Alta Sicurezza: i "congelati" di Padova, gli "ibernati" nei circuiti di Ornella Favero Ristretti Orizzonti, 25 settembre 2015 Ai primi di aprile di quest’anno 100 detenuti delle sezioni di Alta Sicurezza di Padova erano pronti a partire, trasferiti a Opera, a Parma, a Sulmona e in altri istituti. Pronti a partire, ma abbastanza disperati: perché Padova non è certo "un’isola felice", ma è un carcere a misura di esseri umani, mentre tante altre sezioni di Alta Sicurezza di umano hanno ben poco. Serve un piccolo esempio? C’è un istituto in cui, quando fanno le perquisizioni, il detenuto si deve spogliare e fare le flessioni sopra uno specchio. Questi trasferimenti, dovuti alla chiusura delle sezioni di Alta Sicurezza di Padova (ma la storia di questi circuiti è tutta fatta di chiusure e trasferimenti, trasferimenti e chiusure, per cui il termine "deportazioni" non è poi una gran forzatura) sono stati bloccati perché nella Casa di reclusione di Padova ci siamo tutti mobilitati e abbiamo letteralmente lottato con le unghie e con i denti per tenere in questo carcere le persone detenute in Alta Sicurezza, nell’unico modo sensato possibile, che è la DECLASSIFICAZIONE. E abbiamo così dato un poderoso scossone a una situazione di enorme immobilismo, un immobilismo però che ha delle responsabilità. Ci sono infatti detenuti nel nostro Paese che sono in 41bis da quando è stato creato questo regime, quindi 23 anni e più; ci sono detenuti che dopo anni di 41 bis sono da decenni in Alta Sicurezza; ci sono detenuti che hanno avuto il rigetto della declassificazione per informative delle Direzioni Antimafia fatte con lo stampino e le solite formule "non ci sono elementi univoci per dire che XY si è allontanato dall’organizzazione di appartenenza", "non si può escludere che…"; ci sono detenuti costretti a vivere i rapporti con le famiglie con terrore, perché, a dispetto del fatto che la responsabilità penale è personale, per stabilire che una persona è socialmente pericolosa si va a guardare ogni passo falso di ogni, anche lontanissimo, parente; ci sono detenuti che vanno in permesso e quindi non sono più pericolosi per la società, ma sono ancora in Alta Sicurezza, dunque sono pericolosi per i loro compagni di detenzione… I risultati dello scossone? 24 declassificazioni; alcuni rigetti, spesso con motivazioni coperte dalla segretezza, perché si sa, il nostro è uno strano Paese, dove si può essere indagati a vita senza potersi minimamente difendere; 35 "congelati" in attesa di decisione. Il "congelamento" a Padova l’abbiamo vissuto come una speranza: stanno verificando, forse li declassificano, hanno finalmente capito che dopo anni di Alta Sicurezza le persone devono avere un po’ di ossigeno, devono diventare in qualche modo persone "normali", devono uscire da quei ghetti dei circuiti. Intanto però, quelle stesse persone "congelate in attesa (o nell’illusione) della declassificazione" cominciano a non farcela più: ogni giorno l’ansia di partire, i famigliari che ti chiedono notizie, i figli lontani che raccontano che ogni lettera e ogni telefonata è fonte di paura, la provvisorietà destabilizzante del non saper nulla del proprio futuro, in una vita che già di certezze positive ne ha poche. Allora diciamolo forte, ai funzionari del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria: ABBIATE IL CORAGGIO DI DECLASSIFICARLI. Perché dovevate farlo prima per tanti di loro, perché sono decenni che di declassificazioni se ne vedono pochissime, perché le verifiche della permanenza in Alta Sicurezza non sono state fatte mai o quasi mai. Tra l’altro, vale la pena ricordare che la circolare del 2009 sui circuiti afferma che "La creazione di appositi circuiti penitenziari che garantiscano elevati livelli di sicurezza è inoltre prevista dall’art. 32 del Regolamento penitenziario", ma quell’articolo dice però anche che "La permanenza dei motivi cautelari viene verificata semestralmente". SEMESTRALMENTE? Chiedetelo agli 8912 detenuti rinchiusi in Alta Sicurezza, quante volte sono stati verificati i motivi della loro permanenza nei circuiti. E chiedetelo a Giovanni Donatiello, il nostro redattore-detenuto trasferito a Parma dopo 29 anni di galera e 15 anni di permanenza in Alta Sicurezza1. E chiedetegli anche quale "continuità trattamentale" e quale rieducazione gli sono garantite a Parma. Ma è risaputo, le esperienze che funzionano, come l’Alta Sicurezza di Padova, e anche quella di Nuoro, e prima ancora di Spoleto, vanno rase al suolo. Le esperienze che funzionano? Meglio distruggerle È un vizio del nostro Paese, questo, che non riguarda solo le carceri: se qualcosa funziona, rischia di suscitare più il fastidio che l’entusiasmo. Perché mette in luce ancora di più tutte le situazioni analoghe che invece non funzionano. In carcere poi questo succede spesso perché le cose che non funzionano sono tante, sono molte di più di quelle che funzionano. La Casa di reclusione di Padova, con tutti i suoi infiniti problemi, però funziona, e funziona bene per lo meno per il numero di detenuti che dovrebbero esserci se non ci fosse ancora in parte il sovraffollamento. È un carcere-laboratorio, dove si sperimentano forme di pena "dignitose e sensate". Qualche esempio? L’umanizzazione vera dei rapporti delle persone detenute con le famiglie, attraverso due telefonate in più per tutti, la possibilità di chiamare indistintamente telefoni fissi e cellulari, l’uso di Skype per i colloqui, anche per i detenuti di Alta Sicurezza, se le famiglie sono troppo lontane. E ancora, la redazione di Ristretti Orizzonti, la sperimentazione del confronto vero con la società grazie a un progetto che porta in carcere ogni anno migliaia di studenti, il coinvolgimento dei circuiti di Alta Sicurezza nelle attività, il lavoro, grazie alle cooperative sociali che sperimentano, investono, accettano la sfida di produrre con qualità in un luogo considerato senza qualità per definizione. Tutto questo può accadere perché le persone GIUSTE si sono incontrate, cioè persone che avevano voglia di ridurre il più possibile i danni prodotti da un carcere solo punitivo, e con loro un direttore che non fa miracoli, ma fa semplicemente il suo mestiere con sano buon senso. Cioè non crea ostacoli a tutti quelli che hanno voglia di far funzionare il carcere non come una galera, ma come un luogo di espiazione della pena dove la vita dovrebbe assomigliare il più possibile alla vita vera. Ma in carcere, quando la vita comincia ad assomigliare davvero alla vita vera, c’è sempre qualcuno che pensa invece che la galera deve assomigliare solo a un’altra galera. Allora, per una volta, fate assomigliare la vita reclusa almeno un po’ alla Vita Libera, scongelate gli Ibernati dell’Alta Sicurezza e ridategli una boccata di ossigeno, riportate serenità nelle loro famiglie. E questo è possibile solo con la DECLASSIFICAZIONE. Un’ultima osservazione: la declassificazione non dà grandi vantaggi, anzi, è una vita per certi versi ancora più dura per chi, abituato ai "ghetti rassicuranti" dell’Alta Sicurezza, si ritrova nelle sezioni comuni, perde, se ce l’aveva, la cella singola (l’unica condizione accettabile per chi ha una pena lunga o l’ergastolo), si deve confrontare con un mondo di sofferenza, confusione, incertezza, come sono oggi le sezioni di media sicurezza. Quindi chi chiede di essere declassificato chiede di perdere qualche piccolissimo vantaggio, ma anche uno status di "cattivo per sempre", e accetta di confrontarsi con le contraddizioni, i disagi, il disordine delle sezioni comuni, perché ci crede, perché ha deciso di abbandonare una certa cultura, perché ha voglia di rimettersi in gioco. Ma non è proprio quello di cui parla la nostra Costituzione? Appello fra le sbarre a Gesù per Roverto Cobertera di Carmelo Musumeci carmelomusumeci.com, 25 settembre 2015 Gesù, lo so tutti ti tirano per la giacchetta e spero che non me ne vorrai se questa volta ti chiedo qualcosa anch’io. Non l’ho mai fatto, a parte quella volta che da bambino in collegio un prete mi aveva raccontato la storia di un bambino che parlava con te. Ti ricordi? Si chiamava Marcellino. Era un trovatello. E i frati si erano presi cura di lui. Un giorno Marcellino aveva trovato nel solaio del convento un grande crocefisso con te inchiodato sopra. Lui iniziò a parlarti. E tu a rispondergli. Marcellino iniziò a portarti un po’ di pane e vino. E per questo in seguito i frati chiamarono il bambino "Marcellino pane e vino". La storia finiva bene. Bene per modo di dire. A seconda dei punti di vista. Marcellino si era gravemente ammalato ed era morto. E tu te lo eri portato in Cielo. Anch’io volevo che la mia storia finisse bene. E, dopo un paio di giorni che avevo ascoltato questo racconto, ero andato in chiesa di nascosto per parlare con te. Tu come al solito stavi inchiodato in un grosso crocefisso di legno, con la testa inclinata da un lato. Chissà perché non cambi mai posizione. Ti avevo parlato guardandoti negli occhi. Ti avevo domandato cosa dovevo fare nella vita. Se c’era differenza fra morire e vivere. E poi avevo pianto davanti a te, per essere nato già diverso dagli altri bambini. Avevo pianto per i sogni che avevo diversi dagli altri bambini. Avevo pianto per essere nato grande. Avevo pianto per essere nato senza amore intorno a me. Avevo pianto perché immaginavo che un giorno sarei diventato quello che non avrei voluto. Avevo pianto per la vita che non avrei mai avuto. Avevo pianto perché non riuscivo a smettere di piangere. Ti avevo pure confidato che ero solo al mondo. Solo come un cane. E che nessuno mi veniva a trovare in collegio. Ti ricordi? Ti avevo chiesto se mi prestavi tua madre. E se mi facevi giocare con gli angeli perché su questa terra nessuno giocava con me. Ti avevo chiesto se facevi morire anche a me. E se mi portavi in Cielo con te come avevi fatto con Marcellino. Adesso non fare finta di non ricordare. Una volta ero persino salito su una sedia per arrivare fino a te per baciarti la fronte. E per dirti in un orecchio: "Ti voglio bene". Un’altra volta ti avevo toccato la corona di spine che avevi in testa. E cercai persino di togliertela. Tu però continuasti a non rispondermi. Non mi parlasti mai, neppure quando, per arruffianarti, ti portai un po’ di pane e un po’ di vino che avevo rubato nella dispensa dei preti. Adesso non è che te lo voglio rinfacciare, ma si potrebbe dire che il primo furto l’ho fatto per te. Eppure tu continuasti a non rispondermi, neppure quella volta quando ti abbracciai. E quando ti pregai di farmi morire come avevi fatto con Marcellino pane e vino, perché a quell’età non vedevo nessuna differenza fra vivere e morire. A quel tempo qualche preghiera te la facevo, ma non c’è stato nulla da fare, perché non mi hai mai lo stesso risposto. E mentre quel fortunato di Marcellino pane e vino te lo eri portato in Cielo, a me mi avevi lasciato in questo cazzo di mondo. Per questo ho smesso di parlarti, perché mi sembrava di parlare con un muro. Adesso però se farai qualcosa per Roverto, che nel carcere di Padova si sta lasciando morire di fame perché è stato condannato alla pena dell’ergastolo (o, come la chiama Papa Francesco, alla "pena di morte nascosta") per un delitto che non ha commesso, sono disposto a fare la pace e parlarti di nuovo. Lo so che gli uomini non danno retta neppure a te, ma tu però puoi fare i miracoli. E allora che aspetti? Fanne uno per Roverto, per dargli una mano a dimostrare la sua innocenza e per salvargli la vita. Se lo farai ti vorrò di nuovo bene. Lo so, è un ricatto, ma me l’hai insegnato tu che in amore tutto è permesso, se ti sei fatto mettere in croce per gli umani. Un sorriso fra le sbarre. Giustizia: l’Italia non abbia paura della pena rieducativa di Vanna Iori (Deputata Pd e responsabile nazionale del partito per l’infanzia e l’adolescenza) huffingtonpost.it, 25 settembre 2015 La funzione rieducativa della pena rischia di rimanere oggi un paradosso che alimenta una rielaborazione rabbiosa, mortificando la dignità umana, o può davvero tradursi in un progetto possibile che consenta una pena "riflessiva" in grado di riattraversare le ombre della devianza e del reato commesso per poter concepire un nuovo progetto per il proprio futuro e un reinserimento sociale? Questo interrogativo si pone oggi come necessario e legittimo. È un interrogativo che comporta una riflessione sul senso che può avere la pena dietro le sbarre, riflessione resa ancor più necessaria in un contesto di crescente populismo giustizialista, superficiale ed emotivo. La pericolosità sociale di alcune categorie di persone è spesso più apparente che reale e la detenzione risponde più all’esigenza di allontanare e segregare i "devianti" per la loro differenza che per l’effettiva pericolosità sociale. Il carcere diventa in tal modo una struttura "sostitutiva" delle strutture di recupero sociale inesistenti o insufficienti, che consentano l’uscita dal carcere anche per chi fuori non ha un domicilio. Ma questi sentimenti sono motivati anche dal fatto che non c’è nel nostro Paese il senso della certezza della pena e di una giustizia penale rapida e efficace. Il passo decisivo per superare la visione meramente punitiva e riuscire ad affermare una effettiva funzione rieducativa della pena sia riportare l’attenzione principalmente sul rapporto tra l’interno e l’esterno del carcere. Il carcere conserva le caratteristiche di istituzione totale, chiusa e separata tramite un isolamento fisico e simbolico dal contesto della società esterna, caratteristiche del sistema penitenziario ottocentesco, accentuate dal fascismo e ancora rimaste in quello repubblicano, nonostante le successive riforme abbiano apportate modifiche, dal 1975 ad oggi. Questa separazione interno-esterno colloca chi sta "dentro, "detenuto", "ristretto" in una struttura impermeabile all’esterno, dove chi sta "fuori", è "in libertà", "in sicurezza" poiché i gli autori delle azioni "malvagie" e portatrici di disordine stanno, appunto, "rinchiuse", dietro le sbarre, le mura, i fili spinati, presidiate delle garitte e dalle guardie. Questo isolamento nei confronti del mondo esterno rende il carcere una "città nella città" dove si vive un sovraffollamento interno, dove le condizioni non sono quelle dell’abitare che caratterizza l’esterno: "là", oltre le sbarre e i portoni metallici, le persone sono libere di muoversi, scegliere e vivere. L’interno non può protendersi verso l’esterno, allo stesso modo non giunge all’interno la voce del mondo esterno e il mondo esterno non accoglie e ascolta le voci dell’interno. Favorire il contatto tra l’interno e l’esterno è quindi decisivo. E può essere realizzato innanzitutto attraverso la territorializzazione della pena, un passo fondamentale, perché recidere il collegamento col territorio, la realtà locale, le famiglie, gli amici, acuisce la separatezza e i vissuti di abbandono al mondo spesante, violento e disumano dell’esperienza detentiva. Certo non è facile rispondere al disagio della detenzione, ma una via per cercare di uscire dalle ombre della depressione e della perdita di speranza di chi si sente oppresso dal passato e si vede privo di futuro è innanzitutto quella che si basa sul recupero delle relazioni interpersonali e degli affetti familiari, dove è ancora possibile non disperderli. Sarà necessario ripensare il senso delle misure "alternative" che, come efficacemente esprime la stessa scelta linguistica del termine, presuppongono una "norma" nella cui logica si riconosce la centralità del carcere e si vede nella detenzione la formula prioritaria di erogazione della pena. Ma se le pene diverse dalla detenzione sono delle "alternative" è evidente che le erogazioni diventano "eccezioni", sussidiarie o premiali. Nella logica rieducativa della pena dovrebbe in teoria essere proprio il contrario, ovvero dovrebbe essere il carcere la misura "alternativa" ove non esistano le condizioni per altre misure che esprimano la funzione rieducativa e l’obiettivo del reinserimento. Il decreto 2978, approvato il 23 settembre contiene, specificamente all’articolo 30, indicazioni per la revisione dell’ordinamento penitenziario in cui si indicano strumenti per il valore rieducativo della pena, principalmente attraverso facilitazioni per il ricorso alle misure alternative, eliminando automatismi e preclusioni nell’accesso ai benefici penitenziari. Ma soprattutto si indica nella valorizzazione del lavoro uno strumento di rieducazione propedeutico al reinserimento nella società. Inoltre si riconosce il diritto all’affettività come opportunità per la riduzione delle recidive. Ma forse siamo ancora lontani dall’attuazione dell’articolo 27 della Costituzione. Giustizia: Napolitano al Festival del diritto "il futuro in un’Europa senza chiusure e muri" di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 25 settembre 2015 Possiamo declinare la nostra impotenza dinanzi ai mutamenti e alle scosse della storia? Possiamo lasciar prevalere sulle nostre migliori risorse e potenzialità i peggiori rigurgiti di un oscuro passato? No, non possiamo! L’entusiasmo con il quale il presidente emerito della Repubblica, Giorgio Napolitano, invita i cittadini d’Europa a recuperare la forza del Trattato è contagioso per le centinaia di giovani intervenuti nella giornata di apertura del festival del Diritto di Piacenza. "Europa del diritto e nuovo ordine mondiale" è il tema scelto da Napolitano e introdotto dal direttore scientifico Stefano Rodotà dopo i saluti del sindaco di Piacenza, Paolo Dosi. Napolitano arriva con una macchina rossa con il logo del Festival del diritto ed è subito preso d’assalto da ragazzi di ogni età. Per il Presidente, alunni e studenti hanno realizzato un video nel quale descrivono in poche frasi cos’è per loro il futuro: è questo, infatti, il tema scelto per l’edizione 2015. Ad accomunarli tutti è l’ottimismo. E su quello punta Napolitano quando parla del presente in Europa. Un continente ripiegato sempre più su se stesso che si apre pericolosamente ai "separatisti" cresciuti sull’onda della crisi economica, della minaccia del terrorismo islamico, dell’arrivo in massa dei profughi. Sono questi "i motivi della caduta dei consensi e delle speranze - dice Napolitano - nei confronti dell’Europa, del diffondersi dell’euro scetticismo e di qualcosa di più, di simile piuttosto alla rimozione e negazione di mezzo secolo di storia europea vissuta collettivamente". Giorgio Napolitano si ribella alla retorica del "sogno finito" perché le istituzioni, le leggi sovranazionali e l’unione bancaria non sono crollate come fanno credere i propagandisti del ritorno al passato. Vero è che la l’Europa vive una "crisi di fiducia" e ciascun Paese ha la tentazione di addossare a un altro le responsabilità. Ma se i pregiudizi della Germania contro gli Stati meno virtuosi hanno frenato le più coraggiose politiche per fronteggiare la crisi globale esistono anche i rischi della "tesi" anti-tedesca che rischia di cancellare 60 anni di storia. Quello che serve è invece l’unità di intenti "solo su basi di rinnovata reciproca fiducia potranno affinarsi e realizzarsi le proposte del 5 presidenti - avverte Napolitano - per il completamento dell’Unione economica e monetaria o, quelle recentissime, dei presidenti dei Parlamenti di quattro paesi fondatori". La costruzione di un nuovo ordine mondiale é imposta dai fatti: dallo stato islamico e dai milioni di disperati in fuga verso l’Europa, per Napolitano "il fenomeno più sconvolgente". Sul terreno dei diritti l’Europa si sta giocando la tenuta e il rinnovamento del suo progetto, la credibilità e l’onore. Usa toni molto duri, Giorgio Napolitano, e punta il dito contro muri e filo spinato, alzati contro i diritti. Nei confronti dell’Ungheria sollecita l’attivazione da parte del Consiglio dell’Europa delle procedure, in applicazione dell’articolo 7 del Trattato, per le gravi violazioni dei valori indicati dall’articolo 2. Un ripiegamento nazionalistico di singole nazioni, soprattutto da parte dei Paesi dell’Est ma non solo, che spinge a porsi interrogativi sul grande allargamento dell’Unione. Napolitano mette in guardia contro ogni chiusura che limiti la libera circolazione delle persone garantita dalla Convenzione di Schengen e sancita a Lisbona nel Trattato. Una "lectio magistralis" accolta da una standing ovation dalle oltre 500 persone presenti nella sala del Palazzo Gotico. Per Stefano Rodotà è potente e quanto mai opportuno l’invito di Napolitano a tornare alla fase costituzionale dell’Europa. Domani al Festival del diritto partecipano il ministro della Giustizia, Andrea Orlando e il presidente dell’Anm, Rodolfo Maria Sabelli. Giustizia: il Csm chiede una stretta per le toghe in politica, d’accordo il ministro Orlando di Francesco Grignetti La Stampa, 25 settembre 2015 La richiesta del Consiglio Superiore della Magistratura fa discutere. Le divisioni tra giudici non sembrano un problema insormontabile. Il Consiglio superiore della magistratura chiede al Parlamento di porre nuovi limiti all’entrata delle toghe in politica, e soprattutto al rientro nella funzione giudiziaria. Una sollecitazione che giunge al momento giusto perché un anno fa il Senato ha licenziato una riforma e la Camera sta per discuterne in commissione Giustizia la prossima settimana. "Mi auguro - dice intanto il ministro della Giustizia Andrea Orlando - che questo lavoro opportuno del Csm si coordini con l’iter legislativo che sta arrivando, mi auguro, in porto e che affronta lo stesso tema in Parlamento". E sono 9 i magistrati prestati alla politica in questa legislatura. "Ma voglio escludere che il Csm lo faccia per ostilità nei confronti dei magistrati che sono attualmente impegnati in politica". Il tema è caldo, dunque. Ma sono giuste le misure draconiane? Maurizio Carbone, segretario dell’associazione nazionale magistrati, a chi vorrebbe vietare tout court il ritorno in magistratura a fine mandato, risponde così: "Già Oggi il codice deontologico dell’Anni invita a non accettare incarichi che ostacolino il corretto svolgimento della propria funzione. Non possiamo vietarlo, perché siamo una semplice associazione, ma invitiamo "caldamente" i nostri aderenti a non accettare incarichi di assessore nel loro territorio". Già, ma che pensa Carbone della prospettiva dì abbandonare la carriera dopo uno o due mandati elettivi, e "rifugiarsi" all’Avvocatura dello Stato o in un ministero? Ride: "Magari. Ci candidiamo tutti, smettiamo di lavorare come pazzi e lo Stato ci paga. Scherzo, ovviamente. No, non sono d’accordo. Vedrei meglio un allontanamento definitivo dal territorio. Si può fare il magistrato dappertutto, non per forza nella propria città". Donatella Ferranti, presidente della commissione Giustizia della Camera, Pd, è appunto un magistrato prestato alla politica. Invita ad andarci piano con il populismo "perché si rischia di fare un grave danno. Se mettiamo paletti troppo rigidi, finirà che si candideranno solo magistrati anziani prossimi alla pensione. Ma è giusto rinunciare all’apporto di giovani magistrati che per un periodo servano le istituzioni in modo diverso? Non credo. E non mi convince neanche l’idea di finire ai ministeri o all’Avvocatura dello Stato. Messa così è una forma di intimidazione. Nessun magistrato rinuncerà alla carriera per cui ha vinto un concorso". Eppure, curiosamente, sono proprio i magistrati prestati alla politica ì più appassionati alla materia. Stefano Dambruoso alla Camera, Franco Nitto Palma, già pm a Roma e poi alla Direzione nazionale antimafia, e Felice Casson al Senato: sono loro a firmare i ddl di riforma. A Casson, che è stato un famoso pm a Venezia, non dispiacerebbero scelte drastiche: "Per come la vedo io, chi fa la scelta di entrare in politica deve dire addio alla magistratura. Il posto, lo Stato ce lo dia altrove. Ma al Senato alla fine abbiamo trovato una soluzione meno radicale". Quel testo del Senato a cui accenna Casson, prevede la regola aurea dei 5 anni di purgatorio: 5 anni di stop prima di diventare amministratore locale della città dove opera per un magistrato; al termine, 5 anni di lontananza, 5 anni in organi collegiali, e 5 anni senza incarichi direttivi, oppure scivolo di 5 anni per andarsene in pensione. Dambruoso, che è stato pm antiterrorismo a Milano, propone invece 2 anni di aspettativa prima di potersi candidare (oggi sono 6 mesi), di nuovo, al rientro in magistratura, un purgatorio di 5 anni in organismi collegiali se provenienti dai ranghi giudicanti oppure territorio diverso da quello dove si sono svolte le elezioni. "Il vero scandalo - incalza Donatella Ferranti - non è tanto l’elezione in Parlamento, del tutto trasparente, quanto i magistrati chiamati dalla mattina alla sera a fare gli assessori nella loro città, o i consiglieri occulti, o quelli che prendono incarichi serventi della politica. Questo sì che mi disturba". Giustizia: al seminario organizzato dal Csm prove di dialogo tra diritto e impresa di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 25 settembre 2015 L’economia è veloce, la giustizia è lenta. Al punto che, nonostante i tre gradi di giudizio del processo, per le imprese la partita si gioca tutta in anticipo, nella fase cautelare. E l’impatto economico può essere devastante. Un sequestro preventivo può infatti produrre effetti irreversibili e chiudere la partita ben prima, e al di là, del fischio finale. "Un cattivo intervento equivale a un omesso intervento" dice Paolo Ielo, Pm a Roma, secondo cui quella dicotomia - velocità dell’economia, lentezza della giustizia - "va governata". È anche in quella dicotomia che cresce il seme del conflitto tra diritto e impresa, che le cronache estive hanno registrato all’indomani dei casi Ilva e Fincantieri. Sebbene, come osserva l’ex ministro della Giustizia Paola Severino, il conflitto sia forse "più apparente che reale" e si sia già trasformato in confronto. Lo auspica Confindustria, con il suo vicepresidente Gaetano Maccaferri, che apre simbolicamente "le porte delle fabbriche" ai magistrati nel segno di una collaborazione, che può rivelarsi feconda ai fini della loro necessaria "specializzazione", considerata ormai anche dalle toghe condizione indefettibile per utilizzare al meglio gli strumenti giuridici esistenti. "La giurisdizione deve misurarsi sempre più con altri mondi e relazionarsi con l’economia e questi temi - assicura il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini - influiranno anche sulle decisioni del Csm in materia di formazione, valutazioni di professionalità, nomine dei direttivi". Specializzazione, discrezionalità, prevedibilità, sono parole sulle quali ieri si sono ritrovati i partecipanti al seminario organizzato dal Csm, a Palazzo dei Marescialli, e proposto da Area, la corrente più progressista dell’Anm (circostanza sottolineata positivamente da Legnini, che ha auspicato che "le correnti tornino a fare cultura e meno a spartirsi i posti"). A coordinare il dibattito su "I teatri della crisi: le ragioni dell’impresa, le ragioni della giustizia", il direttore del Sole 24 ore Roberto Napoletano. "Quanto e come il diritto si deve far carico della più grande crisi finanziaria che il mondo abbia conosciuto?" è stato il suo fischio di inizio, ricordando che l’Italia ha perso un quarto della produzione e 9 punti di Pil. Nelle tre ore abbondanti di confronto è stata più volte citata la vicenda della Volkswagen: "Se fosse scoppiata in Italia, quali strumenti avremmo avuto?" si è chiesto il presidente emerito della Consulta Giovanni Maria Flick. "Alla Volswagen non succederà niente perché la Germania non ha un sistema analogo al nostro, contenuto nel decreto 231 del 90, il più severo di tutta l’Europa" ha osservato Severino criticando però l’assenza, nella 231, di un sistema premiale che riequilibri la severità delle sanzioni previste. "Una grande truffa globale sui consumatori, sull’ambiente e sull’economia" dice Legnini del caso scoppiato in Germania, ricordando che "la Procura di Torino ha aperto un’inchiesta e bene ha fatto il Procuratore Pignatone a scrivere una letterina ai ministri". Sono stati Ielo e il segretario dell’Anm Maurizio Carbone a spiegare l’"invasività" nella vita delle imprese delle misure cautelari, spesso rimproverate ai magistrati proprio per il loro impatto. La giurisprudenza ha reso più stringenti i presupposti per disporle ma è una giurisprudenza non ancora consolidata, anzi divisa. "È necessario un giudice specializzato. Il che non vuol dire guidato dalle ragioni dell’economia ma professionale, che tenga conto dell’invasività di quelle misure - dice Carbone. È pericoloso il giudice che fa scelte poco oculate ma anche quello che fa scelte burocratiche, e il rischio c’è". Sulla stessa lunghezza d’onda della "specializzazione", il vicepresidente di Confindustria Maccaferri. "Nell’ambito delle regole stabilite dal legislatore, i magistrati "scelgono"", ha detto, e "per svolgere appieno questo compito diventa essenziale il sapiente uso di quei margini di discrezionalità che una legge ben fatta dovrebbe lasciare al giudice. Ciò a meno di pensare, e non è certo il nostro auspicio, che il legislatore possa continuare a esercitarsi nella produzione di un sistema normativo ipertrofico, che si illuda di regolare a priori tutti i possibili casi del reale". Deve dunque cadere il tabù della discrezionalità del magistrato, "vissuto da sempre con sospetto" osserva Maccaferri. "È necessario un salto culturale". Le Procure, ha ricordato Pignatone, hanno dimostrato "maggiore attenzione all’esigenza di attivare strumenti diversi per quelle aziende che, pur presentando forme di infiltrazione e di condizionamento mafioso, non ne siano però pregiudicate nella loro sostanziale integrità e siano anche intenzionate a rimuovere i presupposti di quel pericolo di infiltrazione e di condizionamento". Strumenti da affinare per evitare confusioni e sovrapposizioni. L’esigenza di affiancare le misure afflittive con altre che favoriscano la continuità aziendale, in un’ottica pubblicistica e non certo di favore, è stata segnalata da Roberto Garofoli, capo di Gabinetto del ministero dell’Economia. "A 14 anni dalla 231 dobbiamo chiederci che cosa non ha funzionato, se quella logica di prevenzione vada confermata e portata avanti" ha osservato, richiamando fra l’altro la proposta di introdurre misure incentivanti (attenuazione della responsabilità in caso di proficua collaborazione con l’autorità giudiziaria). Il futuro del diritto penale dell’economia, secondo Flick, sta tutto nella prevenzione. "Le imprese, o si danno delle regole adeguate e le rispettano, oppure, prima o poi, quelle regole verranno loro imposte dallo Stato o dal giudice. Il rapporto tra diritto e economia passa da qui". Giustizia: il sequestro non è l’unica "cura", per mafia e corruzione serve il bisturi di Giuseppe Pignatone Il Sole 24 Ore, 25 settembre 2015 Sappiamo che ormai l’aggressione ai patrimoni illecitamente acquisiti è un elemento strategico nel contrasto a mafia e corruzione non solo nell’ambiente del processo penale, ma anche in quello di prevenzione che a partire dai cosiddetti Pacchetti Sicurezza del 2008/2009 può prendere le mosse anche dai white collars crimes. In sostanza, la confisca preventiva vuole evitare, da un lato, il pericolo del riutilizzo delle ricchezze illecite per alimentare ulteriori attività illecite, dall’altro il rischio che quelle ricchezze illecite vengano reinvestite in attività lecite alterando le logiche di mercato e le regole della concorrenza. È quindi cresciuto sempre più, specie negli ultimi anni, il valore dei beni confiscati e, tra questi, il numero delle aziende e, più genericamente, delle attività imprenditoriali, di regola in settori a non elevato contenuto tecnologico (attività collegate all’edilizia e al ciclo del cemento, al movimento terra, allo smaltimento dei rifiuti, alla grande distribuzione); come si vede, si tratta per lo più di settori protetti, con forme ridotte di concorrenza, o nei quali, come nel caso degli appalti pubblici, è decisiva una forte capacità di interrelazione con i poteri politico-istituzionali). Sotto altro profilo, si tratta di imprese che nascono ab origine come frutto di proventi-illeciti. anche se possono svolgere attività formalmente lecite, ovvero di imprese strumentali al riciclaggio e al reimpiego di capitali; o, ancora, di imprese che inizialmente operavano in modo legale ma i cui interessi si sono poi compenetrati talmente con quelli delle cosche mafiose. In questo senso si può parlare, con tutta la prudenza imposta da qualsiasi definizione, specie in questa materia, di imprese mafiose o colluse. Peraltro, proprio la costruzione normativa - dal 1982 in poi - ha fatto sì che la misura più grave, quella della confisca, abbia riguardato beni, e in particolare attività imprenditoriali, riconducibili direttamente o indirettamente, a soggetti indiziati di appartenere ad associazioni mafiose (le confische definitive nei confronti di soggetti non mafiosi costituiscono ancora un campione non significativo), circostanza questa che ha giustificato una particolare severità, tanto sul piano degli effetti quanto su quello del regime probatorio, sia di fronte all’opinione pubblica sia, sotto un profilo strettamente giuridico, davanti alla Corte Costituzionale ed alla Corte Europea dei diritti dell’uomo. Accanto a questa che è l’ipotesi base del contrasto ai patrimoni illeciti, (delle organizzazioni mafiose e non solo), sono state introdotte nel nostro ordinamento altre misure di carattere non ablativo, ma che tendono a "curare", se così si può dire, le imprese a rischio di "contaminazione", ovvero a creare una difesa anticipata di fronte ai tentativi di infiltrazione mafiosa. Questa moltiplicazione di strumenti a disposizione per il contrasto del pericolo che la criminalità rappresenta per il mondo delle imprese trova, io credo, molte spiegazioni: dalla continua tensione che il diritto penale, inevitabilmente rigido, subisce quando entra in contatto con il mondo dell’economia, caratterizzato da continui cambiamenti, al fatto che la realtà concreta non si esaurisce nell’alternativa impresa sana/impresa mafiosa o collusa. Constatiamo, sempre più spesso, esempi di imprese che non sono mafiose ma che hanno rapporti con la mafia, così come esempi di imprese che non vivono "solo" di corruzione ma che accettano "anche" un quantum di corruzione in senso lato. In questi casi, dunque, non è possibile né conveniente ricorrere agli strumenti ablativi-acquisitivi, come il sequestro e la confisca, ma è meglio ricorrere ad altri strumenti, in qualche modo più mirati e più selettivi, senza peraltro escludere che a volte l’esito finale possa essere quello della confisca, totale o parziale. Il primo di questi strumenti è l’amministrazione giudiziaria prevista dall’art. 34 del Codice antimafia quando ricorrono sufficienti elementi di fatto per ritenere che il libero esercizio di attività economiche, comprese quelle imprenditoriali, agevoli l’attività delle persone nei cui confronti sia stata proposta o applicata una misura di prevenzione ovvero di persone sottoposte a procedimento penale per uno dei delitti di cui agli artt. 416 bis, 629,630, 644, 648 bis e 648 ter del codice penale; in questi casi il tribunale dispone l’amministrazione giudiziaria dei beni utilizzabili, anche indirettamente, per lo svolgimento di quelle attività. Non rileva dunque l’origine o la disponibilità delle attività economiche, e infatti l’art. 34 prevede come condizione negativa che nei confronti dei titolari delle attività non ricorrano i presupposti per l’applicazione di una misura di prevenzione. Quello che rileva è invece la condizione oggettiva di potenziale asservimento di esse ai disegni dei soggetti sopra indicati. Emerge quindi anche in questi casi una pericolosità autonoma dei beni destinati all’attività imprenditoriale ed utilizzati in modo tale da favorire interessi di associazioni di stampo mafioso. La finalità delia misura prevista dall’art. 34 non è quella di preparare e assicurare una futura confisca, che pure rimane - come detto - uno sbocco possibile del procedimento, ma quella di interrompere le attività agevolatrici e di prevenirne altre mediante un intervento diretto sull’amministrazione che non si deve limitare alla mera gestione, ma deve tendere anche alla rimozione delle condizioni che hanno determinato il provvedimento. Si tratta di una misura temporanea (sei mesi prorogabili fino a dodici), che si può concludere con la revoca sic et simpliciter del provvedimento, se ne sono venute meno le condizioni, ovvero - secondo i principi generali in materia - con la confisca "dei beni che si ha motivo di ritenere siano il frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego" (art. 34 comma 7) ovvero, ancora, con il ripristino della gestione ordinaria affiancata però da un "controllo giudiziario" basato sull’obbligo di comunicare al questore e al nucleo di polizia tributaria tutta una serie di informazioni sugli atti di gestione per un periodo massimo di tre anni. Giustizia: il ministro Orlando si appella agli avvocati e spinge su incentivi alla mediazione di Federica Micardi Il Sole 24 Ore, 25 settembre 2015 Il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, si appella agli avvocati. "Siete 246mila, alcuni sostengono che siate troppi, in effetti siete tanti ed è giusto impegnarsi a trovare più aree di impiego perché siete una risorsa importante, dove l’alta competizione non manca, ma siete a rischio di proletarizzazione". La crisi come si affronta? Per il ministro è necessario ampliare le aree di intervento: "La prossima settimana - annuncia - ci sarà un decreto con incentivi alla mediazione assistita e - anticipa - sto studiando come gli ottuagenari della magistratura onoraria possano lasciare spazio ai giovani". Infine il ministro annuncia che presto, per la prima volta, il ruolo di vice capo dell’ufficio legislativo sarà affidato a un avvocato e non a un magistrato. Il Guardasigilli era presente ieri alla prima giornata dell’undicesima Conferenza nazionale di Cassa forense. Un’ora di intervista davanti alla nutrita platea del Palacongressi di Rimini. E nel salutare il ministro il presidente della Cassa forense, Nunzio Luciano, ha ringraziato dell’attenzione nei confronti dell’operatività e delle iniziative dell’ente. Orlando è stato sollecitato sugli impegni di riforma assunti da lui e dal presidente Renzi il 30 giugno 2014. Dodici punti dove alcune cose "sono state fatte", come il tribunale delle imprese, la responsabilità civile dei magistrati, le norme contro la criminalità economica e la riforma delle intercettazioni. Su questo punto Orlando ha tenuto a precisare alcuni aspetti, soprattutto ha voluto rispedire al mittente l’accusa che si tratti di una legge bavaglio: "Le intercettazione limitano un diritto costituzionale, e ciò viene fatto per raggiungere una verità processuale, l’intercettazione non deve avere fini diversi da quelli previsti dall’ordinamento e dalla costituzione. Però oggi sarà per esempio più facile l’iter per avviare intercettazioni all’interno delle pubbliche amministrazioni, andiamo a colpire la cosiddetta criminalità della casta. Noi non abbiamo intenzione di impedire di pubblicare informazioni - aggiunge Orlando - semmai vogliamo chiudere il buco della serratura, da cui è lecito guardare solo se c’è da tutelare un interessa di carattere collettivo". Lo strumento scelto è il decreto delegato, viene quindi evitata la procedura d’urgenza che non consente il dibattito politico. In merito all’accusa fatta dall’Anm di aver "spezzettato" la riforma della giustizia con interventi spot, Orlando ammette che è vero, "un decreto monstre non sarebbe mai arrivato da nessuna parte, così invece siamo riusciti a portare a casa importanti risultati; inoltre possiamo vedere gli effetti degli interventi e se necessario correggere il tiro". Orlando invita gli avvocati presenti a non aver paura di parlare bene delle cose che funzionano in Italia. "Siamo il primo paese in Europa ad aver informatizzato il primo grado di giudizio; inoltre con il Tribunale delle imprese in meno di un anno l’83% dei casi ha concluso il primo grado di giudizio". Sul rapporto tra giustizia ed economia - dove la prima viene accusata di tener lontani gli investitori per l’eccessiva lentezza - il ministro si concede una digressione: "Sono convinto che la giustizia può rappresentare elemento di certezza per le attività economiche, e quindi i tempi della giustizia non devono essere un peso per l’economia, premesso questo non dobbiamo creare un sistema di diritti a favore dell’economia". E anche sull’avvocatura Orlando tiene a precisare che l’approccio seguito dall’Italia non segue l’impostazione che ha prevalso nell’Unione europea: "La professione dell’avvocatura non deve essere piegata alle esigenze dei poteri forti, per farlo però e per opporsi al modello mercatista la chiave è la qualità e non la regolarizzazione dei costi". Infine, alla sollecitazione di Luciano sulla remunerazione dei giovani che svolgono il gratuito patrocinio e sulla loro difficoltà a reperire risorse, Orlando riconosce che il problema esiste e intende affrontarlo con il ministro Padoan; così come è sul suo tavolo la questione dei parasubordinati che dovrà essere affrontata e risolta con il ministro del lavoro. Giustizia: Mafia Capitale; il lato oscuro dell’accoglienza e gli operatori senza stipendio di Roberto Ciccarelli Il Manifesto, 25 settembre 2015 Il caso della cooperativa "Il Sorriso". La protesta dei lavoratori e delle Camere del lavoro autonomo e precario (Clap) contro una gestione della forza-lavoro "mirata allo sfruttamento delle risorse umane e accompagnata da pratiche lesive dei diritti dei migranti". Una testimonianza drammatica sullo stato della solidarietà in Italia. Di Mafia Capitale si conosce il "sistema Buzzi-Carminati", ma non la condizione degli operatori che lavorano nei centri di accoglienza per migranti e rifugiati. Sono giovani professionisti esperti: psicologi, educatori, assistenti, insegnanti. Una stima precisa su quanti siano non c’è, ma tra cooperative e consorzi che operano nel settore a Roma sembra che siano all’incirca duemila. Dopo lo tsunami degli arresti e delle indagini, lontano dai riflettori e nell’impotenza della politica, la loro condizione già precaria è peggiorata. La maggioranza denuncia ritardi del pagamento degli stipendi, da quattro a sette mesi in media. Alcuni non sono stati nemmeno pagati, a volte per la chiusura dei progetti, altre per inadempienza della loro cooperativa. In questa situazione si trovano molti degli operatori della cooperativa "Il Sorriso", che a dicembre 2014 divenne nota perché oggetto degli attacchi ai rifugiati ospitati in una sua struttura a Tor Sapienza. Con la seconda tranche di Mafia Capitale i vecchi vertici sono stati coinvolti nelle indagini. Successivamente alcune sue strutture sono state incendiate da anonimi. Con il sostegno delle Camere del Lavoro autonomo e precario (Clap) che garantiscono il supporto legale e quello politico-sindacale, ieri hanno deciso di uscire dall’oscurità e di manifestare sotto l’assessorato alle Politiche sociali di Roma Capitale dove hanno avuto un primo incontro con lo staff dell’assessora Francesca Danese. Hanno avanzato la richiesta di ottenere le retribuzioni per il lavoro svolto nei progetti di cui il comune è capofila e la garanzia di un’accoglienza degna in strutture efficienti per i rifugiati. Una precisazione non secondaria. Gli operatori infatti denunciano inadempienze del servizio in luoghi che non hanno corrente elettrica o riscaldamento, chi fugge dalle guerre può essere accolto in questi posti a Roma. L’assessorato si è mostrato disponibile. Torneranno a incontrarsi. Interessante è il racconto che questi lavoratori fanno del proprio lavoro. "Gli stipendi vengono erogati sporadicamente, arbitrariamente e in maniera differita -scrivono in un comunicato in cui si parla anche di sotto-mansionamento e di lavoro senza contratto- 4 mesi di arretrati per la "Casa delle mamme", fino a sei mesi per il servizio Sprar, nessuna retribuzione per il progetto "Astra" che vede capofila Roma Capitale". Tutto questo è avvenuto mentre "la cooperativa continuava a vincere e gestire progetti per l’accoglienza di migranti in tutta Italia, distogliendo le risorse per gli stipendi verso nuovi discutibili investimenti". Al Comune le Clap e i lavoratori hanno rinnovato l’invito a monitorare il sistema degli appalti a cui affida i suoi servizi. Spesso sono subappaltati e nessuno verifica che i diritti dei lavoratori e degli utenti siano rispettati. La testimonianza si chiude con un atto di accusa contro la gestione della forza-lavoro "mirata allo sfruttamento delle risorse umane e accompagnata da pratiche lesive dei diritti". Una descrizione drammatica della condizione del lavoro e del sistema della solidarietà in una parte non marginale del terzo settore. Giustizia: confermato 41bis a Bernardo Provenzano "il regime duro tutela la sua salute" Ansa, 25 settembre 2015 Il boss di Cosa nostra, Bernardo Provenzano, resta al 41 bis. Lo dice la corte di Cassazione spiegando il motivo per cui lo scorso 9 giugno ha bocciato il ricorso del boss. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, puntualizzando che le condizioni di salute del detenuto sono "gravi" ma se Provenzano lasciasse il ricovero in regime di carcere duro, all’ospedale San Paolo di Milano in camera di sicurezza, per andare in un reparto ospedaliero comune, sarebbe a "rischio sopravvivenza", per le cure meno dedicate. Le patologie di cui soffre Provenzano sono "plurime e gravi di tipo invalidante", evidenziano i giudici della suprema corte in riferimento al grave decadimento cognitivo, ai problemi dei movimenti involontari, all’ipertensione arteriosa, a una infezione cronica del fegato, oltre alle conseguenze degli interventi subiti per lo svuotamento di un ematoma da trauma cranico, per l’asportazione della tiroide e per il tumore alla prostata. La Cassazione ha confermato il 41 bis nella sentenza 38813, che è stata depositata oggi. Ma secondo la Cassazione Provenzano "risponde alle terapie". Il regime duro, tradendo la sua originaria finalità, sarebbe diventato, a quanto pare, una modalità necessaria alla vita dell’uomo che per decenni è stato in cima alla lista dei ricercati e che ora è solo un essere inerte e incosciente. Provenzano e lo Stato che non c’è. Ci scrive l’avvocato del boss mafioso in fin di vita di Rosalba Di Gregorio Il Tempo, 25 settembre 2015 Caro direttore, ieri la Cassazione, dando ragione al Tribunale di Sorveglianza di Milano e respingendo il mio ricorso, ha deciso che Bernardo Provenzano, ridotto praticamente a un "vegetale", dovrà rimanere rinchiuso in regime di 41bis. Come suo avvocato avevo chiesto non la sospensione della pena, ma la detenzione nello stesso ospedale San Paolo di Milano dove è detenuto (essendo Provenzano intrasportabile) così da togliere il vetro e permettere ai familiari di salutarlo prima che muoia. Il Tribunale di Sorveglianza, avallato ora dalla Cassazione, ha invece ritenuto, spiegando di avere a cuore la sua salute, che al 41bis Provenzano è meglio curato. Lo trovo aberrante. La verità è che spostarlo in lunga degenza, come da me chiesto, avrebbe significato toglierlo dal 41bis, eventualità invisa al ministro della Giustizia, che nei mesi scorsi ha rinnovato il carcere duro a un detenuto che è ormai un cadavere, incapace di intendere e di volere e con il figlio a fargli da amministratore di sostegno. Si teme davvero che un "vegetale" possa ancora mandare messaggi all’esterno e dirigere Cosa Nostra? Non è questo lo Stato forte che vogliamo. Perché Scattone deve stare in cattedra di Roberto Saviano L’Espresso, 25 settembre 2015 In Italia il carcere ha lo scopo di riabilitare chi ha commesso un reato. È dannoso per la società impedire di reinserirsi a chi ha scontato la pena. Leggere la cronaca quotidiana deve fornire spunti per ragionare su ciò che siamo e su cosa vogliamo diventare. Come individui, naturalmente, e come parte di un sistema che ci vede attori fondamentali. Non è possibile sottrarsi, anche se non si ha un ruolo pubblico. Anche se non si è giornalisti o scrittori. E dovremmo imparare a riconoscere ciò che davvero conta. È nel dibattito di questi giorni la necessità e l’utilità - che secondo me è inutilità - degli aumenti delle pene carcerarie, laddove le carceri non sono affatto, nella stragrande maggioranza dei casi, luoghi di rieducazione. Posto poi, anche per responsabilità dei media, a caccia di click facili e lettori arrabbiati, che assecondano la politica e i suoi continui spot, che ormai la rieducazione del detenuto non è più nemmeno vista come l’effetto prioritario della detenzione. Il senso della carcerazione sembra essere la detenzione in sé, l’allontanamento di chi ha sbagliato, la sua reclusione senza altro fine. Mettere dentro qualcuno e dimenticare le chiavi. Qualunque sia la pena, non c’è differenza. Qui ci siamo noi, persone per bene, e lì ci sono loro, pattume di cui liberarci. Ovviamente questa visione manichea è fallace e pericolosa. Fallace perché i motivi per i quali si commettono reati sono tanti quanti gli individui che li commettono e pensare che non ci possa essere riabilitazione, per nessuno, è abominevole. E pericolosa perché porta il legislatore a ritenere che, per assecondare un dibattito di tipo "securitario", le uniche leggi su cui valga la pena ragionare siano quelle che prevedano un aumento della pena carceraria e non un miglioramento delle condizioni delle carceri. Quindi da un lato c’è la consapevolezza che aumentare la pena carceraria in un paese in cui il sistema di detenzione è allo sfascio, vuol dire peggiorare la situazione, dall’altro esistono dati che mostrano chiaramente come all’inasprimento delle pene non segua necessariamente una diminuzione dei reati. E se è vero quanto ha affermato il ministro dell’Interno nella conferenza stampa di ferragosto, ovvero che i delitti in Italia sono diminuiti del 13% (soprattutto rapine e furti), non si spiega la necessità dell’aumento delle pene, se non con la volontà di assecondare un’ondata di populismo, che non ha alcuna base e che dovrebbe piuttosto essere bloccata. Tra le altre cose, a noi resta la consapevolezza che in carcere il meglio che possa accadere è che l’individuo non subisca cambiamenti di sorta, ma la cosa più probabile è che trovi protezione e diventi manovalanza per le organizzazioni criminali che, oggi come sempre, presidiano i luoghi di disagio, per sostituirsi al grande assente: lo Stato. Ed ecco la cosa più abominevole, lo Stato crea dei luoghi di detenzione per poi dimenticarli, per poi privarli dei fondi necessari (tanto sono popolati da reietti, i rei e chi di loro si occupa: in Italia non si suicidano solo detenuti, ma anche guardie carcerarie) che possano renderli luoghi di rieducazione. Se osservate da questa prospettiva, le polemiche sull’incarico scolastico a Giovanni Scattone, condannato per l’omicidio di Marta Russo, assumono una veste ancora più grottesca. Scattone ha rinunciato all’incarico dicendo che per insegnare bisogna avere la serenità che per lui è venuta a mancare; qualche tempo fa toccò ad Adriano Sofri rinunciare a un incarico come consulente per le carceri pressappoco per lo stesso motivo. Come è possibile che Scattone possa insegnare, ci si è chiesto. Ci sono tanti insegnanti in attesa di una chiamata e lui, proprio lui, avrà un incarico? Scattone ha scontato i 5 anni e quattro mesi di condanna per omicidio colposo, due anni e mezzo in carcere e poi parte agli arresti domiciliari e parte ai servizi sociali. Questo vuol dire riabilitazione: condanna - invito su questo punto alla lettura di un articolo scritto da Giuseppe D’Avanzo il 12 febbraio 1999, sul "Corriere della Sera", dal titolo eloquente "Un’inchiesta troppo poliziesca condotta con metodi da inquisizione", e sottotitolo: "La superteste interrogata tredici volte finché non ha indicato i due assistenti" - detenzione e riabilitazione. Se chi commette reato sconta la condanna, la riabilitazione e il reinserimento devono avvenire senza che si possa metterli in discussione. Negarli significa minare alle basi l’ordinamento democratico. Perché riabilitarmi se poi la società non mi accetta? Ci rendiamo conto di quanto sia pericoloso se davvero si iniziasse a ragionare così? E ci rendiamo conto dell’importanza del nostro ruolo? Liguria: Alessandro Piana (Lega) effettua sopralluogo nelle carceri di Imperia e Sanremo sanremonews.it, 25 settembre 2015 Le criticità maggiori sono state riscontrate nel carcere di Imperia, strutturalmente più vecchio (la casa circondariale risale agli inizi del Novecento) e al collasso di organico. Il capogruppo in Regione della Lega Nord Alessandro Piana questa mattina, assieme al segretario regionale Michele Lorenzo del Sappe, ha effettuato un sopralluogo nelle carceri di Imperia e Sanremo. "Le criticità che investono soprattutto il penitenziario di Imperia sono strutturali e di organico - ha affermato il capogruppo Lega Nord della Regione Liguria. "Pensiamo ai soli 47 poliziotti tra agenti e amministrativi, contro i 72 detenuti ai quali, proprio questo pomeriggio se ne aggiungeranno altri 12 ad alta sicurezza, quindi tendenzialmente pericolosi. Senza contare che proprio in queste ultime settimane si sono verificati due episodi incresciosi, rispettivamente un tentativo di fuga e un tentato suicidio. Fortunatamente il vicepresidente Sonia Viale sta dimostrando una grande sensibilità sul tema delle carceri, e ciò si è potuto constatare anche dal recente incontro organizzato nella casa circondariale di Marassi, incontro dal quale è emerso l’intento di lavorare per garantire il diritto alla salute ai detenuti, la sicurezza agli agenti di polizia anche attraverso un progetto di telemedicina, per evitare i disagi e le spese degli spostamenti dei detenuti verso gli ospedali cittadini". Le criticità maggiori sono state riscontrate nel carcere di Imperia, strutturalmente più vecchio (la casa circondariale risale agli inizi del Novecento) e al collasso di organico. "Il sopralluogo di oggi - prosegue Piana - mi ha permesso di conoscere più approfonditamente le condizioni in cui versano entrambi i penitenziari. Purtroppo quello di Imperia ha serie problematiche strutturali e di organico. Pensiamo ai soli 47 poliziotti tra agenti e amministrativi, contro i 72 detenuti ai quali, proprio questo pomeriggio se ne aggiungeranno altri 12 ad alta sicurezza, quindi tendenzialmente pericolosi. Senza contare che proprio in queste ultime settimane si sono verificati due episodi incresciosi, rispettivamente un tentativo di fuga e un tentato suicidio". Il segretario regionale del Sappe Michele Lorenzo sostiene che non si possa più andare avanti in questo modo: "Imperia non ha più personale di ruolo direttivo - dice - non vi è infatti un direttore e si continua con la perdita di personale che preferisce chiedere il trasferimento in altre sedi, piuttosto che operare in tale stato di abbandono. Inoltre non possiamo permettere che ad Imperia permangano dei detenuti con dei problemi psichiatrici, in un carcere dove non c’è assistenza psichiatrica h24 ma saltuaria, di poche ore alla settimana. I detenuti psichiatrici di Imperia dovrebbero venire spostati in altri istituti attrezzati, come ad esempio Marassi che ha il proprio centro clinico di assistenza psichiatrica". Il consigliere Piana precisa che il penitenziario di Imperia si trova nel cuore della città e questo mette in pericolo la sicurezza anche dei cittadini: "Nel 2009 - spiega - quando ci fu un’evasione, il detenuto si trovò in pochi minuti nel pieno centro. Se ciò accadesse con un carcerato dai problemi psichici non oso immaginare cosa potrebbe accadere". Un carcere quello di Imperia che risale agli inizi del Novecento e che quindi non può più essere adeguato ai moderni standard strutturali: "Il penitenziario di Sanremo - aggiunge il consigliere - invece è nuovo e spazioso e quindi pare assurdo concentrare i detenuti ad Imperia, portando quel carcere al collasso". "Il direttore della casa circondariale di Sanremo - conclude Piana - ha già contattato il Vicepresidente Viale per un incontro, poiché l’assessore sta dimostrando una grande sensibilità sul tema delle carceri, e ciò si è potuto constatare anche dal recente incontro organizzato nella casa circondariale di Marassi, incontro dal quale è emerso l’intento di lavorare per garantire il diritto alla salute ai detenuti, la sicurezza agli agenti di polizia anche attraverso un progetto di telemedicina, per evitare i disagi e le spese degli spostamenti dei detenuti verso gli ospedali cittadini". Campobasso: inchiesta sul detenuto morti in ospedale, fondamentale l’esito dell’autopsia termolionline.it, 25 settembre 2015 Occorrerà attendere l’esito dell’autopsia effettuata dal professionista incaricato dalla procura di Larino, la dottoressa Irene Riezzo dell’istituto di medicina legale dell’Ateneo di Foggia, per capire se l’inchiesta promossa dal pm Federico Carrai e coordinata dal procuratore capo Ludovico Vaccaro avrà sviluppi significativi. Parliamo dell’iscrizione nel registro delle notizie di reato dei cinque appartenenti alla Polizia penitenziaria frentana della casa circondariale di contrada Monte Arcano, indagati per omicidio preterintenzionale. Attività d’indagine che si è aperta dopo la morte del 56enne Carlo Sticca, l’uomo di Campomarino arrestato in un’operazione congiunta di Polizia e Carabinieri nella notte tra il 9 e il 10 agosto scorso, sulla statale 16, al culmine di un periodo iniziato il 24 luglio e che vide il 56enne, diabetico e cardiopatico, collezionare qualcosa come sette denunce. Il decesso di Sticca avvenne il 10 settembre scorso, dopo che dal 10 al 22 agosto fu ristretto in cella a Larino, ne cambiò alcune e da quella data fu trasferito a Campobasso, dove fece la spola, aggravandosi giorno dopo giorno, tra il penitenziario di via Cavour e l’ospedale Cardarelli. Sticca spirò nella prima mattinata al reparto di rianimazione del nosocomio di contrada Tappino e subito i familiari, nel caso di specie il figlio, presentarono una denuncia formale attraverso il legale di fiducia Giuseppe Di Carlo, che portò la magistratura larinese a disporre sia l’autopsia che ad aprire un fascicolo per le presunte responsabilità degli agenti di custodia. A difendere i 5 della Polizia penitenziaria è l’avvocato Nicola Bonaduce di Termoli, che raggiunto telefonicamente si è limitato a dire che considera la situazione relativamente sotto controllo e che non sia il caso di esprimersi prima di conoscere l’esito dell’autopsia, effettuata il 16 settembre scorso, alle ore 16, alla presenza anche del loro consulente di parte, il medico legale Paolo Scarano. Di atto dovuto si tratta, è vero, ma la notizia ha comunque fatto clamore in Molise. Anche perché ulteriori voci diffusesi sul territorio hanno evidenziato possibili lesioni riscontrate sul corpo dello Sticca, a cui andrebbe data una spiegazione. La dottoressa Riezzo si è riservata di consegnare il referto finale entro 60 giorni e quindi da qui a metà novembre saranno solo congetture. I cinque indagati sono stati sentiti a verbale da parte dei Carabinieri della compagnia di Larino, a cui Carrai ha delegato le indagini. Per il Procuratore capo Ludovico Vaccaro: "ci sono delle persone indagate ma è un atto dovuto in quanto bisognava mettere tali persone in condizioni di partecipare all’autopsia. Attendiamo gli esiti dell’esame autoptico. Attualmente non sappiamo ancora nulla". Ma per quanto riguarda la parte lesa, i familiari dello Sticca, come ci ha confermato l’avvocato Di Carlo, vennero a conoscenza dallo stesso 56enne di presunti maltrattamenti subiti in carcere. Per questo l’esito dell’esame autoptico è decisivo. Rovigo: il ministero sul nuovo carcere "struttura importante e strategica, aprirà presto" Rovigo Oggi, 25 settembre 2015 Diego Crivellari, parlamentare del Pd, ha avuto garanzie anche a Roma sul passaggio di competenze della struttura. Il Mitt aggiunge tempi certi al passaggio di consegne e garanzie per la futura apertura. Il deputato Diego Crivellari del Partito democratico, dopo aver presentato un’interrogazione al ministro Orlando sull’apertura del nuovo penitenziario di Rovigo, ha ricevuto rassicurazioni da via Arenula: la struttura è importante e strategica. Nei prossimi giorni ci sarà un incontro tra il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e il Provveditorato interregionale delle opere pubbliche per definire i dettagli del passaggio di consegne del carcere dal Ministero delle Infrastrutture a quello della Giustizia. L’avvocato del Pd Gianfranco Munari ricorda il problema del tribunale di Rovigo che dovrà trovare presto una nuova sistemazione "Entro fine anno il ministero delle Infrastrutture e Trasporti consegnerà il nuovo carcere di Rovigo al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria per il definitivo avvio. La garanzia ed i tempi arrivano direttamente dal ministero della Giustizia che assicura nuovamente l’importanza concreta e strategica della nuova casa circondariale di via Calatafimi". La rassicurazione ora arriva anche da Roma per voce del deputato del Pd Diego Crivellari, unico parlamentare polesano a fare parte del primo partito di governo. L’affermazione del deputato conferma quanto già riportato da RovigoOggi.it (leggi articolo) che interpellando Enrico Sbriglia, capo del Provveditorato regionale per il Triveneto, ossia l’ufficio periferico del ministero della Giustizia, dipendente dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, aveva scoperto che il nuovo carcere dovrebbe divenire funzionante entro l’estate 2016, non appena il ministero delle Infrastrutture lo consegnerà al guardasigilli Orlando e la struttura verrà completata con gli arredi necessari. Sbriglia aveva definito il nuovo penitenziario "strategico", mentre giorni prima il prefetto Francesco Provolo si era detto pessimista su un’imminente apertura del carcere. "A breve il ministro Orlando - ha continuato Crivellari - risponderà alla mia interrogazione confermando la ormai diffusa convinzione, dell’importanza dell’opera penitenziaria non solo per il territorio rodigino ma per un’area decisamente ben più ampia. Mi è stato garantito direttamente da via Arenula che nei prossimi giorni ci sarà un incontro tra il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e il Provveditorato interregionale delle opere pubbliche per definire i dettagli del passaggio di consegne. Infatti, il Provveditorato delle opere pubbliche, che è parte del ministero delle Infrastrutture e Trasporti, ad oggi "proprietario" dell’opera dovrà cedere entro l’anno, terminata la costruzione, l’intero complesso all’Amministrazione penitenziaria che successivamente lo renderà operativo. Sappiamo che il Dap ha già avviato le attività ricognitive ed amministrative - ha concluso Crivellari - per procedere alla messa in funzione del nuovo istituto penitenziario e l’incontro confermato oggi con il Mitt aggiunge tempi certi al passaggio di consegne e garanzie per la futura apertura". "Direi che la disponibilità del nuovo carcere - ha aggiunto congiuntamente l’avvocato Franco Munari, responsabile giustizia del Partito democratico provinciale di Rovigo - è strettamente correlata al problema del Tribunale di Rovigo che deve trovare una definitiva sistemazione anche in virtù della nuova struttura. L’ampliamento delle competenze territoriali del tribunale richiede che ci siano strutture adeguate, che permettano lo svolgimento della giurisdizione penale. Rovigo con queste nuove strutture, carcere e tribunale - ha concluso Munari - può in effetti diventare un importante polo giudiziario dato il notevole afflusso di competenze come avvocati, magistrati, personale amministrativo e consulenti, consegnando allo stesso tempo una nuova immagine alla città". Bologna: allarme dalla Garante regionale dei detenuti "alla Dozza carenza di personale" bolognatoday.it, 25 settembre 2015 "Previste 12 professionalità giuridico-pedagogiche, ma solo 5 sono operative": così Desi Bruno che avverte: "fra le competenze di queste professionalità rientra anche l’attività di osservazione dei detenuti, che rischia così un contraccolpo". Alla casa circondariale di Bologna, "la pianta organica prevede che siano assegnati all’area pedagogica dodici funzionari della professionalità giuridico-pedagogica, ma, ad oggi, su otto professionalità assegnate ne risultano pienamente operative cinque". Lo segnala la Garante regionale delle persone private della libertà personale, Desi Bruno, che ha denunciato il caso alla Direzione generale del personale e della formazione del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, dopo una lettera collettiva inviata al suo Ufficio dalla popolazione detenuta. Come ricorda la Garante, "fra le competenze di queste professionalità rientra anche l’attività di osservazione dei detenuti, con particolare riguardo alle persone che hanno una posizione giuridica definitiva", che a Bologna risulta essere ben oltre la metà dei presenti complessivi presso l’istituto penitenziario. E "proprio in ragione della presenza di un elevato numero di persone condannate in via definitiva, il rischio concreto è che, con l’attuale incongrua dotazione organica, l’attività di osservazione possa subire un inevitabile contraccolpo", avverte Bruno. Per questo motivo, "anche al fine di evitare che possano verificarsi ritardi nella formulazione dei programmi individualizzati di trattamento della popolazione detenuta, nonché l’attività orientata alla definizione dei programmi di trattamento penitenziario possa subire una contrazione e possa verificarsi una complessiva riduzione delle attività trattamentali", la Garante ha chiesto di "coprire la pianta organica delle professionalità giuridico-pedagogiche assegnate all’area trattamentale del carcere di Bologna o comunque di incrementare il numero delle assegnazioni". Roma: Osapp; detenuto in regime di Alta Sicurezza a Rebibbia si taglia un orecchio Ansa, 25 settembre 2015 Ieri pomeriggio verso le ore 15, un detenuto ad Alta Sicurezza allocato presso il reparto G 12 del carcere di Roma - Rebibbia dopo aver avuto un colloquio con il proprio avvocato nel rientrare in cella ha dapprima aggredito l’Agente di sezione e poi si è tagliato un orecchio che ha gettato in terra procurandosi poi ulteriori lesioni sulle braccia e sul corpo. Ne dà notizia Leo Beneduci, segretario generale dell’Osapp (Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria. "Il detenuto - spiega Beneduci - è stato successivamente immobilizzato e l’orecchio raccolto da terra da parte del personale di polizia Penitenziaria e i sanitari, ne hanno disposto l’immediato trasporto al Pronto Soccorso unitamente all’Agente ferito". "Il detenuto responsabile dell’evento, pluripregiudicato per numerosi reati, si era già reso responsabile di altre aggressioni anche nei confronti di appartenenti alla popolazione detenuta e solo per puro caso - conclude Beneduci - l’aggressione al poliziotto penitenziario non ha provocato ulteriori e più gravi conseguenze tenuto conto che il ristretto era in possesso di un oggetto idoneo ad arrecare profonde ferite da taglio e a riprova, se ancora servissero dimostrazioni agli attuali ed inerti Guardasigilli Andrea Orlando e Capo Dipartimento di polizia penitenziaria, Santi Consolo, della estrema pericolosità del servizio reso dai poliziotti penitenziari nelle attuali carceri italiane". Lecce: detenuto con problemi psichiatrici tenta il suicidio, lo ricoverano in… cardiologia Corriere Salentino, 25 settembre 2015 Tentato suicidio a Borgo San Nicola. Un detenuto 30 enne di origini marocchine con problemi psichiatrici, proveniente dal carcere di Taranto, ha cercato di impiccarsi con un lenzuolo. La polizia penitenziaria lo ha salvato in extremis, ma lui ha dato in escandescenze e si è scagliato contro gli agenti. Ci sono voluti otto poliziotti per portarlo al pronto soccorso. All’ospedale "Vito Fazzi" i medici non sapevano dove ricoverarlo e, dopo quattro ore, i responsabili hanno deciso di trovare una sistemazione provvisoria in cardiologia. Ora è piantonato in quel reparto, ma dovrebbe essere in psichiatria. La polizia penitenziaria ha insistito per il ricovero: l’uomo non poteva tornare in carcere in quelle condizioni. Ancora una volta, gli agenti si sono trasformati in infermieri. L’Osapp ringrazia i colleghi, che si sono spesi per non far succedere nulla di grave, "per professionalità e umanità dimostrata, ma resta in piedi il problema irrisolto dei detenuti con problemi psichiatrici abbandonati a se stessi", senza contare l’insufficienza di personale che affligge il carcere di Lecce. Santa Maria Capua Vetere (Ce): mancanza di acqua nel carcere, vertice in regione campanianotizie.com, 25 settembre 2015 "Il Comune chiederà ufficialmente all’Ato 2 il finanziamento urgente per il progetto esecutivo dei lavori. Poi, grazie ad una precisa e già individuata collaborazione inter-istituzionale, si reperiranno le risorse necessarie a tale finanziamento. Con l’assessora regionale Lucia Fortini si sta tracciando una soluzione, amministrativa e finanziaria, che porti finalmente l’acqua al carcere di Santa Maria Capua Vetere". Lo ha annunciato la deputata Camilla Sgambato a margine dell’incontro che si è volto presso l’assessorato alle Politiche sociali della Regione Campania. Al tavolo tecnico, convocato dall’assessora Fortini sul tema della condotta idrica dell’istituto penitenziario sammaritano, hanno preso parte anche la Garante per i detenuti, Adriana Tocco, il Provveditore campano del Dap Tommaso Contestabile, Cinzia Ostifrate per l’Ato 2 d la consigliera Regionale PD Vincenza Amato. Assenti per impegni istituzionali sopraggiunti il consigliere regionale Stefano Graziano ed il sindaco di Santa Maria Capua Vetere Biagio Di Muro. "Siamo da mesi ormai su questa vicenda", ricorda la deputata che aggiunge: "Ora, con l’assessora e con tutti gli enti che sono stati coinvolti al tavolo tecnico, abbiamo tracciato la strada giusta per risolvere una problematica che quest’estate è esplosa in tutta la sua drammaticità. Non si può lasciare ulteriormente il carcere sammaritano in una così grave condizione di precarietà. Ne va della dignità dei detenuti e di chi vi lavora. Un plauso al lavoro congiunto che stanno portando avanti la Regione Campania, l’Ato 2, il Dap ed il Comune di Santa Maria. La sinergia ed il senso di responsabilità di questi enti porterà velocemente alla soluzione della vicenda". Lecce: "Giardino Radicale", laboratorio di design con i detenuti del carcere di San Nicola notizie.tiscali.it, 25 settembre 2015 L’esposizione racconta dei lavori realizzati nel carcere di Borgo San Nicola di Lecce, e della rifioritura con arredi, ristrutturazioni e opere artistiche di alcuni spazi comuni della sezione maschile. Giardino Radicale è il progetto grazie al quale i detenuti del carcere Borgo San Nicola di Lecce sono stati i protagonisti di un laboratorio di design che ha portato alla rigenerazione di alcuni spazi comuni della sezione maschile, trasformandoli con ristrutturazioni, allestimenti e realizzazione di arredi e opere di design. Un lavoro durato due anni, seguito da artisti e designer che hanno guidato il lavoro dei detenuti, e che ora è in mostra dal 18 settembre presso la galleria delle Manifatture Knos in via Vecchia Frigole 36 a Lecce, fino al 9 ottobre: è possibile visitare "2 Anni in R2" di Giardino Radicale, dal lunedì al sabato, dalle ore 10 alle 13 e dalle 18 alle 21, con ingresso gratuito. Il progetto è stato curato dall’Associazione Culturale Sud Est nell’ambito del Progetto Gap - il territorio come galleria d’arte partecipata, sostenuto da Fondazione con il Sud, Progetti Speciali e Innovativi 2010 e con il contributo della Regione Puglia. Come detto, in due anni i detenuti, seguendo i consigli di artisti e designer hanno trasformato alcuni spazi della sezione scelti da loro stessi, impegnandosi in questo Giardino Radicale, un nome evocativo suggerito dagli stessi, dando vita ad una sala ricreativa, una barberia, una sala del telefono e una cucina collettiva. Alla direzione dei lavori Roberto Dell’Orco, Maurizio Buttazzo e Paola Leone. L’ultimo intervento, che ha portato alla costruzione della cucina comune, è stato corredato dal lavoro drammaturgico di Paola Leone che ha permesso di raccogliere storie legate al cibo e ai ricordi dei detenuti. Ne sono stati creati dei piccoli e poetici ritratti video, con la direzione della fotografia di Yacine Benseddik. Nel corso del laboratorio, Francesca Marconi, responsabile artistica del progetto Gap, ha infine intervistato i protagonisti di questa esperienza di progettazione e riqualificazione partecipata in carcere. Siena: Uisp; gli pneumatici giunti a fine vita diventano un campo sportivo per i detenuti ilcittadinoonline.it, 25 settembre 2015 Gli pneumatici giunti a fine vita diventano un campo sportivo per i detenuti del carcere di Siena, che questa mattina hanno giocato la loro prima partita. È una storia a lieto fine che unisce sport sociale e tutela ambientale, quella del campo da calcio realizzato con Pneumatici Fuori Uso nella Casa Circondariale Santo Spirito di Siena grazie a Uisp, Unione Italiana Sport Per tutti che ha l’obiettivo di estendere il diritto allo sport a tutti i cittadini e a Ecopneus - società senza scopo di lucro che si occupa della gestione del 70% dei Pneumatici Fuori Uso presenti in Italia. Realizzata all’interno dell’Istituto penitenziario di Siena che, attualmente, ospita circa 70 detenuti, l’area sportiva è stata costruita anche grazie agli pneumatici avviati a recupero da Ecopneus con l’intervento di Rapolano Terme, vicino Siena, lo scorso giugno. Qui, in tempi record, senza nessun costo per la pubblica amministrazione, sono state rimosse 2000 tonnellate di pneumatici fuori uso, ammassate abusivamente da oltre 20 anni, con un forte rischio per la salute dei cittadini. Una parte di quei Pfu prelevati nella collina di Rapolano, oggi, sono diventati granuli utilizzati per la pavimentazione del campo sportivo dell’Istituto Santo Spirito, uno spazio di 150 metri quadrati ricavato all’interno delle mura perimetrali del carcere in cui sono stati impiegati 2350 Kg di gomma riciclata. Il progetto è stato ideato dall’Uisp, che si occuperà di gestire le attività all’interno del carcere attraverso suoi educatori: "La capillare presenza dell’Uisp su tutto il territorio nazionale ci permette di dare valore sociale allo sport anche attraverso interventi di questo tipo - dice Simone Pacciani, vicepresidente nazionale Uisp - siamo vicini alle necessità delle comunità e dei cittadini, trasmettendo un’altra idea di sport, nella quale al primo posto ci sono il rispetto della dignità e dei diritti delle persone. Il carcere è parte integrante del territorio e lo sport rappresenta uno strumento di educazione alla socialità e alle relazioni, per tutti i cittadini". "La realizzazione del campo da calcio in gomma riciclata per i detenuti del Santo Spirito rappresenta un concreto esempio di economia circolare, capace di generare impatti positivi a livello economico, ambientale e sociale - ha dichiarato Giovanni Corbetta, direttore generale di Ecopneus. È questa la circular economy che Ecopneus vuole favorire, incentivando il recupero dei pneumatici arrivati a fine vita come materia destinata a nuovi usi. Ad oggi il 37,5% degli Pneumatici Fuori Uso raccolti da Ecopneus in tutta Italia, vengono riciclati in materiali come granuli, polverini di gomma e acciaio. Un settore, su cui Ecopneus sta puntando con grande convinzione con un investimento in ricerca e innovazione - che dal 2011 ad oggi - ha già raggiunto i 14 milioni di euro per promuovere gli sbocchi applicativi della gomma riciclata". Nel panorama del riciclo della gomma riciclata da Pfu le pavimentazioni sportive rappresentano il 40% del settore. Un trend in crescita anche grazie alle qualità specifiche del materiale: risposta elastica per l’atleta, elevata capacità di assorbimento degli urti, resistenza alle deformazioni e agli agenti atmosferici. Tra le applicazioni sportive più comuni i campi in erba artificiale, le piste da atletica, i campi polivalenti, le pavimentazioni anti-trauma e i campi da calcio in erba artificiale di ultima generazione. Quest’ultimo utilizzo è uno dei più diffusi, grazie alle particolari caratteristiche del materiale che donano al manto la massima giocabilità e una perfetta rispondenza con le richieste dei tecnici e dei giocatori anche più esigenti. Caltanissetta: da detenuti ad allenatori, per dare un calcio al passato di Annalisa Giunta Quotidiano di Sicilia, 25 settembre 2015 L’iniziativa è promossa dall’Aiac ed è al momento l’unica in Sicilia. Opportunità per 10 reclusi del Penitenziario di Caltanissetta. Trasmettere i valori dello sport e offrire un’opportunità ai detenuti della Casa Circondariale di Caltanissetta nell’ottica della funzione rieducativa della pena, con questo intento è stato presentato e inaugurato al "Malaspina" il corso per allenatori di calcio. Una scuola riservata a dieci detenuti comuni della casa circondariale nissena che ha aderito all’iniziativa promossa dall’Aiac (Associazione italiana allenatori calcio). Un corso unico in Sicilia e terzo sul territorio nazionale sinora sperimentato a Potenza e Bari che prenderà il via nei prossimi giorni. Un progetto pilota che sinora ha dato risultati positivi come evidenziato da Renzo Ulivieri presidente nazionale dell’Aiac, presente all’inaugurazione del corso assieme al delegato nazionale Roberto Bellomo. "Come si sbaglia un rigore, una punizione - ha dichiarato Renzo Ulivieri - si può anche sbagliare nella vita. Chi sta pagando il suo conto alla società ha il diritto al reinserimento nella vita sociale, interessarsi di calcio può essere un passaggio importante". "Grazie all’intervento dell’area trattamentale di questo istituto, con in testa Stefano Graffagnino e la sua passione per il calcio- ha sottolineato Angelo Belfiore, direttore della casa circondariale di Caltanissetta - siamo riusciti a far sì che oggi questo corso diventasse realtà. è un’opportunità per i detenuti comuni, sognare è lecito poiché una volta usciti dal carcere possono utilizzare quanto appreso nella realtà esterna". Presenti in sala anche Maurizio Veneziano provveditore regionale degli Istituti penitenziari e Luca Rossomandi magistrato di sorveglianza che hanno dato il benestare al corso, oltre a Totò Bruccoleri ex giocatore del Gela e Giovanbattista Raffa centrocampista della Nissa nella stagione 85-86. "Rieducare alla legalità, rieducare la persona - ha dichiarato Maurizio Veneziano - a mutare i propri comportamenti e a riconoscersi nei valori fondanti della democrazia e della nostra società è l’aspetto dell’ordinamento penitenziario all’avanguardia". Parma: Pianeta Carceri, incontro dedicato all’analisi della realtà degli istituti penitenziari di Gabriele Balestrazzi Gazzetta di Parma, 25 settembre 2015 Lunedì 28 settembre alla Sala Borri di Palazzo Giordani, Sede della Provincia di Parma in viale Martiri della Libertà 15. Il secondo incontro è dedicato all’analisi della realtà degli istituti penitenziari di Parma. Sono relatori i protagonisti del confronto quotidiano tra assistenza sanitaria e le regole vincolanti della sicurezza, quasi un confronto tra istituzioni delegate alla giustizia e alla sanità che pur perseguendo lo stesso obbiettivo di tutelare la salute dei detenuti, spesso confliggono a causa di mezzi e metodi differenti. È auspicabile una collaborazione sempre più impegnata nella ricerca comune di forme possibili per determinare un buon esito degli interventi con la finalità di conciliare l’obbligo di custodia e di sicurezza con l’obbligo di tutelare la salute fisica psichica e sociale in carcere. L’Associazione Marino Savini organizza tre incontri su temi importanti in ambito carcerario, per riflettere condividere ed elaborare l’esigenza di garantire la promozione del benessere negli istituti penitenziari a 7 anni dal trasferimento delle competenze sanitarie dal Ministero della Giustizia al Servizio Sanitario Nazionale e ai Servizi Sanitari Regionali. L’intento è quello di affrontare il tema attraverso alcune delle sue dimensioni più significative (il sostegno psicologico individuale, Educazione sanitaria e intercultura, Sostegno del ruolo genitoriale, Formazione professionale, attività motorie quale strumento di cura del corpo). Le dimensioni esplorate intendono mettere in evidenza come sia possibile, anche in un ambito particolare e complesso quale quello penitenziario, mettere in campo delle azioni che hanno l’obiettivo di incrementare la consapevolezza e la responsabilità dei cittadini, in questo caso detenuti, rispetto alla tutela della propria salute, intesa nella accezione ampia definita dall’OMS. L’obbiettivo è quello di ottenere una erogazione più appropriata delle prestazioni sanitarie, dei processi di riabilitazione e del determinante inserimento sociale. Il secondo incontro è dedicato all’analisi della realtà degli istituti penitenziari di Parma. Sono relatori i protagonisti del confronto quotidiano tra assistenza sanitaria e le regole vincolanti della sicurezza, quasi un confronto tra istituzioni delegate alla giustizia e alla sanità che pur perseguendo lo stesso obbiettivo di tutelare la salute dei detenuti, spesso confliggono a causa di mezzi e metodi differenti. È auspicabile una collaborazione sempre più impegnata nella ricerca comune di forme possibili per determinare un buon esito degli interventi con la finalità di conciliare l’obbligo di custodia e di sicurezza con l’obbligo di tutelare la salute fisica psichica e sociale in carcere. Rocco Caccavari, Presidente Associazione Marino Savini presenta: Carlo Berdini - Direttore degli Istituti Penitenziari di Parma. "La medicina penitenziaria tra presente e futuro: attualità e prospettive." Francesco Ciusa - Medico dirigente, Direttore U.O. Salute negli Istituti Penitenziari. "Analisi e considerazioni su un impegno complesso a favore della salute in carcere." Carmen Cimmino - Medico Dirigente, psichiatra AUSL di Parma "Le crisi e cronicità psichiatriche in ambito carcerario: strategie di intervento." Maria Cristina Soffritti - Psicologa, criminologa e psicoterapeuta. "Psicologia penitenziaria: una sfida comune per una assistenza possibile." Piacenza: "Sosta Forzata" in stampa per il Festival del Diritto di Carla Chiappini Ristretti Orizzonti, 25 settembre 2015 Esce "Sosta Forzata" per il Festival del Diritto, per non mancare un appuntamento ormai tradizionale, per abbracciare i suoi lettori. Pochi o tanti non ha importanza. Tutti cari e preziosi. Perché, non è superfluo ricordarlo, per noi giornalisti i lettori sono specchio e senso. Coscienza critica e amici, i destinatari ultimi di un impegno. Certo che in questi quattordici anni di redazione in carcere e in undici anni di vita della nostra testata, l’attenzione e il lavoro si sono sviluppati su due fronti: le persone dentro, chiuse e isolate e il mondo fuori impossibilitato a capire. Forse anche indifferente, non so. Questo doppio sguardo è stato la nostra bussola, la chiave di lettura più corretta e veritiera. Credo di non aver mai dimenticato, da dentro, le persone fuori, le loro paure e sensibilità. E se qualche volta ho sbagliato, non è stato per trascuratezza o sciatteria ne sono certa. Magari piuttosto per un’errata valutazione. Esce "Sosta Forzata" dopo tanti mesi di silenzio e di sospensione dolorosi e inattesi ma, credo, utili per ripulire lo sguardo, per riflettere, forse anche per riposare. Esce con un nuovo editore: l’associazione "Verso Itaca Onlus" che raccoglie il testimone e riparte con un tema, il Futuro, che non poteva non interrogarci per svariati motivi. Innanzitutto il futuro dell’esecuzione penale nel nostro Paese che sta cambiando, che propone nuovi strumenti come la "messa alla prova", l’idea di una giustizia "riparativa" che non vuole separare ma piuttosto ricucire i legami spezzati dal reato, una rivoluzione culturale che non può essere lontana dalla gente e dai cittadini. Ha piuttosto bisogno di essere conosciuta e discussa: la inseguiamo da tanti anni, ora abbiamo voglia di conoscerla da vicino, nelle sue implicazioni pratiche. E poi il futuro delle persone recluse, delle loro famiglie, un futuro così complesso da ricostruire dopo la separazione traumatica del carcere. Proprio l’altro giorno, ricevo un sms dalla moglie di un uomo che è stato per diverso tempo detenuto nel carcere di Piacenza. Ora è tornato a casa e la sua compagna mi scrive: - … È stato un rientro un po’ burrascoso. Ora ci stiamo riassestando. Un abbraccio forte. - Il futuro dopo il carcere non assomiglia ai sogni e alle speranze dei detenuti. Quasi mai, direi per conservarmi un piccolo margine di possibilità. Quello che ho potuto vedere in questi lunghi anni che hanno segnato la mia esperienza umana e professionale, è stato un contraccolpo, un risveglio, una fatica. I più fortunati, quelli che hanno il lavoro e la casa, quelli che hanno radici da qualche parte e non rischiano di essere espulsi - magari dopo cinque, sei anni di reclusione - molto spesso si trovano a dover ricostruire non solo le relazioni tenute in piede dall’emergenza del carcere ma anche un’idea di sé molto vacillante e problematica. Mi sono sempre chiesta - e sinceramente non ho ancora trovato risposta - se sia più sano da un punto di vista proprio pedagogico dimenticare il tempo e i giorni della prigione o guardarli in faccia, farne tesoro. Ricordare o rimuovere? Non è facile sapere. Dentro di me trovo infinite contraddizioni; mi capita spesso di desiderare di sparire dalla vita di queste persone, di essere messa in un angolo insieme alla sofferenza, alle umiliazioni, alla rabbia e tuttavia spero anche che qualcosa di buono rimanga del lavoro fatto insieme. Magari le parole che hanno scritto, i pensieri più intimi e profondi, i buoni propositi. Ecco vorrei collegare il futuro con i buoni propositi, agganciarli, tenerli insieme. Ma non è cosa facile. Quante cadute e ricadute abbiamo conosciuto. Alcune del tutto inattese. A tratti mi rivedo con Brunello Buonocore, nella nostra solita aula 13 - mi pare di ricordare. Ci siamo noi che cerchiamo di spiegare, di mettere in guardia, di rendere più problematica la libertà: - Guardate che fuori è difficile, i figli sono cresciuti, le compagne sono stanche, sfibrate dalla solitudine, dalle corse per non mancare ai colloqui … E il lavoro, ce n’è poco per tutti. Non fatevi eccessive illusioni, armatevi di pazienza! - Poi ci dispiaceva. In carcere non c’è niente di niente; ha senso far cadere a terra anche i sogni? E così non sappiamo ancora se il nostro giornale tornerà dentro ma noi non ce l’abbiamo fatta a rimuovere le storie e le persone. I nomi sì, non li ricordiamo certamente tutti ma i visi, le parole, come dimenticare? Il turco, per esempio, intelligente, acuto che faceva finta di essere semplice, un po’ tonto perché: - Carla qui dentro è meglio fare così, far finta di non capire! - Oppure Lebbi colto e ironico; vive in Francia, si è sposato e ha pure una figlia; conservava una copia del giornale, ha scritto una mail in un italiano un po’ scombinato ma pieno di affetto. Mi raccomanda di salutare un’ispettrice; se riuscirò a vederla, non mancherò. E poi i più giovani come Jamal e Kosti e i più anziani come Enrico e Gianfranco. Tutto questo è un giornale in carcere; un lavoro di relazione ancor più che di redazione, difficile ma ricco e appassionante. Guerre, muri, quote, i tre veleni dell’Europa di Guido Viale Il Manifesto, 25 settembre 2015 Unione. L’alternativa alla dissoluzione dell’Ue è l’abbandono dell’austerità e il varo di un piano per l’inserimento sociale e lavorativo di profughi, migranti e cittadini. I governi dell’Unione europea non avevano previsto le conseguenze del caos e delle guerre che hanno generato l’attuale flusso di profughi. Hanno prevalso, ieri e oggi, cinismo e irresponsabilità. E gli ultimi vertici dell’Unione hanno preso o stanno per prendere tre decisioni miserabili: fare la guerra agli scafisti, preludio all’estensione del fronte di guerra a tutta la Libia e oltre; rendere le frontiere esterne dell’Unione impermeabili ai profughi (lo esige il premier ungherese Orban); imporre quote obbligatorie di profughi a tutti gli Stati membri, come se ci fosse da spartirsi un carico di emissioni o di materiali inquinanti, e non persone al culmine delle loro sofferenze. Ma l’accoglienza è un’altra cosa, richiede rispetto, dignità, diritti, e poi anche casa, lavoro, istruzione e tutele, cose per cui la Commissione non prevede né standard comuni né stanziamenti. La guerra agli scafisti libici è un alibi, un’infamia e un crimine. È un alibi: si vuol far credere che le maniere forti possano sostituire l’accoglienza che non c’è. E per ridimensionare i flussi - e risolvere la questione - si conta di accogliere i rifugiati (quelli che provengono da paesi "insicuri", in guerra) e di respingere i migranti (quelli che provengono da paesi definiti "sicuri"). Anche Prodi ha ricordato che nessuno Stato dell’Africa - e meno che mai Iraq, Afghanistan o Kurdistan - è sicuro; e anche il ministero degli esteri avverte i turisti che tutti i paesi da cui provengono i migranti non sono sicuri. Se in tanti rischiano morte e violenza per fuggire dal loro paese è perché là non possono più vivere. È un’infamia, perché nasconde il fatto che se venissero approntati corridoi umanitari per permettere a chi fugge di raggiungere in sicurezza l’Europa, gli scafisti di mare e di terra non esisterebbero e si sarebbero evitate decine di migliaia di morti. È un crimine, perché fermare gli scafisti in Libia (nessuno, però, ha proposto di bombardare quelli della Turchia, altrettanto spietati), posto che sia fattibile, significa ricacciare i profughi nel deserto, condannandoli ai tanti modi di morire a cui si erano appena sottratti. D’altronde gli hotspot pretesi da Junker e Angela Merkel in cambio delle quote di rifugiati da smistare in Europa sono la menzogna con cui si intende dimezzare il numero da accogliere, sbarazzandosi di coloro a cui non verrà riconosciuto lo status di rifugiati. Ma come si fa a rimpatriarne così tanti? E in paesi con cui non esistono accordi di rimpatrio e dove spesso non ci sono nemmeno autorità a cui riconsegnarli? Appena sbarcati, se non saranno imprigionati o soppressi, riprenderanno la strada per l’Europa a costo della vita: non hanno altra scelta. Evidente è la gara tra gli Stati dell’Unione per scaricarsi a vicenda l’onere di un’accoglienza che nessuno vuole accollarsi. Ma la vera contropartita delle quote è che chi non rientra in esse dovrà restare dov’è: se non potrà, e non potrà, essere rimpatriato, dovrà farsene carico il paese di arrivo: Italia o Grecia; paesi che, anche se volessero, non potrebbero circondare di filo spinato le proprie coste come l’Ungheria fa con i suoi confini. La Spagna l’ha già fatto a Ceuta e Melilla; la Grecia dell’ex ministro Avramopoulos, ai confini con la Turchia; Francia e Regno Unito a Calais; la Bulgaria ha schierato l’esercito; Germania, Austria, Slovenia, Croazia, Repubblica Ceca e Francia cercano di chiudere le frontiere… Così, anche se Angela Merkel lascia credere di avere forze e mezzi per affrontare la situazione, la soluzione con cui ripropone la sua leadership sull’Unione ne assegna i vantaggi alla Germania e ne scarica i costi sui paesi più deboli ed esposti. Proprio come con l’euro. Sanzioni incisive, fino all’espulsione, contro gli Stati che rifiutano le quote - peraltro già ora insufficienti - sarebbero altrettanto rischiose per la coesione che accettare che ciascuno vada per conto suo. Così, se il feroce braccio di ferro con la Grecia ha inferto un duro colpo all’immagine di un’Unione portatrice di vantaggi e benessere per tutti i suoi membri, la vicenda dei profughi sta dando il colpo di grazia all’unità di una aggregazione di Stati tenuti insieme solo dai debiti e dal potere della finanza. Trasformare l’Europa in fortezza significa avallare e promuovere lo sterminio per mare e soprattutto per terra di chi cercherà ancora di fuggire dal suo paese; moltiplicare ai confini del continente caos e guerre che tracimeranno in Europa: con altri profughi, ma anche con terrorismo e aspri conflitti sociali; e consegnare al razzismo il governo degli Stati dell’Unione sempre più divisi. Chiunque sia a gestirli: destre, centri o "sinistre". Ma si può accogliere centinaia di migliaia, e domani milioni di profughi senza un programma di inserimento sociale: casa, lavoro, reddito, istruzione e diritti per tutti? Si può "tenerli lì" per anni a far niente, in sistemazioni di fortuna (che in Italia stanno arricchendo migliaia di profittatori) o in carceri come i Cie? Ne va innanzitutto della loro dignità di esseri umani. Ma è anche intollerabile per tanti cittadini europei che abitano e lavorano accanto a loro, o che sono già ora senza lavoro, o senza casa, o senza reddito, abbandonati dallo Stato. È il modo migliore per alimentare tra loro rancore, rigetto e razzismo. Il modo in cui l’Unione tratta i popoli dei suoi Stati più deboli, come quello greco, ma non solo, e sfrutta i paesi africani e mediorientali e i loro abitanti, e soprattutto cerca di sbarazzarsi di quelli di loro che vogliono diventare, e già si sentono, cittadini europei, è la negazione di tutto ciò che la Comunità, e poi l’Unione europea, sembravano promettere con il richiamo ideale allo spirito di Ventotene. L’alternativa a questo processo di dissoluzione non può essere che l’abbandono delle politiche di austerità e il varo di un grande piano europeo per l’inserimento sociale e lavorativo sia di profughi e migranti che dei milioni di cittadini europei oggi senza lavoro, senza casa, senza reddito, senza futuro; affidandone la gestione a quelle strutture dell’economia sociale e solidale che hanno dimostrato di saperlo fare. Ma è anche la condizione irrinunciabile per aiutare i profughi a costituirsi in base sociale e punto di riferimento politico per la riconquista alla pace e alla democrazia dei loro paesi di origine; per l’allargamento all’area mediterranea e nordafricana di un’Unione europea da rifondare dalle radici. I contenuti di quel piano non possono che essere le misure e gli investimenti necessari per far fronte agli impegni sul clima da assumere alla prossima "Cop-21? di Parigi, se si vuole che l’Europa faccia la sua parte per arginare una catastrofe imminente. Sono misure in grado di dare lavoro, reddito e sistemazione a tutti: profughi, migranti e cittadini europei. Un piano del genere, che ha una dimensione economica, ma deve avere soprattutto un risvolto sociale e una articolazione fondata sull’attenzione alle persone e alle vicende individuali di ciascuno, non può essere delegato né agli Stati, né agli organi dell’Unione, né alle logiche del mercato. Deve nascere, rapidamente, da un confronto tra tutte le forze sociali impegnate sul fronte del cambiamento e trovare in un soggetto attuatore adeguato. Che non può essere che la rete europea dell’economia sociale e solidale. Per tradursi al più presto in una piattaforma politica da proporre e sostenere in alternativa alle scelte spietate e paralizzanti di questa Europa. Nei Balcani i muri dell’insicurezza e la responsabilità occidentale di Francesco Martino (Osservatorio Balcani e Caucaso) Il Manifesto, 25 settembre 2015 A Ungheria, Bulgaria e Romania il ruolo di "confine esterno" dell’Ue. Insicurezza. Questo il sentimento profondo - fomentato da mancanza di solidarietà e visione globale a livello europeo - che spinge molti paesi balcanici a rispondere alla crisi dei rifugiati innalzando barriere e srotolando filo spinato. Un commento Bulgaria sud-orientale, confine con la Turchia. Due lunghe linee di filo spinato si dipanano lungo le alture boscose, correndo parallele verso l’orizzonte. Una è arrugginita e dismessa: eco lontana della cortina di ferro, il suo scopo era impedire anche a costo della vita la fuga dal blocco o sovietico. L’altra, appena innalzata e scintillante sotto il sole, blocca il passaggio in direzione opposta: è la "barriera anti-migranti", inaugurata dal governo di Sofia per impedire l’arrivo di rifugiati e richiedenti asilo, soprattutto siriani, afgani e iracheni, arrivati a migliaia a partire dal 2013. Se c’è un’immagine, una metafora paradossale dei nuovi muri che crescono nei Balcani, è proprio qui che bisogna cercarla, in questo angolo periferico e silenzioso di Unione europea. Venticinque anni fa cadeva il muro di Berlino. Lo slogan che attraversava - travolgente - il Vecchio continente era: "mai più barriere". Oggi però, anche quel sogno sembra malinconicamente arrugginito. Si moltiplicano i nuovi muri lungo la cosiddetta "rotta balcanica", che partendo dalla Turchia porta all’Europa centrale attraverso la penisola. E non solo in Bulgaria: la Grecia aveva aperto le danze alcuni anni prima, issando una rete di dodici chilometri, sempre al confine con la Turchia. Nel pieno dell’emergenza rifugiati, che ha toccato il suo picco nel 2015, l’esempio è stato seguito dall’Ungheria, che in tempi record ha srotolato 175 chilometri di filo spinato al suo confine meridionale con la Serbia. A settembre di quest’anno anche il governo macedone, travolto dall’incremento esponenziale del numero di rifugiati in transito verso i paesi dell’Europa ricca - Germania in testa - ha preso in considerazione l’idea di sigillare il confine con la Grecia, teatro durante l’estate 2015 di drammatici scontri tra migranti e forze di polizia locali. Per i paesi dell’Europa sud-orientale ricorrere a reti e filo spinato è una scelta al tempo stesso razionale e al limite del paradosso, che mescola timori per la propria sicurezza nazionale, scarsa o nessuna esperienza recente nella gestione di flussi migratori - soprattutto nel ruolo scomodo di paesi di transito -, paure diffuse sull’impatto del fenomeno su economie fragili, reazione a un atteggiamento strumentale e poco solidale da parte dei paesi ricchi dell’Europa occidentale, meta ed obiettivo finale per la stragrande maggioranza dei rifugiati. Insicurezza, quindi. Questo il sentimento alla base del sorgere di nuovi muri nei Balcani. Un’insicurezza che ha dimensione nazionale, coltivata dalle élite locali in cerca di consensi facili, ma è anche un riflesso di quella - più ampia e profonda - che sembra stringere tutta l’Unione europea, incapace di pensare ed agire in modo collettivo, e tentata da un distruttivo gioco allo scaricabarile sulle politiche di accoglienza e integrazione. Sulla questione dei rifugiati e richiedenti asilo, almeno fino ad oggi, l’Unione europea semplicemente non c’è. Per i governi di molti paesi balcanici, innalzare muri è la risposta più istintiva ed immediata per tranquillizzare le proprie opinioni pubbliche, allarmate proprio dallo schema di lettura delle autorità, poi rimbalzato dai media, che legge negli uomini, donne e bambini in fuga una minaccia per la sicurezza nazionale, molto prima che una crisi umanitaria. Una minaccia in termini di costi economici, con l’obiettivo di raggiungere gli standard dell’Europa ricca che si fa sempre più lontano ma anche di stabilità interna, visto che l’appartenenza religiosa della maggior parte dei rifugiati (Islam) viene vissuta come problematica, e in grado di risvegliare gli antichi timori verso un mondo rappresentato storicamente dall’impero ottomano ancora vissuto come ostile e aggressivo. Anche la recente trasformazione di paesi come Ungheria, Bulgaria e Romania in "confine esterno" dell’Ue, sembra aver contribuito alla creazione di una mentalità da "guardiani di frontiera", spesso incoraggiata attivamente dai paesi più ricchi dell’Unione. Non a caso, paesi ancora lontani dalla prospettiva dell’ingresso nell’Ue come Serbia e Macedonia, sembrano meno solerti ed entusiasti nell’innalzare barriere. In un contesto di mancata solidarietà, issare muri è la strategia più economica per tirarsi fuori dall’occhio del ciclone. Reti e filo spinato non possono fermare le centinaia di migliaia di persone in marcia: di questo tutti sembrano essere consapevoli e l’esperienza sul campo degli scorsi anni ha confermato tutti i limiti, di efficacia oltre che morali, di questa strategia. Sono strumenti a basso costo in grado spostare la rotta di transito, e scaricare così il peso dell’emergenza sui propri vicini, in attesa di tempi migliori. Da questo punto di vista, la costruzione della barriera al confine bulgaro-turco, cominciata due anni fa e oggi in fase di completamento, sembra essere stato un "buon investimento" per il governo di Sofia. Messa in profonda crisi dall’arrivo di poco più di diecimila profughi nel 2013, oggi la Bulgaria vede un flusso enormemente più numeroso e drammatico scegliere la vicina Macedonia come porta d’ingresso al "sogno chiamato Europa". Il problema, naturalmente non è stato risolto: ora, però, interessa soprattutto i paesi vicini. "Asilo in quarantotto ore", ecco perché l’Ue guarda all’esempio svizzero di Anja Burri La Repubblica, 25 settembre 2015 Ma Amnesty e Unhcr denunciano: troppo restrittive le politiche nei confronti degli esuli siriani. Nella Confederazione centri di registrazione situati sulle frontiere esterne e i controversi criteri di ripartizione sono attivi da tempo Per questo la cancelliera tedesca si è detta "ispirata" dall’esempio elvetico Accade raramente che l’Europa prenda come esempio la piccola Svizzera. Ma la crisi dei profughi sconvolge anche certi copioni. All’inizio del mese la cancelliera tedesca Angela Merkel dopo la sua visita in Svizzera si è mostrata "ispirata" dal sistema di asilo elvetico. L’Europa - ha detto - può imparare da esso. Merkel ha studiato le statistiche sui richiedenti asilo: accanto ai rifugiati di guerra dalla Siria e dall’Afghanistan, la maggior parte delle richieste di asilo in Europa proviene dai kosovari. In Svizzera le cose stanno in modo diverso. Qui i kosovari sono solo una piccola percentuale di tutti i richiedenti asilo per i quali è stata avviata la procedura - nonostante la grande diaspora kosovara in Svizzera. È il risultato di un’impostazione nuova. Per i richiedenti asilo provenienti dai Balcani occidentali che danno garanzie contro le persecuzioni, la Svizzera ha introdotto una procedura di 48 ore. Da allora le richieste sono nettamente diminuite. I richiedenti asilo vengono radunati nei centri della Confederazione, per essere interrogati nel giro di due giorni da personale specializzato, dopodiché nella maggioranza dei casi vengono respinti. La Svizzera ha stipulato appositi accordi con il Kosovo, la Bosnia-Erzegovina e la Serbia. In cambio aiuta quegli Stati con progetti, ad esempio nell’edilizia o nel sistema scolastico. Nel frattempo, le autorità svizzere adottano una strategia di accelerazione anche con i richiedenti asilo provenienti da Paesi africani considerati sicuri. Chi viene da Marocco, Tunisia, Gambia, Nigeria o Senegal viene preso in esame più rapidamente di chi arriva da Siria, Eri- trea o Afghanistan. Quando la cancelliera tedesca vuole farsi ispirare dalla Svizzera, pensa anche ai centri di registrazione situati sulle frontiere esterne e i controversi criteri di ripartizione. La Svizzera ha messo in atto entrambe le cose da tempo e sta per varare una riforma. Il principio è: procedure d’asilo più rapide, ma eque. Il sistema di asilo su base federale viene centralizzato. Solo i profughi con buone prospettive di ottenere il diritto alla permanenza sono assegnati ai cantoni, in ragione di quote di ripartizione fisse. Le procedure di asilo nei centri confederali devono durare al massimo 140 giorni; quelle per i profughi nei cantoni al massimo un anno. I termini di presentazione dei ricorsi da parte dei richiedenti asilo vengono abbreviati e viene messo a disposizione gratis un legale. La Svizzera è diventata la prima della classe in Europa per quanto riguarda l’asilo? Solo fino a un certo punto, almeno a giudizio delle organizzazioni internazionali. Amnesty International e l’Unhcr la criticano perché gli esuli di guerra siriani che non possono dimostrare di essere perseguitati individualmente non vengono riconosciuti come profughi. La maggioranza dei siriani è perciò "accolta in via provvisoria" e ha meno diritti. Lo status di queste persone è meno attraente di quello garantito da altre protezioni in Europa. Questa prassi è uno dei motivi per i quali la Svizzera non è tra le mete prioritarie dei profughi da Siria, Afghanistan o Iraq. E contribuisce anche a far sì che la quota svizzera di richieste di asilo in Europa sia in calo. Nel 1998 l’11% di tutte le richieste in Europa erano presentate in Svizzera. Nel 2014 erano il 3,8%; nel 2015 la quota "svizzera" ammonterà, secondo le previsioni, al 3,1%. Stati Uniti: il Papa ammonisce il Congresso "no a pena di morte e al commercio di armi" di Federico Rampini La Repubblica, 25 settembre 2015 Il pontefice ha invocato politiche di accoglienza, un impegno contro le disuguaglianze, la lotta al cambiamento climatico. "Standing ovation" all’ingresso, poi applausi più selettivi dai parlamentari in maggioranza repubblicani. "La maggior parte di noi sono stati stranieri. Ricordiamo la regola d’oro: fai agli altri ciò che vorresti sia fatto a te. L’America è stata grande quando ha difeso la libertà e i diritti per tutti, con Lincoln e Martin Luther King". Papa Francesco è il primo pontefice nella storia a parlare al Congresso americano a Camere riunite. Conquista Washington con un discorso appassionato e anche duro: chiede l’abolizione della pena di morte e della vendita di armi, invoca politiche di accoglienza per immigrati e profughi, un impegno contro le diseguaglianze, la lotta al cambiamento climatico. Sono i grandi temi del suo pontificato ma dentro l’aula del Congresso, di fronte ai legislatori della superpotenza mondiale, assumono un peso politico enorme. " Standing ovation ", è unanime l’applauso in piedi al suo arrivo, ma via via che il Papa pronuncia il suo discorso gli applausi diventano più schierati e selettivi. "Un discorso nettamente progressista", lo giudicano a caldo tutti i media americani dal New York Times al Washington Post, da Huffington Post a Politico.com. L’entusiasmo invece è travolgente e incondizionato nella folla che assiste fuori: in 50.000 lo seguono sui maxischermi montati appositamente nel West Lawn, vasto prato sulla collina del Campidoglio nella capitale federale. Papa Bergoglio ha misurato il giorno prima le affinità elettive con Barack Obama. Ma è un’America diversa quella che lo aspetta al Congresso. Questa è la tana dei leoni, una maggioranza di repubblicani, in piena campagna per la nomination presidenziale: a destra è in voga la xenofobia di Donald Trump, il negazionismo climatico dei Fratelli Koch, il sostegno alla lobby delle armi e alla pena di morte, il rifiuto di politiche fiscali redistributive. Su ciascuno di questi temi il Papa non fa concessioni, non smussa le asperità. Parla davanti a un Congresso dove oltre a senatori e deputati ci sono governatori degli Stati, candidati presidenziali, e tanti Vip loro ospiti. Con una sovra-rappresentazione del mondo cattolico: sono cattolici il vicepresidente Joe Biden e il segretario di Stato John Kerry, il presidente della Camera (repubblicano John Boehner) e la capogruppo democratica Nancy Pelosi. 31% di cattolici al Congresso, mentre nella popolazione americana sono il 22%. American Dream e accoglienza degli stranieri, è il primo tema forte del discorso, Bergoglio lo affronta partendo dalla sua biografia e lo declina parlando di Americhe al plurale. "Milioni di persone sono venute qui inseguendo il sogno di costruirsi un futuro nella libertà. Noi, i popoli di questo continente, non abbiamo paura degli stranieri perché molti di noi lo erano. Ve lo dico da figlio di immigrati, sapendo che molti di voi discendono da immigrati. Migliaia di persone continuano a viaggiare verso Nord in cerca di una vita migliore, opportunità per sé e per i figli. Non è quello che vogliamo noi stessi?". Prende di mira i quattro mali più gravi del nostro tempo: odio, avidità di denaro, povertà, inquinamento. Salta però un passaggio sul ruolo del denaro nella politica, e c’è un riconoscimento verso l’economia di mercato che viene notato dagli americani: "L’impresa ha una vocazione nobile, per sconfiggere la miseria bisogna creare ricchezza, ma le aziende devono essere al servizio del bene comune". Sulla tutela dell’ambiente il Papa chiama in causa direttamente il Congresso, dove tante riforme dell’Amministrazione Obama si sono arenate: "Non ho dubbio che gli Stati Uniti e questo Congresso hanno un ruolo importante da giocare, questo è il momento di azioni coraggiose per contrastare i più gravi effetti del degrado ambientale causati dall’attività umana". È il passaggio sugli immigrati quello che rende più vistosa la differenza di reazioni. "Non devono spaventarci i loro numeri, dobbiamo guardarli come persone, osservare i loro volti, ascoltare le loro storie, reagire nel modo migliore alla loro situazione". Dentro l’aula del Congresso solo i democratici applaudono. Fuori, sul grande prato, è un boato di consensi: molti ispanici sono venuti ad ascoltarlo da tutta l’America. Gelo a destra anche quando il pontefice invoca l’abolizione della condanna capitale: "Chiedo che cessi ovunque nel mondo la condanna a morte, ogni essere umano ha una dignità inalienabile, la società può solo beneficiare dalla riabilitazione dei condannati per crimini". Scottante l’intervento sulle armi: il Papa non condanna solo il grande traffico internazionale di armamenti ma anche le vendite individuali, un tema tabù per la destra americana allineata con la lobby della National Rifle Association. La destra applaude rinfrancata quando il Papa difende il valore tradizionale della famiglia. E tuttavia anche qui Bergoglio inserisce un riferimento alla crisi economica, alla disoccupazione, alle diseguaglianze: "I giovani sono sotto pressione, non formano famiglie perché non vedono un futuro di possibilità". Denuncia la "spirale della povertà che intrappola tante persone": tema centrale dell’Assemblea Onu a cui parlerà oggi. Le Nazioni Unite devono fare un bilancio del Millennium Goal. La Banca mondiale rileva che ci sono 148 milioni di poveri in più, se la soglia della povertà assoluta viene aggiornata. Un discorso poco "religioso": l’unico riferimento esplicito alle Scritture è una citazione di Mosé, cioè la figura biblica riconosciuta dalle tre religioni monoteiste ebrei cristiani e musulmani. Il discorso al Congresso si chiude con l’augurio che il Sogno Americano resti fedele alla sua ispirazione originaria: pace, libertà, difesa degli oppressi. Prima di volare a New York il papa celebra messa in spagnolo alla chiesa di San Patrizio dove sono radunate famiglie povere. Lì torna sul tema che gli è più caro: "Il figlio di Dio venne al mondo come un homeless. Seppe cosa voleva dire cominciare la vita senza un tetto". Poche ore prima Los Angeles, metropoli glamour della ricchissima California, aveva dovuto prendere una misura senza precedenti: la proclamazione di uno stato d’emergenza per l’aumento degli homeless. Stati Uniti: pena di morte; cresce opinione pubblica contro, ma l’abolizione resta un tabù Ansa, 25 settembre 2015 L’appello del Papa per l’abolizione della pena capitale scuote il Congresso americano, e un Paese dove ad oggi sono oltre 3mila i detenuti nel braccio della morte. E dove la questione resta uno dei tabù più difficili da abbattere, nonostante negli ultimi anni si registri una certa inversione di tendenza nell’opinione pubblica. Ma persino il presidente Barack Obama, le cui parole sono state determinanti per svolte epocali come quella sulle nozze gay, non ha mai preso di petto l’argomento pena di morte, limitandosi a ricordare come si tratti di un tema che riguarda i singoli stati Usa, e lasciandosi andare solo a qualche timida apertura per una revisione dei protocolli che regolano la somministrazione delle iniezioni letali. Iniezioni che spesso provocano la morte dei condannati tra atroci sofferenze. E proprio all’indomani di una di queste drammatiche esecuzioni, quando in Oklahoma un detenuto impiegò ben 43 minuti a morire, che Obama si sbilanciò per la prima volta affermando che la pena di morte è "appropriata in certi casi, come le uccisioni di massa o di bambini". Ma non in altri, sottolineò, avendo probabilmente in mente le statistiche che dicono come a finire tra le mani del boia negli Usa sono in tantissimi casi persone disagiate, minoranze. Persone che, spesso, dopo anni vengono riconosciute come innocenti. Del resto, si stima che oltre il 4% dei detenuti nel braccio della morte siano innocenti. Oggi negli Usa sono 31 gli stati in cui la pena di morte è legale. In 19 invece non è prevista nel sistema giuridico (il Nebraska è l’ultimo stato che l’ha abolita) o di fatto non viene applicata da decenni (come nello stato di New York). Nei fatti comunque sono solo 9 Stati quelli che negli ultimi anni hanno continuato a giustiziare i condannati nel braccio della morte, mai così pochi negli ultimi vent’anni. Nel 2012, in particolare - ultimo anno a cui risalgono i dati ufficiali - le esecuzioni sono state 77, circa un terzo rispetto al 2000. Lo stato più "violento" è il Texas, con 524 esecuzioni dal 1977 agli inizi del 2015, seguito dall’Oklahoma con 112. Arabia Saudita: il mondo salvi Alì, condannato alla crocifissione dal regno del petrolio di Tahar Ben Jelloun (Traduzione di Elda Volterrani) La Repubblica, 25 settembre 2015 L’Arabia Saudita lo ha arrestato quando aveva 17 anni per aver partecipato a una manifestazione. E ora è arrivato il verdetto: pena capitale. Le cancellerie occidentali protestano, ma nessuno ha il coraggio di spingersi oltre: la vita di un ragazzo vale meno dei ricchi contratti. Il caso fa le cose per bene: qualche giorno prima che Ali Mohammed Al Nimr, 20 anni, nipote di un oppositore sciita del regime dell’Arabia Saudita, fosse condannato a essere decapitato e poi crocifisso fino a putrefazione avvenuta, Faisal Bin Hassan Trad, l’ambasciatore saudita, è stato eletto a Ginevra presidente del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni unite. Da parte di questa istituzione sempre più inefficace è una forma di umorismo nero un po’ speciale. Un umorismo color petrolio. L’Arabia Saudita, da sempre governata dalla stessa famiglia, emette sentenze di morte a ogni piè sospinto. È il paese che detiene il record mondiale di esecuzioni capitali. Secondo i media e le associazioni per i diritti umani, quest’anno ci sono state 133 esecuzioni. Il crimine di questo ragazzo (al momento dell’arresto aveva 17 anni) è di aver partecipato a una manifestazione contro il regime. La sentenza supera i limiti della comprensione. È un assassinio. Quel ragazzo non ha ucciso, né violentato, né rubato. Ha solo partecipato a una manifestazione nel corso della "primavera araba". Se sarà giustiziato, le Nazioni unite dovrebbero perseguire l’Araba saudita. Ma non lo faranno. Che cosa fare in questi casi? Lasciar correre, stare zitti, tenere un profilo basso per non perdere qualche contratto? Starsene dietro alla propria vigliaccheria e distogliere lo sguardo? Ma è inammissibile. Per giudicare i governanti che hanno commesso crimini contro l’umanità c’è la Corte penale internazionale: perché non viene denunciato chi amministra la giustizia in quel paese? Già la condizione femminile è tra le più scandalose del mondo civile. Il fatto di esprimere un’opinione, di osare opporsi a un sistema arcaico, ancorché perfettamente aggiornato sotto il profilo tecnico, è punito con la morte. Ma nel caso del giovane Ali, la punizione è già cominciata: prima sarà decapitato, poi crocifisso e infine lasciato agli uccelli rapaci e alla putrefazione. Immaginiamo che cosa sta passando quest’uomo nell’anticamera della morte: è già mezzo morto, morto di paura, morto di calvario anticipato. È diventato il simbolo della vittima la cui vita è stata confiscata da un regime in cui i diritti umani rientrano nella sfera del virtuale. Anche se quello Stato ascoltasse le proteste internazionali e annullasse la condanna, resterà il problema dell’esistenza di un sistema medievale che non si può né criticare dall’interno né esautorare dall’esterno. Perché è potente, molto potente. La ricchezza gli procura i miliardi sufficienti per comprare qualsiasi cosa, dai beni materiali alle coscienze. Nessun paese ha voglia di contrastare l’Arabia Saudita. Sì, c’è l’Iran, ma vorrebbe soppiantarla per diventare il guardiano dei luoghi sacri e dei diritti umani non gli importa un fico. Tutti i paesi occidentali hanno progetti di contratti con l’Arabia e non vogliono sacrificarli per la vita di un ragazzo. Certo diversi capi di Stato hanno chiesto di annullare l’esecuzione di Ali, ma non vogliono spingersi più in là di così. In quello risiede la potenza dell’Arabia Saudita. Fa quello che vuole e non dà retta a nessuno. Questa sentenza ricorda stranamente la condanna e l’esecuzione del grande poeta sufi (mistico) del decimo secolo Al Hallaj. Condannato a morte per aver detto, parlando del suo amore per Dio, " Ana Al Haq" (Io sono la Verità), il suo corpo è stato evirato e crocifisso. È marcito al sole. Al Hallaj era impaziente di raggiungere Dio, perché la sua passione per la divinità l’aveva fatto rinunciare ai beni e ai piaceri materiali della vita. Ma se le autorità saudite hanno deciso di crocifiggere il giovane Ali non è in omaggio al poeta sufi ma semplicemente per crudeltà e arroganza. La loro potenza è nera come l’oro che li ricopre e che li rende così disumani. Tunisia: graziati 859 detenuti per Festa del Sacrificio, si pensa a riforma legge su droghe Ansa, 25 settembre 2015 In occasione della festività religiosa dell’Eid al Adha (festa del Sacrificio) che ricorre oggi, una delle più importanti del calendario musulmano, il Presidente della Repubblica tunisina, Beji Caid Essebsi, ha deciso, dopo una riunione con il ministro della Giustizia e il direttore delle Case circondariali del paese, di concedere una grazia speciale in favore di 859 detenuti. Lo rende noto un comunicato della presidenza che specifica che l’incontro è stato anche l’occasione per fare il punto sulla situazione carceraria tunisina e sulla questione della revisione della legge sul consumo degli stupefacenti leggeri al fine di ridurre la sovrappopolazione delle carceri. La situazione delle carceri tunisine è tuttora deprecabile: sovraffollamento, condizioni igieniche precarie, mancanza di cure per i detenuti malati, e spesso è stata oggetto di critiche e rilievi da parte di associazioni umanitarie internazionali. La maggior parte dei detenuti è composta da semplici consumatori di droghe leggere, l’uso personale di stupefacenti in Tunisia è infatti punito con la reclusione. Da lungo tempo è in atto nel paese un dibattito sulla riforma della legge sugli stupefacenti e, secondo molteplici dichiarazioni di politici, sarebbe già pronto un disegno di legge per sostituire la famigerata legge 52 del 1992 su consumo e spaccio di stupefacenti, giudicata da molti troppo severa.