Voci fra le sbarre per i tavoli degli Stati generali sul carcere e sulla esecuzione della pena di Carmelo Musumeci Ristretti Orizzonti, 24 settembre 2015 "Oggi ho confidato a un mio compagno, che si lamentava che ormai da tanti anni i detenuti hanno rinunciato a lottare per migliorare la loro vita da prigionieri, che l’Assassino dei Sogni ci ha condizionato solo a ubbidire e non più a pensare". (diario di un ergastolano carmelomusumeci.com). Da mesi, il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, ha istituito gli Stati generali dell’esecuzione delle pene, anche per tentare di migliorare la vivibilità delle nostre "Patrie Galere". Mentre però tutti i componenti dei diciotto tavoli parlano e discutono, spesso con serietà e passione sociale, alcuni politici pensano di aumentare le pene (forse perché l’età media di vita s’è alzata) e altri funzionari dell’Amministrazione Penitenziaria continuano a fare come gli pare, se gli pare e quanto gli pare con "deportazioni" da un carcere all’altro, richieste di declassificazioni ignorate e risposte che non arrivano mai. È di questi giorni la notizia che la quota di "mantenimento carcere" a carico del detenuto è aumentata a 3,62 euro al giorno (108,6 euro al mese, in pratica il doppio di quanto dovuto finora). Quello che a me ha colpito più di tutto leggendo la circolare ministeriale è che per il pranzo e la cena l’amministrazione penitenziaria spende 1,09 e 1,37 euro al giorno per detenuto. Forse meno di quello che spendono nei canili per sfamare i cani. Adesso capisco perché il vitto dell’amministrazione (nel gergo carcerario la sbobba) viene voglia spesso di gettarlo nella tazza dei cessi. Oggi ho pensato, per i membri dei tavoli che si occupano degli Stati generali, di rendere pubbliche queste due lettere che mi sono arrivate dalle famigerate sezioni del circuito AS1. - Caro Carmelo, il tuo ricordo è sempre vivo e vegeto nel mio pensiero. Qui si sta come le piante dentro la serra, si mangia si beve e si vegeta e quando capita non si dorme neppure la notte. È inutile che io ti racconti di come funziona questo istituto perché tu ci sei già passato, perciò non voglio sprecare inchiostro nel descriverti le sue brutture. Mi trovo qui a scriverti e ti giuro che non so cosa raccontarti, il tempo passa ed io non riesco ad avere un punto di riferimento per poterti raccontare "sai ieri ho fatto questo o quello", mi manca un ricordo perché tutti i giorni sono uguali e tutti quanti identici come una lancetta di orologio che conta le ore facendo sempre la stessa rotazione. Dimmi Carmelo: come c. fa un orologio a darci il tempo quando questo tempo rimane perpetuamente senza tempo? Sembra un paradosso ma i nostri giorni assomigliano tantissimo a quella lancetta che scandisce le ore senza arrivare mai ad una meta, e quindi girando sempre finché un giorno il meccanismo si ferma senza lasciare traccia, ecco cosa siamo diventati noi: una carcassa di un vecchio orologio senza tempo e senza ricordi. Carmelo scusa se ti scrivo le stupidaggini che mi passano in testa, ma mi devo inventare qualcosa per comunicare con te e non ho trovato di meglio che raccontarti dell’orologio. Ti prego di salutarmi Ornella con grande stima ed affetto, poi mi saluti Roverto, Lorenzo e tutti quanti in redazione. Ricordati che ti voglio tanto bene. Ti abbraccio caramente. (Giuseppe Z., carcere di Sulmona) - Qui abbiamo fatto un passo indietro dopo la partenza della vecchia direttrice. Oggi stesso hanno montato nuove telecamere dappertutto nelle sezioni corridoio. E c’è una restrizione delle telefonate. In tre ci siamo beccati una sanzione disciplinare, le riteniamo assolutamente illegittime e abbiamo subito fatto ricorso al magistrato di sorveglianza di Pavia. Dopo 24 anni di carcere ancora devo difendermi dall’ottusità, dalle provocazioni, dalle vessazioni. Si è creata una situazione che ci ha riportato indietro di anni ed io non ho più la forza di ricominciare a lottare da capo. (dal carcere di Voghera) Che altro posso aggiungere? Nulla! Solo che girano voci che forse il direttore del carcere di Padova andrà via, ma si sa che i direttori che applicano la Costituzione e la legge negli istituti vengono spesso allontanati (o promossi per trasferirli in altre sedi) perché il carcere meno peggio, o che funziona meglio degli altri, sembra far paura ad alcuni funzionari ai vertici dell’Amministrazione penitenziaria. Giustizia: ddl sul processo penale e 4bis op, un’altra occasione mancata di Barbara Alessandrini L’Opinione, 24 settembre 2015 Il ddl sul processo penale, licenziato alla Camera dei deputati, ha riconfermato la stretta ritorsiva, punitiva e giustizialista imposta dal populismo penale imperante. Quello che la maggioranza di governo non è riuscita a superare nonostante i tentativi del Guardasigilli Orlando di imboccare una stagione più garantista puntando soprattutto su una politica penitenziaria attenta alla funzione rieducativa e riabilitativa della pena prevista dalla Costituzione nell’articolo 27. L’intento riformatore di Andrea Orlando è quindi rimasto azzoppato dalla necessità di piegare la testa alla dittatura del consenso elettorale e agli orientamenti delle toghe cui consegnare un pacchetto demagogico che comprende misure strabicamente demagogiche. Via così a provvedimenti come l’inasprimento delle pene per scippi, rapine e furti (inutile ribadire che l’aumento delle pene non corrisponda ad una diminuzione dei reati e che le recidive aumentano tra i detenuti che non accedono alle misure e percorsi alternativi al carcere), il prevalere delle aggravanti sulle attenuanti, l’innalzamento dai 6 ai 12 anni per il reato di scambio elettorale di recente introduzione (moltiplicare le fattispecie di reato sembra l’unica, taumaturgica via di contrasto ai reati capace di placare la pancia dei cittadini ingordi di nuove caselle in cui schiaffare i colpevoli), l’abolizione dell’udienza filtro che priva la difesa della possibilità di tutelare la riservatezza con lo stralcio di conversazioni captate irritualmente e inutilizzabili o irrilevanti per evitarne la diffusione, lo slittamento fino ad un anno del termine per chiudere le inchieste sugli indagati per i reati più gravi per le pressioni della magistratura. Una sorta di vangelo della brava tricoteuse, insomma, quello uscito dalla Commissione Giustizia (braccio operativo della magistratura in Parlamento) e poi dall’aula di Montecitorio. E dato in pasto all’elettorato proprio mentre il presidente del Csm, Rodolfo Maria Sabelli, ha riacciuffato i toni dell’apertura alla politica di Orlando sfoderando quel rodato repertorio garantista, tanto efficace per blandire il pubblico e il mansueto Guardasigilli nei convegni forensi che da mesi utilizza per dirsi contrario al populismo penale ed alla pena come vendetta e punizione. Ora, in questa morsa che la magistratura e la pancia dell’opinione pubblica hanno stretto su pressoché tutti i provvedimenti giudiziari è finita schiacciata anche la possibilità di modificare gli automatismi e le preclusioni assolute, previsti nell’articolo 4bis, che escludono i condannati per mafia e terrorismo dai benefici carcerari che aprono la prospettiva del reinserimento e della rieducazione, così come Costituzione, ma anche la Cedu e la Corte Europea stabiliscono. Negando ad una certa categoria di detenuti la possibilità di ripensare il proprio percorso, di riprogettare la propria esistenza, il Parlamento ha sacrificato alla necessità di un malinteso imperativo della deterrenza della sanzione penale l’opportunità di riprendere in modo accorto e ragionato il necessario ripensamento di una misura che condiziona, anzi baratta, la concessione dei benefici penitenziari ai mafiosi e ai terroristi alla collaborazione dei condannati con la giustizia. Seguitando a favorire il falso pentitismo. Per questo meritava una seria, aggiornata, riflessione. Introdotto come una delle misure "premiali" della lotta alla mafia, il 4 bis si è radicato come strumento frutto e fonte di una ideologia aberrante legittimando l’indegno scambio tra concessione dei benefici ai condannati e collaborazione con la giustizia elevando il baratto e la prostituzione delatoria di Stato a sistema di conduzione carceraria. La cronaca recente del condannato a dieci anni di carcere grazie alle "confessioni" di mafiosi "pentiti" e poi assolto dalla Corte di appello di Messina dopo aver trascorso un decennio in detenzione rappresenta soltanto l’ultima dimostrazione dei gravi rischi legati al falso pentitismo. È un terreno magmatico quello della revisione del 4bis, imbrigliata com’è tra i legittimi timori che l’ampliamento dei benefici carcerari rappresenti un favore all’associazionismo mafioso, la paura di sacrificare la sicurezza e la invocata necessità di non tradire la tutela delle vittime, insomma di esser percepiti dalla parte dei delinquenti. Ma aver accantonato il confronto e la discussione su questo articolo dell’Ordinamento penitenziario significa aver scelto di soprassedere sugli elementi di incongruenza che lo pongono fuori dall’alveo costituzionale. Innanzitutto, sotto il profilo della valenza rieducativa della pena non v’è alcuna traccia se si esclude quella alla prostituzione e al ricatto che incoraggia la pratica delle false accuse di correità di altri individui spesso estranei alle vicende delittuose. Non solo. Il 4 bis calpesta il diritto costituzionale di dichiararsi innocente di qualsiasi detenuto che, condannato ingiustamente e non avendo informazioni da consegnare alla giustizia, si vede precluso in partenza ogni accesso ai benefici detentivi. È ammissibile non aver affrontato le criticità di un sistema che spinge anche chi è ristretto ingiustamente a piegarsi alla verità della sentenza definitiva, alla "rieducazione" della forzatura autoaccusatoria ed alla delazione di estranei pur di avere uno spiraglio sui vantaggi penitenziari? Purtroppo, come le dichiarazioni del procuratore antimafia Franco Roberti e del Pm Nino Di Matteo, contrari ad indebolire la normativa, hanno confermato da subito, dalle Procure arriverà sempre il veto a qualsiasi tentativo di revisione di uno strumento di indagine che rappresenta il massimo mezzo di pressione estorsiva sui condannati. Il senso di generalizzata rassicurazione che è seguito in Aula alla decisione di escludere mafiosi e terroristi dai benefici (respinta anche la possibilità che a concederli a chi ne ha diritto siano direttamente i giudici di sorveglianza) ne è la prova. In spregio all’aberrante disumanità che annichilisce la possibilità di riprogettarsi prevista dal dettato costituzionale e dalla normativa europea. Si è voluto mancare un importante appuntamento. Schivato il rischio di scardinare gli strumenti deputati a cautelare i cittadini, però, una politica meno populista e forcaiola deve prendersi la responsabilità di pensare a quali elementi correttivi applicare ad un sistema dell’Ordinamento penitenziario che seguita a favorire il falso pentitismo. E che violenta in modo indegno lo Stato di diritto: la pena per esser rieducativa implica che i benefici vengano accordati in base al comportamento del detenuto e non in base a logiche ricattatorie e prostitutive. Ma il ddl non recitava "Modifiche al Codice penale e al Codice di procedura penale per il rafforzamento delle garanzie difensive e la durata ragionevole dei processi e per un maggiore contrasto del fenomeno corruttivo, oltre che all’Ordinamento penitenziario per l’effettività rieducativa della pena"? Giustizia: riforma del processo penale, primo sì dalla Camera di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 24 settembre 2015 Via libera dalla Camera al ddl sul processo penale, riforma "innovativa e coraggiosa" e che "non limita la libertà di stampa" dicono governo e maggioranza mentre per l’opposizione è una "ennesima legge truffa" (Lega), il "bavaglio alla stampa che Berlusconi non è mai riuscito ad approvare" (5 Stelle), "una diligenza sgangherata su cui è salito di tutto" (Sel), un "ricatto a importanti poteri dello Stato" (Fratelli d’Italia), "una delusione" (Forza Italia). Il tabellone luminoso sancisce il via libera con 314 sì, 129 no e 51 astenuti (Fi) e ora il provvedimento passa al Senato anche se, nel frattempo, il ministro della Giustizia Andrea Orlando istituirà un "tavolo tecnico" con magistrati, avvocati, giornalisti per cominciare a tradurre in un articolato la delega sulle intercettazioni, considerata dalle opposizioni "in bianco" e "generica", al punto da espropriare il Parlamento. Puntuale, su questo tema, è arrivata la protesta in Aula dei pentastellati che, mentre Vittorio Ferraresi chiedeva "Dov’è la sinistra che faceva i girotondi?", si sono alzati con un bavaglio bianco davanti alla bocca ed esponendo cartelli contro la riforma. "Il Pd non metterà mai bavagli su notizie di rilievo pubblico - ha replicato con veemenza il Dem David Ermini - e le intercettazioni come strumento investigativo non saranno toccate. Lasciamo ai grillini il gusto di guardare dal buco della serratura: ricordano Fantozzi che con la lingua di fuori osserva le movenze della signorina Silvani". Quanto alle "registrazioni fraudolente" (il nuovo reato che sarà punito fino a 4 anni di carcere), "ricordano - dice Ermini -i regimi del terrore, della Germania dell’Est e noi, figli dei figli della Resistenza, questi metodi non li accettiamo!". Ma le critiche sono arrivate anche fuori dall’Aula, dall’Associazione nazionale magistrati, che bolla come "deludente, disorganico e senza coerenza" il ddl approvato. "Irrealistici" i termini per l’esercizio dell’azione penale. "Nessun Pm sarà in grado di rispettarli anche per ragioni legate all’organizzazione degli uffici giudiziari", dice il presidente Rodolfo Sabelli che punta l’indice pure contro la relazione annuale del ministro della Giustizia con i dati dettagliati sull’ingiusta detenzione nonché sulla responsabilità disciplinare per il ritardo nell’iscrizione nel registro degli indagati. "Ancora una volta ci si illude di risolvere i mali della giustizia con forme di pressione sulla magistratura, che è già oltre il limite delle proprie possibilità". "Preoccupazione" anche per la delega sulle intercettazioni perché "troppo generica" e, per questo, potrebbe tradursi in norme che vietano di inserire gli ascolti nelle ordinanze di custodia cautelare. O di farlo in modo criptato. "Il che sarebbe un errore e un danno per il diritto di difesa". Tace il ministro della Giustizia ma parla il suo vice Enrico Costa (Ncd) secondo cui "ogni singolo punto" della riforma "porterà benefici al sistema giustizia". Costa lascia aperta la possibilità di modifiche al Senato dove il testo, dice, "potrà essere ulteriormente migliorato e arricchito". Il provvedimento varato dal governo esce modificato dalla Camera che vi ha tolto molto ma, soprattutto, molto vi ha aggiunto, ad esempio gli aumenti di pena per furti, scippi, rapine, voto di scambio. Alcune norme sono solo di delega (intercettazioni, carcere, appello) ma la maggior parte sarà di immediata operatività, salvo differirne l’entrata in vigore (per esempio nel caso dei nuovi termini per l’esercizio dell’azione penale, che si applicheranno alle notizie di reato successive). Tra i punti più discussi quello che consente al giudice, nei reati procedibili a querela, di dichiarare estinto il reato, sentite le parti, se l’imputato ripara interamente il danno restituendo o risarcendo o eliminando le conseguenze del reato. Esprime soddisfazione la relatrice Donatella Ferranti (Pd) che considera il testo "coerente e arricchito rispetto a quello originario, frutto di un lavoro al quale hanno partecipato anche le opposizioni". Giustizia: il rischio dell’indagine "breve" di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 24 settembre 2015 Piero Calamandrei, sessant’anni fa, scriveva che è il "costume" a plasmare il processo, ben più delle sue regole. Perché le regole - a cominciare da quelle costituzionali - "rimangono vive finché vi scorre dentro, come il sangue nelle vene, la forza politica che le alimenta: se questa viene meno, si atrofizzano e muoiono di sclerosi". Il ddl sul processo penale approvato ieri è il prodotto di un "costume" smarrito. Nel processo, ma anche nella politica. E per certi versi nell’informazione. Perciò la riforma, da sola, rischia di fallire gli obiettivi ambiziosi dichiarati da governo e maggioranza, peraltro non sempre tradotti in norme coerenti. Ciò spiega, forse, anche la genericità della delega sulle intercettazioni, che sembra una pistola puntata alla tempia del diritto di cronaca e pronta a sparare, non si sa ancora se a salve o per ferire. E spiega la demagogia delle dosi di carcere dispensate all’unanimità nonché l’enfasi eccessiva sulla "ragionevole durata del processo", in particolare delle indagini, dietro la quale si nasconde l’immancabile diffidenza verso i magistrati. Le novità procedurali, oltre che del "costume", sono orfane anche di un adeguato supporto di risorse e di misure deflattive. Le prime sono state forse concentrate più sul civile e sottratte al penale, una scelta politica seguita peraltro anche in molti uffici giudiziari "virtuosi" e presi a modello, come Torino, che oggi però ne paga un prezzo nel penale con i 26mila processi penali pendenti in Corte d’appello, l’arretrato più alto d’Italia. Quanto alle seconde, cruciale è la depenalizzazione dei reati minori, affidata al governo con una delega del 2014 e che scadrà a metà novembre, per decongestionare gli uffici giudiziari ed evitare di riempire il carcere di piccoli delinquenti. Tuttavia, il testo messo a punto l’anno scorso da un’apposita commissione ministeriale non è stato ancora trasmesso a Palazzo Chigi. La Lega già agita lo spettro della sicurezza, sapendo di far breccia su un governo un po’ ondivago che predica la decarcerizzazione e poi, però, cavalca gli aumenti di pena per furti, scippi e rapine votati nei giorni scorsi, e che lascia morire un’altra delega strategica, quella sulle pene alternative alla detenzione, scaduta all’inizio dell’anno e di cui non si sente più parlare. Senza un impegno su questi versanti, molte nuove norme rischiano di restare sulla carta e potrebbero rivelarsi persino controproducenti. Per esempio quelle sulla "durata certa delle indagini", che fissano paletti alle Procure per chiedere il rinvio a giudizio o l’archiviazione, pena l’avocazione dell’indagine da parte del Pg d’appello, e che sanzionano disciplinarmente il ritardo nell’iscrizione della notizia di reato. Obblighi già esistenti ma che il ddl ha voluto rendere più stringenti e non senza conseguenze. Prendiamo quel che è accaduto martedì scorso, a Genova: la Procura ha chiesto l’archiviazione del fascicolo riguardante un Pm di Firenze denunciato dal signor Maiorano (assistito dall’avvocato Taormina) perché non aveva indagato sufficientemente su Matteo Renzi. Molte delle 24 denunce presentate per presunti abusi del premier (dalla casa di Marco Carrai ai rapporti con il generale della Gdf Michele Adinolfi) erano state iscritte, infatti, nel modello 45 (le non notizie di reato) invece che nel modello 21 (notizie contro noti) e si erano chiuse con l’archiviazione ma i Pm genovesi hanno escluso qualunque omissione di doveri d’ufficio. Ebbene, ora facciamo uno sforzo di fantasia e immaginiamo che cosa potrebbe accadere con le nuove norme sulle indagini. Il Pm di Firenze, una volta ricevuta la denuncia, dovrebbe iscrivere subito Renzi nel modello 21 e la "notizia" si diffonderebbe in un attimo (non fosse altro per l’automatismo imposto dalle nuove norme) con grande risalto mediatico e relative strumentalizzazioni politiche. Se il Pm iscrivesse nel modello 45, potrebbe essere accusato di voler favorire il premier (formalmente la denuncia contiene un nome, un cognome e una notizia di reato, quindi tutti gli elementi per iscriverla nel modello 21) o, al contrario, di voler eludere il cronometro delle indagini, che parte con l’acquisizione della notizia di reato e la sua contestuale iscrizione nel modello 21, altrimenti il Pm ne risponde disciplinarmente. Insomma, avremmo questo scenario: fuochi d’artificio mediatici sul "premier indagato" e polemica politica a go-go, nonché Pm burocrati che, per evitare sanzioni disciplinari e polemiche, corrono a iscrivere chiunque. Avremmo anche uffici più intasati da notizie di reato iscritte, ancorché sgangherate, su cui svolgere quanto meno uno straccio d’indagine prima dell’archiviazione. E se i termini scadranno, tutto finirà sulle spalle dei Pg della Corte d’appello. Politici, personaggi pubblici e istituzionali, manager di grandi imprese. Tutti indagati sulla base di una semplice denuncia, di un esposto. Pensiamo all’amministratore delegato di un grande gruppo industriale denunciato per appropriazione indebita o altro reato e quindi indagato senza alcuna valutazione preliminare del Pm. Pensiamo alle conseguenze della notizia sul mercato. Scenari possibili, frutto di regole forse solo simboliche, che però tradiscono la tendenza ormai di qualche anno a legiferare spinti da un sentimento di diffidenza verso le toghe. Qualcuno obietterà che i danni sarebbero limitati se la stampa fosse più seria e prudente. Ma poiché ci viene ripetuto che è con il mondo reale che bisogna fare i conti, forse valeva la pena riflettere su queste conseguenze e sul fatto che una notizia di reato è materia spesso magmatica, che richiede un’attenta valutazione del magistrato. Dal quale si deve esigere professionalità e responsabilità, non la gestione burocratica della propria funzione. Le norme approvate dalla Camera, invece, evocano "il processo breve" tanto agognato da Berlusconi: anche se quel titolo rifletteva un’esigenza giusta e condivisa (i tempi ragionevoli del processo), le norme sottostanti - al di là degli scopi reconditi dell’ex premier - erano di fatto irrealizzabili senza misure strutturali e adeguate risorse, e sarebbero state micidiali per la sorte dei processi. Da allora qualcosa si è mosso sul fronte organizzativo ma non abbastanza per pretendere "l’indagine breve" (esigenza ovviamente condivisa) da Pm che sono alle prese, ciascuno, con migliaia di fascicoli. Salvo volerli trasformare in burocrati, passacarte e irresponsabili. Giustizia: freno ai ricorsi in Cassazione nel ddl per la revisione del processo penale di Simona D’Alessio Italia Oggi, 24 settembre 2015 Brusca frenata per la mole di ricorsi in Cassazione: se inammissibili, le sanzioni pecuniarie saranno più salate, mentre scatteranno dei "paletti" per accedere all’ultimo grado di giudizio, in caso di patteggiamento. E le "parti offese" saranno più coinvolte (rispetto a quanto avviene oggi) nell’accertamento dei fatti su quello che hanno subito, poiché 6 mesi dopo la denuncia avranno diritto di sapere a che punto è il procedimento che le riguarda, agendo da "pungolo" nei confronti del pubblico ministero. È stato approvato ieri, in aula alla camera il disegno di legge per la revisione del processo penale (2798-A e Abb.) con 314 sì (da parte dei partiti di maggioranza), 129 no (M5s, Lega Nord, Fdi e Sel) e 51 astenuti (Forza Italia); il testo, che contiene anche la delega al governo sulle intercettazioni, è passato all’esame dei senatori. Un provvedimento articolato, che interviene su diversi versanti del rito e del codice penale: c’è, per esempio, il giro di vite per alcuni reati come il furto in abitazione (la pena minima salirà da 3 a 6 anni), il furto aggravato (da 2 a 6 anni) e la rapina semplice (da 4 a 10 anni) e aggravata, nonché l’inasprimento per il voto di scambio politico-mafioso, le cui pene faranno un salto dagli attuali 4-10 a 6-12 anni. Come sottolineato, si stringono i bulloni sui ricorsi presso la Suprema corte, però la nuova disciplina inciderà anche sul secondo grado: saranno, infatti, "più rigorosi e specifici" (pena l’inammissibilità) i motivi dell’appello, inoltre le parti potranno accordarsi su alcuni motivi condivisi, sempre con il vaglio del giudice (a tale proposito, il ddl stabilisce che dovrà esserci l’emanazione di linee guida da parte del procuratore generale presso la Corte di appello per i pubblici ministeri di udienza). Uno degli elementi principali del testo, aveva precisato nei giorni scorsi la presidente della commissione giustizia di Montecitorio Donatella Ferranti (Pd), era giungere a una tempistica certa per il rinvio a giudizio; entro 3 mesi il pm dovrà procedere, o archiviare il fascicolo, periodo prorogabile di altri 3 mesi dal pg presso la Corte d’appello, se si tratta di casi complessi, dalla scadenza di tutti gli avvisi e notifiche di conclusa indagine. Regole che non varranno per i delitti di mafia e terrorismo, laddove, invece, il termine salirà automaticamente a 12 mesi; fra le novità, poi, la previsione di uno specifico potere di vigilanza del pg sulla tempestiva e regolare iscrizione nel registro degli indagati (ma una norma transitoria riserva, comunque, i nuovi termini alle notizie di reato iscritte dopo l’entrata in vigore della riforma). Quando al capitolo delle intercettazioni (molto vivaci, ieri, le contestazioni in assemblea del M5s, che ha parlato di nuova "legge bavaglio"), grazie alla delega approvata all’interno del provvedimento, il governo dovrà predisporre norme per evitare la pubblicazione di conversazioni irrilevanti ai fini dell’indagine e, comunque, concernenti persone totalmente estranee, attraverso una selezione del materiale acquisito; obiettivo è semplificare il ricorso allo strumento per i reati contro la pubblica amministrazione e non sono previste pene carcerarie per i giornalisti. All’esecutivo il compito anche di disciplinare le pene (fino a 4 anni) per la diffusione di captazioni fraudolente di conversazioni tra privati diffuse al solo fine di recare danno alla reputazione e all’immagine di qualcuno: la punibilità è esclusa quando le riprese, o le registrazioni costituiscono prova di un processo, o sono utilizzate per l’esercizio del diritto di difesa e del diritto di cronaca. Via libera, infine, alla presentazione di un rendiconto annuale in Parlamento sui casi di ingiusta detenzione. Giustizia: la Camera approva ddl sul processo penale. Le toghe "è una riforma deludente" di Francesco Grignetti La Stampa, 24 settembre 2015 I magistrati lamentano di essere sotto scacco e denunciano "forme di pressione". Ma per la maggioranza è un testo "coraggioso" che inciderà sulla durata dei processi. La Camera approva, e ora la riforma del processo penale passa al Senato. Provvedimento ricco, pieno di sfaccettature, che il governo saluta come "omogeneo" e che invece secondo l’associazione nazionale magistrati è "disomogeneo e deludente". Le toghe lamentano dì essere sotto attacco. "Ancora una volta - commenta il presidente dell’Anm, Rodolfo Sabelli - ci si illude di risolvere i mali della giustizia attraverso forme di pressione sulla magistratura, che è al limite e in alcuni casi oltre il limite delle proprie possibilità". Sabelli è contrarissimo ad allargare la Relazione annuale del ministro della Giustizia con i dati sull’ingiusta detenzione, così come il richiamo "a eventuali profili disciplinari sulla ritardata o irregolare iscrizione delle notizie di reato". È un fatto che il ddl si intitoli "Norme per il rafforzamento delle garanzie difensive e la durata ragionevole dei processi", così denunciando un’impostazione garantista. "Una riforma coraggiosa, di ampio respiro, in alcuni tratti decisamente innovativa", la definisce Donatella Ferranti, Pd. "Dalla giustizia riparatoria alla semplificazione delle impugnazioni, inciderà in modo significativo sulla durata dei processi". "Evitando l’appesantimenti, i tribunali potranno dedicarsi a questioni di grave allarme sociale", spiega il viceministro Enrico Costa, Ncd. Il rinvio a giudizio o l’archiviazione dovranno essere chiesti dal pm entro 3 mesi, prorogabili dì altri 3, dalla scadenza degli avvisi di conclusa indagine. Per i delitti di mafia e terrorismo il termine sale a 12 mesi. In caso di inerzia c’è l’avocazione da parte del procuratore generale. È prevista la vigilanza del pg sulla tempestiva iscrizione nel registro degli indagati. L’innovazione mi sembra importante. Troppe volte accade che le Procure, esauriti i tempi delle indagini e consumati ì termini degli avvisi, attendano mesi e talvolta anni prima di decidere il rinvio a giudizio o l’archiviazione, e nel frattempo gli indagati rimangono sospesi nell’incertezza. Talvolta sorge, addirittura, il sospetto che l’inerzia dei procuratori nasconda qualche recondita, forse non commendevole, strategia accusatoria. È giusto, pertanto, imporre tempi certi anche in questa, delicata, fase del procedimento penale. Ho letto che taluni procuratori hanno lamentato che con l’imposizione dei nuovi termini, nei processi complessi, si rischia di forzare le decisioni entro limiti non sempre ragionevoli; la differente articolazione dei termini previsti dalla legge mi sembra scongiuri tuttavia questo paventato pericolo. Giustizia: lo strappo delle toghe "i dem non sono più nostro baluardo, serpeggia la paura" di Liana Milella La Repubblica, 24 settembre 2015 Ardita: "Tra di noi serpeggia la paura perché è caduta qualsiasi protezione". È finita per sempre in archivio la stagione del grande feeling tra il Pd e la magistratura. Nonostante il Guardasigilli Orlando si sforzi, a ogni commissione di studio che crea, di bilanciare i componenti con il Cencelli delle toghe. Un’altra epoca si è aperta, quella della paura di parlare per il timore di finire sotto procedimento disciplinare. Si censurano perfino nelle mailing list dove, in questi giorni, non si riesce a trovare quasi nulla contro la legge bavaglio. Giusto, qui e là, qualche intervento che critica singole tecnicalità, come il minor tempo per chiudere le indagini. "La magistratura è spaventata. Tra di noi serpeggia una grande paura perché è caduta qualsiasi protezione" dice un magistrato attento come Sebastiano Ardita che, con Pier Camillo Davigo, ha fondato l’ultima corrente delle toghe, dal nome significativo "Autonomia e indipendenza". Non si riesce a strappargli una parola di più. Sono finiti i grandi sfogatoi, come ai tempi di Berlusconi. Dall’altra parte non c’è più il Pd solidale, quello pronto anche a scendere in piazza, che faceva a gara per candidare magistrati alla Camera e al Senato. Se chiedi al segretario dell’Anm Maurizio Carbone, pubblico ministero a Taranto del caso Uva, come mai nelle mailing list non ci sono interventi contro la riforma penale, ti risponde in modo chiaro, com’è nel suo costume: "È molto semplice. Il clima è completamente cambiato. Quando i magistrati protestavano contro Berlusconi accadeva subito che in Parlamento ci fossero interventi per sostenere le nostre posizioni". Allude al Pd ovviamente. Va avanti: "Si vedeva che c’era attenzione e interesse per i nostri problemi. Adesso purtroppo non è più così". Il Pd ha cambiato pelle. La riforma delle intercettazioni è una ferita aperta: "Mentre dilaga la corruzione il problema sembra essere un altro, la riservatezza da garantire a certi personaggi pubblici" dice Carbone. E ancora: offende i magistrati quell’aver votato a favore, M5S compreso, sulla relazione in Parlamento sui casi di ingiusta detenzione. "Ci vogliono fregare, è chiaro" dice un giudice che appena pronuncia la battuta ci scongiura "di non scriverla". Sul banco degli imputati c’è il Pd, "i traditori, i voltagabbana, divenuti ormai tutti renziani". Uno dei pochi che non ha paura di scrivere ancora nelle liste aperte perfino alla stampa, come Andrea Reale, iscritto alla movimentista Proposta B, ce l’ha con la politica, ma ce l’ha pure con l’Anm, accusata di aver garantito al governo "aperture preventive di credito sulla responsabilità civile e sulle ferie". Adesso a un collega scrive: "Ma cos’altro dobbiamo aspettare per comprendere come vanno le cose? Con la responsabilità civile hanno già inferro un vergognoso colpo alla nostra autonomia". Il Pd renziano ha moltissime colpe. Luca Poniz, pm a Milano, da sempre di Magistratura democratica, cita la segretaria della corrente Anna Canepa quando, al congresso di Reggio Calabria prima dell’estate, ha parlato dell’alleanza di fatto che, in passato, garantiva il rapporto tra il Pd e la magistratura, mentre ora "il fronte politico si è ridisegnato, i magistrati non piacciono più come prima, manca pure un vero disegno riformatore, tant’è che Renzi chiama al governo un magistrato di destra come Ferri per fare il sottosegretario". I "tradimenti" del Pd stanno nel lungo elenco delle norme approvate e giudicate tutte contro la magistratura. Claudio Castelli, toga storica di Md, constata: "Ogni volta che il Pd è al governo è contro i magistrati, quando passa all’opposizione è a favore". Solo così si giustifica il sì alla delega sulle intercettazioni, fatta "per condizionare i pm e i giudici". Ma non solo. C’è il sì del Pd alla responsabilità civile che, ricorda Carbone, Orlando ha definito "un passo storico per la giustizia italiana". Ci sono le ferie per decreto, l’età pensionabile, l’annunciata riforma del Csm. Poi tutto il non fatto, a partire dalla prescrizione. Altro che a favore, il Pd è contro i magistrati. Giustizia: Costa (Ncd);,a riforma delle intercettazioni tutela indagini e diritto di cronaca di Chiara Rizzo Tempi, 24 settembre 2015 Intervista a Enrico Costa, sottosegretario uscito "vincitore" da Montecitorio. "Le conversazioni non pertinenti alle inchieste non devono essere pubblicate". Già nel tono della voce non nasconde la soddisfazione per il risultato raggiunto. Il sottosegretario alla Giustizia Enrico Costa (Ncd) è stato il volto dell’esecutivo tra i banchi del parlamento durante tutta la discussione e il voto della legge delega sulla riforma del codice penale, di procedura penale e dell’ordinamento penitenziario. "Molto è stato cambiato dall’impianto iniziale, attraverso la discussione, e molte sono le proposte dell’opposizione che sono state accolte. In particolare, cito quelle sul tema della delega per i nuovi benefici penitenziari e sul tema della giustizia riparativa, su cui abbiamo ricevuto moltissimi stimoli dagli altri partiti. Nell’ambito di un dibattito vivace si è fatto un percorso costruttivo", racconta a tempi.it, subito dopo l’esito della votazione. Il ddl è passato con 314 sì, 129 no, 51 astenuti e molte proteste. Tra le novità, la cancellazione dell’udienza filtro per le intercettazioni alla presenza di tutte le parti, sostituita da una "selezione di materiale intercettativo nel rispetto del contraddittorio tra le parti". È aggiunta inoltre la non punibilità per chi usa riprese o registrazioni per il diritto di cronaca (è stato accolto insomma il cosiddetto emendamento "salva Iene"). La critica più benigna riguardo agli articoli sulle intercettazioni è che si lasci al governo in pratica una delega in bianco su un tema delicatissimo. La più dura è che si tratti di una "legge bavaglio". Come risponde? "O la delega è troppo generica o è talmente chiara che determina un bavaglio: già in queste parole mi pare evidente la contraddizione tra le posizioni. Le linee volute dal parlamento nella legge delega su questo tema invece sono chiare ed equilibrate. La legge dovrà garantire la tutela delle conversazioni private che non hanno nulla a che vedere con le indagini: questo mentre oggi dilagano sui giornali brani di intercettazioni captate anche accidentalmente. Se le intercettazioni sono un mezzo di prova per il processo, verranno conservate e usate, ma tutto il resto non c’entra, quindi non dev’essere pubblicato sui giornali". Mentre non cambierà nulla nella disciplina delle intercettazioni dal punto di vista investigativo? "No, assolutamente. La delega sottolinea proprio che il governo dovrà legiferare solo dal punto di vista della pubblicazione delle conversazioni non pertinenti alle inchieste". Ha fatto molto discutere la previsione di un nuovo reato, con pena da 6 mesi a 4 anni di reclusione, per chi diffonde il "contenuto di conversazioni captate fraudolentemente". Volete mettere a tacere Report? "Non accadrà affatto, perché un emendamento approvato sottolinea che nel testo della nuova legge il diritto di cronaca rimarrà salvaguardato e dovrà essere esplicitamente citato". Altro punto criticato è il nuovo articolo 162 ter sui reati punibili a querela, che prevede si possano estinguere se il colpevole ripara interamente il danno, anche con risarcimento. Tra i reati a querela ci sono quelli commessi a mezzo stampa, ma d’altra parte anche le violenze sessuali, gli abusi e lo stalking. Significa che le vittime potrebbero non trovare giustizia? "Assolutamente non è così. Quello della riparazione del danno e del risarcimento è un meccanismo usato già oggi di fronte al giudice di pace, ora sarà esteso solo di fronte ai reati più tenui. Sarà però sempre il giudice a valutare e decidere se un risarcimento è congruo, e dovrà tenere anche conto di un eventuale ravvedimento e una riparazione effettiva, non solo economica. Per reati leggeri perseguibili a querela come quelli a mezzo stampa, ritengo che sia giusto sgravare i tribunali dall’occuparsi di processi bagatellari". Altro passaggio controverso: la delega sui termini delle indagini preliminari. Dopo 18 mesi (o due anni a seconda dei reati) il pm ha a disposizione 3 mesi per decidere se chiedere l’archiviazione o il rinvio a giudizio degli indagati. Le toghe protestano che così sarà impossibile arrivare ai vertici delle organizzazioni criminali. Come risponde? "Il provvedimento è qualificato all’accelerazione dei procedimenti. Verranno date solo scansioni di tempo chiare e precise, sia per evitare casi in cui i pubblici ministeri "dimenticano" fascicoli nei cassetti, sia per tutelare le presunte vittime dei reati, e anche per garantire meglio il diritto alla difesa dell’imputato". Ha trovato consenso invece la delega per la riforma dell’ordinamento penitenziario, con cui si dà mandato al governo di valorizzare il lavoro e il volontariato per i detenuti, le misure alternative al carcere, e di riconoscere il loro diritto all’affettività. "La delega è un tassello di un percorso che il governo ha già avviato per affrontare i problemi di questo particolare mondo che è il carcere. Siamo molto attenti alla finalità educativa della pena, e oggi purtroppo ci sono fortissime criticità proprio su questo aspetto. La detenzione non dev’essere un momento di "pausa" o di "ozio", ma una fase attiva che consenta di restituire alla società un individuo nuovo e recuperato attraverso il lavoro o l’impegno per la comunità". A proposito di carcere, secondo lei che margini ci sono per una risposta positiva all’appello per l’amnistia lanciato dal Papa in vista del giubileo? "Il Papa non ha fatto un appello al singolo legislatore, ma a tutti. Tuttavia oggi abbiamo previsto un percorso in termini organici, attraverso varie norme, per affrontare il problema del sovraffollamento: per il resto quella dell’amnistia è una scelta che spetta alle Camere e il Parlamento è sovrano in materia". Giustizia: regole sugli ascolti, giusto limite per tutelare il diritto di tutti alla riservatezza di Carlo Nordio Il Messaggero, 24 settembre 2015 Non sappiamo quale sarà la disciplina definitiva delle intercettazioni, il cui iter ha faticosamente passato il primo esame alla Camera. Allo stato attuale, il bicchiere è mezzo pieno e mezzo vuoto. Notizie buone e notizie cattive. La cattiva notizia è l’ennesima manifestazione di esuberante fantasia, squadernata dai paladini della cosiddetta trasparenza informativa. Costoro protestano contro una "legge bavaglio" come se esistesse, e qualcuno l’ha sostenuto, un diritto di cronaca sui contenuti delle conversazioni captate dall’autorità giudiziaria. A questi menestrelli erranti del giustizialismo spione va risposto, in termini chiari, che questo diritto non esiste. Al contrario, esiste il principio opposto, sancito dall’articolo 15 della Costituzione "più bella del mondo": le comunicazioni tra privati sono inviolabili. Se il magistrato le acquisisce, non per questo il potere investigativo si converte in diritto alla diffusione del loro contenuto. Anche se si trova nel fascicolo processuale, l’intercettazione deve (dovrebbe) restare segreta: come le fotografie dei bambini vittime della pedopornografia, che stanno agli atti, ma non possono finire sui rotocalchi. Questa è la regola. Se in questi anni se ne è fatto malgoverno, è anche perché parte della magistratura ha stravolto, arbitrariamente, il chiarissimo dettato degli articoli 267 e 268 del codice di procedura penale, e perché pochi si sono ribellati a questo degrado incivile della nostra democrazia. Compressi tra l’invadenza moralizzatrice di alcune toghe e l’esuberanza spavalda di molti giornalisti, i cittadini hanno rinunziato al loro diritto primario alla riservatezza, e quindi alla loro libertà. Perché la segretezza è la prima condizione della libertà di parola. Se tutti sapessero quello che ci diciamo, insegnava Pascal, non avremmo un amico. E così l’articolo 15 della Costituzione è stato "abrogato" per desuetudine e mancato esercizio. La buona notizia è che il governo sta, finalmente, correndo ai ripari. Il progetto approvato non risolverà tutti i problemi, ma almeno costituirà un significativo cambio di rotta nella riaffermazione delle individuali prerogative costituzionali. Perché non sarà risolutivo? Perché la cosidetta "udienza filtro", o come la vogliamo chiamare, mettendo a disposizione delle parti i testi da individuare in quanto utili, li renderanno noti a decine di persone, consentendone una divulgazione pilotata, la cui impunità sarà garantita dall’impossibilità di individuarne l’autore. Né servirà incriminare il giornalista, che preferirà correre il rischio di una pena futura e incerta piuttosto che rinunziare a una succulenta rivelazione scandalistica, Quello che serve, in realtà, è impedire che la notizia gli arrivi: eliminare la malattia e la febbre, non prendersela con il termometro. Il rimedio, radicale e razionale, lo abbiamo già scritto più volte. Si adotti la disciplina delle intercettazioni preventive, indispensabili alle indagini ma non utilizzabili processualmente, e come tali inaccessibili a tutti, custodite nella cassaforte del pm che le ha disposte, sotto la sua responsabilità. Ma sappiamo di gridare al vento. La politica è ancora docile alla funesta influenza di una residua corrente giacobina, e non avrà l’ardimento di una riforma radicale. Tuttavia, come si è detto, il coraggio di Renzi è già una buona notizia. Speriamo che abbia la forza e la costanza di tradurlo in una esecuzione efficace. Giustizia: intercettazioni, quando è giusta la pubblicazione di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 24 settembre 2015 Il testo di modifiche al processo penale approvato ieri dalla Camera è rimasto a lungo bloccato sullo scoglio duro delle intercettazioni, che, si ritiene, troppo spesso vengono pubblicate. L’intenzione di limitarle è stata accompagnata da un’eccessiva semplificazione del problema, come si è visto sulla questione che, in mancanza di accordo nella maggioranza, ha spinto a non sciogliere il nodo e dar delega al governo. Trovi il governo la soluzione, se non la troverà il Senato che ora esaminerà il provvedimento Si tratta del modo di selezionare, tra le conversazioni intercettate, quelle utili al processo cancellando le altre. A quella selezione è legato anche il regime della pubblicabilità. V’era alla Camera chi voleva eliminare la attuale udienza in cui le parti esprimono il loro parere prima che il giudice decida. Ma il processo equo è retto da un principio costituzionale essenziale, quello del contraddittorio. Il giudice non può decidere se non dopo avere sentito le parti, il pubblico ministero, gli avvocati delle parti civili, gli avvocati degli imputati. Sarebbe impensabile che il giudice da solo scegliesse ciò che serve o non serve al processo e, pensando che sia irrilevante, escludesse questa o quella conversazione. Perché la decisione del giudice tenga conto degli argomenti di tutte le parti, occorre trovare il modo di far loro conoscere le conversazioni intercettate e poi raccogliere le loro opinioni sull’utilità di ciascuna. Ma, si dice, l’udienza con la partecipazione delle parti fa scappare fuori dell’ufficio del giudice conversazioni che, essendo inutili al processo, dovrebbero essere cancellate. Se troppe persone ne vengono a conoscenza, diviene impossibile garantire il segreto o scoprire chi lo ha violato. Tuttavia qualunque procedura venga immaginata, una cosa è certa. Non è possibile selezionare le conversazioni intercettate senza che il giudice che decide senta tutte le parti, dopo che queste ne sono state messe a conoscenza. Non solo su questo punto occorrerebbe maggiormente considerare che l’ascolto e la registrazione delle comunicazioni che intercorrono tra le persone, si pongono all’incrocio di esigenze numerose e confliggenti. La Costituzione riconosce come inviolabile la libertà e la segretezza di ogni forma di comunicazione. Nel medesimo senso sono le convenzioni internazionali in materia di diritti fondamentali. Ma la stessa Costituzione ammette limitazioni al diritto alla riservatezza delle comunicazioni. Vi sono infatti necessità che giustificano intromissioni da parte della autorità pubblica. La più nota è quella che riguarda le indagini sui reati e i conseguenti processi. La Costituzione non indica espressamente quali siano le ragioni che giustificano l’intercettazione di comunicazioni. Solo impone che a ordinarla sia l’autorità giudiziaria, con un atto motivato, con le garanzie previste dalla legge. Tra quelle garanzie rientrano i limiti posti alla pubblicizzazione delle conversazioni intercettate. Si tratta di limiti e non di divieto assoluto, come dimostra la regola della pubblicità dei processi (che conosce poche eccezioni), che espongono al pubblico fatti anche estremamente delicati che normalmente sarebbero coperti dalla riservatezza cui in linea di principio ha diritto ogni persona. Ma ancora dalla Costituzione emergono altri legittimi limiti alla riservatezza. La libertà della stampa implica evidentemente anche quella di pubblicare fatti e opinioni che le persone preferirebbero mantenere segrete o almeno non conosciute dal grande pubblico. Il giornalista non può offendere la reputazione delle persone, se non violando le regole deontologiche della sua professione e rischiando una querela per diffamazione, ma vi è una grande area di fatti di cui comunque può dare notizia, perché sono di interesse pubblico. Non si tratta di fatti utili a soddisfare la curiosità del pubblico, ma che riguardano personaggi della vita politica, economica, sociale e che in una democrazia il pubblico deve poter conoscere. Ogni divieto di pubblicazione dell’esito delle intercettazioni legittimamente disposte dal magistrato deve confrontarsi con l’obbligo di non interferire con il diritto di dare e di ricevere la maggior informazione possibile su fatti di interesse pubblico. I divieti e le sanzioni che esistono e quelli che introduce la nuova legge non possono entrare in collisione con la libertà di informare e di essere informati. E i fatti di interesse pubblico non sono solo quelli che riguardano gli indagati nel processo penale o che sono penalmente rilevanti, come invece si è preso a dire come fosse ovvio. Non è vero e eccessi e abusi nelle pubblicazioni non dovrebbero consentire soluzioni che impediscano l’uscita di notizie utili, anche se scomode. Spesso vediamo fare scandalo la pubblicazione di certi fatti, piuttosto che i fatti stessi. Giustizia: il Csm avverte le toghe in politica "dopo un periodo dovrete scegliere" di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 24 settembre 2015 L’invito rivolto al Parlamento a fissare i paletti con una legge. Per entrare in politica - dalla porta delle elezioni o dalla finestra degli incarichi governativi - i magistrati devono essere chiamati a rispettare regole più stringenti di quelle attuali. E ancor più per tornare a indossare la toga, una volta terminato il mandato; sempre che sia opportuno perché "nei casi di lunghissima, ininterrotta permanenza negli scranni parlamentari o di governo nazionale o locale, la garanzia al mantenimento del posto di lavoro può probabilmente essere attuata anche con l’attribuzione di una funzione pubblica diversa". Cioè cambiando lavoro. A sostenerlo, dopo anni di dibattiti e norme considerate sempre insufficienti, è il Consiglio superiore della magistratura, con una delibera senza precedenti votata ieri in commissione che ora andrà al vaglio del plenum. Nella quale si affronta uno dei capitoli più annosi dei rapporti tra giustizia e politica: giudici e pm che diventano deputati, sottosegretari o amministratori locali e poi rientrano in tribunale. Ponendo evidenti problemi di immagine e credibilità, nonostante il divieto di tornare a esercitare le funzioni nella regione in cui si è stati eletti, o si è governato. Adesso l’organo di autogoverno delle toghe sollecita il Parlamento a intervenire con misure più stringenti, perché per regolamentare diritti costituzionalmente garantiti è necessaria una legge. Ma al problema da risolvere, il documento (redatto dal presidente della sesta commissione Piergiorgio Morosini, del gruppo di sinistra "Area", e approvato con la sola astensione del "laico" del Pd Giuseppe Fanfani) c’è una premessa. Che riguarda proprio i partiti: sono loro infatti che, per ragioni varie tra cui spicca la "crisi di rappresentanza" e "di autorevolezza" della politica, cercano o comunque ospitano nelle liste e nelle squadre di governo "magistrati noti al pubblico per le indagini svolte o incarichi ricoperti, spesso nel tentativo di lanciare segnali rassicuranti". Operazione resa ancor più "agevole in competizioni dove "liste bloccate" o "chiamate dirette" sono nelle mani dei leader politici, locali o nazionali". Il Csm parla di "cautele" da adottare per "segnare un più rigoroso limite di demarcazione tra le funzioni giurisdizionali e l’attività di rappresentanza politica o di governo che i magistrati hanno diritto di perseguire ed assumere". Sia in entrata che in uscita. Cominciando a imporre anche negli enti locali norme oggi obbligatorie per la candidatura al Parlamento: per esempio il collocamento fuori ruolo, la cui introduzione per legge "appare ormai indifferibile" per evitare il paradosso (oggi possibile) di continuare a fare il giudice in una località mentre si è sindaco da un’altra parte. Ancora, si propone di estendere agli incarichi locali la regola (vigente per le elezioni nazionali) che nei sei mesi precedenti non si sia esercitata la funzione in quel territorio. Anzi, si suggerisce di allungare quel termine per gli incarichi elettivi, e introdurne uno "ancor più robusto" quando si viene "cooptati dal leader regionale o locale di turno", per esempio con l’incarico di assessore; solo così si può "fugare il sospetto che funzioni giudiziarie precedentemente svolte abbiano determinato la "chiamata" del politico". Quanto al rientro in ruolo, oggi i non eletti possono tornare subito a lavorare nel tribunale del luogo dove si sono candidati. Il Csm chiede al Parlamento di introdurre dei limiti, così come di trasformare in legge (e magari "rafforzare") quelli che l’organo di autogoverno già prevede; per gli incarichi elettivi e per quelli di governo a chiamata diretta (oggi, in ipotesi, un magistrato che diventa ministro o presidente del Consiglio, cessato l’incarico può rientrare nello stesso ufficio di provenienza). Infine si pone la questione delle esperienze parlamentari continue e prolungate, che incidono "sulla professionalità e la forma mentis del magistrato", fino a "consigliare o addirittura imporre il transito, alla fine della esperienza politica, nei ranghi dell’Avvocatura dello Stato o della dirigenza pubblica". Non più con la toga del giudice o del pm, insomma. Casi concreti che rientrerebbero in questa situazione non mancano, e riempiono le cronache quotidiane: da Anna Finocchiaro a Michele Emiliano, sono diversi i nomi ancora iscritti nel ruolo della magistratura, dopo lustri e lustri trascorsi in Parlamento o ai vertici delle amministrazioni locali. Giustizia: dieci anni senza Federico Aldrovandi. La madre: "dolore sempre con me" di Antonio Castaldo Il Corriere della Sera, 24 settembre 2015 Manconi: "Un caso che ha cambiato la sensibilità della pubblica opinione". Dieci anni dopo chiede pace. O almeno silenzio. La madre di Federico Aldrovandi, il diciottenne morto a Ferrara per le percosse ricevute durante un controllo di polizia all’alba del 25 settembre del 2005, ha deciso di ricordare il figlio partecipando ad un dibattito pubblico con due rappresentanti sindacali della Polizia di Stato. Circostanza senza molti precedenti per una donna che, per fare luce sulla morte del figlio, si è attirata l’antipatia e le querele di un discreto numero di esponenti della Polizia di Stato. "Ho deciso di chiudere questa vicenda, ma il dolore è sempre con me", spiega al telefono Patrizia Moretti, senza voler aggiungere molto altro. Nel luglio scorso ha annunciato di aver ritirato le querele contro il senatore Carlo Giovanardi, il sindacalista del Coisp Franco Maccari, e l’agente Paolo Forlani, uno dei quattro condannati per la morte del figlio. Sul suo blog ha scritto: "Non spenderò più minuti della mia vita per queste persone e per i loro pensieri. Mi voglio sottrarre a questo stillicidio: una fatica soltanto mia che nulla aggiungerebbe utilmente e concretamente a nessuno se non alla loro ansia di visibilità". Un atto che chiude gli strascichi giudiziari, ma che di certo non cancella le ferite ricevute nel corso di questi anni. Le offese rivolte a lei, definita "faccia di culo" dal poliziotto appena condannato in Cassazione per avergli colposamente ucciso il figlio, o contro lo stesso Federico, chiamato "cucciolo di maiale", infine gli applausi, nella sala di un congresso sindacale, per tre dei quattro agenti condannati. "A dieci anni dalla morte di Federico per il mio ruolo di madre, ma anche per le mie aspirazioni e per la mia attuale visione del mondo, penso che il dedicare anche solo alcuni minuti a persone che disprezzo sia un’imperdonabile perdita di tempo. Non voglio più doverli vedere né ascoltare o parlare di loro". Ha concluso Patrizia Moretti, che in occasione del 25 settembre si concederà un’eccezione, partecipando al dibattito "Tra cittadino e Stato: la violenza è inevitabile?". Con lei ci saranno il presidente della commissione diritti umani del Senato Luigi Manconi, il segretario nazionale dell’Associazione funzionari di Polizia Lorena La Spina ed il segretario generale del sindacato di Polizia Silp Daniele Tissone. Le iniziative a Ferrara. A dieci anni dalla sua uccisione, Federico sarà ricordato il 25 e 26 settembre a Ferrara con una due giorni di musica, parole e immagini, organizzata dall’associazione che porta il suo nome che culminerà nel dibattito con la madre del ragazzo scomparso. "Passati dieci anni - sostiene Manconi - Patrizia Moretti ha deciso che in presenza di una sentenza definitiva che ha sciolto qualsiasi dubbio sulla responsabilità degli appartenenti alle forze dell’ordine, era giunto per lei il momento di pensare ad altro, di dedicarsi ad attività diverse. E soprattutto di proteggere la memoria del figlio da interferenze giudiziarie e controversie pubbliche con persone che, aggiungo io, evidentemente non ritiene degne della sua attenzione. nemmeno per il tempo necessario a proseguire un azione giudiziaria". Il caso Aldrovandi ha aperto un varco nella sensibilità della pubblica opinione, rispetto a casi di abuso di potere che in passato venivano confinate sul fondo delle pagine di cronaca. "Certo, c’è stato il caso di Federico Aldrovandi - aggiunge Manconi - poi la vicenda di Cucchi, Magherini, Uva, Ferrulli, Budroni e altri, che hanno cambiato l’atteggiamento di una parte non so quanto ampia dell’opinione pubblica. E di riflesso stanno cambiando, o almeno mi auguro che cambino, le modalità con cui è attuato il fermo di polizia, intendo la tecnica con cui si immobilizza una persona, rivelatasi così pericolosa e così spesso letale. Nel caso di Magherini, nel marzo del 2014, viene adottata una tecnica che in una circolare dell’arma dei carabinieri era stata esplicitamente sconsigliata appena nel gennaio precedente. Le procedure cambiano, anche se troppo lentamente e troppo contraddittoriamente. Il dolore del padre. "Il pensiero è sempre uno, quello di un’ingiustizia nei confronti di un ragazzino che non aveva fatto nulla di male e che una mattina ha incontrato quattro elementi che alla fine lo hanno massacrato, provocandogli 54 lesioni e spezzandogli il cuore, mentre lui gridava "aiuto, basta"". Lino Aldrovandi, il padre di Federico Aldrovandi, ricorda così, in una conversazione con l’agenzia Adnkronos, il terribile risveglio di 10 anni fa. Erano da poco trascorse le sei di mattina del 25 settembre 2005 quando il cuore di Federico smise di battere. A fermarlo all’alba, in via dell’Ippodromo, dove il ragazzo camminava a piedi da solo alla volta di casa dopo una notte passata fuori con gli amici, sono stati i poliziotti Enzo Pontani, Luca Pollastri, Paolo Forlani e Monica Segatto, tutti condannati per omicidio colposo per eccesso nell’uso legittimo della forza, a 3 anni e 6 mesi di reclusione. Una condanna definitiva, che non ha impedito al Viminale di reintegrare i quattro a distanza di due anni dalla condanna. "Le sentenze sono state molto dolci, le accetto perché bisogna - prosegue papà Lino - ma questa è una storia che non è andata fino in fondo, non credo sia stata fatta piena giustizia". In questi due giorni ferraresi dedicati alla memoria di Federico, ci saranno parole, discorsi, ma anche canzoni e spettacolo (anche Valerio Mastandrea ha annunciato la sua presenza). Un modo divertente di ricordare un ragazzo che amava divertirsi. "La cosa più bella che mi sono sentito dire in questi anni è stata: "Tu e Patrizia - conclude il papà, Lino - ci avete fatto amare molto di più i nostri figli". Sulla sua pagina Facebook, quasi ogni sera, Lino Aldrovandi posta un video, una canzone, un pensiero rivolto al suo Federico, che oggi non c’è più. Ma che per i suoi genitori è come se non fosse mai andato via. Le misure restrittive sugli stupefacenti tornano alla Corte costituzionale di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 24 settembre 2015 Corte di cassazione, Sesta sezione penale, ordinanza 23 settembre 2015 n. 38560. Nuovo dubbio di costituzionalità sulle norme antidroga. Questa volta a sollevare la questione è la Corte di cassazione con l’ordinanza n. 38560 della Sesta sezione penale depositata ieri e sotto osservazione è l’articolo 75 bis del Testo unico, che introduce un pacchetto di misure restrittive che può essere applicato a chi si è reso colpevole di un illecito amministrativo in materia di detenzione di stupefacenti per uso personale. Le misure, che possono essere disposte anche congiuntamente, consistono: a) nell’obbligo di presentarsi almeno 2 volte a settimana presso gli uffici di pubblica sicurezza (polizia o carabinieri) oppure in orari coincidenti con gli ingressi e uscite delle scuole; b) obbligo di rientro e uscita dalla propria abitazione in orari fissi; c) divieto di frequentare determinati locali pubblici; d) divieto di allontanamento dal comune di residenza; e) divieto di guidare qualsiasi veicolo a motore. Su questo intreccio di obblighi e divieti da adesso pesa la tagliola di una futura pronuncia di incostituzionalità. Che dovrebbe essere almeno probabile se la stessa Corte costituzionale tenesse fermo quanto già stabilito nel recente passato. La questione su cui è incentrata l’ordinanza della cassazione è infatti quella dell’eterogeneità della norma rispetto al provvedimento nel quale venne inserita. L’articolo 75 bis, infatti, è stato collocato nel Testo unico dal decreto legge n. 272 del 2005 che aveva per oggetto le Olimpiadi invernali che di lì a poco si sarebbero tenute a Torino. Con la sentenza n. 32 del 2014 la Consulta ha già dichiarato l’illegittimità di alcune norme chiave del Testo unico, anch’essere inserite dal medesimo decreto, conducendo poi alla reintroduzione della distinzione tra droghe "leggere" e "pesanti", rilevando l’evidente "assenza di ogni nesso di interrelazione funzionale tra le disposizioni impugnate e le originarie disposizioni del decreto legge". La modifica adesso rinviata alla Consulta venne aggiunta in sede di conversione del decreto legge, malgrado la Camera avesse già messo in evidenza la sua contrarietà alla necessità di assicurare l’omogeneità dei contenuti dei provvedimenti d’urgenza (peraltro richiamati da un messaggio al Parlamento del Presidente della Repubblica datato 2002). A suo modo poi la stessa titolazione della legge rese evidente la frammentarietà del testo. Il riferimento infatti alle modifiche al testo unico venne aggiunta solo successivamente nel titolo del decreto legge. Una modifica che chiarisce come l’introduzione delle disposizioni antidroga non facesse parte dell’originario perimetro del decreto legge come configurato dal Governo e poi emanato dalla Presidenza della Repubblica. Una mossa che ora la Cassazione bolla come "escamotage" che non ha certo la portata di rendere legittima a posteriori qualsiasi modifica ed estensione delle materie dei decreti legge. Tanto più che, per la giurisprudenza della Corte costituzionale, l’oggetto della legge di conversione deve coincidere con quello del decreto e comunque le nuove norme da essa previste devono possedere un’omogeneità di fondo con quelle del decreto originario. Nella versione primigenia del decreto era sì contenuto all’articolo 4 un riferimento, ma assai labile, alla materia degli stupefacenti, solo però per quanto riguarda l’esecuzione delle pene detentive per gli assuntori abituali. Nei Cie solo in vista dell’espulsione di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 24 settembre 2015 Corte di cassazione - Sezione VI - Sentenza 23 settembre 2015 n. 18748. Stretta della Cassazione sulle proroghe ai tempi di trattenimento nei centri di accoglienza in vista dell’espulsione. La Suprema corte, con la sentenza 18748, chiarisce che il trattenimento non può diventare una sorta di "misura cautelare" ma è finalizzato solo al rimpatrio: se questa non è possibile lo straniero va lasciato libero. I tempi possono essere dilatati solo in caso di un’ eccezionale situazione transitoria, risolta la quale è possibile l’espulsione. Partendo da questo principio accoglie il ricorso di uno straniero, la cui permanenza nel centro era stata prolungata per ben due volte: prima di 30 giorni poi di 60. Alla base del provvedimento, adottato dal giudice di pace, c’era la difficoltà di identificare l’immigrato che aveva dichiarato di essere di nazionalità libica e di etnia Tuareg: affermazione contraddetta dal console libico a Roma. Per il ministero dell’Interno e la Questura restava il dubbio sull’identità dell’uomo. Per la Cassazione non si tratta di una buona ragione. Dagli accertamenti e dai contatti con l’ambasciata erano, infatti, emersi l’opposizione delle autorità libiche al rimpatrio e i rischi che il ricorrente, sostenitore del colonnello Gheddafi, avrebbe corso in caso di rientro in Libia. Circostanze che impedivano il rimpatrio e che non potevano certo essere considerate facilmente rimovibili. Secondo la Cassazione non esisteva "una situazione transitoria di ostacolo al rientro in Libia ma una situazione permanente di impraticabilità dell’evento cui il trattenimento deve essere necessariamente finalizzato e cioè il rientro nel paese di provenienza". Troppo generico il riferimento del giudice di pace agli "accertamenti suppletivi" presso altre ambasciate. Una "vaghezza", in contrasto con i rigidi limiti temporali imposti nel caso di un provvedimento che priva della libertà personale. Inoltre in alcun modo le autorità sono state in grado di spiegare come le ulteriori indagini richieste potessero essere utili per allontanare il ricorrente dal territorio nazionale. In assenza di rigorosi presupposti le due proroghe al trattenimento, slegate dall’espulsione, finiscono per svolgere una funzione genericamente cautelativa e inconciliabile con il limiti costituzionali in tema di restrizione della libertà e con il requisito della proporzionalità chiaramente previsto dalla direttiva europea del 2008 sui rimpatri. Se la truffa ha ad oggetto un contratto nullo la restituzione è immediata di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 24 settembre 2015 Tribunale Genova - Sezione X civile - Sentenza 20 febbraio 2015 n. 653. Il contratto concluso per effetto di truffa di uno dei contraenti in danno dell’altro non è radicalmente nullo, ma solo annullabile, in quanto il dolo costitutivo del delitto di truffa, di cui all’articolo 640 del codice penale, corrisponde al dolo inteso quale vizio della volontà, previsto dall’articolo 1439 del codice civile. Entrambi consistono in artifici e raggiri adoperati dall’agente e diretti ad indurre in errore l’altra parte allo scopo di ottenere l’ingiusto profitto mediante il trasferimento della cosa contrattata. Di conseguenza, la truffa non comporta la nullità del contratto ma può portare solo all’annullamento dello stesso, a meno che non sussistano specifici profili civilistici di nullità, come nel caso della raccolta abusiva di risparmio. Ciò è accaduto nel caso deciso dal Tribunale di Genova con la sentenza 653/2015. I fatti - La vicenda ha visto come protagonisti un operaio, che aveva da poco perso il lavoro, e il suo ex capoturno, dimessosi poco tempo prima. Quest’ultimo aveva convinto il primo a farsi consegnare una somma di 20mila euro in un’unica soluzione con la promessa di corrispondergli un interesse di ben 1.500 euro mensili, senza che fossero precisati però i termini di conservazione e restituzione del capitale, nonché la durata di tale rapporto. L’operaio in seguito ai mancati versamenti effettuati citava in giudizio il suo vecchio capo chiedendo la restituzione delle somme, oltre al risarcimento del danno subito. Dal canto suo, il convenuto si difendeva sostenendo di aver instaurato con il vecchio collega un rapporto costituito in sostanza da un "mandato senza rappresentanza per l’esecuzione di operazioni di investimento ad alto rendimento ed alto rischio", rischio di cui l’attore sarebbe stato ben al corrente. La nullità del contratto - Il Tribunale accoglie la domanda dell’attore e cerca di fare chiarezza in una vicenda alquanto singolare. Per il giudice, le testimonianze di altri colleghi, i quali avevano effettuato lo stesso "investimento", e la presenza di numerosi procedimenti penali per truffa a carico del convenuto dimostrano l’esistenza di una fattispecie assimilabile a quella dell’articolo 640 del Cp il cui elemento costitutivo corrisponde al dolo inteso quale vizio del consenso di cui all’articolo 1439 del Cc. In questo caso, tuttavia, non è necessaria una sentenza costitutiva che faccia venir meno la validità del negozio-truffa, in quanto il contratto concretamente posto in essere è di per sé nullo. In effetti - sostiene il giudice - "l’accordo si presenta ad oggetto assolutamente indeterminato, o comunque altamente atipico e certamente dotato di schema negoziale non meritevole di tutela ex art. 1322 comma 2 c.c. … né risultano poteri di controllo del mandante, né obbligo di rendiconto e neppure paiono chiariti il termine temporale del contratto e la facoltà di recedere dallo stesso, con l’esito finale di una drammatica dispersione della tutela del risparmio". Pertanto, stante la nullità del contratto stipulato la domanda di restituzione è da accogliere accolta senza alcuna difficoltà. La condanna ex articolo 96 del Cpc - Importante è poi la condanna del convenuto al pagamento di ulteriori 4mila euro per responsabilità aggravata, disposta d’ufficio dal giudice ai sensi dell’articolo 96 ultima comma del Cpc. Per il Tribunale, infatti, nel caso di specie si è verificata una "pretestuosa instaurazione o protrazione della causa" con il convenuto che "ha preferito procrastinare il momento della sua esposizione all’esecuzione con una resistenza quasi formale a tutto campo in sede di cognizione, resistenza che ha comunque fruttato, anche in una delle piazze giudiziarie più celeri d’Italia, circa 18 mesi di processo". Avvocati, no alla responsabilità professionale se manca il danno di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 24 settembre 2015 Tribunale di Milano - Sezione 1 - Sentenza 15 aprile 2015 n. 4699. Rischia grosso il cliente che dopo aver receduto dal contratto con il proprio legale lo chiami in giudizio per presunte responsabilità professionali senza però fornire la prova di un danno causalmente collegato all’inadempimento del professionista. Lo ha stabilito il Tribunale di Milano, sentenza 15 aprile 2015 n. 4699, rigettando la domanda di una cliente e condannandola a pagare gli arretrati non versati e le spese legali. Il mandato era stato conferito al professionista in una controversia con l’ex convivente more uxorio volta ad ottenere l’affidamento del figlio e l’assegnazione della casa familiare. La diligenza - La decisione ripercorre i più importanti principi in materia di responsabilità professionale dell’avvocato. In primis, il tribunale ricorda che le obbligazioni dell’avvocato sono, di regola, o bbligazioni di mezzi e non di risultato, in quanto il professionista, assumendo l’incarico, si impegna a prestare la propria opera per raggiungere il risultato desiderato, ma non a conseguirlo. Pertanto, ai fini del giudizio di responsabilità, rileva non già il conseguimento o meno del risultato utile per il cliente, ma le modalità concrete con le quali il professionista ha svolto la propria attività, avuto riguardo, da un lato, al dovere primario di tutelare le ragioni del cliente e, dall’altro, al rispetto del parametro di diligenza a cui è tenuto (Cassazione n. 18612/2013). In particolare, il parametro della diligenza fissato dall’articolo 1176 comma 2 del codice civile è quello del professionista di media attenzione e preparazione, qualificato dalla perizia e dall’impiego di strumenti tecnici adeguati al tipo di prestazione dovuta, salva l’applicazione dell’articolo 2236 del Cc (responsabilità solo per dolo o colpa grave) nel caso di prestazioni implicanti la risoluzione di problematiche tecniche di particolare difficoltà. La componente fiduciaria - Sul punto, la Suprema Corte ha precisato che: "la responsabilità professionale dell’avvocato deriva dall’obbligo di assolvere, sia all’atto del conferimento del mandato che nel corso dello svolgimento del rapporto (anche) ai doveri di sollecitazione, dissuasione ed informazione del cliente; a rappresentare tutte le questioni di fatto e di diritto, comunque insorgenti, ostative al raggiungimento del risultato, o comunque produttive del rischio di effetti dannosi; di chiedergli gli elementi necessari o utili in suo possesso; a sconsigliarlo dall’intraprendere o proseguire un giudizio dall’esito probabilmente sfavorevole" (Cass. 24544/2009). Il contratto, infatti, è caratterizzato da una forte componente fiduciaria, con la necessaria conseguenza che l’assistito rimette al suo difensore le scelte che quest’ultimo è tenuto ad espletare, con gli strumenti e le strategie difensive che ritiene più opportuni, purché siano volte a tutelare le ragioni della parte. Dolo o colpa grave - E ancora: "l’avvocato deve considerarsi responsabile nei confronti del cliente in caso di incuria o di ignoranza di disposizioni di legge ed, in genere, nei casi in cui per negligenza o imperizia compromette il buon esito del giudizio, mentre nei casi di interpretazioni di leggi o di risoluzione di questioni opinabili, deve ritenersi esclusa la sua responsabilità a meno che non risulti che abbia agito con dolo o colpa grave" (n. 16846/2005). Onere probatorio - Quanto al riparto dell’onere probatorio, il cliente che sostiene di aver subito un danno per l’inesatto adempimento del mandato professionale del suo avvocato, ha l’onere di provare l’avvenuto conferimento del mandato difensivo, di dedurre la difettosa o inadeguata prestazione professionale, di provare l’esistenza del danno e il nesso di causalità tra la difettosa o inadeguata prestazione professionale e il danno (n. 9238/2007). La prova del danno - Entrando nel merito della controversia, il cliente aveva contestato, tra l’altro, la mancata proposizione del reclamo avverso la decisione del tribunale dei minorenni che nell’assegnarle la casa familiare aveva escluso il pian terreno. Secondo la sentenza per determinare la responsabilità professionale "non è sufficiente la prova della condotta inadempiente della professionista" ma è necessario anche dimostrare il danno e il nesso di causalità con la condotta inadempiente, cosa non avvenuta. Del resto, la cliente con l’assistenza di un altro difensore, ha poi proposto reclamo incidentale contro il provvedimento, comunque impugnato dall’ex, ottenendone la riforma in senso favorevole. Pertanto, "nessun pregiudizio le è derivato dal mancato proponimento del reclamo principale". L’autonomia del professionista - Ad ogni modo, prosegue la sentenza, nella scelta di proporre o meno una impugnazione, il professionista è anche tenuto a valutarne l’opportunità in relazione all’intero contenuto del giudizio. E nel caso di specie la donna era risultata pressoché totalmente vittoriosa nel procedimento di primo grado (se si esclude la mancata assegnazione del locale al piano terreno dell’abitazione) e la proposizione del reclamo principale avrebbe ragionevolmente provocato l’impugnazione incidentale (tant’è che poi come detto il reclamo è stato proposto dall’ex). Il recesso - Accolta invece la domanda riconvenzionale del legale in quanto il cliente è sempre tenuto al pagamento dei compensi dovuti per l’opera svolta dal prestatore sino alla data del recesso, producendo esso effetti ex nunc. Mentre non è obbligato al pagamento dei compensi per l’attività non ancora espletata. E, contrariamente a quanto ritenuto dall’attrice, il cliente non può invocare nessun diritto alla restituzione di quanto pagato in esecuzione del contratto. In definitiva, respinte le richieste di 50mila euro per responsabilità professionale e di 5.600 euro per le parcelle già pagate, la donna è stata condannata a 2.100 euro per le prestazioni non saldate e 13mila euro per le spese di lite sostenute dal professionista e dalla sua assicurazione. Il papà perde l’affido del figlio se la nuova compagna è incinta di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 24 settembre 2015 Corte di cassazione - Sezione VI civile - Sentenza 23 settembre 2015 n. 18817. L’attesa di un figlio dalla nuova compagna, nel frattempo divenuta convivente, legittima il rovesciamento del provvedimento con cui il tribunale aveva collocato, in regime di affidamento condiviso, il figlio presso il papà. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, sentenza 18817/2015, confermando la motivazione con cui la Corte di appello di Bologna aveva paventato il rischio della perdita di centralità del bambino per l’arrivo del nascituro. Il caso - In primo grado, dunque, il tribunale aveva disposto l’affidamento condiviso presso il padre incaricando i servizi sociali del comune di Rimini di concordare con quelli di Roma la programmazione e la gestione delle visite alla madre che nel frattempo si era trasferita nella capitale. In appello, però, il giudice territoriale, confermando l’affidamento condiviso, aveva disposto il trasferimento in quanto "in un momento per lui particolarmente importante, quale quello dell’avvio alla scolarizzazione, la permanenza stabile nel nucleo familiare della madre, composto da un figlio maggiorenne avuto da un precedente matrimonio, risultava maggiormente tranquillizzante, costituendo il minore l’unico centro di attenzione, cura ed interesse degli altri congiunti, laddove le attenzioni del padre sarebbero state prevalentemente concentrate verso il nascituro". Seguiva un’attenta regolamentazione delle visite al padre sempre con il raccordo dei servizi sociali. La motivazione - Un ragionamento condiviso dalla Suprema corte secondo cui "l’individuazione del genitore collocatario deve aver luogo sulla base di un giudizio prognostico circa la capacità dello stesso di crescere ed educare il figlio nella nuova situazione determinata dal fallimento dell’unione". In questo senso, confermato il giudizio di "adeguatezza del rapporto delle parti con il minore e di sostanziale equivalenza delle rispettive capacità genitoriali", il decreto impugnato ha ritenuto "preferibile la collocazione presso la madre, procedendo ad una comparazione tra le caratteristiche del nucleo familiare della stessa costituito da altri due figli in età ormai adulta, e quelle della famiglia del padre, in attesa della nascita di un altro figlio, ed attribuendo una portata decisiva alle maggiori attenzioni di cui il minore avrebbe potuto costituire oggetto nel primo ambiente". È invece "incompatibile con l’instaurazione di regolari abitudini di vita e con lo svolgimento delle attività scolastiche e ricreative" la richiesta del papà di trascorrere insieme un maggior numero di giorni "o periodi di durata superiore". Infatti, l’intensità del rapporto, continua la Cassazione, è valutabile "non solo e non tanto in termini quantitativi, ma anche e soprattutto in termini qualitativi, in relazione all’impegno profuso dal genitore". In questo consisterebbe la "c.d. bigenitorialità" intesa "quale presenza comune di entrambe le figure parentali nella vita del figlio", per la cui realizzazione "non è strettamente necessaria una determinazione paritetica del tempo da trascorrere con il minore", risultando invece sufficiente "una stabile consuetudine di vita e di salde relazioni affettive con il genitore". Nelle zone residenziali il chiosco rumoroso sottostà ai limiti di tutela della quiete pubblica di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 24 settembre 2015 Corte di Cassazione - Sezione III penale - Sentenza 23 settembre 2015 n. 38523. Con il superamento dei 45 decibel nelle immissioni sonore scatta il reato di disturbo delle attività e del riposo delle persone per il gestore del chiosco che, per quanto si trovi su un noto e turistico lungomare, rientri però in un’area comunale classificata a destinazione "prevalentemente residenziale". La Corte di cassazione con la sentenza n. 38523/15, depositata ieri, pur rigettando il ricorso per inammissibilità non manca di svolgere osservazioni interessanti sull’inquadramento della fattispecie penale della condotta stigmatizzata dai giudici di merito. La fattispecie penale - Dichiarata dai giudici di appello la prescrizione del reato di cui all’articolo 659 del Codice penale all’autore del disturbo veniva comunque comminato in via provvisionale il pagamento di 2mila euro a ciascuna delle parti civili, in attesa della determinazione in autonomo giudizio dell’esatta quantificazione del danno. Veniva comminata l’ammenda, pari a 300 euro. Nel ricorso il gestore aveva comunque contestato l’applicabilità del primo comma dell’articolo 659 del Codice penale, ritenendo corretto l’inquadramento della vicenda nell’ambito del secondo comma che riguarda l’esercizio di mestieri normalmente rumorosi quale appunto sarebbe l’esercizio commerciale di un chiosco. Ma come chiarisce la Cassazione il rispetto dei limiti delle immissioni rumorose legate a un mestiere è indipendente dalla collocazione che invece qui rileva pienamente. Quel che sottolineano i giudici è che si rientra nella previsione del comma 1 che appunto punisce chi nell’emettere rumore superi il valore massimo consentito in orario nootturno per le zone prevalentemente residenziali quali quella del Poetto di Cagliari. La norma sui decibel - Inoltre, il ricorrente contestava nel caso specifico che fossero state applicate le classificazioni previste dal Comune nel 1994 con apposita delibera, cioè prima del Dpcm 14 novembre 1997 che attua la vigente legge quadro 447/1995. Ma la Cassazione sul punto precisa al ricorrente che anche non volendo tener conto di tale classificazione nel caso specifico erano comunque stati superati i limiti dei 45 decibel di immissioni rumorose in linea con quanto stabilisce il Dpcm del 1997 per le zone di classe II cioè prevalentemente residenziali. Il delitto di riduzione in schiavitù. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 24 settembre 2015 Reati contro la persona - Riduzione in schiavitù - Elemento materiale - Delitto a fattispecie plurima - Requisito dello sfruttamento della vittima. Il delitto di riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù è a fattispecie plurima ed è integrato alternativamente dalla condotta di chi esercita su una persona poteri corrispondenti a quelli spettanti al proprietario, che, implicando la "reificazione" della vittima, ne comporta "ex se" lo sfruttamento, ovvero dalla condotta di riduzione o mantenimento di una persona in stato di soggezione continuativa, in relazione alla quale, invece, è richiesta la prova dell’ulteriore elemento costituito dalla imposizione di prestazioni integranti lo sfruttamento della vittima. • Corte di Cassazione, sezione V, sentenza 11 marzo 2015 n. 10426 Reati contro la persona - Riduzione in schiavitù - Reato di riduzione in schiavitù - Contenuto della previgente formulazione. La previsione di cui all’articolo 600 cod. pen., nella formulazione precedente la riforma operata dalla legge n. 228 del 2003, contemplava un reato a condotte alternative (riduzione in schiavitù o in condizione analoga alla schiavitù), integrato dalla consumazione anche di una sola di esse, e pur non definendo in modo dettagliato le condotte vietate soddisfaceva l’esigenza di tassatività della legge penale, in virtù del rinvio dell’elemento normativo "condizione analoga alla schiavitù" alla situazione di fatto indicata nella convenzione di Ginevra del 25 settembre 1926, resa esecutiva con R.D. n. 1723 del 1928, che definisce lo stato di schiavitù quello di "un individuo sul quale si esercitano gli attributi del diritto di proprietà o di uno di essi".Ne deriva che è riconducibile all’area previsionale dell’articolo 600 cod. pen. previgente la condotta di colui che eserciti i poteri tipici del diritto di proprietà su minori, provenienti da altri Paesi, assicurandone l’ingresso in Italia con false generalità, contro il pagamento di un prezzo e, quindi, trattandoli alla stregua di merci da collocare sul mercato. • Corte di Cassazione, sezione V, sentenza 15 gennaio 2015 n. 1781. Reati contro la persona - Riduzione in schiavitù - Servitù - Stato di soggezione continuativa - Contenuto. Ai fini della configurabilità del reato di riduzione in schiavitù, è necessaria la costituzione, da parte dell’agente, dello stato di soggezione continuativa in capo alla persona offesa, che costituisce requisito fondante della fattispecie incriminatrice nonché strumento agevolatore della ulteriore condotta costrittiva, aggravandone il disvalore. Detto requisito deve essere inteso o in senso cronologico di durata prolungata nel tempo o, comunque, nel senso di una certa permanenza, dovendosi escludere dal paradigma normativo di cui all’articolo 600 cod. pen., la condotta violentemente costrittiva che esaurendosi in breve tempo non acquisisca neppure l’idoneità a determinare lo stato di dipendenza psicologica della vittima e non riesca, comunque, ad intaccarne i processi volitivi in modo tale da comportare la rinuncia, anche temporanea, alle proprie fondamentali prerogative in materia di libertà. • Corte di Cassazione, sezione V, sentenza 21 febbraio 2014 n. 8370. Riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù - Condotte incriminate - Riduzione in schiavitù mediante approfittamento di inferiorità fisica o psichica - Caratteristiche (Cod.pen. articolo 600 ) La previsione di cui all’articolo 600 del Cod.pen. configura un delitto a fattispecie plurime, integrato alternativamente dalla condotta di chi esercita su una persona poteri corrispondenti a quelli spettanti al proprietario o dalla condotta di colui che riduce o mantiene una persona in stato di soggezione continuativa costringendola a prestazioni lavorative o sessuali ovvero all’accattonaggio o, comunque, a prestazioni che ne comportino lo sfruttamento. Quest’ultima fattispecie configura un reato di evento a forma vincolata in cui l’evento, consistente nello stato di soggezione continuativa in cui la vittima è costretta a svolgere date prestazioni, deve essere ottenuto dall’agente alternativamente, tra l’altro, mediante violenza, minaccia, inganno, abuso di autorità ovvero attraverso l’approfittamento di una situazione di inferiorità fisica o psichica o di una situazione di necessità ovvero, ancora, mediante promessa o dazione di somme di denaro o di altri vantaggi a chi ha autorità sulla persona. Ne deriva che, perché sussista la costrizione a una delle condotte previste dalla norma nei confronti di un soggetto che si trovi in una situazione di inferiorità fisica o psichica ovvero in una situazione di necessità, è sufficiente l’approfittamento di tale situazione da parte dell’autore, laddove, semmai, l’uso della violenza, della minaccia, dell’inganno o dell’abuso di autorità, può accompagnarsi o no al suddetto approfittamento, di cui, anzi, rappresenta il sintomo più evidente, mentre assume il connotato di modalità necessaria della condotta finalizzata alla riduzione o al mantenimento dello stato di soggezione solo nei confronti di colui che non si trovi in una situazione di inferiorità fisica o psichica o di necessità. • Corte di Cassazione, sezione V, sentenza 28 settembre 2012 n. 37638. Reati contro la persona - Riduzione in schiavitù - Elemento materiale - Delitto a fattispecie plurima. La previsione di cui all’articolo 600 cod. pen. (riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù) configura un delitto a fattispecie plurima, integrato alternativamente dalla condotta di chi esercita su una persona poteri corrispondenti a quelli spettanti al proprietario o dalla condotta di colui che riduce o mantiene una persona in stato di soggezione continuativa costringendola a prestazioni lavorative o sessuali ovvero all’accattonaggio o, comunque, a prestazioni che ne comportino lo sfruttamento. • Corte di Cassazione, sezione III, sentenza 24 giugno 2010 n. 24269. Reati contro la persona - Riduzione in schiavitù - Delitto di alterazione di stato e non di riduzione in schiavitù - Ragioni. Non integra gli estremi del delitto di riduzione in schiavitù - ma quello di alterazione di stato (articolo 567, comma secondo, cod. pen.) - la "cessione", "uti filius", di un neonato ad una coppia di coniugi, in quanto la fattispecie incriminatrice di cui all’articolo 600 cod. pen. è connotata dalla finalità di sfruttamento dell’uomo sull’uomo, nel senso che, in tal caso, il soggetto attivo, non solo esercita un potere corrispondente al diritto di proprietà, ma deve anche realizzare la riduzione o il mantenimento in stato di soggezione del soggetto passivo ed entrambe le condotte sono preordinate allo scopo di ottenere prestazioni lavorative, sessuali, di accattonaggio nelle quali si concreta lo sfruttamento dello schiavo: il che non ricorre nell’ipotesi in cui i soggetti attivi si propongono di inserire, sia pure "contra legem", il neonato "compravenduto" in una famiglia che non è quella naturale. • Corte di Cassazione, sezione V, sentenza 6 agosto 2008 n. 32986. Reati contro la persona - Riduzione in schiavitù - Elementi costitutivi - Finalità di sfruttamento - Accattonaggio - Introiti destinati a beneficio delle vittime - Rilevanza - Esclusione. Nel reato di riduzione in schiavitù, la finalità di sfruttamento, che distingue la fattispecie di cui all’articolo 600 cod. pen. da ogni altra forma di inibizione della libertà personale, non è esclusa dall’eventualità che un margine degli introiti dell’accattonaggio vada a beneficio delle persone offese dal reato (determinante, è lo stato di soggezione in cui queste ultime versano, essendo sottoposte all’altrui potere di disposizione, che si estrinseca nell’esigere, con violenza fisica o psichica, prestazioni sessuali o lavorative, accattonaggio od altri obblighi "di fare"). • Corte di Cassazione, sezione V, ordinanza n. 1 dicembre 2005 43868. Milano Cimbro (Pd); per detenuta incinta Martina Levato trattamento crudele e degradante di Monica Guerci Il Giorno, 24 settembre 2015 "Trattamento crudele e degradante". Così Eleonora Cimbro, deputata bollatese Pd definisce i giorni di carcere trascorsi nell’ultimo mese di gravidanza da Martina Levato, la studentessa universitaria condannata in primo grado a 14 anni di reclusione per l’aggressione con l’acido ai danni di Pietro Barbini, ex compagno del liceo Parini. Il 15 agosto Martina è diventata mamma, il tribunale deciderà il 30 settembre a chi sarà affidato il bambino. "Chiusa in una cella multipla a San Vittore, i servizi igienici con la turca e le temperature che hanno toccato i 40 gradi. Non le è stato concesso di trascorre quest’ultima fase della maternità in una struttura adeguata". Cimbro e Anna Origgi, ex colleghe del papà di Martina, Vincenzo Levato, ci mettono la faccia e si presentano davanti ai giornalisti convinte e battagliere con le foto della ragazza dell’acido in mano per mostrarla "quando era davvero lei. Prima che incontrasse Alexander Boettcher, rotonda, sorridente e solare. È questa la ragazza che abbiamo conosciuto noi". Senza mai abbandonare la famiglia di Martina, dopo tanti anni di stretta collaborazione, Cimbro e Origgi vogliono che di lei si abbia anche un’altra immagine "non solo quella mediatica della ragazza dell’acido". Per lei chiedono garantismo. E per il piccolo il diritto ad avere la sua famiglia. Per questo Origgi all’indomani del parto si era fatta portavoce di una lettera aperta scritta dai professori colleghi di Vincenzo. E lunedì Cimbro ha presentato in Parlamento un’interrogazione. La deputata bollatese si è rivolta ai Ministri della Giustizia e dell’Interno. Troppo "forte è il clamore mediatico sul caso. Il dibattito pubblico è andato intensificandosi a seguito della preclusione, ordinata dal tribunale dei minori milanese, della possibilità per la donna di tenere con sé il figlio neonato, con un provvedimento immediatamente esecutivo della procura della Repubblica presso il tribunale per i minorenni di Milano subito dopo il parto". Cimbro spiega che il problema non è solo il processo: "Lascia molto perplessi la decisione di dare alla madre il bambino solo un’ora al giorno, senza consentirle di allattarlo, e ancor più la sua giustificazione, evitare che si crei quel legame speciale che unisce le mamme ai loro piccoli invece di consentire che la madre si occupi del figlio per alcuni mesi, almeno tre, anche allattandolo. Non ovviamente da sola, ma affiancandola ad altre figure di accudimento". Nel frattempo occorrerebbe individuare in tempi rapidi a chi dare in affidamento o in adozione il neonato, eventualmente effettuando sulla madre una perizia psicologica per valutare se e secondo quali modalità possa continuare a mantenere contatti con il figlio. Il tutto in una struttura protetta, l’Icam. La battaglia potrebbe arrivare "davanti alla Corte dei diritti umani europea". Firenze: il Papa risponde ai detenuti di Sollicciano "tutti sbagliano, vi sono vicino" di Jacopo Storni Corriere della Sera, 24 settembre 2015 La lettera del Vaticano a Sollicciano. Don Vincenzo: è come se li avesse accarezzati uno ad uno. A Sollicciano, nella solitudine delle loro celle, tanti detenuti ci speravano. Avevano scritto a Papa Francesco una lunga lettera, e speravano che il Pontefice potesse leggerla davvero. "Aiutaci a restare umani" avevano chiesto i reclusi al Pontefice. Sognavano che quelle parole, così sofferte e commoventi, potessero arrivare a destinazione, sulla scrivania di Bergoglio. Nessuno però, avrebbe mai immaginato che il Pontefice rispondesse e così velocemente. E invece il Papa, ancora una volta, ha stupito tutti. "Da oggi si sentiranno meno soli" è stato il commento del cappellano del carcere fiorentino, don Vincenzo Russo. È stato lui a scrivere la lettera insieme ai detenuti il 3 settembre scorso. Ed è stato lui a ricevere la risposta del Pontefice. "È arrivata per raccomandata", racconta don Russo. Il timbro del Vaticano sulla busta bianca, nell’intestazione la data 15 settembre. "Appena ho visto quella busta, ho capito subito che conteneva la risposta del Papa. Conosco la sua sensibilità e la sua vicinanza alla sofferenza degli ultimi. Mi aspettavo che prima o poi avrebbe risposto". Una lettera di poche righe, quella scritta dal Papa, essenziale ma densa di significato. "Tutti noi facciamo sbagli nella vita e tutti noi siamo peccatori" scrive Bergoglio, che esorta i reclusi del carcere fiorentino a non smettere di sperare: "Vi incoraggio a guardare al futuro con fiducia". Non è la prima volta che Bergoglio dimostra la sua attenzione al mondo del carcere. Aveva pranzato coi detenuti di Poggioreale e si era inchinato a baciare i piedi dei reclusi di Rebibbia. Adesso, a poche settimane dal suo arrivo in città, il suo messaggio arriva forte e chiaro anche ai detenuti di Firenze. "Vi sento fraternamente vicini", scrive il Pontefice, che poi aggiunge: "Conosco la situazione non sempre facile delle carceri, pertanto non manco di incoraggiare le comunità ecclesiali a manifestare concretamente la vicinanza materna della Chiesa in questi luoghi di dolore e di redenzione. So che l’Arcidiocesi di Firenze, mediante varie realtà di ispirazione cristiana, opera in questo senso a vostro conforto e sostegno". Un’emozione indimenticabile, anche per don Russo, aprire una lettera firmata da Papa Francesco. Una firma piccolissima, in fondo al testo, tipica del Pontefice: "Queste parole suonano come un’iniezione di fiducia per chi vive quotidianamente lo stato di abbandono in cui versa il carcere. Per i detenuti, questo messaggio è importantissimo, è come se il Papa avesse accarezzato la spalla a ognuno di loro, esortandoli a non mollare, riflettendo sui loro peccati nella consapevolezza che ognuno di questi può essere redento. Nel carcere ci sono poche speranze, poche possibilità di reinserimento e poca fiducia nelle istituzioni. Questo messaggio trasmette un potente incoraggiamento, speriamo adesso che possa segnare l’inizio di una fase nuova". Uno spartiacque che potrebbe segnare la svolta, così il cappellano e i detenuti di Sollicciano vivono questa lettera: "Ancora una volta, il Papa ha dimostrato il suo affetto per i reclusi, adesso speriamo che possa affrontare la questione carcere anche durante la sua visita a Firenze, magari durante la messa allo stadio". Brescia: botte e tensione nel carcere di Canton Mombello, la Cgil contro la direttrice bsnews.it, 24 settembre 2015 In seguito all’ennesimo episodio di tensione all’interno del carcere di Canton Mombello, poi sfociato in un tentativo di aggressione verbale e fisica da parte di alcuni detenuti ai danni di un’agente della Polizia Penitenziaria, la Cgil con una nota ha chiesto "ai vertici dell’Amministrazione centrale un "cambio di rotta" sollecitando, contestualmente, i politici bresciani a farsi portavoce del grave disagio e criticità che sta vivendo il carcere di Canton Mombello dovuto non solo alla vetustà della struttura ma anche e principalmente alla gestione complessiva". Di seguito il testo integrale della nota. "Siamo a denunciare ancora una volta un nuovo e grave episodio accaduto nella Casa Circondariale di Brescia lunedì scorso, l’ennesimo dopo le maxi risse denunciate nei mesi precedenti. Si tratta di un tentata aggressione verbale e fisica da parte di alcuni detenuti ad un agente della polizia penitenziaria che allocava un nuovo giunto (persona appena arrestata) all’interno di una cella di una sezione. Anche in questo caso ci sono stati momenti di forte concitazione e di alta tensione fra agenti e detenuti. La reiterazione di questi fatti pone l’ accento sulle modalità di gestione dell’Istituto Penitenziario che noi pensiamo siano da rivedere. Nel carcere si respira un clima "pesante", poiché gli agenti si trovano a gestire sezioni detentive con pochi elementi di certezza, con una esposizione continua al pericolo e all’incertezza per la propria incolumità. E come se non bastasse, l’Autorità dirigente e il comandante gestiscono il personale di Polizia Penitenziaria ricorrendo continuamente allo strumento disciplinare, creando, di conseguenza, una fonte di forte stress in seno ai medesimi. Ci chiediamo se in questa situazione si possa parlare di benessere lavorativo del personale? E speriamo che le presunte esternazioni fatte dall’A.D. in occasione degli Stati generali dell’esecuzione penale avuti luogo in Roma nella giornata del 09.09.2015 in presenza del Ministro della Giustizia e dei vertici dell’Amministrazione Penitenziaria, ove avrebbe sostenuto di non avere tempo da dedicare ai detenuti per i troppi problemi della Polizia Penitenziaria e per il tempo "sprecato" per le relazioni sindacali, vengano immediatamente smentite. In una "cornice" così critica, e ormai insostenibile, chiediamo ai vertici dell’Amministrazione centrale un "cambio di rotta" sollecitando, contestualmente, i politici bresciani a farsi portavoce del grave disagio e criticità che sta vivendo il carcere di Canton Mombello dovuto non solo alla vetustà della struttura ma anche e principalmente alla gestione complessiva". Bergamo: ok ai colloqui più lunghi per detenuti. Polizia penitenziaria "ma i nostri orari?" L’Eco di Bergamo, 24 settembre 2015 Avvio dello stato di agitazione da parte del personale di polizia penitenziaria in servizio presso la casa circondariale di Bergamo, con un presidio presente all’esterno mediante l’esposizione delle bandiere davanti all’ingresso dell’Istituto. Lo dichiarano il Sappe, la Uil-Pa Penitenziari, il Sinappe, la Fns Cisl e la Cgil Fp, sindacati rappresentativi della categoria di lavoratori del comparto sicurezza. "Motivo è il perdurare delle violazioni delle norme contrattuali, proprie del Comparto Sicurezza, in essere presso la Direzione della Casa Circondariale di Bergamo" spiegano in un comunicato. "L’amministrazione penitenziaria ha indicato, alle proprie articolazioni sul territorio nazionale, disposizioni volte a realizzare un significativo miglioramento del servizio reso all’interno delle strutture carcerarie. Nello specifico, recentemente la Direzione dell’Istituto di Bergamo ha predisposto un’estensione delle giornate e degli orari di colloqui concessi ai detenuti e ciò al fine di favorire gli incontri affettivi con i propri congiunti". Una decisione che ha avuto il plauso dei lavoratori che però contestano il mancato rispetto del contratto "che regola il rapporto di lavoro del personale di polizia penitenziaria, in materia di contrattazione decentrata". "Ciò in concreto ha comportato il totale disconoscimento, di fatto, dell’obbligo al confronto preventivo con le organizzazioni sindacali, in materia, trattandosi di modifiche incidenti sull’organizzazione del lavoro - continua il comunicato delle organizzazioni sindacali -. Ampliare gli orari e le giornate di colloqui, anche in giornate festive prelude, infatti, la revisione della programmazione dei servizi del personale di polizia penitenziaria, ricalibrando la fruizione dei riposi settimanali, assicurando l’equa ripartizione dei carichi di lavoro in orari straordinari e/o in giornate festive". I sindacati informano che la manifestazione di protesta andrà avanti ad oltranza. Napoli: Sappe; detenuto distrugge la cella nell’Istituto Penale Minorile di Nisida napolitoday.it, 24 settembre 2015 L’episodio reso noto da Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe. "È andato in escandescenza causando danni per migliaia di euro e provocandosi lesioni personali". Un detenuto extracomunitario maggiorenne, con problemi mentali, trasferito da qualche settimana da una struttura penitenziaria per adulti all’Istituto Penale Minorile di Nisida, è andato in escandescenza e distrutto completamente la cella che gli era stata assegnata. L’episodio è stato reso noto da Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe. Secondo la ricostruzione resa nota dal sindacato, "a seguito di una normale perquisizione il nord africano, già noto per essere evaso a Roma, liberandosi della scorta che lo accompagnava in Tribunale, sia andato in escandescenza distruggendo completamente la cella che gli era stata assegnata, causando danni per migliaia di euro e provocandosi lesioni personali". "Solo grazie alla professionalità del personale di Polizia Penitenziaria in servizio - sottolinea Capece - si è riusciti a ripristinare la sicurezza e riportare alla calma l’extracomunitario con problemi psichiatrici". Il Sappe contesta inoltre le conseguenze della legge che ha voluto la detenzione, presso i carceri minorili, anche dei detenuti maggiorenni. Il sindacato sostiene che "gli episodi di violenza commessi da detenuti maggiorenni nelle strutture minorili siano in aumento e che a questo punto sarebbe opportuno rivalutare gli effetti applicativi delle norme". Imperia: Sappe; detenuto con problemi psichiatrici tenta il suicidio in cella riviera24.it, 24 settembre 2015 "Mi chiedo quando si porrà la parola fine agli eventi critici che caratterizzano la Liguria penitenziaria ed il più delle volte causati da detenuti con problemi psichiatrici. Esterna amarezza la segreteria regionale del Sappe il maggiore sindacato di categoria - nel prendere atto dell’ennesimo evento critico avvenuto all’interno dei reparti detentivi dell’istituto di Imperia - La cronaca di quel carcere, non ancora conclusa per il tentativo di evasione con aggressione ad un poliziotto da parte di un detenuto straniero, riemerge questa volta con un tentato suicidio sventato, per puro caso, dal poliziotto di turno. Un detenuto italiano sottoposto a detenzione per reati di furto, ha tentato il suicidio mediante impiccagione. Il fatto è avvenuto intorno a mezzanotte odierne (23 settembre) orario in cui avviene il cambio turno del personale quindi un momento in cui la vigilanza è allentata. Il detenuto è stato salvato in extremis ma la gravità delle sue condizioni hanno reso necessario il ricovero urgente presso l’ospedale di Imperia. Un’altra vita umana salvata - commenta Lorenzo - ma c’è un dramma nel dramma che s’individua nell’organico della Polizia Penitenziaria. Nel turno serale e notturno solo 3 agenti presenti nel reparto detentivo ed 1 al controllo monitor. Per il Sappe è aberrante consentire che il poliziotto di turno, per mancanza di personale, possa effettuare ben 16 ore di servizio continuativo, unica soluzione per trasportare e vigilare il detenuto ricoverato presso l’ospedale. Classico esempio della coperta corta, per coprire la testa scopriamo i piedi. continua il segretario regionale Lorenzo Se questo coincide con il concetto di assicurare sicurezza nel carcere di Imperia dobbiamo solo vergognarci. È follia consentire che un detenuto, che per ben tre volte ha tentato il suicidio, permanga in una struttura non idonea per la sua patologia. Se il detenuto avesse portato a compimento il suo gesto, sicuramente la Procura avrebbe indagato il poliziotto di servizio, invece le responsabilità sarebbero da ricercare nei vertici dell’Amministrazione che non attenziona questi fenomeni. Non si può continuare così - afferma Lorenzo - il personale di Polizia Penitenziaria di Imperia non ha più i numeri per assicurare sicurezza con una carenza di 17 unità che gravano negativamente su tutta l’organizzazione, già penalizzata dall’assenza di un direttore titolare, senza vice comandante e senza ispettori. Sino ad oggi nell’istituto di Imperia la Polizia Penitenziaria ha fronteggiato 60 eventi critici, sventato 7 suicidi, 32 autolesionismi e 4 risse. Se questo corrisponde o meno agli standard europei o italiani, devono avere il coraggio di dirlo pubblicamente". Milano: sabato presso la Loggia dei Mercanti la terza edizione de "I Frutti del carcere" mi-lorenteggio.com, 24 settembre 2015 Sabato 26 settembre 2015 una giornata per conoscere il mondo del lavoro nelle carceri, dentro e fuori, prima e dopo. Una vetrina di prodotti, una serie di incontri, un’occasione di conoscenza, di informazione e di raccolta fondi a sostegno dell’economia carceraria. "Per i diritti", associazione di promozione sociale, organizza "I Frutti del carcere", una giornata per conoscere il mondo del lavoro nelle carceri, dentro e fuori, prima e dopo. Una vetrina di prodotti, una serie di incontri, un’occasione di conoscenza, di informazione e di raccolta fondi a sostegno dell’economia carceraria. "I Frutti del carcere" è il primo evento in città per conoscere il mondo del lavoro dei detenuti, per scoprire dove, come e perché acquistare prodotti e servizi provenienti dal mondo carcerario. Perché il lavoro è lo strumento più efficace di reinserimento nella società, per la formazione e per la professionalizzazione che offre, e anche una grande opportunità di scambio con la città e le persone. Mobili, gioielli, accessori, abiti, pane, focacce, fiori e piante, ma anche giardinieri, liutai, artigiani e operai che lavorano per aziende e a domicilio. Prodotti alimentari e artigianali e servizi di alta qualità; produzioni che ambiscono a confrontarsi - sul mercato - alla pari con i concorrenti "di fuori". Contemporaneamente all’esposizione, "I Frutti del carcere" presenta una serie di incontri e dibattiti sui temi della detenzione, del lavoro carcerario e delle misure alternative. Quest’anno i dibattiti toccheranno i temi del reinserimento e dell’effettiva efficacia della carcerazione. Programma. - esposizione: dalle 10 alle 18.30 -spazio incontri: h. 10.30 "Carcere e Lavoro: opinioni a confronto" - faccia a faccia tra magistrati, detenuti, operatori del sistema penitenziario h. 13.30 "La cultura come cibo dell’anima" - sintesi dei lavori di studenti e detenuti del corso universitario "Le forme della mediazione dei conflitti", che si è svolto all’interno del carcere di Opera a cura dell’Università Milano Bicocca h. 16.00 "Superare il carcere?" - dibattito sull’efficacia della detenzione. L’iniziativa ha ottenuto il patrocinio del Comune di Milano ed è stata inserita nel calendario ufficiale di Expo in Città. Taranto: Valerio Bispuri incontra i detenuti, la fotografia come studio antropologico agoramagazine.it, 24 settembre 2015 Dal 24 al 27 settembre, il fotoreporter Valerio Bispuri sarà a Taranto, per presentare il libro "Encerrados", dialogare con i detenuti della Casa Circondariale "Carmelo Magni" e tenere un workshop. Modererà gli incontri, fortemente voluti dalla fotoamatrice Alessandra Avalli, Luigi Pignatelli. Presentazione del libro "Encerrados" alla Libreria Mondadori. Giovedì 24 settembre, a partire dalle ore 20.00, la Libreria Mondadori di Taranto, sita in Via De Cesare #35, ospita la presentazione del libro fotografico "Encerrados" di Valerio Bispuri, edito da Contrasto e prefatto da Roberto Saviano, che scrive "Encerrados non è un libro sulle carceri; è un libro sulla libertà perduta, sulla libertà mai avuta. Bispuri ha mostrato l’orma umana in quelle persone". Il fotoreporter professionista romano, che ha ottenuto numerosi premi e riconoscimenti internazionali, parlerà del suo reportage durato dieci anni in 74 carceri del Sudamerica, in dialogo con Luigi Pignatelli e Gianluca Lamarca. L’incontro sarà l’occasione per scoprire il percorso di ricerca intrapreso dal fotografo nel 2002, con l’intenzione e il desiderio di raccontare un continente attraverso il mondo dei detenuti. Dall’Ecuador al Perù, della Bolivia all’Argentina, dal Cile all’Uruguay passando per il Brasile, la Colombia e il Venezuela, la macchina fotografica di Bispuri ha immortalato la vita nelle carceri più pericolose del Sudamerica, come se fossero il riflesso della società, lo specchio di quello che succede nel continente: dai piccoli drammi alle grandi crisi economiche e sociali. Durante la serata il racconto procederà per parole e immagini che daranno conto di quanto ha scritto Saviano: "Quelle di Bispuri sono fotografie di città, carceri formicai, carceri dove chiunque è condannato, poliziotti e detenuti". Racconto dopo racconto, immagine dopo immagine, sarà evidente che Encerrados mostra una realtà in cui la prigione è una comunità, un non-luogo in cui si vive ogni giorno con ritmi e spazi precisi, in condizioni spesso al limite dell’umano, come quando si dorme in 18 in una cella per 4 persone e il bagno è solo un buco in un corridoio. Nel corso degli anni il reportage di Valerio Bispuri ha avuto un forte impatto sociale e anche di questo si parlerà alla libreria Mondadori di Taranto il 24 settembre. Dopo la pubblicazione delle foto e la sensibilizzazione ottenuta attraverso varie mostre internazionali, il padiglione 5 del carcere di Mendoza, dove erano reclusi i detenuti argentini più pericolosi, è stato chiuso anche grazie all’interessamento di Amnesty International (che ha dato il suo sostegno alla realizzazione del volume). Ogni carcere visitato dall’autore rappresenta l’immagine di un mondo visto da dentro e da fuori. E Bispuri ha trovato le luci anche lì dove tutto sembrava spento e dove il riflesso della violenza e dalla vitalità si contrappongono in un unico segmento che è poi la storia del Sudamerica. Forse è proprio per questo che anche un autore del calibro di Eduardo Galeano ha riconosciuto l’importanza del lavoro di Bispuri con questo suo contributo al libro: "Questa opera illumina con luce dolente la realtà delle carceri nella nostra terra latinoamericana, ed è a sua volta una metafora della vita di milioni di persone colpevoli di povertà e abbandono. Le fotografie penetrano tanto profondamente da sembrare radiografie. Grazie, Valerio, per aiutarci a vedere la nostra realtà più nascosta". Bispuri incontra i detenuti della casa circondariale di Taranto. "Ho sempre pensato che la difficoltà ma anche la forza della fotografia sia nella capacità di bilanciare il proprio sentire con la realtà. E solo riuscendo a calibrare le proprie emozioni profonde in un concetto reale senza che una prevalga sull’altra si arriva a poter raccontare una storia. Solo nel momento in cui riesco a toccare quello che sento, scatto". Venerdì 25 settembre alle ore 9.00 Valerio Bispuri incontrerà i detenuti della Casa Circondariale Carmelo Magli di Taranto, in Via Speziale, per presentare il suo lavoro e raccontare la sua esperienza decennale di documentazione fotografica nelle carceri in Sudamerica. Nel raccontare la sua esperienza e le storie che l’hanno caratterizzata, l’autore sarà guidato dall’operatore socio-culturale Luigi Pignatelli. Workshop di Scatto. Alessandra Avalli organizza e promuove a Taranto un interessantissimo workshop, tre giorni (dal 25 al 27 settembre) di full immersion con Valerio Bispuri, pluripremiato fotoreporter italiano, un weekend a stretto contatto con la vita di Valerio, con il suo lavoro e con i luoghi in cui si svolge. Il primo giorno di workshop, con incontro di presentazione previsto per le ore 18.00 all’interno della Libreria Mondadori, sarà dedicato a una riflessione teorica sulla scelta della storia e su come affrontare il racconto che si vuole intraprendere, approfondendone l’aspetto emotivo, con l’idea che una grande fotografia non è mai casuale ma sempre frutto di un percorso interno, di una propria immagine interiore. Il secondo giorno sarà caratterizzato dall’attività sul campo. Immerso in una location urbana, il partecipante avrà la possibilità di costruire una storia fotografica con il sostegno di Valerio. Il terzo giorno verranno, infine, analizzati i lavori dei partecipanti realizzati in questa occasione, per comprendere quali sono gli aspetti su cui lavorare e migliorare. Il workshop, indirizzato agli appassionati di fotografia di reportage, intende approfondire, assieme a coloro i quali sono riusciti a prenotarsi, iscriversi e rientrare nel numero chiuso, il concetto di progettazione, realizzazione ed editing. Biografia di Valerio Bispuri. Valerio Bispuri nasce a Roma nel 1971 e, dopo la laurea in Lettere, decide di dedicarsi alla fotografia. Fotoreporter professionista dal 2001, collabora con numerose riviste italiane e straniere, tra cui L’Espresso, Il Venerdì, Internazionale, Le Monde, Stern. Ha realizzato reportage in Africa, Asia e Medio Oriente, ma è in America Latina che Valerio lavora più a lungo, mentre vive per 11 anni a Buenos Aires. Per 10 anni si è occupato di "Encerrados", un lungo progetto fotografico sulle condizioni di vita in 74 carceri di tutti i paesi del continente sudamericano, raccontando in maniera antropologica e giornalistica la realtà dei detenuti. Il lavoro è stato esposto al Visa pour l’Image a Perpignan, al Palazzo delle Esposizioni di Roma, all’Università di Ginevra, al Browse Festival di Berlino e a ottobre 2014 al Bronx Documentary Center di New York. Nel 2013 Valerio ha terminato un altro grande progetto fotografico durato 8 anni, per denunciare la diffusione e gli effetti di una nuova droga a basso costo chiamata "Paco", che sta uccidendo una generazione di giovani nei sobborghi delle metropoli sudamericane. Il lavoro sul "Paco" è stato esposto oltre che a Roma e a Milano anche a Istanbul (catalogo edito dalla Croce Verde Internazionale). Ha ricevuto numerosi premi a livello internazionale: il Poy America Latina 2011 (menzione speciale), il Sony World Photography Awards 2013 (1° posto, Contemporary Issues), il Days Japan International Photojournalism Awards 2013, e il Poy 2014 (2° posto, Feature Story Editing - Magazine). Nel 2014 Valerio ha fotografato le Filippine devastate dal tifone Haiyan e gli sfollati che non trovano ancora pace, concentrandosi sulla zona di Tacloban, una delle più colpite dallo tsunami. In questi ultimi mesi ha seguito con il suo obiettivo le storie dei minori in fuga dalle sponde opposte del Mediterraneo che sbarcano da soli in Sicilia e trovano accoglienza nella "Scuola verde" di Augusta. Nell’ultimo anno Valerio si è dedicato al suo primo libro, "Encerrados", edito da Contrasto. Padova: una passione che piega le sbarre, cronaca del trofeo "Pallalpiede" di Gabriele Fusar Poli padovagoal.it, 24 settembre 2015 È difficile spiegare cosa si prova realmente in situazioni simili. Anzi, forse è impossibile. Il sottoscritto, però, tenterà di farvelo comprendere. Partendo dal fondo. Padova, Casa di Reclusione Due Palazzi. È da poco terminato il primo trofeo "Pallalpiede", ed anche i giornalisti sono invitati a lasciare lo spazio antistante il campo da calcio in cui si è appena disputato il triangolare. Si apre il primo, enorme cancello. Appena lo varco mi volto verso destra. Ed il mio sguardo incrocia quello di un detenuto. È quasi nascosto dalle sbarre, ma noto subito che mi saluta. Io rispondo, senza alcuna esitazione. E sul suo viso si apre un sorriso timido ma riconoscente. Lo sfodera per ringraziarmi. E capisco che è l’istantanea che racchiude alla perfezione l’essenza della giornata. Una giornata - inserita nei festeggiamenti per i 40 anni del Panathlon di Cittadella - che ha visto la Polisportiva Pallalpiede (squadra composta da soli carcerati che milita in Terza Categoria) perdere - ma lottando a testa alta - con le formazioni Berretti di Padova (1-0, rete di Nnaj) e Cittadella (4-0 maturato negli ultimi minuti), coi granata che si sono aggiudicati la coppa grazie all’1-0 firmato da Kingsley con cui hanno battuto i Biancoscudati nell’ultimo mini-match da mezz’ora. Ma del risultato finale poco importa. Ciò che contava veramente era dare ulteriore risalto ad una realtà unica nel suo genere regalando nel contempo quasi tre ore di svago a chi, consapevole di aver sbagliato nel "mondo di fuori", cerca nel calcio un mezzo per riscattarsi. L’inizio è promettente, visto che l’anno scorso la Pallalpiede ha vinto la Coppa Disciplina di categoria: se il buongiorno si vede dal mattino… Palloni che sorvolano il muro di cinta seguiti con occhi sognanti, gabbiani che stazionano a mezz’aria quasi a voler seguire le fasi salienti del triangolare, giocatori acclamati dalle celle: del pomeriggio al "Due Palazzi" rimangono molte immagini emblematiche. Una più bella dell’altra. Alcune particolarmente significative. Tutte emozionanti. Quanto il sorriso di un detenuto. Più gendarmi (europei) alle frontiere di Carlo Lania Il Manifesto, 24 settembre 2015 La creazione di una guardia di confine europea e aiuti alla Turchia per fermare i profughi. L’Ue ritrova l’unità blindandosi. Divisa come non mai sull’accoglienza ai profughi, l’Europa ritrova l’unità nel chiedere maggiori controlli alle sue frontiere e aiuti per Turchia, Libano e Giordania. Aiuti il cui scopo principale è quello di tenere i profughi siriani nei campi allestiti nei pressi della frontiera con la Siria. "Così sono più vicini al loro Paese, piuttosto che venire fino a qui in Europa", ha spiegato il presidente francese Francois Hollande. Il giorno dopo la spaccatura registrata al vertice di ministri degli Interni tocca ai capi di Stato e di governo, riuniti anche loro a Bruxelles, provare a rimettere insieme i pezzi dell’Unione europea. Impresa in parte facilitata dalla decisione di Ungheria, Romania e Repubblica Ceca di accettare le quote stabilite dalla commissione europea e di non seguire la Slovacchia sulla strada del ricorso alla Corte di giustizia europea. Il che non significa che i Paesi dell’est - i più duri nel contrastare la distribuzione dei profughi - abbiano gettato la spugna. Siamo piuttosto di fronte a un cambio di strategia che questa vota potrebbe far breccia tra i 28. "Abbiamo Schengen, che è un accordo firmato da tutti che dice chiaramente come fare a difendere le frontiere. Se non seguiamo le regole, tutta l’Ue piomba nel caos", ha spiegato al vertice il premier ungherese Viktor Orban proponendo anche che sia l’Europa a effettuare controlli in Grecia greca per impedire l’arrivo di nuovi profughi. Non è la prima volta che Orban batte si questo tasto. Contrariamente al passato, però, stavolta potrebbe essere ascoltato. Quello del controllo delle frontiere è un tema che da sempre Bruxelles ha sul tavolo e realizza stanziando periodicamente nuovi fondi per Frontex. Stavolta però sembra decisa ad andare oltre. Al vertice di ieri si è infatti discussa la possibilità di creare una forza da dislocare lungo i confini sia terrestri che marittimi dell’Unione. A parlarne per primo è stato il commissario all’Immigrazione Dimitri Avramopoulos (ma anche Hollande si è detto d’accordo) annunciando la creazione entro la fine dell’anno di un sistema "operativo ed efficace" di guardia di frontiera e costiera europea. "Rafforzare il controllo delle frontiere esterne è fondamentale per far funzionare Schengen", ha spiegato. Non si tratta dell’unica novità. Il commissario ha infatti detto di voler presentare entro marzo del prossimo anno anche tre proposte legislative che prevedono l’introduzione di una Blue Card per l’immigrazione legale, la riforma del trattato di Dublino e un meccanismo di ricollocazione permanete dei migranti. C’è poi altro capitolo che Bruxelles considera fondamentale. Ed è quello relativo agli aiuti ai Paesi in cui si trova il maggior numero di profughi siriani. E in cima alla lista c’è la Turchia, paese in cui si trovano due milioni di profughi siriani. "Se non si risolve con la Turchia l’Ue è persa", ammonivano fonti diplomatiche prima dell’inizio del vertice, per niente convinte che nuovi fondi possano bastare a risolvere la crisi. Bruxelles ritiene che servano subito due miliardi di euro, uno da versare alle agenzie dell’Onu che si occupano dei rifugiati (Unhcr, Pam e le altre) e uno direttamente ad Ankara perché si attivi per fermare le partenze verso l’Europa. "Con 8 milioni di sfollati i Siria, oggi parliamo di milioni di potenziali rifugiati che cercano di raggiungere l’Europa. Abbiamo raggiunto un punto critico", ha ricordato il presidente del consiglio europeo Donald Tusk. A tutti i leader è comunque chiaro che l’unico modo per mettere davvero fine all’emergenza profughi è mettere fine al conflitto siriano. "Qualsiasi strada possibile per trovare una soluzione in Siria deve essere percorsa", ha detto Hollande riferendosi a un possibile coinvolgimento della Russia. La guerra in Siria è stata anche uno dei temi affrontati in una telefonata tra la cancelliera tedesca Angela Merkel e il presidente degli Stati Uniti Barak Obama. Entrambi i leader hanno concordato sulla necessità di una transizione politica in Siria. Più aiuti ai rifugiati hotspot in Italia e Grecia da novembre di Andrea Bonanni La Repubblica, 24 settembre 2015 Renzi: "Stiamo andando nella direzione giusta" Sulle quote tre dei paesi ribelli dell’Est si allineano. Masticano amaro, ma si adeguano. Dopo la decisione a maggioranza dei ministri dell’Interno, che martedì hanno imposto la redistribuzione di 120mila rifugiati, i Paesi dell’Est che avevano votato contro la proposta della Commissione ieri hanno evitato nuove polemiche. E così i capi di governo europei, riuniti a Bruxelles per un vertice straordinario sull’immigrazione, hanno potuto concentrarsi sui mezzi per cercare di frenare la marea di profughi alle porte dell’Ue. Tra le decisioni anche quella di aprire i centri di identificazione in Italia e in Grecia e avviare la ridistribuzione e i rimpatri dei migranti entro novembre. L’unico che, almeno in pubblico, continua a ribellarsi al "diktat" sulle quote è il premier della Slovacchia, Robert Fico. Ma anche lui ha moderato i toni. Mentre prima assicurava che non avrebbe mai ottemperato alla decisione di Bruxelles, ieri si è limitato a minacciare un ricorso alla Corte di Giustizia, evitando dunque di prospettare una vera ribellione alle regole comuni. Del resto la pressione sul premier slovacco è massiccia. Ieri Gianni Pittella, capogruppo socialista al Parlamento di Strasburgo, ha annunciato che chiederà la sospensione del partito di Fico dal Pse. E Hollande ha rincarato la dose: "Chi non condivide i valori dell’Europa deve interrogarsi sulla sua presenza nell’Unione". Gli altri governi, a cominciare da quello ungherese di Viktor Orbán, capofila della guerra contro le quote, hanno annunciato che si adegueranno alla decisione presa contro la loro volontà. "L’Europa è nata per abbattere i muri, non per costituirli, caro Viktor", gli ha rinfacciato Renzi durante il summit. Orbán ha brontolato anche contro "l’imperialismo morale" della Merkel, ma ospiterà il contingente di rifugiati assegnatogli. Lo stesso i cechi, spiegando di non voler "aumentare la tensione". I romeni, pure loro contrari, si spingono a dire che la gestione della quota loro assegnata "non sarà un problema". Sgomberato il campo dalla questione più spinosa, i capi di governo ieri hanno potuto discutere di come affrontare l’emergenza rifugiati alle radici. La prima mossa è quella di cercare di rendere più sopportabile la situazione nei campi profughi che ospitano i siriani in Turchia, Giordania e Libano. Ieri è stato deciso di aumentare di un miliardo di euro il contributo europeo alle agenzie Onu che assistono i rifugiati nella regione. Anche i finanziamenti diretti ai governi di Ankara, Beirut e Amman verranno aumentati. Per la Turchia, il cui presidente Erdogan sarà a Bruxelles il 5 ottobre, si parla di un miliardo di finanziamenti. La somma messa a disposizione dalla Commissione per l’emergenza rifugiati è stata aumentata da 4,6 a 9,5 miliardi. Parte di questa cifra andrà anche a potenziare sia il programma per la creazione degli hotspot, sia gli interventi di Frontex per il rimpatrio degli immigranti irregolari che non hanno diritto all’asilo politico. È questo un punto su cui l’Italia insisteva molto, e che è stato inserito nelle conclusioni finali. "A me sembra che oggi si sia fatto un passo significativo, è una notte importante per l’Italia - ha commentato Renzi - si va verso un superamento degli accordi di Dublino". In plenaria Renzi ha ricordato che "quando c’era la questione dell’idraulico polacco, l’Europa non si è fermata, si è fatta carico di unire, non di chiudersi". La Ue in ritardo ma ora è con noi di Angelino Alfano (Ministro dell’Interno) Corriere della Sera, 24 settembre 2015 Ieri è successa una cosa rara ed importante: l’Europa non ha discusso, ha deciso. Ieri è successa un’altra cosa importante e rara: l’Europa ha deciso in favore dell’Italia. Non lo ha fatto perché è stata buona, lo ha fatto perché avevamo ragione noi. Avevamo visto giusto, avevamo visto lungo, avevamo visto prima sia dei singoli partner continentali che della stessa Unione. Una nota amara: ha capito tardi, l’Europa; ha deciso tardi. Poteva decidere due anni fa. Il tre ottobre, ricorderemo il secondo anniversario della strage di Lampedusa. Oltre trecento morti annegati lì, sotto i nostri occhi, al di qua del confine marittimo meridionale europeo. Un’esperienza per me, nato ed eletto da quelle parti, doppiamente scioccante: trecento corpi dentro trecento sacchi allineati in un freddo hangar dell’aeroporto. In verità, in un sacco, di corpi ce n’erano due, quello di una mamma e del suo bimbo abbracciato a lei in un "per sempre" di morte. È da quel giorno che bisogna partire per capire tutto il più profondo significato delle nostre ragioni. Quel giorno dall’Europa arrivarono, al governo italiano, numerosi attestati di solidarietà che paradossalmente marcavano la distanza tra noi e loro, perché la solidarietà si dà a chi è altro da te, non la dai a te stesso per qualcosa che ti riguarda. E l’Italia, per l’Europa, era "qualcos’altro". Non potevamo stare fermi. Non intendevamo pietire alcunché. Dovevamo agire, dovevamo farlo presto, dovevamo farlo noi. Da soli. Si chiamò Mare nostrum e fu la più grande operazione umanitaria della storia della Repubblica. Centomila vite salvate, purtroppo non tutte, da donne e uomini in divisa che ci hanno reso fieri della nostra bandiera. Abbiamo fatto fino in fondo l’Italia: Paese di civiltà del diritto, fondatore dell’Europa, protagonista nella tutela dei diritti umani. Abbiamo dato una grande risposta e un grande esempio. Per quella operazione ho subito una campagna di denigrazione che ha sfiorato il dileggio, quasi monomaniacale da parte di alcuni. E mentre questi guardavano i sondaggi, noi salvavamo vite. L’Europa faticava a capire quel che dicevamo, mentre accettava di subire la lezione per quello che facevamo, perché così non doveva fare niente. E non si curava delle nostre denunce, dei nostri avvisi: perché era evidente che l’immenso flusso di chi scappava dalle persecuzioni e dalla violenza non avrebbe mai potuto essere assorbito solo dalla rotta del Mediterraneo centrale, che porta dritti dritti a Lampedusa-Sicilia-Italia-Europa, e che di fronte a milioni di profughi in fuga dalla Siria era naturale che risorgesse la rotta balcanica (che peraltro ha meno rischi di un viaggio via mare), praticata dagli uomini del contrabbando e dunque nota ai trafficanti di esseri umani. Ci volle del tempo e altri drammatici naufragi perché l’Europa iniziasse a capire che avevamo ragione e che non poteva più restare ferma. È così che è nata l’operazione Triton, gestita da Frontex, prima esplicita ammissione, da parte dell’Unione, che quella a trenta miglia da Lampedusa è frontiera europea. È così che abbiamo chiuso Mare nostrum. Ma l’impasto tra vecchie regole comunitarie e nuovi egoismi impedì ancora ai nostri partner di comprendere che il principio di Dublino non era più sostenibile, che l’obbligo di trattenere tutti i migranti, da parte del Paese di primo ingresso, era stato concepito in un altro contesto storico e per differenti finalità e che, pertanto, considerare l’equa distribuzione dei profughi non era un tentativo eversivo di cambiare il gioco. Ancora una volta ci toccò ascoltare dall’Europa un corale "son fatti vostri", ma noi continuammo a salvare vite, accogliere profughi, arrestare scafisti, sequestrare le loro imbarcazioni, rimpatriando o provando a rimpatriare - tra mille difficoltà - chi profugo non era, ma era un irregolare. Nel frattempo, l’operazione Frontex andava avanti a spese dell’Europa, sgravando completamente il nostro bilancio da quel costo (cento milioni circa in un anno) e proseguendo il lavoro in mare sul modello italiano. Finché non arrivò un’altra strage nel Canale di Sicilia e altri funerali; stavolta tutti a Malta, vestiti di scuro, di fronte a bare prive di nome, ma non per questo prive di dignità. A quel punto, il nostro governo chiese e ottenne un vertice straordinario dei capi di Stato e di governo europei. Da quel giorno a oggi: l’Europa ha dato il via libera alla distribuzione dei profughi tra tutti i Paesi dell’Unione. Il nostro principio è passato, il loro regolamento è saltato. Dublino è entrato definitivamente in crisi. I profughi non stanno più nel Paese di primo ingresso, ma vengono ricollocati nei 28 Stati. Avevamo provato ad allentare questi vincoli e in parte ci eravamo riusciti. Avevamo provato a spiegarne l’irragionevolezza e la non attualità, ma avevamo fallito. Più di noi, poterono i morti. Il cuore e la ragione mi suggeriscono di pensare che ciò è accaduto per evitarne di altri. Ora che la ragione ci è stata riconosciuta, si apre un’altra sfida per l’Europa: quella di rimpatriare gli irregolari, sottoscrivendo accordi di riammissione con i Paesi africani da cui partono, incentivandoli economicamente, condizionando i finanziamenti della cooperazione con l’Africa alla collaborazione di questi Paesi nelle operazioni di rimpatrio. Io ti aiuto se tu mi aiuti. Intanto, ieri, il faticoso negoziato sui "numeri" si è chiuso bene per noi, con il retrogusto amaro di un dubbio: quel passo avanti, rispetto allo stop precedente, è avvenuto per quei morti scoperti dentro un Tir in Austria o per la foto di un bimbo restituito dal mare a una spiaggia e raccolto da un uomo in divisa? I nostri valori, i nostri principi, il nostro rispetto per la vita umana hanno vinto sugli egoismi e sulle ansie elettorali. Siamo consapevoli che ogni ondata di profughi sarà sfruttata dai razzisti anche di casa nostra, ma noi siamo certi che gli italiani non si volteranno mai dall’altra parte perché, a chi sta morendo in mare, tu porgi la mano di un nostro marinaio o di una nostra poliziotta e lo salvi. Solo dopo, gli chiedi se è un profugo o un irregolare. Se è profugo lo accogli, se è irregolare lo rimpatri. Questo stiamo facendo. Questo fa chi è al governo di un grande Paese come il nostro. Disinteressandosi dei voti, ma collocando l’Italia dalla parte giusta della Storia. Primo via libera allo "Ius soli" di Vladimiro Polchi La Repubblica, 24 settembre 2015 Accordo in commissione Affari costituzionali della Camera sulla riforma della cittadinanza. Primo via libera alla riforma della cittadinanza. Si sblocca l’impasse in commissione Affari costituzionali della Camera sul cosiddetto "ius soli soft", grazie a un accordo tra la maggioranza. Impantanata da tempo in Parlamento e bersagliata da centinaia di emendamenti, la nuova cittadinanza fa dunque un passo avanti. Chi nasce in Italia sarà italiano? Dipende. Due emendamenti, presentati da Scelta civica e Ncd, pongono infatti nuovi vincoli: obbligo della frequenza di un ciclo scolastico e genitori con permesso di soggiorno di lunga durata. La platea potenziale dei beneficiari della riforma è enorme: i minorenni stranieri oggi in Italia sono oltre 1 milione e ben 925.569 hanno una cittadinanza non comunitaria. Ma le nuove norme pongono limiti che rischiano di restringere il numero di bambini che potranno "vincere" un passaporto italiano. Il testo unificato mette infatti assieme i principi dello "ius soli temperato" e dello "ius culturae". Cosa ne esce? I bambini nati in Italia da genitori immigrati e tutti gli altri minorenni stranieri avranno finalmente un percorso agevolato, non senza alcuni paletti. L’accordo raggiunto dalla maggioranza modifica il testo base della relatrice Marilena Fabbri (Pd) e spinge il ddl verso la discussione in Aula già la prossima settimana. L’intesa si basa su due emendamenti, che introducono nuovi obblighi: la frequenza di un ciclo scolastico di almeno 5 anni da parte del bambino straniero nato in Italia (nel caso in cui la frequenza riguardi le scuole elementari, si dovrà aver superato l’esame finale) o il possesso da parte di uno dei genitori del permesso di soggiorno Ue di lungo periodo. I minori nati in Italia senza questi requisiti, e quelli arrivati in Italia sotto i 12 anni, potranno comunque ottenere la cittadinanza se avranno "frequentato regolarmente, per almeno cinque anni istituti scolastici appartenenti al sistema nazionale". Infine i ragazzi arrivati tra i 12 e i 18 anni potranno avere la cittadinanza dopo aver risieduto nel Paese per almeno sei anni e aver frequentato "un ciclo scolastico, con il conseguimento del titolo conclusivo". Soddisfatta la maggioranza. Per il parlamentare Pd, Khalid Chaouki, si tratta di "una riforma importante per il futuro dell’Italia, che andava condivisa con il numero più ampio di forze politiche". Critiche, invece, da parte di Sel: "Un compromesso al ribasso - sostiene la deputata Celeste Costantino - che renderà più complicato richiedere la cittadinanza". Promette battaglia il Carroccio: "Faremo battaglia in Aula - annuncia il leghista Cristian Invernizzi - per non far approvare il testo". Molti punti oscuri nell’omicidio di Sare Mamoudou di Gianmario Leone Il Manifesto, 24 settembre 2015 La Flai Cgil pronta a fornire aiuto legale ai due braccianti sopravvissuti e a costituirsi parte civile in un eventuale processo. Sono ancora molti i punti oscuri su cui fare luce nell’omicidio del bracciante di 37 anni originario del Burkina Faso, Sare Mamoudou, ucciso nella serata di lunedì nelle campagne di Lucera in provincia di Foggia. Con il passare delle ore infatti, crescono i dubbi sulla versione "ufficiale" fornita in un primo momento, secondo la quale Sare e altri due suoi amici braccianti si erano recati nel campo della famiglia Piacente per rubare qualche melone. Mancato furto che avrebbe portato a una colluttazione tra il proprietario del terreno, il 67enne Ferdinando Piacente e il figlio, il 27enne Raffaele, e i tre braccianti che avrebbero tentato un fuga terminata nel sangue. In realtà, i fatti non starebbero esattamente così. Dopo l’assemblea della comunità del Burkina Faso di martedì sera nel ghetto di Rignano Garganico, arrivano conferme anche dalla Flai Cgil Puglia al lavoro, al pari dei Carabinieri della compagnia di Lucera affiancati dai colleghi di Foggia, per fare luce sull’accaduto. Prende infatti sempre più consistenza l’ipotesi che Sare, Kadago Adam - ferito ma non in pericolo di vita - e un terzo bracciante di cui ancora non si conoscono le generalità, si fossero recati nella tenuta dei Piacente per chiedere di poter lavorare nella raccolta dei meloni. Alla risposta negativa ottenuta dal proprietario del terreno, avrebbero chiesto di poter portare via qualche melone. Richiesta accettata e soddisfatta dal proprietario Ferdinando Piacente, che avrebbe detto a Sare e ai suoi amici di prenderli e poi di andare via. Pare però che il figlio Raffaele, assente in un primo momento e non avendo assistito a tutto ciò, sia sopraggiunto nella proprietà di famiglia mentre i tre braccianti si allontanavano con i meloni: a quel punto li avrebbe violentemente redarguiti, e stando alla testimonianza dell’unico bracciante non ferito, anche aggrediti fisicamente. Da qui sarebbe nata la colluttazione durante la quale il figlio di Piacente pare sia stato colpito al naso. Ed è forse questo ciò che vede il padre e il motivo che avrebbe fatto scattare in lui una violenza cieca: prima spara un paio di colpi in aria, sotto forma di avvertimento. Sare e i suoi due amici scappano verso la loro auto e provano la fuga. Ma i Piacente partono all’inseguimento dei tre: un altro colpo di fucile, dopo pochi chilometri, fora una delle ruote della vettura che finisce fuori strada e costringe i tre braccianti alla fuga a piedi. Non contento, Ferdinando Piacente prende la mira e spara tre colpi: due feriscono mortalmente Sare, mentre un terzo coglie in pieno petto Kadago Adam che resta a terra. L’ultimo dei tre, di cui ancora non si conoscono le generalità, riesce a fuggire nei campi salvandosi la vita. È chiaro che sono troppi gli aspetti che non quadrano. Che non spiegano il perché di una violenza cieca, spietata. Non è però del tutto sorpreso degli avvenimenti di Lucera, il segretario della Flai Cgil Puglia, Giuseppe Deleonardis. "Il territorio della provincia di Foggia da anni si è trasformato in un moderno Far West dove ognuno si fa giustizia da sé" commenta. Specialmente nel campo dell’agricoltura, dove "la mentalità per certi versi è ancora di stampo medioevale - prosegue Delonardis. Qui il padrone del campo può tutto: sfruttare, sottopagare, farsi giustizia da solo, sparare ai presunti ladri e via dicendo: qui c’è un’illegalità diffusa". Che in agricoltura si sposa appieno con il fenomeno del caporalato: da questa provincia ogni anno transitano migliaia di braccianti agricoli provenienti dall’Africa e dai paesi dell’Est, che vengono impiegati soprattutto nei mesi estivi, a nero, sottopagati, sfruttati, costretti a vivere in baracche o nei ‘famosì ghetti. Come ricorda lo stesso Deleonardis, "vi basti pensare che soltanto la scorsa settimana in un’azienda agricola in provincia di Lucera, le forze dell’ordine hanno scoperto 13 lavoratori a nero su 17 presenti a lavoro: l’ennesimo caso di assoluta illegalità". La Flai Cgil è pronta a fornire aiuto legale ai due braccianti sopravvissuti e a costituirsi parte civile in un eventuale processo. Ma la "rivolta sociale" invocata spesso dal sindacato, è ancora lungi dal poter vedere l’alba. Mondo: 700mila le donne detenute, +50% rispetto al 2000 Adnkronos, 24 settembre 2015 Rapporto dell’Institute for Criminal Policy Research di Londra, in Italia numeri in calo. Sono oltre 700mila le donne e le ragazze minorenni detenute nelle carceri di tutto il mondo. Un numero cresciuto del 50% rispetto ai dati registrati nel 2000, con una percentuale di aumento superiore a quella degli uomini. I dati sono raccolti nel rapporto pubblicato dall’Institute for Criminal Policy Research di Londra e si basano sulle informazioni raccolte in 219 Paesi. Circa un terzo della popolazione carceraria mondiale, sottolinea il rapporto, si trova in appena tre Paesi: Stati Uniti (205.400 detenute), Cina (103.766, oltre a un numero imprecisato di donne in attesa di processo) e Russia (53.304). I ricercatori dell’istituto londinese parlano di una situazione che dovrebbe spingere i governi a "profonda preoccupazione", poiché le donne e le ragazze minorenni che si trovano in carcere "sono un gruppo estremamente vulnerabile e svantaggiato e tendono esser stesse ad essere vittime di reati ed abusi". Il numero totale delle detenute nel mondo, rileva l’istituto, è probabilmente più altro di quanto indicato nel rapporto, poiché alcuni Paesi non hanno fornito dati, mentre le informazioni relative alla Cina sono incomplete. Per quanto riguarda l’Italia, il rapporto indica che al 31 luglio di quest’anno la popolazione carceraria femminile ammontava a 2.122 detenute, il 4,1% della popolazione carceraria totale. Si tratta di dati in diminuzione rispetto alle 2.235 detenute registrate nel 2000, le 2.843 del 2005 e le 2.995 del 2010. Stati Uniti: "Angola for Life", un documentario mostra i condannati ai lavori forzati greenme.it, 24 settembre 2015 Forse ricorderete "Via col vento" o altri film che raccontano lo stesso periodo storico, nei quali spesso compaiono schiavi neri chini nei campi. È proprio così, con l’immagine di lavoratori di colore impegnati a coltivare la terra, che si apre "Angola for Life: Rehabilitation and Reform Inside the Louisiana State Penitentiary", un documentario che racconta la vita quotidiana nella più grande prigione di massima sicurezza degli Stati Uniti. Siamo nel profondo meridione del Paese e il penitenziario, noto come Angola e spesso definito la "Alcatraz del sud", ospita uomini dal passato molto turbolento, per la stragrande maggioranza afroamericani, ormai dimenticati dalla società. Con oltre 6.000 detenuti e circa 1.800 membri dello staff, la prigione, che si estende su un’area di 73 kmq, proprio dove un tempo sorgevano le distese di cotone coltivate dagli schiavi, comprende non solo dormitori e celle (comprese quelle riservate ai condannati a morte), ma anche strutture sanitarie, chiese, cimiteri, campi coltivati e piccole industrie manifatturiere. È qui - nei campi e nelle fabbriche - che i detenuti sono obbligati a lavorare per diverse ore al giorno, se ritenuti idonei dallo staff medico della prigione. E, nel caso in cui rifiutino il lavoro, possono essere puniti anche con l’isolamento, con la revoca di eventuali benefici o con la limitazione delle visite dei familiari. Il lavoro prestato dai detenuti è a tempo pieno e, o non viene retribuito, o viene retribuito miseramente, con appena due centesimi l’ora. La produzione agricola della prigione è molto ricca e comprende mais, cotone, fragole, cavoli, pomodori, grano e cipolle, che in parte servono a soddisfare il fabbisogno di detenuti e staff e in parte vengono venduti all’esterno. Le manifatture, invece, riparano gli strumenti agricoli e producono piatti, badge, segnali stradali, materassi, tessili e molto altro, tanto da rientrare nella supply chain di aziende esterne e persino di brand noti. All’obbligo del lavoro, che è comune ad altre strutture penitenziarie degli Stati Uniti, si accompagnano la possibilità di ricevere un’istruzione (molti dei detenuti sono analfabeti o semianalfabeti) e la formazione religiosa: la religione, in particolare cristiana, ma senza discriminazioni - almeno a detta dei responsabili della prigione - nei confronti di chi professa un credo diverso, viene "utilizzata" per smorzare i conflitti e favorire una convivenza pacifica tra i detenuti. Grazie a queste risorse, le aggressioni all’interno del penitenziario si sono ridotte dalle 1.346 del 1992 alle 343 del 2014: un numero ancora rilevante, ma che mostra come il fenomeno, per quanto difficile da debellare, sia in diminuzione. È certamente positivo offrire ai detenuti, specie a quelli che scontano condanne molto lunghe o a vita, un’alternativa all’inedia e all’appiattimento umano e culturale, ma il punto sollevato da alcuni commentatori di fronte al documentario è un altro: è etico costringere qualcuno al lavoro? Una condanna, per quanto pesante, può davvero portare alla privazione di diritti basilari e ad una sorta di riduzione in schiavitù? Perché, senza volerci girare intorno, costringere una persona a lavorare contro la propria volontà e ricorrendo alla minaccia è una forma di schiavizzazione: e mentre il lavoro, se scelto e svolto in un quadro normativo chiaro, con diritti e doveri precisi, può essere una risorsa preziosa nel cammino verso la riabilitazione, permettendo al detenuto di recuperare autostima e sentirsi parte del mondo, lo sfruttamento della manodopera non ha la stessa funzione e, soprattutto, dovrebbe essere considerato illegale. E non ha alcun senso appellarsi al modello occhio-per-occhio ("non ti sei comportato da essere umano quando hai commesso il crimine, quindi non meriti di essere trattato come tale"), dato che la giustizia non dovrebbe mai confondersi con la vendetta. Anche perché molti dei detenuti di Angola provengono da situazioni critiche - povertà estrema, analfabetismo, dipendenza da sostanze e problemi di salute mentale - su cui lo Stato avrebbe potuto e dovuto agire in via preventiva, attraverso programmi di welfare più attenti ai soggetti e alle fasce sociali a rischio. Se queste persone fossero stata adeguatamente aiutate, si sarebbero ugualmente macchiate di crimini? La domanda è legittima, anche se destinata a restare senza risposta. Infine, non è da escludere ma, al contrario, è molto probabile, che alcuni detenuti siano stati condannati da innocenti, come purtroppo è accaduto in passato e come continua ad accadere, soprattutto per quanto riguarda la popolazione afroamericana. In una situazione tanto difficile e complessa, si può davvero considerare l’obbligo al lavoro, nelle forme in cui viene applicato, un modello valido nel percorso verso la riabilitazione? La domanda, che tocca le nostre coscienze e il nostro senso civico, non può che restare aperta ed essere lasciata alla riflessione di ciascuno di noi. Carceri vuote: il caso scandinavo di Luca Covino 2duerighe.com, 24 settembre 2015 Si possono ridurre le incarcerazioni attraverso pene alternative e una diversa concezione del carcere? In molti paesi scandinavi tutto questo è già realtà. Piccolo viaggio nei penitenziari di Scandinavia. Prigioni vuote. Sembra un’utopia ma in alcuni paesi democratici dell’Europa del nord i penitenziari hanno un aspetto e un valore assai diverso da come si interpretano generalmente. Qui i condannati per reati minori vengono letteralmente seguiti in un percorso volto al reinserimento nella società, senza essere stigmatizzati dalle comunità grazie a un sistema giudiziario incline alla fiducia verso il detenuto. Tutto ciò è possibile soltanto per il famigerato senso civico scandinavo? Non proprio. Il merito sta nell’impostare un sistema carcerario sul concetto di non recidività che, unito a un complesso di leggi volte alla rieducazione, rende la Svezia un esempio a livello mondiale assieme ai paesi cugini Finlandia, Danimarca e Norvegia. Ogni paese scandinavo possiede sostanzialmente lo stesso approccio nei confronti dei detenuti seppur con caratteristiche diverse. Nel caso norvegese per esempio, il giornalista Erwin James in un articolo del 2013 per il britannico Guardian, descrisse il carcere di Bastoy - lo stesso che ospitò anche Anders Breivik, il carnefice della strage filo-nazista di Oslo nel 2011- come "rivoluzionario" per i metodi applicati e la vivibilità dei locali. In Finlandia il carcere di Hameenlinna viene descritto in un articolo del New York Times riproposto da Repubblica come un complesso penitenziario "senza muri e con un sistema di larga indulgenza da parte dello stato" che ha portato a una riduzione drastica del numero di detenuti. Risultato: tasso di recidività dimezzato. Nel regno di Danimarca invece una grande attenzione è rivolta nei confronti dei rapporti umani che i carcerati possono intrattenere con i loro familiari durante il periodo di detenzione. Attraverso appositi colloqui organizzati in modo da garantire il ruolo sociale in famiglia del condannato prima dell’incarcerazione, il detenuto può trascorrere molto tempo con i figli in aree gioco pedagogicamente studiate o consumare l’intimità con il proprio partner nella più totale privacy. Tornando in Svezia è interessante l’articolo pubblicato da Libération e tradotto dal settimanale Internazionale, dove viene descritta la prigione di media sicurezza di Skänninge, posta a duecento chilometri da Stoccolma: 234 persone - condannate da pene minori fino all’ergastolo - in celle confortevoli e senza sbarre. Qui i detenuti svolgono attività di vario genere volte alla riacquisizione di un equilibrio prima di tutto umano e predisposto al reinserimento nella società: dalla meditazione con i frati nella vicina cappella cristiana allo yoga; dall’acquisizione di vari certificati - come la patente nautica - alle attività sportive. Soltanto il filo spinato sulle lontane recinzioni ricordano l’immagine di un carcere. A questo va aggiunta l’opera di lavoro svolta dai carcerati che, insieme alle suddette attività, occupano gran parte della loro giornata: sei ore al giorno per cinque volte a settimana, tutti sono impegnati a lavorare. All’interno dell’edificio, rientrato nel processo nazionale per la ristrutturazione dei penitenziari, i secondini non sono armati e sono rari i casi di ribellione registrati. Rilevanza è data anche all’attività delle varie associazioni che, assieme a diversi enti pubblici, lavorano a stretto contatto con il carcere affinché possano stabilire i presupposti umani e logistici per raggiungere l’obiettivo di una corretta riabilitazione civica dei detenuti. In maniera costruttiva la persona condannata viene seguita anche nel periodo successivo all’incarcerazione grazie a numerose iniziative educative svolte dal Brå, il Consiglio Statale per la Prevenzione del crimine. Nessuno viene abbandonato neanche in casi di droga: il percorso prevede metodi psicoterapeutici di cui anche i secondini conoscono le tecniche basilari per eventuale interventi volti ad aiutare i detenuti in caso di crisi d’astinenza e problematiche correlate. Eppure la Svezia è una pese per alcuni frangenti ci è similare. In Italia la criminalizzazione vede un elevato numero di stranieri coinvolti, un dato fortemente distorto e strumentalizzato. La Svezia ha vissuto - e ancora vive - un alto flusso di immigrazione adeguatamente regolamentato che l’ha resa nel corso dell’ultimo decenni uno dei paesi più ospitali in occidente. Dai focolai di immigrazione infatti il paese scandinavo ha accolto 100mila richiedenti asilo nel 2014 e ne aspetta oltre 105mila per l’anno corrente. Al di la delle tensioni interne riguardo la questione immigrazione - con i recenti fatti di cronaca in cui è coinvolta la destra xenofoba svedese per l’incendio di tre moschee a Uppsala - il paese appare fra i più organizzati in tal senso: quinto in tutta Europa per numero di immigrati. Il problema carceri nel nostro paese non è legato all’etnia del detenuto ma all’intero sistema carcerario italiano: il metodo punitivo ha dimostrato più volte i suoi limiti. Di carceri alternative ce ne sono in tutta Svezia e Scandinavia e la loro diffusione è resa possibile solo attraverso un sistema giuridico evoluto e basato su una profonda radice umanista. I magistrati infatti hanno a disposizione un corpus di leggi tali da poter assegnare a ogni caso diverse pene giudiziarie alternative come la sospensione condizionale o le cure mediche obbligatorie. La depenalizzazione dei reati minori ha consentito maggiore elasticità nel giudizio dei togati che, specie nelle sentenze con minori coinvolti, vedono nel percorso riabilitativo eseguito da operatori e professionisti presso strutture riconosciute, la migliore via alla legalità. Questo sistema ormai consolidato rende le carceri svedesi praticamente vuote e le strade paradossalmente più sicure: solo 4.300 persone sono ospitate all’interno delle varie carceri e circa 13mila scontano il proprio conto con la giustizia al di fuori di queste grazie alle pene alternative. Non si tratta permessivismo ma civiltà e numeri alla mano il risultato finale parla chiaro. Dai dati Ue emersi sulla popolazione carceraria, la Svezia ha 61 detenuti ogni 100mila abitanti, per un totale di 5868 carcerati, con una media delle pene attorno ai dieci anni e un tasso di criminalità- recidività fra i più bassi del mondo: record europeo di civiltà. Arabia Saudita: 21enne condannato a morte per aver partecipato a una manifestazione di Michele Giorgio Il Manifesto, 24 settembre 2015 Ali an-Nimr è stato condannato a morte per aver partecipato a una manifestazione illegale a sostegno dello zio, un imam sciita incarcerato dalla monarchia. Silenzio in Occidente sulle gravi violazioni dei diritti umani in Arabia saudita. Resta in prigione il blogger Raif Badawi, condannato a 10 anni e frustato in pubblico lo scorso gennaio. Cosa ha pensato la famiglia di Ali an-Nimr apprendendo, qualche giorno fa, che le Nazioni Unite affideranno all’Arabia Saudita una posizione di rilievo nella tutela dei diritti umani, a dispetto delle denunce che Ong e associazioni umanitarie internazionali rivolgono da decenni al regno dei Saud? Possiamo immaginare la rabbia, la frustrazione che provano un padre, una madre, dei fratelli dopo una notizia del genere mentre attendono sgomenti l’esecuzione del proprio figlio di 21 anni. Ali an-Nimr, denuncia da qualche giorno l’ong britannica Reprieve, sarà decapitato e il suo corpo crocifisso per aver partecipato a una manifestazione illegale e per aver fatto parte, secondo i giudici, di una "organizzazione terroristica", accusa questa che a Riyadh è rivolta a chiunque abbia il coraggio di criticare pubblicamente la petromonarchia e il wahabismo, la corrente islamica rigidissima che controlla la società saudita. È l’ennesimo paradosso delle relazioni internazionali con l’Arabia saudita, Paese che viola sistematicamente i diritti della persona, a cominciare da quelli delle donne, che nega libertà politiche fondamentali, che interferisce nelle vicende interne di altri Stati della regione (certo non meno dei nemici iraniani), che pratica quotidianamente la pena di morte, che agisce a sostegno di movimenti estremisti salafiti (parenti stretti del wababismo) a danno delle correnti islamiste più moderate. Nonostante ciò è trattato con i guanti di velluto da Stati Uniti e da Europa. Per qualche ragione? Perché Riyadh è una "nostra alleata" nella strategica area del Golfo, tiene giù il prezzo del petrolio, compra ogni anno armi prodotte in Occidente per vari miliardi di dollari e dialoga a distanza con Israele. Il premio Nobel per la pace e presidente americano Barack Obama, si prepara a consegnare altre armi sofisticate all’Arabia saudita, per placare il disappunto di re Salman per l’accordo sul programma nucleare iraniano firmato a Vienna due mesi fa. Il monarca saudita vuole anche la testa del presidente siriano Bashar Assad (l’unico dittatore presente in Medio Oriente secondo i democratici leader occidentali) ma l’operazione si è fatta, come dire, più complessa dopo l’intervento della Russia a sostegno di Damasco sotto pressione di decine di organizzazioni e gruppi jihadisti e qaedisti, dall’Isis ad al Nusra. Qualcuno si chiede ancora chi stia pagando queste decine di migliaia di "combattenti" del Jihad. La risposta la conoscono tutti da anni. Ali an-Nimr, fu arrestato quando era ancora minorenne per aver partecipato ad una protesta contro il regno. I fatti risalgono al 2012, durante una manifestazione a Qatif, nelle province orientali del Regno, dove si concentrano i pozzi petroliferi e vivono circa 2 milioni 700 mila sauditi, colpevoli di non essere musulmani sunniti ma sciiti, quindi nemici "interni" dell’Islam secondo le gerarchie wahabite. Contro Ali sono state formulate accuse di ogni genere. Possesso di armi, lancio di bottiglie incendiarie contro le forze di polizia e anche uso del cellulare per organizzare la protesta. È stato descritto come un "mostro", un terrorista assetato di sangue da eliminare. La sua esecuzione dovrà essere un esempio per tutti gli altri "terroristi": guai a mettere in discussione le politiche della monarchia. In realtà il giovane paga il fatto di essere il nipote di un famoso imam sciita, Sheikh Nimr Baqr al-Nimr, tenace oppositore dei governanti sunniti e anch’egli imprigionato. Ali infatti stava partecipando ad una manifestazione in favore dello zio, quando fu preso dalla polizia. Le accuse si basano sulla sua confessione che - denuncia Reprieve - fu estorta con torture. Durante il processo al ragazzo sarebbe stato negato un avvocato e quando ha denunciato le sevizie e gli abusi subiti, i giudici si sono rifiutati di prendere in considerazione le sue parole. E l’Onu premia Riyadh Sarà saltata sulla sedia anche la signora Ensaf Haidar alla notizia che all’ambasciatore saudita all’Onu Faisal bin Hassan Trad sarà assegnato un incarico a tutela dei diritti umani. La signora Haidar guida, dal Canada dove vive da quando ha ottenuto l’asilo politico, una campagna internazionale per la liberazione del marito, il blogger saudita Raif Badawi, incarcerato per aver "insultato" personalità politiche ed esponenti religiosi sul suo blog che incoraggiava soltanto il dibattito tra i cittadini su vari temi. Lo scorso 9 gennaio Badawi ha ricevuto le prime 50 frustate davanti a una moschea di Gedda. Le successive serie sono state rinviate, ufficialmente per motivi di salute, in realtà per le pressioni internazionali. E potrebbero riprendere in qualsiasi momento perché la Corte suprema saudita nei mesi scorsi ha confermato la pena. Nella sua prima lettera dal carcere, pubblicata a marzo dal settimanale tedesco Der Spiegel, Badawi raccontò di essere "miracolosamente sopravvissuto a 50 frustate" e di essere stato "circondato da una folla plaudente che gridava incessantemente Dio è grande". "Sono stato sottoposto a questa crudele sofferenza solo perché ho espresso la mia opinione", aggiunse il blogger. In Arabia saudita la flagellazione è generalmente effettuata con un bastone in legno chiaro, con colpi distribuiti su tutta la schiena e le gambe, che lascia lividi ma che, il più delle volte, non lacera la pelle. Una raffinatezza. Riyadh respinge le critiche e denuncia la "campagna mediatica attorno al caso" di Raif Badawi. Lo scorso maggio l’ambasciata saudita a Bruxelles ha inviato una dichiarazione ufficiale ai membri del Parlamento Europeo per condannare qualsiasi "interferenza nei suoi affari interni", sostenendo che "alcune parti internazionali e i media cercano di violare e attaccare il diritto sovrano degli Stati". Nessuno sconto ai dissidenti perciò. Lo sa bene l’avvocato Walid Abulkhair, legale di Raif Badawi e attivista dei diritti umani, finito anche lui in cella nel 2014 per "incitamento dell’opinione pubblica". Abulkhair era stato inizialmente condannato a cinque anni di reclusione, pena prima sospesa e poi inasprita dalla Corte penale di appello, specializzata in casi di "terrorismo". Arabia Saudita: annullate subito la sentenza contro Ali di Paola Nigrelli (Amnesty International) Il Manifesto, 24 settembre 2015 Mobilitazione internazionale per fermare il boia in Arabia Saudita, dopo il caso Badawi. La Corte penale speciale e la Corte suprema dell’Arabia Saudita hanno confermato la sentenza capitale nei confronti di Ali Mohammed Baqir al-Nimr, giovane attivista sciita condannato a morte per reati presumibilmente commessi all’età di 17 anni. È accusato di "partecipazione a manifestazioni antigovernative", attacco alle forze di sicurezza, rapina a mano armata e possesso di un mitra. La condanna sarebbe stata emessa sulla base di una confessione estorta con torture e maltrattamenti. Amnesty International chiede l’annullamento della sentenza, indagini sulle torture e che l’Arabia Saudita rispetti i diritti umani. Ali al-Nimr è nipote di un eminente religioso sciita - Sheikh Nimr Baqir al-Nimr, anch’egli condannato a morte. Ali al-Nimr ha esaurito ogni possibilità di appello e può essere messo a morte appena il re ratifica la condanna. L’Arabia Saudita è tra i paesi che eseguono il più alto numero di sentenze: dal 1985 al 2005 sono state messe a morte oltre 2200 persone; da gennaio ad agosto 2015, almeno 130 esecuzioni. Violando la Convenzione sui diritti dell’infanzia e il diritto internazionale, ha messo a morte persone per reati commessi quando erano minorenni. Anche Raif Badawi, il blogger saudita condannato a 10 anni di carcere e a 1000 frustate, è ancora detenuto. La sua colpa? Aver fondato "Free Saudi Liberals", un forum online di dibattito su temi politici e religiosi. Aver "insultato l’Islam", aver criticato alcuni leader religiosi. Oltre al carcere, alla lontananza dalla sua famiglia, per Raif sono arrivate anche le frustate. Il 9 gennaio 2015 è stato pubblicamente frustato davanti alla moschea di al-Jafali a Gedda: 50 frustate, una pena disumana, una tortura. E solo per aver espresso le sue opinioni. Una raccolta dei suoi scritti "1000 frustate per la libertà" è in libreria in questi giorni edita da Chiarelettere con la testimonianza della moglie Ensaf Haidar, contributi di Amnesty International Italia e giornalisti. Come Raif, altri detenuti in Arabia Saudita stanno scontando condanne per ciò che pensano o esprimono. Amnesty International e le migliaia di persone che in tutto il mondo sostengono la liberazione di Raif - tra cui parlamentari, esponenti del mondo della cultura e del giornalismo anche in Italia, il manifesto fin dall’inizio - chiedono il suo rilascio immediato. Siria: il vignettista Akram Raslan muore sotto tortura in carcere regime Ansa, 24 settembre 2015 Akram Raslan era stato arrestato nel 2012 per i suoi disegni. È uno delle migliaia di siriani morti sotto tortura nelle carceri del regime di Damasco negli ultimi quattro anni e mezzo: Akram Raslan, 41 anni, era un vignettista arrestato tre anni fa per i disegni non apprezzati dalle autorità al potere in Siria da circa mezzo secolo. Solo adesso i suoi familiari hanno potuto confermare il decesso del loro caro, avvenuto in una cella della Sicurezza generale, una delle agenzie di controllo del Paese. Raslan era finito dietro le sbarre nell’ottobre del 2012. Originario della Siria centrale, si era laureato in Letteratura a Damasco. Lavorava per diversi giornali arabi, ma anche per Fidaa, giornale governativo. Dall’arresto nel 2012 si erano perse le sue tracce. Vignettisti siriani e di tutto il mondo ne hanno chiesto la liberazione. Nel 2013, la Rete internazionale per i diritti dei vignettisti gli ha riconosciuto il Premio per il vignettista più coraggioso dell’anno. Le notizie della sua morte erano già trapelate due anni fa, quando un compagno di cella, appena uscito dal carcere, aveva raccontato che Raslan era stato ucciso sotto tortura. Secondo l’Osservatorio nazionale per i diritti umani, dal marzo 2011 al marzo 2014 le autorità siriane hanno ucciso nelle carceri circa 13mila persone. Solo nei giorni scorsi la famiglia ha ricevuto un laconico certificato di morte per "infarto" da parte del medico legale dell’ospedale militare di Damasco. È questa la prassi - affermano avvocati per i diritti umani in Siria - usata ogni qualvolta il regime informa della morte sotto tortura in carcere di un prigioniero politico. "Quanto mostruoso deve essere un potere per colpire una mano che stringe una matita?", aveva commentato l’italiano Sergio Staino quando nell’agosto del 2011 Ali Ferzat, il celebre caricaturista siriano, era stato pestato brutalmente da uomini mascherati che gli avevano spezzato le dita delle mani. Raslan aveva più volte sfidato il potere siriano. Aveva rappresentato la censura disegnando pittori bugiardi, che dipingono un quadro della situazione ben diverso dalla tragica realtà sul terreno. In un’altra sua celebre vignetta, un carro armato passa incurante della distruzione che lascia intorno a sé, diffondendo belle parole, come "riforme" e "dialogo", tanto care alla propaganda presidenziale. Libia: milizie Misurata liberano detenuti in occasione di festa del Sacrificio Nova, 24 settembre 2015 Le milizie libiche di Misurata hanno liberato gruppi di detenuti presenti nelle loro carceri in occasione della festa islamica del Sacrificio (Eid al Adha). Secondo quanto riporta l’agenzia di stampa libica "al Tadhamoun", il colonnello Sharif Mohammed Arhuma ha annunciato che le persone liberate oggi sono 45, tutti ex militari provenienti da diverse zone della Libia e appartenuti all’esercito del passato regime di Muammar Gheddafi. La loro liberazione è avvenuta dopo che un tribunale locale li ha giudicati innocenti o ha comminato per altri pene di lieve entità. Egitto: Al Sisi concede la grazia ai due giornalisti di Al Jazeera condannati a 3 anni Ansa, 24 settembre 2015 Il 29 agosto erano stati ritenuti colpevoli di aver diffuso notizie false. Il presidente egiziano Abdel Fattah Al Sisi ha concesso la grazia a un centinaio di detenuti, tra i quali i due giornalisti di Al Jazeera Mohammed Fahmy e Baher Mohammed. La conferma arriva dal sito del quotidiano al-Ahram, secondo cui la maggior parte dei detenuti graziati da Al Sisi erano in carcere per aver violato la controversa legge sulle manifestazioni di protesta approvata nel novembre del 2013. Il perdono concesso da Al Sisi arriva alla vigilia della festività dell’Eid al-Adha, la Festa del Sacrificio, la più importante ricorrenza religiosa per i musulmani. Il 29 agosto Fahmy e Mohammed erano stati condannati in appello da un Tribunale del Cairo a tre anni di carcere insieme al collega australiano Peter Greste, tornato in Australia. I tre sono stati riconosciuti colpevoli di lavorare senza "permessi" e di aver diffuso notizie false a sostegno dei Fratelli Musulmani, che l’Egitto considera un’organizzazione terroristica. Marocco: Re grazia 343 detenuti e invia messaggi a Capi di stato arabi per festa Sacrificio Nova, 24 settembre 2015 In occasione della festa islamica del Sacrificio (Eid al Adha), il re del Marocco, Mohammed VI, ha deciso di graziare 343 detenuti presenti nelle carceri del paese. Lo ha annunciato l’agenzia di stampa marocchina "Map". Come ogni anno oltre alla grazia reale il monarca ha anche rivolto messaggi di auguri ai capi di stato dei paesi arabi e islamici in occasione della festività religiosa. Si legge nella missiva che "questa grande occasione religiosa, a cui Dio ha conferito un carattere speciale, incoraggia i popoli della nostra nazione a rimanere attaccati ai valori spirituali nobili e ideali che essa incarna. Li invita a godere delle virtù di solidarietà e di mutua assistenza che essa simboleggia. Li spinge anche a ravvivare lo spirito di tolleranza, la compassione e l’affetto reciproco che incarna. Questa è l’occasione, anche, per la nostra gente per emulare questi principi e sfidare le tendenze estremiste, le divisioni e la violenza". Brasile: oltre 15 anni di carcere all’ex tesoriere del Partito dei Lavoratori Il Velino, 24 settembre 2015 Pena legata allo scandalo corruzione Petrobras. 28 anni di prigione all’ex direttore della compagnia. Joao Vaccari, ex tesoriere del Partito dei Lavoratori (PT) brasiliano, al momento al governo, è stato condannato a 15 anni e 4 mesi di carcere per il ruolo ricoperto nell’ambito dello scandalo corruzione relativo alla compagnia energetica di bandiera Petrobras. Il funzionario è stato riconosciuto colpevole di aver accettato tangenti, di aver effettuato operazioni di riciclaggio (money laundering) e di cospirazione criminale. Il 56 enne è stato tesoriere del partito del presidente Dilma Rousseff fino allo scorso aprile, quando ha rassegnato le dimissioni dopo essere stato arrestato dalla polizia federale in quanto sospettato di far parte del sodalizio criminale che ruotava attorno alla compagnia. Insieme a lui è stato condannato anche l’ex direttore di Petrobras, Renato Duque, a cui è stata comminata una pena di 28 anni di detenzione dal giudice federale Sergio Moro. Lo scandalo valutato circa due miliardi di dollari non coinvolge solo il gruppo, ma anche una serie di grandi aziende. Le autorità ritengono che si fosse diffuso un sistema nel quale gli appaltatori hanno corrotto alti funzionari di Petrobras e in cambio hanno ricevuto commesse a prezzi gonfiati I fondi Neri in parte venivano trattenuti da manager e in parte distribuiti a politici che garantivano le coperture. A questo proposito, finora sono stati messi sotto inchiesta una cinquantina di politici, inclusi i presidenti della Camera e del Senato, rispettivamente Eduardo Cunha e Renan Calheiros. Peraltro, gli investigatori sospettano che alcune delle risorse illegali siano state usate per finanziare alcune campagne elettorali e in particolare quella di Rousseff per la rielezione alla presidenza del 2014. Ma potrebbe non essere l’unica. La polizia federale ha chiesto alla Corte suprema di poter interrogare l’ex capo di stato Luiz Inacio Lula da Silva, in quanto si sospetta che anch’egli potrebbe aver beneficiato dei fondi. La questione è molto sentita nel paese latino americano, in quanto recentemente proprio la Massima Corte ha vietato i finanziamenti delle aziende ai partiti politici e alle campagne elettorali, in passato prassi comune che il tribunale ha ritenuto possa aver contribuito a quanto accaduto con Petrobras. La delibera è passata con 8 voti a favor e 3 contrari e abroga una precedente norma del 1995, che consentiva alle aziende di donare fino al 2 per cento del fatturato, ed è stata discussa solo alcuni giorni dopo che il Congresso ha approvato una norma simile, che però il presidente Rousseff non ha ancora siglato per l’ok definitivo. La legge prevede che le aziende potranno continuare a donare contributi, ma con limitazioni molto severe. Innanzitutto, non potranno finanziare singoli candidati ma solo formazioni o coalizioni e comunque per un limite massimo di 5,1 milioni di dollari, a prescindere da quale sia il fatturato. La sentenza della Corte suprema, perciò, potrebbe venire incontro a quanto il capo dello stato ha sempre dichiarato: e cioè la sua ferma opposizione a qualsiasi forma di finanziamento della politica da parte delle aziende. Di conseguenza, il presidente potrebbe porre il veto alla nuova norma, fino a che questa non verrà modificata.