel successo per tutti - ha detto Pinotti - perché abbiamo lavorato tutti al meglio: operatori, professionisti, infermieri, medici, personale sanitario, volontari, ma anche i pazienti che hanno contribuito a questa nuova struttura imbiancando le pareti". Proprio un paziente detenuto nell’ex Opg, che ora sarà spostato nella Rems, ha tagliato il nastro prima della benedizione del vescovo Roberto Busti che, nel suo intervento, ha ricordato la centralità della speranza, concetto chiave e progetto di vita per chi inizia questa avventura, sia come paziente sia come operatore. Oltre alle autorità religiose, al taglio del nastro erano presenti gli onorevoli Marco Carra (Pd), il senatore dei Cinque Stelle Luigi Gaetti, i vertici dell’azienda ospedaliera Carlo Poma (cui compete la gestione della struttura da quando questa è passata dal ministero della Giustizia a quello della Sanità), le autorità politiche e militari di Castiglione, gli operatori e i volontari che lavorano quotidianamente all’Opg. Dopo il taglio del nastro, il gruppo di persone che ha preso parte alla cerimonia ha visitato la prima Rems, che aprirà i battenti ufficialmente il primo ottobre, ovvero giovedì. Nelle sale dipinte di azzurro, blu e viola, ci sono appesi i quadri dell’Atelier di pittura che per oltre venti anni è stato coordinato e gestito da Silvana Crescini; negli anni, i lavori sono stati esposti in mostre in giro per l’Europa. La sala mensa ha accolto gli ospiti che poi hanno potuto visitare la parte superiore della Rems, la zona notte, divisa in due aree. "In una parte ci sono tre letti per gli ospiti che necessitano di assistenza più complessa, mentre nella seconda parte, con 17 letti, ci sono gli ospiti con diagnosi meno impegnative. Questa, comunque, è la prima Rems che apriamo, ma entro fine novembre ne apriremo altre due, e questa sarà quella dedicata all’accoglienza e alla conoscenza del nostro ospite. In totale, dunque, saranno sei, con due riservate alle donne". Al termine della visita è stato offerto un piccolo rinfresco a tutti gli intervenuti, prima di spostarsi tutti a Villa Brescianelli per i lavori dei convegni previsti nel pomeriggio. Trapani: al carcere di San Giuliano nove detenuti diventano pasticceri di Luigi Todaro Giornale di Sicilia, 26 settembre 2015 Hanno superato l’esame al termine del corso organizzato da un ente di formazione professionale. Ora guardano al futuro con più fiducia. Un piccolo grande passo verso la riabilitazione perché nella vita si può sbagliare - può capire a chiunque - a condizione, però, che si faccia tesoro degli errori fatti per non commetterli più in futuro. Nove detenuti, rinchiusi nelle carceri di San Giuliano, hanno deciso di chiudere con il passato e di cominciare a ricostruirsi una nuova vita, impegnandosi fin da ora, senza perdere tempo. Anzi, con il desiderio di bruciare le tappe. E così, armati di buona volontà, hanno conseguito il "diploma" di "Aiuto pasticcere". Un titolo che una volta finita di scontare la propria pena, potrebbe immetterli nel mondo del lavoro. A ricevere l’attestato sono stati Gianluca Brignone, Bucur Valentin, Capasso Alberto, La Russa Mario, Mannina Gianni, Vincenzo Mannoja, Davide Mannone, Rohozneanu Florin, Benito Trentacoste. La Spezia: "Ri#Uscire", i percorsi formativi per il reinserimento dei detenuti Gazzetta della Spezia, 26 settembre 2015 La conclusione del percorso previsto dal piano formativo rivolto ai detenuti della casa circondariale della Spezia, denominato "Ri#Uscire, è stata l’occasione per una visita ieri del prefetto Mauro Lubatti, accolto dal direttore della struttura carceraria, Maria Cristina Bigi. "Ri#Uscire è, infatti, l’iniziativa finanziata dal Fondo Sociale Europeo che ha visto la realizzazione di cinque percorsi, tre dei quali rivolti alla formazione diretta dei detenuti: giardiniere operatore del verde, aiuto cuoco, e saldo carpentiere, sono i mestieri scelti per formare professionalità che li aiuteranno ad un loro reinserimento nella società. L’idea è rivolta anche a migliorare la percezione della realtà del carcere verso la cittadinanza. Nel corso degli anni, insieme al sistema formativo interno, è cresciuto, infatti, anche l’interesse imprenditoriale per quello che è stato definito ‘un particolare quartiere della città. Agli operatori del settore (educatori, volontari, imprenditori) sono stati organizzati anche dei particolari corsi per la formazione che hanno riguardato il welfare di comunità e la responsabilità sociale d’impresa. La serata si è conclusa, poi, con le immagini e parole di un gruppo di detenuti e di operatori per coniugare l’azione formativa con gli interessi e le esigenze della comunità carceraria. Cosenza: telefonini ai detenuti, condannato un agente della Polizia penitenziaria di Maria Teresa Improta quicosenza.it, 26 settembre 2015 Salvatore Gabriele ai suoi superiori tentò di giustificare il suo comportamento con le condizioni di particolare ristrettezza economica in cui stava vivendo. Ciò non è bastato ad ammorbidire la posizione dei colleghi dell’assistente capo della polizia penitenziaria, in forze nella casa circondariale di via Popilia sino alla fine del 2010. Il quarantottenne di Lattarico fu denunciato alla magistratura e sospeso dal servizio. Ieri, al termine del processo di primo grado, il Tribunale di Cosenza ha condannato il poliziotto a due anni di reclusione per il reato di abuso d’ufficio. L’uomo che confessò di aver ricevuto dai detenuti la promessa di somme di denaro in cambio di sim card e cellulari è stato invece assolto dalle accuse di corruzione. Gabriele pare abbia fatto entrare illegalmente nel carcere Sergio Cosmai tre telefonini, permettendo che si consumassero colloqui telefonici non autorizzati cui contenuto non è dato sapere. Conservava tutto in tasca, nella divisa, per poi renderlo disponibile nell’immediato a chi ne facesse richiesta. Insieme a lui è stato condannato per ricettazione a tre anni di detenzione Erminio Mendico 42enne di Melito Porto Salvo ristretto all’epoca dei fatti, Ottobre 2010, nel penitenziario di via Popilia. Assolti invece gli altri sette detenuti coinvolti: Fabio Bruni 31 anni di Cosenza, Vincenzo Ciriello 55enne napoletano, Luigi Cozza 37 anni di Vibo Valentia, Antonio Albanese 55 anni di Rosarno, Giovanni Giannone 46enne di Cosenza, Dimitri Bruno 27 anni di Belvedere Marittimo e Massimo Imbrogno 53enne di Cosenza. A difenderli sono stati gli avvocati Nicola Rendace, Francesco Boccia, Giovanni Cadavero, Carlo Monaco, Cristian Cristiano, Antonio Ingrosso, Antonio Quintieri, Rossana Cribari e Guido Contestabile. Reggio Emilia: scoppia la rissa in carcere durante una partita, due detenuti feriti Gazzetta di Reggio, 26 settembre 2015 Uno è ricoverato in prognosi riservata in ospedale. Il Sappe denuncia: "Troppi pochi agenti per gestire tensioni crescenti". Rissa in carcere tra un gruppo di detenuti, sfociata con il ricovero in ospedale di due dei coinvolti. Mentre si alza forte il grido degli agenti della penitenziaria, attraverso il Sappe, che nuovamente denuncia: "Siamo troppo pochi". Tutto è successo verso le 13.30. Ventisei detenuti ammessi alle attività sportive erano usciti nel campo da calcio accompagnati da tre agenti. Durante la partita di calcio, verso le 14.30 circa, un detenuto tunisino ha aggredito un connazionale ancora per ragioni da chiarire. Lo ha ferito al collo, procurandogli un taglio che ha iniziato a grondare sangue. Ma questo ha scatenato la reazione degli altri detenuti che hanno aggredito il primo, pestato da circa dieci persone. Immediatamente, è scattato l’intervento degli agenti. "Mettendo a rischio la propria incolumità personale, interveniva all’interno del campo per ripristinare ordine, disciplina e sicurezza, con il fine ultimo di portare in salvo il detenuto aggressore" spiega il segretario provinciale del Sappe, Michele Malorni. Tutti i coinvolti sono stati riaccompagnati in cella, tranne i due feriti per i quali si è reso necessario l’intervento di due ambulanze e un’automedica sul posto e il trasferimento in ospedale: uno ha dieci giorni di prognosi, l’aggressore pestato è in prognosi riservata. "Il personale di polizia penitenziaria operante negli istituti penali di Reggio Emilia, nell’anno 2014, ha gestito circa 64 eventi critici, nell’anno 2015 in solo 9 mesi, ha gestito circa 176 eventi - fanno notare dal sindacato. È di tutta evidenza che c’è stato un aumento delle criticità intramurarie negli istituti penali di Reggio Emilia, si registrano eventi critici che per tipologia, riconducono la gestione a venti anni fa. Pertanto il Sappe lancia un grido di allarme che arriva anche negli Uffici Dipartimentali di Bologna e Roma, maggiori garanzie nonché risorse umane e tecnologiche per assolvere ai propri compiti istituzionali". Il Sappe chiede che "i detenuti non meritevoli del regime aperto e irrispettosi del cosiddetto patto di responsabilità, ai sensi dell’art 78 DPR 230/2000, vengano isolati ed ubicati nelle celle di pernottamento singole ed esclusi dalle attività in comune a tutela dell’ordine, disciplina e sicurezza oltre per consentire alla restante popolazione detenuta l’espiazione della pena in condizioni dignitose e comunque nel rispetto delle vigenti normative detentive". Il Sappe ha convocato per mercoledì alle 16 un incontro sindacale per parlare di quanto accaduto. Isernia: "Oltre la vita" Onlus; carcere e genitorialità, al via premio letterario per detenuti isernianews.it, 26 settembre 2015 L’iniziativa dell’associazione Onlus "Oltre la vita" sorta in memoria di Francesco Martino, e della casa circondariale di Isernia. La Casa circondariale di Isernia in collaborazione con l’associazione Onlus "Oltre la vita" ha organizzato la prima edizione del Premio letterario nazionale dedicato a Francesco Martino, "Lettera a mio figlio", sul tema della genitorialità. La partecipazione è riservata alle persone detenute in tutti gli istituti italiani. La sensibile attenzione alla tutela della responsabilità pedagogica, morale e sociale appartenente alla relazione genitoriale e la specifica valenza rieducativa della promozione e del sostegno della dimensione affettiva e relazionale della popolazione detenuta (sostenuta incisivamente dalla sentenza Torreggiani e da note circolari a seguito) rappresentano l’obiettivo del concorso letterario nazionale in questione. La predetta associazione nasce per onorare il ricordo del giovane isernino Francesco Martino, morto prematuramente nel tragico incidente ferroviario di Roccasecca. Essa sostiene con impegno progetti che riguardano anche la promozione e il sostegno della genitorialità e condivide fermamente la volontà rieducativa di costruzione/promozione/cura/mantenimento del ruolo genitoriale da parte del genitore detenuto. L’iniziativa in oggetto è volta a promuovere nel detenuto un produttivo senso di responsabilità pedagogica e morale, che lo induca a voler e poter esperire, in nome del delicato compito educativo genitoriale a cui è chiamato, una riflessione critica quanto più autentica sulle proprie scelte devianti e una possibile definitiva presa di distanze da esse in favore del ripristino di una esistenza eticamente valida e socialmente congrua. Gli elaborati (lettere o poesie) in concorso dovranno essere inviati entro e non oltre il 15 novembre prossimo. La premiazione avverrà il 18 gennaio 2016 nella Sala Teatro del carcere. Libri: "Il caso Cucchi. Un’indagine medica indipendente", di A. Barbieri e M. Aragona La Repubblica, 26 settembre 2015 Martedì 29 settembre, alle ore 14.15, in Sala Caduti di Nassirya, Senato della Repubblica, Piazza Madama 11 - Roma, Medici per i Diritti Umani (Medu) presenta "Il caso Cucchi. Un’indagine medica indipendente", di Alberto Barbieri e Massimiliano Aragona. Saranno presentati alla stampa elementi clinici ancora non presi in considerazione nel corso dei due processi che hanno riguardato la morte di Stefano Cucchi. Ciò accade in una fase come quella attuale, quando una nuova indagine sta individuando responsabilità finora mai emerse. L’indagine di Medu si basa sullo studio e l’analisi della documentazione processuale tra cui deposizioni, perizia, consulenze, documentazione sanitaria, memorie, motivazioni delle sentenze. Dalla narrazione cronologica degli eventi all’analisi delle conseguenze fisiche e psichiche del trauma, dalla riflessione sulla natura degli atti violenti alle considerazioni sulle causa della morte, questa indagine cerca di restituire una ricostruzione dei fatti compatibile, tanto con la logica clinica, quanto con la verità "umanamente accertabile e umanamente accettabile" del caso Cucchi. Intervengono: Luigi Manconi (Presidente Commissione Diritti Umani del Senato), Patrizio Gonnella (Presidente Antigone e Cild-Coalizione Italiana per le Libertà e i Diritti Civili), Alberto Barbieri (Medici per i Diritti Umani). Saranno presenti Ilaria Cucchi e l’avvocato Fabio Anselmo. Ufficio stampa Medu - 3343929765 / 0697844892 info@mediciperidirittiumani.org. Brasile: caso Pizzolato; il Consiglio di Stato rigetta il ricorso contro l’estradizione Nuovo Giornale di Modena, 26 settembre 2015 Dopo la notizia che il Consiglio di Stato ha rigettato il ricorso presentato contro il decreto di estradizione del ministro della Giustizia, la preoccupazione della Garante regionale delle persone private della libertà personale, Desi Bruno, per la sorte di Henrique Pizzolato, il banchiere italo-brasiliano coinvolto in quella che è stata definita dai media la "tangentopoli brasiliana" e attualmente recluso nel carcere di Modena, "rimane immutata, nonostante le ulteriori e attuali rassicurazioni fornite dal Governo brasiliano che il detenuto potrà scontare la detenzione in condizioni di sicurezza". Come ricorda la Garante, "il mio ufficio si è da tempo occupato della vicenda, segnalando nelle sedi competenti la seria preoccupazione per la vita di Pizzolato nel caso in cui venisse data esecuzione all’estradizione" dal momento che "le carceri brasiliane sono internazionalmente riconosciute e censurate per essere caratterizzate da inaccettabili violazioni dei diritti umani e per essere prive delle condizioni minime di sicurezza e assistenza". Bruno spiega che "le ulteriori garanzie fornite dal Governo brasiliano, secondo quanto riferito dal difensore di fiducia, riguarderebbero solo la sezione speciale del carcere di Papuda, nella quale il detenuto dovrebbe essere ristretto al suo rientro in Brasile". D’altra parte però, avverte la figura di garanzia dell’Assemblea, "dopo che avrà scontato un sesto della pena, che maturerà il 23 giugno del 2016, Pizzolato avrebbe diritto a scontare la pena in un regime semiaperto e quindi in un’altra struttura carceraria come prevede la legge di esecuzione penale brasiliana, rispetto alla quale il Brasile nulla ha detto, non procedendone all’individuazione". Per tutti questi motivi, conclude la Garante, "resta gravissima la preoccupazione per la vita di Pizzolato in caso di esecuzione dell’estradizione che, come riferisce il difensore, il ministro della Giustizia potrebbe sospendere per consentire a Pizzolato di difendersi in un procedimento penale che ha pendente avanti al Tribunale di Modena, con l’udienza fissata per metà dicembre, e nell’attesa della decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo". Svezia: i migranti? li ospiteremo nelle carceri vuote Il Giorno, 26 settembre 2015 Il ministro delle migrazioni Morgan Johansson: "Siamo in grado di accogliere 7mila migranti alla settimana ma la situazione si sta logorando". Google, boom per il traslator dall’arabo al tedesco, cercansi bilingui per perfezionare il programma. Dimostrando un nordico senso pratico, ma forse una scarsa sensibilità nella comunicazione, il governo della Svezia - forse il più generoso nell’accogliere i migranti - ha pensato bene di ricorrere anche alle prigioni vuote, oltre che alle caserme dismesse, per accogliere l’alto numero di migranti che stanno raggiungendo il Paese. Ad annunciarlo senza imbarazzi è il ministro delle migrazioni Morgan Johansson, affermando che la Svezia è in grado di accogliere 7mila migranti alla settimana ma anche che la situazione si sta "logorando". Insomma, si comincia a non sapere dove mettere tutti i richiedenti asilo. "Stiamo vedendo il più grande flusso di migranti dai tempi della Seconda guerra mondiale. Se ciò continuerà settimana dopo settimana dopo settimana, allora avremo bisogno di più luoghi di accoglienza", ha detto. Di certo la ricchezza e le generose politiche migratorie della Svezia hanno reso il Paese una delle principali destinazioni dalle persone in fuga dalla guerra e dalla violenza in Medioriente e Africa. I siriani, ad esempio, hanno diritto automatico alla residenza permanente. A luglio l’agenzia per le migrazioni svedese aveva previsto che Stoccolma avrebbe ricevuto 74mila richieste di asilo, ma l’intensificazione della crisi significa che questo numero potrebbe aumentare in modo significativo. Per far fronte alla sfida, il governo sta pensando di fare un inventario delle proprietà dello Stato e delle compagnie statali che potrebbero essere usate come alloggi. Nella lista rientrano anche, appunto, le prigioni vuote. Stati Uniti: la polizia crivella di colpi 38enne afroamericano paralizzato di Marina Dalla Croce Il Manifesto, 26 settembre 2015 L’unica differenza rispetto ad altri casi simili è che questa volta la vittima è un disabile. Per il resto sembra di leggere un copione già conosciuto in un’America che non riesce proprio a lasciarsi alle spalle rigurgiti di violenza e razzismo. Un afroamericano d 38 anni è stato ucciso mercoledì pomeriggio dalla polizia di Wilmington, nello Stato del Dalaware, dopo che un anonimo aveva segnalato al 911 la presenza di un uomo ferito dopo essersi sparato un colpo di pistola. L’afroamericano si chiamava Jeremy McDole. Aveva alle spalle una serie di precedenti per possesso di droga e nel 2005 era rimasto paralizzato dopo che un amico gli aveva sparato alle spalle. Secondo il capo della polizia di Wilmington, Bobby Cummings, l’uomo sarebbe stato armato nel momento in cui sono arrivati gli agenti. Una ricostruzione smentita dalla famiglia di McDole, con la madre che ha accusato la polizia di aver ucciso il figlio. La sequenza dell’uccisione è stata ripresa con il cellulare da un passante che ha postato il video su Youtube. Tutto comincia mercoledì verso le tre del pomeriggio quando al 911, il numero di pronto intervento della polizia arriva una telefonata che denuncia la presenza di un uomo sanguinante dopo che si era sparato. Sul posto si recano tra agenti e trovano McDole in mezzo alla strada sulla sua sedia a rotelle. È chiaramente disarmato, come si vede anche dal video, ma gli agenti avanzano pistola in pugno probabilmente perché allertati della presenza di un’arma. "Metti giù la pistola e alza le mani", intima uno di loro a McDole. Non è chiaro se l’uomo è consapevole di quanto sta accadendo intorno a lui. Muove la testa, cerca di alzarsi sulle braccia, poi si rimette seduto e sposta le gambe con le mani. Nel video non si vede mai impugnare un’arma né inveire contro gli agenti ma solo portare le mani alla cintura. E forse proprio questo gesto gli è costato la vita, con gli agenti che potrebbero aver pensato che stesse per impugnare un’arma. E sparano uccidendolo. Più tardi hanno dichiarato di aver trovato una pistola calibro 38 vicino al corpo dell’uomo. "Mio figlio non era armato e adesso voglio risposte sulla sua morte", ha detto la madre di McDole mente un’altra parente ha parlato di "esecuzione". È stata aperta un’inchiesta per verificare che gli agenti si siano comportati secondo la legge, ma la vicenda è seguita anche dell’Ufficio diritti civili, un nuovo ufficio creato dal Dipartimento delle giustizia proprio per evitare che casi del genere alimentino sfiducia verso e istituzioni. Di certo l’ennesima uccisione di un afroamericano da parte della polizia rischia di riaccendere le proteste nei confronti di forze dell’ordine accusate troppe volte di razzismo. "Resta molto ancora molto da fare sul tema del razzismo e per assicurare che tutti gli americani si sentano al sicuro nella loro comunità" ha detto Hillary Clinton, candidata democratica alla Casa Bianca, il 9 agosto scorso, primo anniversario dell’uccisione da parte di un poliziotto di Michael Brown a Ferguson, nel Missouri. Proprio quest’ultimo caso dimostra quanto la Clinton abbia ragione. La strada è ancora lunga perché l’America bianca capisca che "Black lives matter", le vite dei neri sono importanti, come ha voluto chiamarsi un movimento nato proprio dopo i fatti di Ferguson. Medio Oriente: quattro anni di carcere per gli adolescenti palestinesi che lanciano pietre di Michele Giorgio Il Manifesto, 26 settembre 2015 Niente spazio alla politica, il gabinetto di sicurezza israeliano presieduto dal premier Netanyahu ha deciso misure durissime contro coloro che scagliano pietre e molotov. Restano impuniti invece gli assassini di Ali, Saad e Riham Dawabsha, arsi vivi nel rogo di Kfar Douma. La Palestina esiste, non solo sulla carta. All’Expo, all’Onu, alla Corte penale internazionale, nello sport. In questi giorni, ad esempio, la nazionale di pallacanestro palestinese ha battuto nettamente Filippine, Honk Kong e Kuwait in match per il titolo asiatico della Fiba. E qualche settimana fa la nazionale di calcio palestinese, in una partita per le qualificazioni ai Mondiali, ha fermato sul pareggio i più talentuosi Emirati. E in giro se ne parla, come della bandiera palestinese che sventolerà tra qualche giorno al Palazzo di Vetro. Il governo Netanyahu invece non riconosce il diritto ad esistere della Palestina. Per il premier israeliano e i suoi ministri piuttosto è cominciata un’altra battaglia contro il "terrorismo". Il rifiuto dei palestinesi dell’occupazione di Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est, per Netanyahu e il gabinetto di sicurezza è solo una manifestazione del "terrore" che va combattuta anche sbattendo in carcere, per anni, i ragazzini di 14 anni che lanciano pietre contro le auto dei coloni israeliani. Come gli altri che lo hanno preceduto, anche questo governo israeliano non comprende che non saranno gli anni di carcere, la repressione, i colpi sparati dai tiratori scelti, la prigione per migliaia di palestinesi, le multe salate, a fermare chi da decenni chiede di essere libero. Due giorni fa, su Maariv, l’analista Ran Edelist ha provato a spiegare a Netanyahu che i suoi tentativi di arginare la violenza a Gerusalemme semplicemente creano altra violenza. "Dobbiamo ancora riprenderci dall’iniziativa del ministro per Gerusalemme, Zeev Elkin, volta a sostituire i libri scolastici palestinesi con libri di testo israeliani (cosa faremo la prossima volta, sostituiremo il Corano con la Bibbia?) che arriva il ministro della pubblica sicurezza Gilad Erdan a minacciare i giudici misericordiosi verso i lanciatori di pietre… il primo ministro ha annunciato che chiunque scaglierà di pietre o bombe incendiarie pagherà un prezzo molto pesante. Isteria, perdita di proporzione e modi di agire che creano le condizioni per la prossima ondata di spargimento di sangue. Vuoi proteggere i residenti di Gerusalemme? Considera i quartieri palestinesi come luoghi che in cui vivono delle persone e non dei nemici e avvia negoziati autentici con i palestinesi", ha scritto Ran Edelist. Parole cadute nel vuoto. Incurante delle forti perplessità espresse anche dalla Procura generale dello stato, il gabinetto di sicurezza israeliano ha deciso l’imposizione di pene minime detentive di quattro anni per i ragazzi di 14-18 anni che a Gerusalemme lanceranno bottiglie molotov o altri "ordigni letali". Gli agenti di polizia faranno riferimento ad altre regole d’ingaggio. Finora, almeno ufficialmente, potevano sparare solo se si trovavano in pericolo immediato di vita. Adesso potranno farlo anche se, a loro giudizio, altre persone rischieranno vita. Il grilletto facile perciò sarà la regola, persino più che in passato. Agli agenti sarà dato in dotazione un fucile con proiettili di piccolo calibro (22), ritenuti non letali e che già sono usati contro le manifestazioni palestinesi in Cisgiordania (lo scorso anno un attivista italiano, Patrick Corsi, fu ferito gravemente da uno di questi proiettili che si fermò tra cuore e polmone). Altre misure allo studio sono le multe ai genitori di ragazzi di 12-14 anni scoperti a lanciare pietre o bottiglie incendiarie e la sospensione di ogni tipo di assistenza sociale ai condannati. Ufficialmente questi provvedimenti saranno impiegati anche nei confronti dei cittadini israeliani ebrei. Lo scetticismo in casa palestinese è forte. D’altronde è davanti agli occhi di tutti il comportamento delle autorità israeliane quando sul banco degli accusati ci sono i coloni che vivono a Gerusalemme Est e in Cisgiordania. Mentre forze di sicurezza, Knesset e governo sono scattati per fermare, con provvedimenti pesanti, i palestinesi che lanciano pietre e bottiglie molotov, appaiono alquanto lenti con coloro che alla fine di luglio nel villaggio di Kafr Douma (Nablus) hanno bruciato vivi tre palestinesi: Ali Dawabsha, 18 mesi, il padre Saad e la madre Riham (in vita resta solo il fratello Ahmad, 4 anni, con ustioni sul 60% del corpo). Sono passati due mesi da quella notte è non si sa nulla dell’andamento delle indagini, nonostante lo stesso esercito israeliano abbia comunicato che i responsabili dell’incendio sono senza alcun dubbio degli estremisti ebrei. Gli ultimi sviluppi risalgono a qualche settimana. Il ministro della difesa Moshe Yaalon ha detto che l’identità degli assassini è nota agli investigatori ma non è stata svelata per impedire che sia scoperto un informatore. Un po’ poco di fronte a tre persone arse vive. Albania: il presidente della Repubblica Nishani riceve rappresentanza ex detenuti politici Nova, 26 settembre 2015 Il presidente della Repubblica albanese, Bujar Nishani, ha ricevuto oggi una rappresentanza di ex detenuti politici che contestano la costruzione di un bunker simbolico in una zona centrale di Tirana, parte di un progetto per l’apertura dei tunnel sotterranei anti-atomici costruiti dal regime comunista del dittatore Enever Hoxha. In due occasioni, le proteste degli ex detenuti politici hanno provocato scontri con le forze di polizia che hanno respinto i tentativi per distruggere il bunker, la cui costruzione "è una provocazione alle nostre sofferenze ed ai ricordi di chi invece è morto nelle prigioni della dittatura", ha dichiarato ai giornalisti Besim Ndregjoni, segretario dell’associazione degli ex detenuti politici. Secondo un comunicato della presidenza della Repubblica, Nishani ha condiviso "la preoccupazione per le continue tendenze a riprendere i messaggi ed i simboli del passato comunista, che possono mettere a rischio gli equilibri della società albanese". Ruanda: Human Rights Watch denuncia: "emarginati reclusi senza alcun processo" di Andrea De Pascale thepostinternazionale.it, 26 settembre 2015 Un rapporto realizzato dall’organizzazione per i diritti umani Human Rights Watch (Hrw) ha rivelato che il governo della Repubblica del Ruanda starebbe trattenendo illegalmente all’interno di un centro di detenzione non ufficiale la parte più emarginata della popolazione che vive a Kigali, la capitale del Paese. I detenuti vivrebbero in condizioni deplorevoli e di forte disagio, sottoposti anche a maltrattamenti e abusi da parte delle autorità del posto. Il centro, comunemente conosciuto con il nome di Kwa Kabuga, si trova a Gikondo, uno dei sobborghi della capitale. La struttura ha cominciato a essere utilizzata come centro di detenzione almeno dal 2005. Il rapporto condotto da Human Rights Watch si basa su ricerche condotte nel sobborgo di Kigali tra il 2011 e il 2015 e fa seguito a diverse ricerche realizzate dalla stessa organizzazione nel 2006. Dal report emerge che la maggior parte delle persone trattenute all’interno del centro provengono da situazioni di povertà e emarginazione. Le politiche adottate dal governo ruandese mirano ad allontanare dagli occhi dell’opinione pubblica tutti coloro che sono considerati come scomodi ai fini dell’immagine positiva della città che il presidente del Ruanda Paul Kagame sta cercando di diffondere al mondo: poveri, senzatetto, bambini di strada, venditori ambulanti, prostitute e presunti criminali sono le principali prede delle ronde della polizia locale. Il ministro della Giustizia Johnstone Busingye ha spesso definito la struttura come "un centro di transito", in cui le persone sarebbero trattenute "per brevi periodi prima di eventuali misure correttive a lungo termine". Ma una dichiarazione di questo tipo si scontra in pieno con i dati diffusi da Hrw, che ha documentato, invece, casi in cui le persone sono state trattenute illegalmente all’interno del centro anche per un periodo di nove mesi. In media, dalle persone intervistate risulta che siano state trattenute nella struttura per un periodo di circa 40 giorni. Nei 57 casi documentati dall’organizzazione per i diritti umani, inoltre, risulta che le autorità ruandesi hanno bloccato queste persone violando le leggi in vigore nel Paese. Tutti i detenuti sono stati trattenuti senza un’accusa precisa e senza alcuna aspettativa di essere sottoposti a regolare processo. Il contesto sociale all’interno delle stanze di Kwa Kabuga non appare migliore. Ex detenuti hanno raccontato di abusi quotidiani da parte della polizia o delle altre persone ospitate. Stando alle dichiarazioni di alcuni di loro basterebbe parlare a voce troppo alta o non essere in fila per andare al bagno per scatenare l’ira delle autorità lì presenti. Dal rapporto risulta che 41 dei detenuti intervistati hanno affermato di essere stati percossi, altri sette invece hanno rivelato di aver assistito ad abusi su alcuni dei loro compagni. Le autorità si difendono dalle accuse dichiarando che le condizioni di vita a Gikondo sono del tutto positive. Ma ancora una volta dalle pagine diffuse da Human Rights Watch emerge tutt’altro. Gli intervistati parlano di condizioni deplorevoli e degradanti e di una totale insufficienza dei beni di prima necessità: fornitura di cibo e acqua potabile non adeguata e mancanza di luoghi e mezzi per un pernottamento quanto meno dignitoso. I detenuti dormivano sul pavimento, spesso senza neppure il materasso. Quando fornito erano costretti a condividerlo per necessità con altri ospiti della struttura e la maggior parte delle volte anche con pidocchi e pulci. Il governo, dal suo canto, quando parla di Kwa Kabuga continua a descriverlo come un "centro di riabilitazione", ma, anche qui, gli intervistati sostengono che l’assistenza necessaria alla loro riabilitazione è inesistente. Per di più, anche presumendo che il centro sia rifornito di personale sanitario, risulta che l’accesso ai trattamenti medici non rispetta in alcuna maniera gli standard minimi. Questo tipo di detenzioni arbitrarie sembrano riflettere le politiche non ufficiali adottate dal governo ruandese che cerca ad ogni costo di diffondere un’immagine della città distante da quella reale. "Kigali viene spesso elogiata per la sua pulizia e il suo ordine, ma la parte più povera dei suoi abitanti sta pagando il caro prezzo di questa immagine positiva", sostiene Daniel Bekele, direttore della sezione Africa di Hrw. Il presidente della Repubblica del Ruanda, Paul Kagame, è stato più volte celebrato per il progresso economico che il suo paese ha compiuto a partire dal genocidio del 1994, in cui furono uccise 800mila persone, ma se il prezzo da pagare dalla maggior parte della popolazione che solitamente è relegata ai confini della società di Kigali è così alto, sarebbe opportuno che il governo ruandese rivedesse gran parte delle sue politiche di risanamento in atto nella capitale. Anche perché, da quanto risulta dalle informazioni fornite da Hrw, i detenuti di Gikondo, una volta rilasciati sono spesso riabbandonati per strada e costretti dalle autorità a lasciare la capitale.