Giustizia: riforma processo penale; ok Camera alla delega al governo sulle intercettazioni La Repubblica, 23 settembre 2015 Passa l’articolo 29 su nuove regole, ma è scontro sul "bavaglio": approvato in Commissione lo stop a udienza filtro, avvocati penalisti contrari. Via libera a norma salva-Iene. Si va verso voto finale L’aula della Camera ha approvato, nel tardo pomeriggio di ieri, l’articolo del disegno di legge sulla giustizia penale che delega il governo a riformare le norme in materia di intercettazioni di conversazioni o comunicazioni. Si tratta dell’articolo 29 che ha incassato 278 sì e 156 no (due gli astenuti). Si sono espressi a favore Pd e Ncd, contrarie le opposizioni. Il via libera al ddl, in prima lettura a Montecitorio, è previsto per questai mattina alle 11. Ma non si placa lo scontro nel merito della riforma: il M5s parla di "norma liberticida, che davvero richiama i peggiori periodi della storia italiana". Un emendamento, infatti, ha approvato stamani lo stop all’udienza per la selezione di quelle intercettazioni rilevanti ai fini della custodia cautelare. La modifica è stata stabilita in comitato dei Nove della commissione Giustizia, su proposta della presidente e relatrice del testo, Donatella Ferranti (Pd), e col parere favorevole del governo. La legge bavaglio del sistema impaurito. No a udienza filtro. Scompare dunque, dalla norma che delega il governo a riformare la disciplina degli ascolti la parola udienza e si parla soltanto di "selezione del materiale intercettativo nel rispetto del contraddittorio tra le parti e fatte salve le esigenze di indagine". A questo punto la modifica dovrà essere votata dall’aula. Vero è che questa novità non fa altro che gettare benzina sul fuoco, con il Movimento 5 Stelle sempre più di traverso. L’udienza filtro, infatti, avrebbe sancito quali intercettazioni fossero effettivamente rilevanti e dunque da portare al processo previo deposito delle stesse. Un deposito che le avrebbe rese pubbliche e pubblicabili. Oltre alla proposta di modifica sull’udienza filtro, la commissione ha presentato altri due emendamenti: uno prevede che la norma che prevede l’assunzione di testimonianza in videoconferenza entri in vigore un anno dopo l’approvazione del disegno di legge, l’altro riguarda l’articolo 30 che contiene una delega diretta a modificare l’ordinamento penitenziario. Penalisti contro. Ma è l’Unione delle Camere penali a esprimere - in una nota - la "ferma contrarietà" all’eliminazione dell’udienza filtro. Si "priverebbe la difesa di ogni contraddittorio sulle scelte in merito allo stralcio di conversazioni captate irritualmente e inutilizzabili, o comunque non rilevanti ai fini del procedimento penale, per preservarle dalla diffusione lesiva della privatezza, dell’onore e della reputazione delle persone intercettate", protesta l’Ucpi. Bocciate anche le ragioni alla base di questo orientamento: "L’argomentazione filtrata secondo cui si tratterebbe di una scelta animata da uno spirito di "garanzia", ovvero dall’intento di evitare che l’ostensione delle intercettazioni anche alla difesa possa comportare il venire meno della relativa segretezza e dunque, il rischio di una diffusione delle stesse, è triste e fa sorridere al tempo stesso, perché ignora responsabilità del circuito investigativo, sotto gli occhi di tutti, e intende attribuire all’Avvocatura colpe inesistenti". Pd "tra informazione e privacy". Dal Pd, è il capogruppo in commissione Giustizia, Walter Verini, a difendere la posizione del governo sulla delega: "Stiamo affrontato nel modo giusto un problema delicato. Evidentemente il M5s preferisce un parlamento paralizzato piuttosto che un impegno serio per riformare il Paese. Noi stiamo cercando di guardare in modo ‘sistemicò ai problemi del nostro ordinamento giudiziario: non tocchiamo le intercettazioni, che restano uno strumento investigativo fondamentale, ma vogliamo tenere insieme due diritti costituzionali, quello all’informazione con quello alla privacy". Ok a norma salva-Iene. Non riguarderà chi esercita il diritto di cronaca il nuovo delitto, punito con la reclusione non superiore a 4 anni, che colpisce chi diffonde il contenuto di conversazioni captate fraudolentemente per recare danno alla reputazione. Lo prevede l’emendamento alla riforma a prima firma del dem Verini approvato a Montecitorio. Si tratta della cosiddetta norma salva-Iene, dalla trasmissione televisiva che delle registrazioni con telecamera nascosta ha fatto il suo must. Hanno votato a favore Pd, Ncd, Fi, M5s e Sel si sono astenuti. Il testo quindi stabilisce che il governo, attuando la delega, preveda "che costituisca delitto, punibile con la reclusione non superiore a quattro anni, la diffusione, al solo fine di recare danno alla reputazione o all’immagine altrui, di riprese audiovisive o registrazioni di conversazioni, anche telefoniche, svolte in sua presenza ed effettuate fraudolentemente. La punibilità è esclusa quando le registrazioni o le riprese sono utilizzate nell’ambito di un procedimento amministrativo o giudiziario o per l’esercizio del diritto di difesa o del diritto di cronaca". Ai Cinque stelle che hanno contestato come questa norma intimorisca i cittadini che vogliono denunciare, attraverso registrazioni nascoste, reati, la Ferranti ha spiegato che la pena riguarda "solo chi registra per recare danno alla reputazione e non un cittadino che voglia denunciare ad esempio un usuraio". Giustizia: Come cambia il processo penale, la riforma in 15 punti Askanews, 23 settembre 2015 Tempi certi per l’esercizio dell’azione penale, stretta sui "reati di strada", limiti alla pubblicabilità delle intercettazioni e riordino dell’ordinamento penitenziario. Sono le misure approvate dalla Camera nell’ambito della riforma del processo penale. In vista del voto finale che si terrà questa mattina, ecco le principali novità. Intercettazioni. Il governo dovrà predisporre norme per evitare la pubblicazione di conversazioni irrilevanti ai fini dell’indagine e comunque riguardanti persone completamente estranee attraverso una selezione del materiale relativo alle intercettazioni. Nessuna restrizione quanto ai reati intercettabili, ma si semplifica il ricorso alle intercettazioni per i reati contro la pubblica amministrazione. Nella delega non c’è alcuna previsione di pene carcerarie a carico dei giornalisti ma nel corso dell’esame in aula è stato bocciato un emendamento M5S che escludeva chiaramente le sanzioni per i cronisti. Registrazioni fraudolente. è prevista la delega per punire (fino a 4 anni) la diffusione di captazioni fraudolente di conversazioni tra privati diffuse al solo fine di recare a taluno danno alla reputazione e all’immagine. La punibilità è esclusa quando le riprese o registrazioni costituiscono prova di un processo o sono utilizzate per l’esercizio del diritto di difesa e del diritto di cronaca. Estinzione del reato per condotte riparatorie. Nei reati procedibili a querela il giudice dichiara estinto il reato, sentite le parti e la persona offesa, quando l’imputato ripara interamente il danno mediante restituzione o risarcimento ed elimina le conseguenze del reato. Ampliamento diritti parte offesa. A 6 mesi dalla denuncia la persona offesa ha diritto di conoscere lo stato del procedimento, attribuendole così un potere di controllo e stimolo all’attività del pm. Alla persona offesa inoltre si dà anche più tempo per opporsi alla richiesta d’archiviazione, che nel caso di furto in abitazione dovrà in ogni caso esserle comunicata. Furti e rapine. Aumenta la pena minima per furto in abitazione (ora sarà da 3 a 6 anni), per furto aggravato (da 2 a 6 anni) e rapina semplice (da 4 a 10 anni) e aggravata. Voto scambio politico-mafioso. Pene in aumento anche per il voto di scambio politico-mafioso, che dagli attuali 4-10 anni passerà a 6-12. Tempi certi indagine. Il rinvio a giudizio o l’archiviazione dovranno essere chiesti dal pm entro 3 mesi, prorogabili di altri 3 dal pg presso la corte d’appello se si tratta di casi complessi, dalla scadenza di tutti gli avvisi e notifiche di conclusa indagine. Per i delitti di mafia e terrorismo il termine però sale automaticamente a 12 mesi. In caso di inerzia del pm c’è l’avocazione d’ufficio del fascicolo disposta dal pg. è poi previsto uno specifico potere di vigilanza del pg sulla tempestiva e regolare iscrizione nel registro degli indagati. Una norma transitoria riserva comunque i nuovi termini alle notizie di reato iscritte dopo l’entrata in vigore della riforma. Limiti a poteri Gup/Gip. Nell’udienza preliminare è soppresso il potere del giudice di esercitare la supplenza dei poteri-doveri di indagine del pm. Rimane invece salva la facoltà del giudice di disporre l’acquisizione di prove decisive ai fini del proscioglimento dell’imputato. Se dopo le ulteriori indagini ordinate dal gip (a seguito di una prima richiesta di archiviazione), il pm richiede nuovamente l’archiviazione e non vi è opposizione della persona offesa, il gip non può ordinare l’imputazione coatta. Colloqui con il difensore. Nel corso delle indagini preliminari per i reati di mafia e terrorismo il giudice può differire il colloquio dell’arrestato con il proprio avvocato per un massimo di 5 giorni. Motivi di appello più rigorosi. Si rendono più rigorosi e specifici a pena di inammissibilità i motivi di appello, così come sono scanditi con maggiore puntualità i requisiti della sentenza in modo da rendere più agevole e al tempo stesso semplificare le impugnazioni. Deflazione ricorsi in cassazione. Il ricorso per cassazione subisce un incisivo restyling. Da un lato aumentano le sanzioni pecuniarie in caso di inammissibilità dei ricorsi, dall’altro si introduce una disciplina semplificata per l’inammissibilità per vizi formali nei casi in cui non sia già stata dichiarata dallo stesso giudice che ha emesso il provvedimento impugnato. è poi previsto che in caso di "doppia conforme" di assoluzione il ricorso per cassazione possa essere proposto solo per violazione di legge. Si allargano inoltre le ipotesi di annullamento senza rinvio. Il ricorso, deciso dalla Corte in forma semplificata, è limitata ai vizi della espressione della volontà dell’imputato, al difetto di correlazione tra richiesta e sentenza o all’illegalità della pena o delle misure di sicurezza. Il potere di correggere l’errore materiale è attribuito allo stesso giudice che ha emesso la sentenza. Decreto penale di condanna. Per incentivarne l’utilizzo si consente al giudice, nel determinare la pena pecuniaria in sostituzione di quella detentiva, di tener conto anche della condizione economica dell’imputato e si abbassa da 250 a 75 euro il valore di conversione di un giorno di reclusione. Abbreviato. Una volta che il giudizio abbreviato è stato chiesto e accettato dal giudice non potranno più essere riproposte questioni di competenza territoriale e le nullità, se non assolute, saranno sanate. Quando l’imputato fa richiesta di abbreviato condizionato a una integrazione probatoria contestualmente può fare domande subordinate di "abbreviato secco" o patteggiamento. è stato introdotto uno sconto di pena maggiorato (della metà) per le contravvenzioni. Processi a distanza. Viene ampliato il ricorso ai collegamenti in video nei processi di mafia e terrorismo precisando che la partecipazione al dibattimento a distanza diviene la regola per chi si trova in carcere (anche in caso di udienze civili) e per i "pentiti" sotto protezione. L’eccezione (ossia la presenza fisica in aula) può essere prevista dal giudice con decreto motivato ma non vale mai per i detenuti sottoposti al 41 bis. Riforma Ordinamento Penitenziario. Il governo è delegato a risistemare l’ordinamento penitenziario facilitando tra l’altro il ricorso alle misure alternative, eliminando automatismi e preclusioni all’accesso ai benefici penitenziari, valorizzando il lavoro e riconoscendo il diritto all’affettività. Dai benefici restano comunque esclusi i condannati all’ergastolo per mafia e terrorismo e i casi di eccezionale gravità e pericolosità. Giustizia: il governo si prende le intercettazioni di Riccardo Chiari Il Manifesto, 23 settembre 2015 Passa alla Camera con i voti di Pd e Ncd l’articolo del ddl sulla giustizia penale che delega il governo a riformare le norme sulle intercettazioni. Critici non solo M5S e Sel, ma anche gli avvocati penalisti e la Federazione della stampa. Il ministro Orlando: "Ci sarà un Tavolo tecnico di esperti, con tutti gli operatori che utilizzano questi strumenti". Compresi i giornalisti. Non piace a tanti l’articolo del ddl sulla giustizia penale che delega il governo a riformare le norme sulle intercettazioni. Approvato a Montecitorio con i voti di Pd e Ncd, il provvedimento viene bocciato da Ms5 e Sel, dalla Federazione nazionale della stampa e anche dall’Unione delle camere penali. A tutti risponde il guardasigilli Andrea Orlando, che prova a gettare acqua sul fuoco: "Non c’è nessun mandato e non abbiamo chiesto nessun mandato al parlamento per limitare le intercettazioni come strumento di indagine. Lo strumento è fondamentale nella lotta ai gravi fenomeni di carattere criminale, non se ne può fare a meno". A detta dell’esecutivo, la delega permetterà di affrontare il tema delle intercettazioni in un "tavolo tecnico" di esperti: "Ne faranno parte tutti gli operatori che più direttamente utilizzano questi strumenti - precisa Orlando - e chiarirà le intenzioni del governo, facendo giustizia delle molte illazioni circolate in questi giorni. L’obiettivo è quello di tutelare le persone non coinvolte nei procedimenti, e impedire la diffusione di informazioni che non abbiano rilevanza penale con tutti gli accorgimenti tecnici necessari". Intanto rischia di scomparire la progettata udienza filtro per la selezione di quelle intercettazioni rilevanti ai fini della custodia cautelare. Al suo posto si parla di "selezione del materiale intercettativo nel rispetto del contraddittorio tra le parti, e fatte salve le esigenze di indagine". Questo provoca la protesta degli avvocati penalisti: "Si priva la difesa di ogni contraddittorio sulle scelte in merito allo stralcio di conversazioni captate irritualmente e inutilizzabili, o comunque non rilevanti ai fini del procedimento penale, per preservarle dalla diffusione lesiva della privatezza, dell’onore e della reputazione delle persone intercettate". Anche la Fnsi non è soddisfatta dello stato dell’arte: "Nel prendere atto della volontà di non limitare la libertà di stampa e il diritto di cronaca, annunciata dall’onorevole Walter Verini - osserva il segretario generale Raffaele Lorusso - è auspicabile che vengano adottati atti consequenziali. Non si tratta di invocare l’impunità e neanche di giustificare eventuali abusi, ma di prendere atto che la rilevanza pubblica di una notizia prescinde dalla rilevanza penale della stessa. La condivisibile esigenza di tutelare la riservatezza delle persone non può giustificare alcuna forma di bavaglio, ma deve tenere conto del fatto che chi riveste una carica pubblica deve accettarne onori e oneri, a cominciare da una privacy attenuata rispetto a quella dei cittadini comuni". A Lorusso risponde lo stesso Verini: "Un mio ordine del giorno impegna il governo, nell’ambito nell’esercizio della delega in materia di intercettazioni, a coinvolgere, oltre agli organismi rappresentativi dell’ordinamento giudiziario, anche quelli del mondo dell’informazione interessati dalle nuove norme come, ad esempio, il consiglio dell’Ordine dei giornalisti e la Federazione nazionale della stampa". Il capogruppo Pd in commissione giustizia è anche l’autore dell’emendamento ribattezzato "salva Iene": non riguarderà chi esercita il diritto di cronaca il nuovo delitto che colpisce chi diffonde conversazioni captate fraudolentemente per recare danno alla reputazione. Salve quindi le registrazioni con telecamera nascosta, sia esercitando il diritto di cronaca che per la difesa nel processo. In questo caso hanno votato a favore Pd, Ncd e Fi, mentre M5s e Sel si sono astenuti. Giustizia: la trasparenza è l’unico rimedio ai guasti delle intercettazioni di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 23 settembre 2015 Decidere cosa è una notizia spetta non alla legge ma ai giornalisti, segnala la Corte di Strasburgo. Se la delega in bianco al governo promette male, peggio ancora è l’assenza di un diritto di accesso diretto agli atti. In politica vince chi impone la propria agenda, e perde chi se la fa imporre. Perciò Renzi sta riuscendo a fare sulle intercettazioni quello che non era riuscito a Berlusconi: perché, proprio come l’ex Cavaliere ma senza il suo fardello di processi, sta riuscendo a schiacciare i giornalisti sulla distorta immagine di spioni dal buco della serratura giudiziaria, voyeur sciacalli delle vite degli altri. Aiutato, per paradosso, proprio da chi alimenta questa distorta visione inneggiando all’intercettateci tutti, flirta con il totalitarismo mentale del "nulla teme chi nulla ha da nascondere", inflaziona il retorico riflesso condizionato della legge-bavaglio, o corre come un bambino dell’asilo a piagnucolare sotto la gonna dei magistrati che "è colpa loro inserire le intercettazioni negli atti". E più ci si impigrisce a scrivere "spunta il nome di Tizio" o "nelle carte il nome di Caio", e meno risulta credibile la difesa - prima contro i progetti legislativi di Prodi/Mastella, poi di Berlusconi/Alfano e adesso di Renzi/Orlando - del diritto dei lettori di essere informati anche sui contenuti di intercettazioni e atti non più coperti da segreto, regolarmente depositati, e di rilevanza pubblica non necessariamente solo giudiziaria né legata soltanto alla posizione degli indagati. Informare significa non limitarsi al copia-incolla di atti, sforzarsi di restituire al lettore anche il contesto di alcune frasi, estrarre i temi imprescindibili e nel contempo minimizzare i danni per le persone coinvolte, distinguere chi "fa" qualcosa da chi "dice" qualcosa, ed entrambi da chi invece è soltanto evocato da altri. Ma in questa operazione è esclusivamente il giornalista a doversi assumere la responsabilità (sociale dinanzi ai lettori, prima ancora che penale davanti alle querele) di decidere che cosa sia notizia di interesse pubblico da trattare secondo deontologia e già vigenti regole della privacy: senza che il concetto di rilevanza di una notizia possa essere fatto dipendere solo dal suo peso giudiziario, e tantomeno delegato alla selezione della politica tramite una legge, o al filtro dei procuratori tramite una procedura, o al setaccio degli avvocati attraverso le relazioni con le imprese, i partiti e le persone loro clienti (con il risultato pratico di creare se va bene una casta di "iniziati", e se va male un potenziale arsenale di piccoli e grandi segreti scambiati al mercato nero dei ricatti). Che questa non sia una arrogante pretesa dei giornalisti lo si ricava dalla casistica delle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo. Per essa, infatti, il diritto di dare e di ricevere informazioni - in bilanciamento con i diritti all’onore, alla reputazione, alla riservatezza e al giusto processo - è certamente un diritto condizionato, che cioè ammette interferenze da parte di uno Stato, ma solo alla duplice condizione che esse siano "necessarie in una società democratica" e "proporzionate": nel contributo a temi di dibattito generale, "ciò che è di interesse generale dipende dalle circostanze del caso concreto" (sentenza Axel Springer contro Germania 2012), non spetta ai giudici nazionali sostituirsi ai giornalisti nell’indicare le modalità con le quali scrivere gli articoli (Marques da Silva contro Portogallo 2010), e un Paese può essere condannato nel caso in cui i suoi giudici nazionali "in modo sorprendente" riversino sul giornalista l’onere di provare l’interesse pubblico di una notizia (Kydonis contro Grecia 2009). Ha dunque poco senso asserragliarsi nella trincea del rintuzzare preventivamente l’incongruenza spicciola di questa o quella norma futuribile, peraltro a tutt’oggi confusamente destinata a riempire una legge-delega ieri data dalla Camera totalmente e assurdamente in bianco al governo, mentre da ribaltare è l’agenda pubblica sottostante a questo primo voto in Parlamento: espresso peraltro con l’autorevolezza che contraddistingue partiti appena auto-abbuffatisi di finanziamenti pubblici 2013-2014, nonostante l’apposita Commissione di Garanzia abbia attestato di non essere stata messa in condizione di verificare la trasparenza minima di molti dei precedenti bilanci di partito. Rovesciare l’agenda: a cominciare dal fatto che Parlamento e Governo - tanto smaniosi di discettare di privacy quanto curiosamente àfoni ad esempio sui finanziatori di cene elettorali dietro il ridicolo alibi proprio della privacy dei donatori - mettono mano alle intercettazioni ma ancora non dotano l’Italia di un effettivo diritto di accesso generalizzato alle informazioni pubbliche (anche in assenza di un interesse giuridicamente legittimante richiesto invece come requisito dalla legge 241 del 1990): lo statunitense "Freedom of Information Act" è un modello ormai patrimonio di moltissime nazioni dalla Finlandia sino al Rwanda, ma lontano anni luce dalla finta imitazione del governo Monti nel 2013 o dal pallido emendamento alla riforma Madia della P.A. pensato solo per gli archivi pubblici di cui però sia già prevista come obbligatoria la pubblicazione. Più informazioni diventasse legittimo attingere, infatti, e più si sgonfierebbe l’esasperata attenzione a quei brandelli di verità afferrati talvolta tra le righe delle intercettazioni. Perché anche per esse, come più in generale per gli atti giudiziari, l’unico realistico efficace rimedio ai guasti del "Far West" giornalistico sarebbe non iniettare una maggiore dose di segreto, ma al contrario riconoscere ai giornalisti e disciplinare un accesso diretto e trasparente ai medesimi atti man mano già depositati alle parti: le quali verrebbero tutelate - nella loro dignità di persone e nella loro posizione di indagati/ testimoni/vittime - da un meccanismo di lecita e sorvegliata disponibilità, alla luce del sole, molto più che dagli spizzichi e bocconi dell’odierna clandestinità, del (finto) proibizionismo, e della babele di pseudo-fonti giornalistiche tutte per definizione non disinteressate. Giustizia: la delega sulle intercettazioni non può ignorare il contraddittorio dalla Giunta dell’Unione Camere penali camerepenali.it, 23 settembre 2015 Non vogliamo neppure prendere in considerazione l’argomento secondo il quale la paventata soppressione della "udienza filtro", con conseguente eliminazione di ogni forma di contraddittorio, sarebbe animata da uno spirito di "garanzia", ovvero dall’intento di evitare che l’ostensione delle intercettazioni anche alla difesa possa comportare il venire meno della relativa segretezza e dunque, il rischio di una diffusione delle stesse. Riprende oggi alla Camera la discussione sull’ultima parte del Ddl di riforma del processo penale, relativa anche alla delega al Governo in materia di intercettazioni di conversazioni o comunicazioni. Dal Governo sono state riferite notizie alla stampa secondo le quali il testo attuale potrebbe essere modificato con la soppressione dell’udienza di selezione del materiale intercettativo. L’Unione ha immediatamente rappresentato - nel solco della costante interlocuzione che si è realizzata con il Ministero della Giustizia nell’iter di approvazione del Ddl processo - la propria ferma contrarietà a tale soluzione, che priverebbe la difesa di ogni contraddittorio sulle scelte in merito allo stralcio di conversazioni captate irritualmente e inutilizzabili, o comunque non rilevanti ai fini del procedimento penale, per preservarle dalla diffusione lesiva della privatezza, dell’onore e della reputazione delle persone intercettate. L’eventuale lesione del contraddittorio in un passaggio di tale delicatezza equivarrebbe a privare di ogni reale efficacia l’ipotizzato strumento di controllo, riducendolo ad un vuoto simulacro. L’argomentazione filtrata secondo cui si tratterebbe di una scelta animata da uno spirito di "garanzia", ovvero dall’intento di evitare che l’ostensione delle intercettazioni anche alla difesa possa comportare il venire meno della relativa segretezza e dunque, il rischio di una diffusione delle stesse, è triste e fa sorridere al tempo stesso, perché ignora responsabilità del circuito investigativo, sotto gli occhi di tutti, e intende attribuire all’Avvocatura colpe inesistenti. È offensivo, prima ancora che per il ruolo dell’Avvocatura, per l’intelligenza di tutti e di ciascuno, pensare che la propalazione di contenuti intercettativi lesivi dell’immagine dell’indagato sia compiuta ad opera del difensore che lo assiste. È necessario, dunque, che il Governo e la maggioranza diano nuova dimostrazione dell’effettività del dialogo che hanno, in modo meritorio, inteso tessere con l’Unione delle Camere Penali, respingendo ogni tentazione inquisitoria ed autoritaria e garantendo il contraddittorio tra le parti in un ambito così delicato. Ogni soluzione che venisse meno a tali garanzie sarebbe colta con estrema contrarietà dall’Ucpi, con ogni necessaria conseguenza, anche sul piano delle relative iniziative da assumere. Giustizia: delega fiscale; pene più leggere per evasione, nuove rate a chi ritarda pagamenti di Roberto Petrini La Repubblica, 23 settembre 2015 Taglia il traguardo, ad un anno e mezzo dal varo avvenuto nel marzo del 2014, la delega fiscale: ultima novità un aiuto ai contribuenti in difficoltà con una riaperture dei termini di rateizzazione fino a sei anni. Ma entrano in vigore anche le nuove sanzioni penali "alleggerite" per chi fa dichiarazione infedele e fraudolenta attraverso artifici, viene quintuplicata la soglia di non punibilità per l’omesso versamento Iva che passa da 50 a 250 mila euro. Chi estingue il debito con il fisco prima del dibattimento, e ha fatto il ravvedimento operoso, potrà evitare la sanzione penale. Ieri il consiglio dei ministri ha varato l’ultimo pacchetto definitivo (dopo il doppio passaggio parlamentare) composto da cinque decreti con misure che riguardano i rapporti con il cittadino (riscossione, contenzioso e Agenzia delle entrate) e l’evasione (riduzione delle sanzioni e monitoraggio annuale del tax gap). Nel corso dell’ultimo anno era stata varata la semplificazione ( con il 730 telematico e la fatturazione elettronica), le commissioni censuarie, la certezza dell’abuso di diritto, la tassazione dei tabacchi. Restano fuori la riforma del catasto, che Renzi bloccò nei mesi scorsi per evitare un aumento delle tassazione ma che potrebbe sempre rispuntare con l’intervento sulla Tasi, e la disciplina dei giochi. Tra le principali novità inserite dal governo, che ha recepito le richieste del Parlamento, c’è la riapertura dei termini per la rateizzazione delle imposte, per i contribuenti che non sono stati in grado di rispettare i precedenti piani di pagamento dei tributi. In particolare, la nuova disposizione stabilisce che le somme non ancora versate, oggetto di piani di rateazione da cui i contribuenti siano decaduti nei 24 mesi antecedenti all’entrata in vigore del decreto, possono essere oggetto di un nuovo piano di rateazione, ripartito fino a un massimo di 72 rate mensili. Sul versante delle sanzioni penali il decreto conferma un sostanziale alleggerimento con l’elevazione delle soglie di non punibilità in termini percentuali e in valore assoluti. Il reato centrale, di fatto una frode fiscale, diventa la dichiarazione fraudolenta mediante artifici, spostando l’obiettivo sulla "catena fraudolenta", sui comportamenti, su dolo e intenzioni, piuttosto che sul dato oggettivo: per essere puniti (fino a sei anni di reclusione) l’imposta evasa deve superare i 30 mila euro e l’ammontare imponibile non dichiarato deve essere almeno di 1,5 milioni (prima era 1 milione) mentre le poste gonfiate devono essere superiori al 5 per cento dell’imposta dovuta. La semplice dichiarazione infedele ( da 1 a tre anni di reclusione) viene dunque in parte depenalizzata dato che si può incappare nel reato anche senza esplicita intenzione. Viene elevata dunque la soglia di non punibilità (tre volte più alta di quella attuale sale da 50 a 150 mila euro) e per incappare nel reato l’ammontare sottratto all’imponibile deve superare i 2 milioni oppure stare entro un margine di tolleranza del 10 per cento rispetto alla corretta valutazione degli attivi. Trattamento più morbido anche per l’omesso versamento dell’Iva: la soglia di non punibilità viene quintuplicata passando da 50 a 250 mila euro. Attenzione tuttavia alla distruzione di documenti: costa 6 anni di reclusione. Prevista anche una forma di non punibilità penale per chi estingue il debito con il fisco. Potrà farlo chi ha fatto omesso versamento dell’Iva o delle ritenute (cioè ha dichiarato la verità ma non ha pagato): può evitare il penale se paga prima dell’apertura del dibattimento. Il secondo caso riguarda dichiarazione infedele e omesso versamento: chi ha fatto il ravvedimento operoso, prima del successivo anno di imposta e ha pagato tasse e sanzioni, e non ha ricevuto accertamenti, può evitare il penale. Situazioni, spiega la Relazione tecnica, in cui emerge la "spontanea resipiscenza del contribuente" e dunque lo Stato rinuncia alla pena. Giustizia: magistrati censori contro Erri De Luca, perché non dobbiamo stare zitti di Angela Azzaro Il Garantista, 23 settembre 2015 Otto mesi per aver espresso un’opinione, cioè che la Tav va boicottata. È quanto chiesto dal pubblico ministero Antonio Rinaudo nel corso del processo contro Erri De Luca a Torino. Lo scrittore napoletano aveva pronunciato questa frase in alcune interviste rilasciate al Huffington Post e all’Ansa. L’intento era ed è chiaro: un giudizio negativissimo su una linea di alta velocità che secondo lui devasta l’ambiente, succhia denaro e non serve a niente. Un’opinione appunto che dovrebbe essere difesa dall’articolo 21 della Costituzione. Ma non per la procura di Torino che prima ha rinviato a giudizio De Luca e ora chiede per lui ben otto mesi di carcere, perché quella frase avrebbe il potere di istigare alla violenza. Siamo tornati, in questo Paese, agli anni Settanta, quando si accusavano i cosiddetti cattivi maestri di spingere i giovani alla lotta armata. Non era vero allora, non è vero oggi. Ma oggi di quel clima di lotta e di conflitto anche ideologico è rimasto ben poco. La supremazia non la hanno i teorici della rivoluzione, il potere è quasi tutto in mano a una magistratura che in questi decenni ha assunto il ruolo di guida politica e "morale" del Paese. Chiedere la condanna di qualcuno per le sue opinioni è sempre stato grave, ma forse lo è ancora di più oggi in assenza di una cultura che vigili e che limiti il potere dei giudici. Negli anni Settanta la battaglia ideologica era forte, oggi restano sul campo pochi intellettuali coraggiosi che rischiano di finire in galera se solo osano alzare un po’ la voce. In questo clima di assuefazione alla supremazia dei pm, nuovi censori delle idee e dei costumi, si registrano alcune contraddizioni. Mentre infatti Erri De Luca rischia la galera, un senatore della Repubblica, Calderoli, è stato salvato dai suoi parigrado per aver offeso l’ex ministra Kyenge. Il senato doveva autorizzare la magistratura a procedere contro di lui per istigazione all’odio razziale, sulla base della legge Mancino. Questo giornale è sempre stato contrario al reato di opinione. Le idee distorte e pericolose, come quelle di Calderoli o Salvini, si combattono politicamente, non con la galera. Ma però guarda caso Calderoli si salva, mentre De Luca rischia di essere condannato per avere detto un suo parere e averlo fatto come sa fare lui: diretto, senza mediazioni. L’altra contraddizione è insita nella sinistra. Quella sinistra che oggi scrive giustamente l’hastag #iostoconerri e si mobilita sui social in suo sostegno (in maniera molto debole, a dire il vero) spesso è la prima a chiedere punizioni per chi la pensa diversamente. Battiamoci perché lo scrittore napoletano non venga condannato, ma facciamo sì che questa sia anche un’occasione per capire come le opinioni, anche le più distanti da noi, non vanno punite semmai combattute con le armi del pensiero e dell’azione politica. Insomma la libertà di opinione va difesa sempre, non a seconda delle convenienze o dei propri convincimenti. Giustizia: Confalonieri visita Dell’Utri in carcere "la sentenza Contrada cambia tutto" di Francesco Verderami Il Sole 24 Ore, 23 settembre 2015 È andato a trovarlo e non era la prima volta, solo che stavolta si è saputo. Non è strano incontrare un amico, se non fosse Marcello Dell’Utri, ed è per lui che venerdì scorso Fedele Confalonieri è entrato nel carcere di massima sicurezza di Parma, lo stesso dov’è rinchiuso Totò Riina. Il patron di Mediaset vorrebbe evitare di parlarne, "perché la cosa mi fa star male e perché non vorrei fargli del male". Poi però accetta di raccontare qualcosa del colloquio "che è stato diverso rispetto ai precedenti": "Marcello, che finora si sentiva un carcerato, adesso si sente un sequestrato". La "nuova condizione mentale" di Dell’Utri, secondo Confalonieri, è figlia della "nuova situazione giudiziaria": "Sono un sequestrato - mi ha detto - perché lo Stato non avrebbe più diritto a tenermi qui". È al "caso Contrada" che si riferisce, alla sentenza con cui la Corte europea dei diritti dell’uomo ha ritenuto ingiusta la condanna comminata dalla giustizia italiana all’ex numero tre del Sisde per concorso esterno in associazione mafiosa, siccome gli addebiti erano riferiti a fatti antecedenti al 1994, anno in cui la Cassazione elaborò per la prima volta in modo compiuto la fattispecie di reato. "Anche per Marcello è così, anche lui ha subito una condanna per fatti antecedenti all’introduzione della norma", dice l’uomo del Biscione: "Perciò va fatta giustizia. E mi auguro che il suo caso venga affrontato senza guardare a Dell’Utri come all’amico di Silvio Berlusconi, come al politico. Qui non c’entrano le toghe rosse, non c’entra la politica. Anzi, la polemica politica deve restare fuori da questa storia: questo è un caso di giustizia che va risolto il prima possibile". È inutile ricordare a Confalonieri che Dell’Utri non è solo "l’amico di Silvio" o "il politico", ma anche un condannato a sette anni di reclusione, perché - secondo la sentenza definitiva della Cassazione - dal 1974 al 1992 è stato il garante "decisivo" dell’accordo tra Berlusconi e Cosa nostra. Da cittadino rispetta la giustizia ma da "amico" continua a considerare "Marcello un innocente, vittima di molti pregiudizi: per il suo ruolo a fianco di Berlusconi, per la sua sicilianità". Il profilo che offre di Dell’Utri è ben diverso da quello tracciato dalla Corte suprema, che lo definisce "uomo di particolare pericolosità sociale": "È una delle persone più miti, più colte, più perbene che conosca. Ed è una persona che comunque ora è ingiustamente detenuta, perché qualsiasi cosa gli sia stata addebitata, alla luce della sentenza su Contrada non può più essergli addebitata". Alterna accenti accorati a momenti di titubanza, "non vorrei creargli dei problemi invece di aiutarlo... Marcello ha appena compiuto 74 anni, è rinchiuso da 18 mesi, ha perso 15 chili... No, non si abbatte, si fa le sue due ore d’aria, si è occupato della biblioteca interna... Per lui i libri sono come per me il pianoforte... Si è iscritto anche all’università: il mese prossimo darà l’esame di storia medievale... Insomma, si fa forza. Ma adesso, con questa sentenza, è cambiato tutto e ho capito che ha bisogno di sostegno". Perciò Confalonieri ha voluto incontrare l’avvocato di Dell’Utri, il professor Andrea Saccucci, dal quale ha saputo come si muoverà la difesa: "Strade ce ne sono. C’è l’incidente di esecuzione, con cui si può puntare a ottenere l’inesecutività della condanna. C’è il ricorso pendente alla Corte europea, la possibile richiesta di grazia. Il problema è quello dei tempi". Quando venerdì è andato a Parma era in compagnia della moglie di Dell’Utri, Miranda: "In un carcere di massima sicurezza le procedure per una visita sono molto severe. Ma almeno ho potuto parlare con lui, per un po’ siamo rimasti insieme. Si sente forte. Mi ripete sempre che "quando sei qui dentro ripensi alla tua vita"". D’un tratto Confalonieri cambia il tono di voce: "Saperlo lì mi fa andar fuori di testa. E la mia paura è che vada fuori di testa anche lui. Lo so, so perfettamente che la condizione di Marcello è la situazione di tutti i reclusi. Perciò spero che si possa affrontare il caso come se si trattasse di un detenuto qualsiasi. Bisognerebbe scarnificare l’immagine di Dell’Utri, presentarlo come un cittadino comune, come un problema di giustizia. Ci sarà qualcuno che vorrà sollevare il velo. Ci saranno giuristi, uomini di legge, che riconosceranno la particolarità della situazione. Io mi auguro di sì, spero scocchi la scintilla. Non è politica, non è politica", ripete senza prender fiato. E mentre lo ripete si avverte l’ansia di Confalonieri, la sua preoccupazione: perché si rende conto che sarà complicato separare il "caso giudiziario" dal "pregiudizio" su Dell’Utri, che "vale quanto la condanna". "Con Marcello ci scriviamo", dice il capo del Biscione, che torna a ricomporsi nel tono di voce come a voler mettere ordine ai suoi pensieri. Anche le lettere, come le visite, sono controllate: "La prima volta mi scrisse che ogni mattina avvertiva una cappa e sentiva un ronzio che lo accompagnava tutto il giorno. Alla lunga si è abituato. "Reagisco e non mi arrendo". Ma l’estate scorsa mi descrisse una scena che non ho dimenticato: "Sono le undici, il sole non batte ancora da questa parte, ma nella mia cella ci sono già 38 gradi. Non fa caldo, è come fosse febbre"". Negli scritti ha notato un cambiamento: "Lui ha sempre avuto uno spiccato senso dell’umorismo, che ora si è trasformato in ironia carceraria". Venerdì, all’atto di congedarsi, Confalonieri ha cercato di non mostrarsi preoccupato: "Quando lo vedo non faccio il compassionevole. Gli dico che abbiamo avuto una vita piena, che siamo avanti negli anni e che se ci lamentassimo rischieremmo magari di far arrabbiare il Padreterno. Però lui in effetti il purgatorio lo sta già scontando. Il caso giudiziario c’è e se c’è giustizia va risolto". Stretta sulle aggravanti per la custodia cautelare di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 23 settembre 2015 Corte di cassazione, Sezioni unite penali, sentenza 22 settembre 2015 n. 38518. Stretta sulla custodia cautelare. Le Sezioni unite, con la sentenza n. 38518 delle Sezioni unite penali depositata ieri, fanno chiarezza sulla considerazione delle aggravanti per la determinazione della pena e, in particolare, sulla individuazione dei corrispondenti termini di durata massima delle fasi processuali precedenti la sentenza di merito di primo grado. Deve tenersi conto, sottolineano le Sezioni unite nel caso di concorso di più circostanze aggravanti a effetto speciale, oltre che della pena stabilita dalla legge per la circostanza più grave, anche del successivo aumento complessivo di un terzo per le ulteriori aggravanti meno gravi. Questa la soluzione, penalizzante per l’imputato, che viene data alla questione del concorso tra aggravanti a effetto speciale. Tra i motivi di ricorso, estremamente articolati, trovava posto anche la sottolineatura della necessità di una lettura delle disposizioni del Codice di procedura penale (in particolare articoli 275, 278 e 303) costituzionalmente orientata nella direzione del favor libertatis. Una lettura cioè che uniformi il trattamento sanzionatorio per il conteggio della durata della custodia cautelare ai medesimi criteri che fanno da bussola all’autorità giudiziaria nella determinazione della pena in caso di condanna. Tanto più che la custodia preventiva rappresenta un’anticipazione della pena, da conteggiare in diminuzione dalla successiva fissazione effettuata dalla sentenza. Osservazioni che però le Sezioni unite ritengono non colgano nel segno dal momento che invece va ricordata "la coerenza logica e la ragionevolezza della esposta divaricazione valutativa tra entità della pena per il reato contestato con una misura cautelare ed entità della pena applicabile all’esito del giudizio di merito". L’incidente cautelare, ammette la sentenza, non deve essere considerato un elemento isolato dal complessivo procedimento penale all’interno del quale si colloca, tuttavia ne va valutata anche la specificità. Soprattutto nel senso che, nel configurare un giudizio futuro di colpevolezza, sulla base di quanto previsto dall’articolo 273 comma 1 del Codice di procedura penale, dell’indagato non ancora raggiunto dalla sentenza di primo grado (prognosi che rappresenta il presupposto applicativo di ogni misura cautelare), la gravità e pericolosità del reato contestato non possono non essere valutate in maniera complessiva. Tenendo conto cioè di tutte le componenti costitutive e di circostanza del delitto e, in maniera particolare, "ove prefigurate in più di una, delle circostanze aggravanti ad effetto speciale, connotate, proprio in quanto tali, da un coefficiente rappresentativo di maggiore e più allarmante offensività sociale". Le Sezioni unite trovano allora quasi superfluo ricordare, del resto, che i termini di durata massima della custodia cautelare sono calibrati, articolo 303 del Codice di procedura, sulla oggettiva gravità del reato, tratta "dall’entità quantitativa della sanzione prevista in astratto dal legislatore per le fasi delle indagini preliminari e del giudizio di primo grado fino alla pronuncia della sentenza di condanna di primo grado ovvero in concreto "applicata" dal giudice di merito per fasi processuali successive". Un esempio applicativo del principio enunciato lo offre proprio il caso esaminato dalla sentenza dove, per il reato di estorsione, il gioco delle circostanze conduce a individuare una pena edittale massima che non può essere inferiore a 20 anni, per effetto dell’aggravante più pesante (quella dell’essere stata l’azione criminale compiuta da più persone); limite che deve essere elevato di un terzo a causa dell’ulteriore aggravante contestata, quella della natura mafiosa della condotta illecita. Ne risulta così che per il delitto di estorsione considerato, la pena massima risulta ampiamente superiore a 20 anni, definendo in questo modo il termine di custodia cautelare per la fase del giudizio di primo grado in un anno e 6 mesi. Non punibile per particolare tenuità del fatto il coltivatore occasionale di cannabis di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 23 settembre 2015 Corte di cassazione - Sezione III - Sentenza 22 settembre 2015 n.38364 Sì alla particolare tenuità del fatto per il coltivatore occasionale di canapa indiana. La Cassazione, con la sentenza 38364 depositata ieri, afferma che il beneficio della non punibilità previsto dall’articolo 131-bis del Dlgs 28/2015, può essere applicato a chi fa coltivazioni domestiche di cannabis in assenza di precedenti per lo stesso reato. Al contrario la Cassazione lo esclude se la condotta, come nel caso esaminato, è abituale, anche se i singoli fatti esaminati separatamente sono di particolare tenuità. La Suprema corte ripercorre la giurisprudenza che si è occupata della coltivazione "fai da te", ad iniziare dalla linea "dura", alla quale aderisce, affermata dalle Sezioni unite (sentenza 28605/2008), secondo la quale è reato la coltivazione, anche ad uso personale, di piante dalle quali si può estrarre sostanza stupefacente. Una condotta che diventa inoffensiva solo la sostanza ricavabile non produce "un effetto stupefacente in concreto rilevabile". Più permissiva la conclusione della sentenza 25674 del 2014: è inoffensiva la cannabis in vaso se il principio attivo è pari a 16 mg. Droga a parte la Cassazione sottolinea come la giurisprudenza ha "seppure timidamente" fatto appello al difetto di offensività per ritenere non punibili anche altri reati. Sulla stessa linea si è mosso il legislatore con il Dlgs 274/2000 (articolo 34) che ha previsto l’archiviazione nei casi di particolare tenuità, precorrendo i tempi del Dlgs 28/2015. Per la Cassazione dunque, di fronte ad un giudice che, come nel caso esaminato, è deciso ad affermare il reato anche quando le piantine contengono un minimo principio attivo, la sanzione penale si può evitare se ci sono le condizioni per applicare l’articolo 131-bis. Valutazione anche questa da correlare alla particolare offensività attribuita in astratto alla coltivazione di stupefacenti. Il giudice dovrà tenere conto, specialmente, dell’elemento ostativo della commissione di più reati della stessa indole anche se singolarmente di particolare tenuità, o di reati che abbiano ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterate. Strada che porta ad escludere il beneficio nel caso esaminato perché il condannato, che aveva coltivato tre piantine nel cortile di casa per alleviare i dolori della lombosciatalgia, era stato già condannato per fatti analoghi. Sempre ieri la Cassazione è tornata sul nuovo istituto della particolare tenuità con altre tre sentenze. I giudici affermano la possibilità del beneficio (sentenza 38380 ) in favore del proprietario-committente di un cantiere che, per negligenza, non aveva esposto il cartello con le autorizzazioni e la descrizione dei lavori. Mentre la stessa possibilità viene esclusa per il progettista-direttore finito nel mirino dei giudici con la stessa accusa: più esigua la colpa della prima che, pur avendo la responsabilità di controllare in quanto committente si era fidata del suo direttore dei lavori, che aveva come compito principale il rispetto delle prescrizioni. Niente da fare invece per l’abuso edilizio (sentenza 38366 )se il condannato è "recidivo" e non importa se in un caso ha sanato l’abuso ripristinando il luogo. Non passa neppure la richiesta dell’imputato per detenzione di materiale pedopornografico (sentenza 38435): contro di lui una pena, irrogata, sopra il minimo, l’assenza della volontà di ravvedersi, e un giudizio negativo sulla sua personalità. Attentato anche se colpisce un singolo di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 23 settembre 2015 Corte di cassazione - Sentenza 34782 dell’11 agosto 2015. L’attentato per finalità terroristiche può colpire anche una sola persona. E poi: eversione e terrorismo continuano a costituire fattispecie di reato autonome e distinte. Queste le indicazioni della sentenza n. 34782 della Sesta sezione penale della Cassazione depositata ieri. La pronuncia ha confermato le condanne, pur rideterminandone l’entità, emesse nei confronti degli autori, il 7 maggio 2012, del ferimento dell’amministratore delegato di Ansaldo nucleare, Roberto Adinolfi. Nucleo giuridico della sentenza è la lettura dell’articolo 280 del Codice penale che sanziona l’attentato per finalità terroristiche o di eversione. La norma è chiara: infatti il legislatore, più volte, nel testo della disposizione utilizza con consapevolezza il termine "persona" al singolare. La scelta è quella di proteggere la vita e l’incolumità del singolo, quando queste rischiano di venire compromesse per il perseguimento di uno dei due scopi (terrorismo o eversione). L’indagine sulle nozioni di terrorismo ed eversione dell’ordinamento costituzionale va allora compiuta per verificare i presupposti della loro esistenza. Solo in caso di giudizio positivo si determina il passaggio dal reato comune (lesione personale, omicidio doloso o preterintenzionale) al reato speciale previsto e punito dall’articolo 280 del Codice penale. In questa prospettiva, allora, sarebbe insostenibile credere che, pur riconoscendo la sufficienza di conseguenze per una sola persona, tuttavia le nozioni di terrorismo ed eversione richiederebbero comunque l’attacco di "beni importanti", di "gravi conseguenze" per l’intero Stato o per la collettività. non essendo mai possibile ritenere le sorti di una singola persona di peso tale da incidere sul destino dell’intera nazione. In realtà, avverte la Cassazione, basta ricordare quando venne reintrodotta la norma (era il 1979) per comprendere come, in questo modo, il legislatore puntasse a mettere al riparo da azioni terroristiche o eversive le vite dei singoli cittadini "ciascuno considerato e protetto in sè e nella propria individualità, incolumità e vita del singolo, che (...)sono beni giuridici per sè stessi primari ed essenziali per lo Stato-istituzione". E allora, è irrilevante il punto se l’autore del reato ha colpito una persona concreta perché selezionata in precedenza come obiettivo simbolico o genericamente per la funzione svolta oppure come semplice cittadino. L’articolo 280 infatti non scivola pecca per indeterminatezza: la disposizione si caratterizza piuttosto per un "doppio finalismo", quello dell’autore che intende colpire una persona, come detto anche una sola, e la volontà di farlo per finalità di terrorismo o eversione. Certo, avverte la Cassazione, l’indagine su queste due finalità deve essere stringente e il reato deve essere escluso tutte le volte l’intenzione dell’autore della condotta risulta "palesemente inconsistente o velleitaria". A fare da guida quanto alle finalità di terrorismo è l’articolo 270 sexies del Codice penale, che elenca una serie di elementi chiave, anche con riferimento a norme di diritto internazionale, come lo scopo di intimidire la popolazione oppure quello di costringere i poteri pubblici ad assumere o omettere un determinato atto. Mentre il significato di eversione dell’ordine democratico non può essere circoscritto a quello di azione politica violenta, ma avere come obiettivo il sovvertimento dell’ordine costituzionale. Mafia, incandidabilità ad ampio raggio dopo lo scioglimento di Gianni Trovati Il Sole 24 Ore, 23 settembre 2015 Gli amministratori responsabili di azioni che hanno portato allo scioglimento di Comuni e Province per infiltrazioni mafiose sono incandidabili nel primo turno elettorale successivo allo scioglimento in ciascun livello di governo nella loro regione: in pratica, non è sufficiente per esempio che si svolgano elezioni in alcuni Comuni per riaprire le porte alla candidatura in altri, perché in ogni caso il semaforo rimane rosso se non ci sono stati altri turni elettorali nell’ente in cui ci si presenta al voto. Non solo: lo stop è esecutivo dopo la dichiarazione definitiva di incandidabilità anche se nel periodo fra lo scioglimento del Comune e questa pronuncia si siano svolte elezioni in regione. A sottoporre l’intricata questione alla Corte di Cassazione è stato il Procuratore generale presso la Corte d’appello di Catanzaro, che si è opposto a una lettura originale offerta dai giudici calabresi sui limiti alle candidature post-scioglimento per mafia scritti all’articolo 143 del Testo unico degli enti locali. Il caso riguarda l’ex sindaco e alcuni ex amministratori del Comune di Nardodipace, in provincia di Vibo Valentia, sciolto a fine 2011 dopo che era emerso il peso della criminalità organizzata sulla politica locale. Nell’ottobre 2013 il Tribunale di Vibo Valentia aveva dichiarato incandidabile l’ex sindaco, che si era però opposto al provvedimento sulla base del fatto che nei due anni trascorsi tra lo scioglimento e la decisione del Tribunale si erano già svolti in Calabria due turni elettorali: grazie al ricorso, l’ex sindaco si è potuto ripresentare un mese dopo alle elezioni nello stesso Comune, e si è reinsediato alla guida dell’ente dopo la vittoria nelle urne. Nel luglio 2014 si è pronunciata la Corte d’appello di Catanzaro, che proprio sulla base delle elezioni amministrative tenute in regione nei due anni precedenti ha ritenuto inapplicabile l’incandidabilità. A smontare questa interpretazione interviene ora la Cassazione, che nella sentenza 18696/2015 depositata ieri fissa un campo di applicazione dell’incandidabilità più ampio di quello individuato dalla Corte d’appello. Quando diventa definitiva, spiega la suprema Corte, la sanzione opera "per tutti i (primi, ndr) turni elettorali successivi" anche se "nella stessa regione si siano svolti uno o più turni elettorali di identica o differente tipologia)" tra il giorno dello scioglimento per mafia e quello della dichiarazione definitiva di incandidabilità. È proprio quest’ultima, aggiunge la Corte, a far partire la "conta" delle elezioni vietate ai diretti interessati. L’incandidabilità opera infatti solo quando non arriva all’ultimo grado di giudizio (o non è impugnata): se per cancellarla bastasse un turno elettorale prima della dichiarazione definitiva, la sanzione finirebbe per non operare mai. Delitti dei pubblici ufficiali: la concussione. Selezione di massime Il Sole 14 Ore, 23 settembre 2015 Reati contro la Pa - Concussione - Timore riverenziale del destinatario di una richiesta illegittima - Posizione di sopra-ordinazione dell’autore della richiesta illegittima - Reato - Configurabilità - Esclusione - Ragioni. Per la configurabilità del reato di concussione non è sufficiente lo stato di timore riverenziale o autoindotto del destinatario di una richiesta illegittima proveniente da un pubblico ufficiale, neppure quando quest’ultimo riveste una posizione sovraordinata e di supremazia rispetto al primo; il delitto di cui all’articolo 317 cod. pen. richiede che l’agente provvisto di qualifica pubblicistica, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, esteriorizzi concretamente un atteggiamento idoneo ad intimidire la vittima. • Corte di cassazione, sezione VI, Sentenza 28 maggio 2015 n. 22526. Reati contro la Pa - Delitti dei pubblici ufficiali - Reati di concussione e di induzione indebita - Destinatario della pressione abusiva altro pubblico ufficiale - Effetto coartante o induttivo sulla sua libertà di autodeterminazione - Valutazione. I reati di concussione o di induzione indebita sono configurabili anche se il destinatario della "pressione" sia un altro pubblico ufficiale, ma, in tal casi, l’effetto coartante o induttivo sulla libertà di autodeterminazione deve essere apprezzato con particolare prudenza, in considerazione dell’elevato grado di resistenza che ci si aspetta dal soggetto che riveste la qualifica pubblicistica, il quale, secondo la fisiologica dinamica dello specifico rapporto intersoggettivo, deve rendere recessiva la forza intimidatrice o persuasiva di cui è oggetto. • Corte di cassazione, sezione VI, Sentenza 28 maggio 2015 n. 22526. Reati contro la Pa - Delitti dei pubblici ufficiali - Concussione - Modifiche introdotte dalla L. n. 190/2012 - Condotta costrittiva - Significato - Distinzione dall’elemento oggettivo del delitto di indebita induzione - Indicazione. Il delitto di concussione, di cui all’articolo 317 cod. pen. nel testo modificato dalla L. n. 190/2012, è caratterizzato, dal punto di vista oggettivo, da un abuso costrittivo del pubblico agente che si attua mediante violenza o minaccia, esplicita o implicita, di un danno contra ius da cui deriva una grave limitazione della libertà di determinazione del destinatario che, senza alcun vantaggio indebito per sé, viene posto di fronte all’alternativa di subire un danno o di evitarlo con la dazione o la promessa di una utilità indebita e si distingue dal delitto di induzione indebita, previsto dall’articolo 319 quater cod. pen. introdotto dalla medesima L. n. 190, la cui condotta si configura come persuasione, suggestione, inganno, pressione morale con più tenue valore condizionante della libertà di autodeterminazione del destinatario il quale, disponendo di più ampi margini decisionali, finisce col prestare acquiescenza alla richiesta della prestazione non dovuta, perché motivato dalla prospettiva di conseguire un tornaconto personale, che giustifica la previsione di una sanzione a suo carico. • Corte di cassazione, sezione VI, Sentenza 13 novembre 2014 n. 47014. Reati contro la Pa - Delitti dei pubblici ufficiali - Reati di concussione e di induzione indebita a dare o promettere utilità - Discrimine rispetto alla corruzione. Il reato di concussione e quello di induzione indebita a dare o promettere utilità si differenziano dalle fattispecie corruttive, in quanto i primi due illeciti richiedono, entrambi, una condotta di prevaricazione abusiva del funzionario pubblico, idonea, a seconda dei contenuti che assume, a costringere o a indurre l’extraneus, comunque in posizione di soggezione, alla dazione o alla promessa indebita, mentre l’accordo corruttivo presuppone la par condicio contractualis ed evidenzia l’incontro libero e consapevole della volontà delle parti. • Corte di cassazione, sezioni Unite, Sentenza 14 marzo 2014 n. 12228. Lettere: il diritto alla salute di un camorrista latitante e i principi della Costituzione di Roberto Galullo Il Sole 24 Ore, 23 settembre 2015 Credo che il fatto - bene o male - lo conosciate tutti. La Suprema Corte di Cassazione ha assolto due medici (in precedenza condannati per favoreggiamento dal Tribunale di Torre Annunziata prima e dalla Corte d’appello di Napoli poi) che avevano curato un camorrista ferito in un conflitto a fuoco durante un regolamento di conti. I due medici non lo avevano denunciato e non avevano stilato alcun referto, operandolo a domicilio. Quello del camorrista ovviamente. Il diritto alla salute - ha sancito la Cassazione con la sentenza 38281 depositata ieri - prevale sulle esigenze di giustizia. Per la Cassazione, "nell’intersecarsi di esigenze tutte costituzionalmente correlate (il diritto alla salute per un verso, cui si contrappone l’interesse pubblico sotteso ad un puntuale esercizio dell’attività di amministrazione della giustizia ed all’accertamento di fatti penalmente sanzionati), i valori legati alla integrità fisica rendono necessariamente recessivi quelli contrapposti e finiscono per imporre comunque l’intervento sanitario". In tema da favoreggiamento per un medico, inoltre, "la situazione di illegalità in cui versa il soggetto che necessita di cure non può costituire in nessun caso ostacolo alla tutela della salute". Qualche umile considerazione Se la libertà di stampa, di parola, di espressione e di pensiero, in poche parola la democrazia, sono ancora garantite in questo Paese alla deriva (ma il caso dello scrittore Erri De Luca sotto processo a Torino dimostrano drammaticamente il contrario) mi permetto di criticare questa sentenza. Entrando nel merito, proprio come hanno fatto i giudici. Il fatto per loro non sussiste. Ebbene i giudici (nei confronti dei quali nutro il massimo rispetto) hanno - in buona sostanza - messo sullo stesso piatto della bilancia il diritto alla salute e quello dell’amministrazione della Giustizia, statuendo che fosse il primo a prevalere. Giusto, giustissimo, direi sacrosanto. Solo che - a me pare un particolare non da poco ma la mia laurea in Giurisprudenza, come è giusto che sia, è carta straccia di fronte a chi indossa la toga per mestiere - quel diritto alla salute, vale a dire ad essere curato (non doveva essere poi così grave se è stato operato e incerottato in casa) poteva senza alcun dubbio essere garantito in un ospedale. Pubblico, convenzionato o privato: ampia scelta per il camorrista latitante così come per ciascun cittadino italiano. Ora a me pare che questa sentenza apra la strada alla possibilità che una valanga di impunità scivoli sopra coloro i quali - medici, assistenti sanitari, infermieri - possano trovarsi in situazioni analoghe, rese ora professionalmente meno complicate da un sigillo tombale come quello della Cassazione. Anche perché - nel caso di specie - il primo medico aveva ricevuto la richiesta di aiuto per telefono e dato che l’intervento necessario ma era "estraneo alle sue competenze", aveva girato il caso a un collega chirurgo dopo averlo avvertito che la famiglia della persona interessata "non era buona". Immaginate voi - d’ora in avanti - quante richieste di aiuto saranno legittimate da questa sentenza, in terre dove "essere sparati" è più facile che essere denunciati. Attenzione però - e veniamo al nocciolo vero della questione perché finora mi sono esercitato in aspetti secondari per quanto importanti - fosse anche un solo (uno solo) altro caso a capitare da qui all’eternità, sarebbe comunque un (ennesimo) colpo mortale per quel che rimane di questo povero Paese. Il vero confronto. Perché vedete, amati lettori di questo umile e umido blog, il vero confronto (ammesso e non concesso che da solo quello non fosse sufficiente, come a me pare ovvio con le riflessioni di cui sopra) - a mio sommesso e fallace avviso - non doveva essere fatto (solo) tra diritto alla salute (articolo 32 della Costituzione) e diritto all’amministrazione della Giustizia (articolo 102 della Costituzione). Il vero, reale, duraturo confronto doveva essere fatto tra il diritto alla salute (sempre articolo 32 della Costituzione) e l’articolo 2 della Magna Carta italiana, laddove statuisce che "la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale". Tra i diritti inviolabili dell’uomo, per la nostra costituzione, c’è "la libertà personale. Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge": articolo 13 della Costituzione. Vero. Ma al tempo stesso falso. In larghe parti della Campania, così come della Sicilia, della Calabria, della Puglia, del Lazio, della Lombardia la "libertà personale" dell’uomo è condizionata, umiliata, repressa, sconfitta, cancellata, spesso uccisa, da camorra, Cosa nostra, ‘ndrangheta e cupole criminali che attentano quotidianamente alla democrazia. Il bene supremo della libertà subisce "forme di detenzione, ispezione o perquisizione personale" per atti, gesti e attività non certo "motivati dell’autorità giudiziaria" ma dalla legge (parallela ma spesso convergente con quella dello Stato marcio e corrotto) di clan e cosche. Il singolo camorrista, così come il singolo ‘ndranghetista, il singolo mafioso di Cosa nostra o il singolo raffinato cervello schermato che tira le fila del quaquaraquà all’opera sulla strada limitano la mia, la tua, la nostra libertà personale. Sempre e comunque. Andiamo avanti. Ma se anche questo confronto non convincesse, non bastasse o non funzionasse, ebbene andiamo avanti nella (per me sacra) lettura della Costituzione italiana e dei suoi "principi fondamentali". Tra questi c’è il diritto al lavoro (articolo 4), che certamente non può essere spesso scelto (come prevede la Costituzione) per concorrere "al progresso materiale o spirituale della società" ma, in parti sempre più ampie d’Italia, è dettato dalle lancette mortali dell’orologio criminale. E come può, ancora, il diritto alla salute di un camorrista latitante non essere messo a confronto anche con l’articolo 16 della Costituzione secondo il quale "ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale, salvo le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi di sanità o di sicurezza"? Altro che possibilità di circolare liberamente in qualsiasi parte d’Italia… a Napoli, Roma, Caserta, Milano, Reggio Calabria, Catania, Palermo, Bari, Brindisi, Taranto, Torino e via di questo passo ci sono spazi urbani nei quali dopo una certa ora c’è addirittura il coprifuoco. E come può, ancora, il diritto alla salute di un camorrista latitante non essere messo a confronto anche con l’articolo 21 della Costituzione secondo il quale "tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto o ogni altro mezzo di diffusione"? Anche a Scampia, Tor Bella Monaca, Quarto Oggiaro, Zen, Archi, Librino e via di questo passo in centinaia di quartieri del nord, centro e sud dove le mafie imperversano e straziavano quotidianamente la libertà di pensiero? E come può, ancora, il diritto alla salute di un camorrista latitante (sempre articolo 32) non essere messo a confronto innanzitutto con l’articolo 1 della Costituzione italiana, per il quale "l’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione"? A Casal Di Principe, Napoli o Caserta la sovranità appartiene al popolo? Spesso no. Grazie (si fa per dire) ai camorristi. Che siano latitanti o meno non fa differenza. Si possono curare. Se vogliono. Ma per favore, senza violare la Costituzione. O no? Sardegna: Caligaris (Sdr); provveditore regionale Sbriglia per rilancio Colonie penali Ristretti Orizzonti, 23 settembre 2015 "È in fase di elaborazione un’intesa regionale con la Confagricoltura per valorizzare in termini imprenditoriali le Colonie Penali della Sardegna e offrire occasioni di lavoro e professionalizzazione alle persone detenute". Lo ha detto il Provveditore regionale dell’Amministrazione Penitenziaria Enrico Sbriglia nel corso di un cordiale incontro con la presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme" Maria Grazia Caligaris, presente il Provveditore Vicario Pier Luigi Farci, direttore del carcere di Oristano-Massama e della Casa di Reclusione di "Is Arenas". "Il programma, figlio dell’accordo voluto e sottoscritto a livello nazionale dal Capo del Dipartimento Santi Consolo, intende - ha aggiunto Sbriglia - promuovere l’uso a fini produttivi dei terreni anche nelle aree degli Istituti Penitenziari facendo tesoro delle esperienze maturate in questi anni con il progetto "Galeghiotto". È necessario insomma uscire da una sorta di episodicità per rendere le Colonie Penali un volano per la crescita imprenditoriale di chi vi opera". Oltre al tema del lavoro e delle Colonie Penali, attualmente scarsamente utilizzate, sono stati affrontate alcune delle principali problematiche relative alle condizioni delle strutture penitenziarie e all’organizzazione. Particolare rilievo, oltre alle questioni inerenti l’inadeguatezza del numero degli Agenti della Polizia Penitenziaria, è stato dato all’insufficienza dei responsabili degli Istituti. "In Sardegna - ha sottolineato Caligaris - i Direttori hanno doppi e tripli incarichi e perfino il Provveditore regionale è a scavalco. Una situazione che non garantisce una puntuale progettualità negli Istituti e la possibilità di conoscere le problematiche e risolverle tempestivamente. D’altra parte è evidente che in particolare la Casa Circondariale di Cagliari è una grande incompiuta, realizzata in una landa desolata e maleodorante, che sta creando notevoli problemi agli impiegati, agli operatori penitenziari, ai detenuti e ai familiari. Manca un riparo esterno per accogliere i parenti che si recano ai colloqui, non è garantito un servizio di trasporto pubblico nei giorni festivi e quello esistente non è adeguato. Non è stata inoltre completata l’automazione dei cancelli interni, il pavimento della Palestra non è terminato, il Padiglione del 41bis è abbandonato a se stesso, il Teatro non è del tutto agibile e perfino la biblioteca è stata ricavata in extremis ma non ha un sufficiente numero di scaffali espositori". "Occorre insomma superare una storica visione colonialistica della Sardegna, che ancora purtroppo sembra affiorare nelle scelte dei Ministeri succedutisi nel tempo, ragionando in modo tale da restituire all’isola ciò che finora non ha potuto avere. Per ciò - ha detto ancora la presidente di Sdr - è improcrastinabile attivare un tavolo con i diversi attori ed esaminare le differenti realtà lavorando con l’intento di garantire dignità a chi sconta la pena ma anche a chi quotidianamente presta servizio". Con Enrico Sbriglia, titolare del Provveditorato regionale del Triveneto (Veneto, Friuli Venezia Giulia e Trentino Alto Adige), in missione nell’isola, e con il Vicario Pierluigi Farci, Caligaris ha affrontato anche le questioni relative ai costi del sopravvitto, all’uso di Skype, dei computer e alla possibilità di creare le condizioni per poter garantire anche i colloqui con gli animali di affezione. Argomenti sui quali è stata avviata una proficua interlocuzione. Busia (Cd): mancano 560 agenti, intervenga governo "Non posso che esprimere la completa solidarietà e sostegno alla manifestazione con cui il sindacato ha voluto evidenziare la situazione critica in cui versa il sistema penitenziario della Sardegna, afflitto da problematiche diventate croniche nella totale indifferenza del ministero della Giustizia e dell’amministrazione penitenziaria". Così la consigliera regionale e responsabile nazionale Giustizia del Centro Democratico Anna Maria Busia, che questa mattina ha partecipato alla manifestazione organizzata dalla Uil Penitenziaria Sardegna davanti al Prap di Cagliari, per lamentare i problemi dei penitenziari dell’Isola, legati soprattutto alla carenza di personale e a una distribuzione dei detenuti, ritenuta dal sindacato, irrazionale. "Il Ministero ha aperto nuove carceri nell’Isola per poi abbandonare la Sardegna a se stessa, dimenticando di organizzare al meglio la gestione degli istituti penitenziari- spiega Busia-. L’ultimo sovrintendente regionale ha lasciato il suo incarico prima dell’estate e ancora non è stato indicato un sostituto; in diverse carceri non è stato nominato un direttore; la carenza di agenti penitenziari ha raggiunti livelli insostenibili: mancano all’appello ben 560 agenti, una insufficienza che mina la serenità e la sicurezza sia degli agenti in servizio, sia dei detenuti- continua l’esponente del Cd. In alcuni istituti, come Uta, la situazione è resa ancora più grave dal sovraffollamento detentivo, condizione limite che sta per interessare anche molte altre carceri sarde". Busia conclude sollecitando "l’ennesima interrogazione con cui chiedere, ancora una volta, l’intervento del ministero della Giustizia per porre fine a una situazione diventata, ora più che mai, insostenibile". Toscana: Garante regionale dei detenuti, saranno riviste le competenze Adnkronos, 23 settembre 2015 Il Consiglio regionale in una risoluzione licenziata a maggioranza, esprime "apprezzamento per l’attività svolta dal Garante regionale" e ribadisce l’impegno assunto con la sua istituzione "a contribuire ad assicurare la finalità rieducativa della pena ed il reinserimento sociale dei condannati". Più in generale, si cerca di garantire "l’effettivo godimento dei diritti civili e sociali, in particolare l’assistenza sanitaria di competenza regionale, e di rimuovere gli ostacoli al godimento di tali diritti all’interno delle strutture restrittive della liberà personale". È stato il presidente della Commissione Affari istituzionali Giacomo Bugliani (Pd) ad illustrare in aula la relazione sul lavoro svolto nel 2014, con un aggiornamento al giugno scorso, dalla quale emerge che in Toscana i detenuti e le detenute in carcere sono oggi circa 3.000 unità, rispetto alle oltre 4.500 del 2010-2011. A questa diminuzione di presenze, però, non ha corrisposto un aumento significativo della qualità della vita. Rimane, inoltre, critica la situazione strutturale degli edifici penitenziari, mentre l’assistenza sanitaria non viene garantita in modo omogeneo, dal punto di vista delle attrezzature e degli spazi, ma anche in termini di orari e presenze. La componente femminile, pari a circa il 4,2% della popolazione detenuta, vive inoltre una condizione di marginalità pesante. Non è, infine, stato ultimato il processo di chiusura dell’Ospedale psichiatrico giudiziario di Montelupo fiorentino, con il passaggio degli internati dal regime carcerario a quello sanitario. L’impegno per l’anno in corso si svilupperà, in particolare, sulla riabilitazione dei sex offenders, detenuti per reati sessuali ai danni di donne e minori, sulle problematiche specifiche per i detenuti stranieri e per i tossicodipendenti, sulle criticità dei trattamenti sanitari obbligatori. "Il Garante è solo una foglia di fico sul disastro del sistema carcerario italiano" ha affermato il consigliere Marco Casucci, motivando il voto contrario alla proposta del gruppo Lega Nord. A suo giudizio, se vogliamo davvero intervenire sulla giustizia penale, dobbiamo ridurne i tempi patologici, che colpiscono soprattutto i detenuti in attesa di giudizio. "Dobbiamo attuare il principio - ha affermato - che chi sbaglia paga e, se è straniero, paga a casa sua" "Favorevolissimi. è dalle carceri che si misura il livello di civiltà di un paese - ha dichiarato Gabriele Bianchi (M5S) - Quello che la Regione può fare, lo faccia". Secondo Giovanni Donzelli (FdI) l’approccio di Corleone è "molto ideologico". "è una miopia politica gravissima - ha detto - parlare delle condizioni delle carceri senza parlare di chi nelle carceri lavora. è anche un problema di sicurezza". Da qui il voto contrario. Secondo Paolo Sarti (Si) "la relazione del Garante è un pugno nello stomaco, rispetto alla quale dobbiamo prendere in mano la situazione, specie per la tutela della salute". "Dobbiamo favorire il reinserimento con progetti specifici" ha rilevato Leonardo Marras (Pd), ricordando che con la relazione vengono messi a disposizione dei consiglieri dati preziosi. A suo parere dobbiamo dare forza all’istituto di garanzia, specializzandone l’attività, e la futura nomina del garante per l’infanzia può essere l’occasione per una riflessione più ampia. "Dobbiamo pensare anche ad un garante delle vittime" ha affermato Manuel Vescovi (Ln), dichiarando il voto contrario. Respinto un ordine del giorno collegato, presentato da Giovanni Donzelli, per chiedere l’intervento del governo, con accordi multilaterali, per far scontare la pena nei paesi d’origine ai detenuti non italiani. Genova: Uil-Pa; detenuto di 22 anni tenta di impiccarsi, ricoverato in ospedale gravissimo Askanews, 23 settembre 2015 Un detenuto romeno di 22 anni ha cercato di impiccarsi nella sua cella, nel carcere Marassi di Genova: un agente penitenziari lo ha salvato, ma il giovane è in gravissime condizioni. Poco dopo, nello stesso carcere, un detenuto ha appiccato un incendio nella sua cella. "Il sistema penitenziario italiano è infernale": chiosa Eugenio Sarno, segretario generale della Uilpa penitenziari. "Questa mattina intorno alle 11 un detenuto romeno 22enne, L.A., ha tentato di suicidarsi. Solo il tempestivo intervento dell’agente in servizio ha impedito che la, già lunga, lista dei morti in cella per suicidio si allungasse sinistramente", ha riferito Sarno, spiegando che il giovane è in prognosi riservata, perché la stretta del cappio ha provocato lo spostamento della trachea. E - ha aggiunto Sarno - "nemmeno il tempo di tirare un sospiro di sollievo che, sempre nella sesta sezione di Marassi, un altro detenuto, extracomunitario, verso le 12 ha dato fuoco alla cella. Il pronto intervento degli agenti ha salvato il detenuto dalle fiamme e dai fumi sprigionatisi dall’incendio, subito domato. Fortunatamente l’immediatezza dell’azione ha scongiurato un epilogo più grave tanto che non si registrano feriti né intossicati". "Quello di oggi è il quinto detenuto salvato letteralmente dalla morte dagli agenti di Marassi, in questo 2015", ha sottolineato il segretario Uil-pa penitenziari, ricordando che, sebbene nel carcere di Genova in particolare non si contino vittime, quest’anno nelle carceri italiani già sono 34 i suicidi in cella. Ma "è anche da sottolineare - ha continuato Sarno - che quello di oggi è il tredicesimo agente penitenziario ferito da detenuti. Considerato, quindi anche i vari episodi di autolesionismo e danneggiamenti, Marassi rappresenta uno dei gironi dell’infernale sistema penitenziario italiano". E - ha avvertito il segretario Uil-pa penitenziari - "ad alimentare questa spirale di violenza concorre certamente anche il dato di affollamento della struttura genovese. Stamattina - ha rivelato Sarno - a Marassi erano presenti 700 detenuti a fronte dei 435 posti previsti". I numeri della Uil tracciano "un quadro molto preoccupante di cosa accade realmente all’interno dei penitenziari": dal 1 gennaio si sono registrati 34 suicidi in cella; circa 700 tentati suicidi con 88 detenuti salvati dalla "morte certa" dalla polizia penitenziaria; circa 4500 atti di autolesionismo; 82 atti di danneggiamenti (come incendi in cella, devastazioni, et similia); circa 50 risse tra detenuti; 836 aggressioni ai poliziotti penitenziari, con 267 agenti che hanno riportato prognosi superiori ai 5 giorni. "Questi - ha concluso Sarno - sono i numeri di un fallimento, altro che del paventato e propagandato successo. Le forze del personale sono allo stremo. Oramai la misura è colma". Campobasso: detenuto muore dopo il ricovero in ospedale, cinque agenti indagati Il Centro, 23 settembre 2015 L’uomo aveva 56 anni e aveva ricevuto assistenza sia nel carcere di Larino che in quello del capoluogo. Indagati cinque agenti di polizia penitenziaria. Cinque agenti di Polizia penitenziaria sono stati indagati dalla Procura di Larino a seguito del decesso il 10 settembre scorso al Cardarelli di Campobasso di un detenuto di Campomarino (Campobasso). L’uomo di 56 anni, affetto da diabete, era stato più volte in ospedale per cure specifiche prima della morte. Il figlio dell’uomo, il giorno del decesso, ha presentato una denuncia chiedendo di accertare le cause della morte del genitore. Immediata l’indagine della Procura di Larino che ha iscritto 5 persone, tutti agenti di Polizia penitenziaria, nel registro degli indagati. L’ipotesi di reato contestata è l’ omicidio preterintenzionale. Per il Procuratore capo Ludovico Vaccaro "ci sono delle persone indagate ma è un atto dovuto in quanto bisognava mettere tali persone in condizioni di partecipare all’autopsia. Attendiamo gli esiti dell’esame autoptico. Attualmente non sappiamo ancora nulla". L’uomo morto, Carlo Sticca, 56 anni di Campomarino (Campobasso), fu arrestato lo scorso 10 agosto nel centro rivierasco per resistenza e violenza a pubblico ufficiale. Una volta condotto in carcere a Larino rimase lì per 10 giorni, fino al 20 agosto, per poi essere trasferito nell’istituto di pena di Campobasso. Durante il periodo trascorso nella cella del centro molisano, secondo fonti carcerarie, fu portato tre volte in ospedale, al San Timoteo di Termoli, per problemi collegati al diabete e ad una cardiopatia dilatativa. Cure in ospedale che si sono ripetute poi anche durante la permanenza a Campobasso. L’uomo è deceduto il 10 settembre al Cardarelli del capoluogo mentre l’autopsia è stata effettuata, su disposizione della Procura di Larino, il 16 settembre scorso nell’obitorio dello stesso ospedale. L’arresto del 56enne avvenne al termine di un rocambolesco intervento di Polizia e Carabinieri. Sticca, in stato di ubriachezza, aveva danneggiato un’auto nel parcheggio di un distributore di benzina della Statale 16 a Campomarino e poi inveito contro la proprietaria del veicolo. All’arrivo degli agenti della polizia si era asserragliato in auto, tentando la fuga. Era nato così un inseguimento finito con un incidente: la macchina era andata a sbattere contro il guard-rail. A quel punto arrivarono anche i carabinieri e il 118; l’uomo cominciò a lanciare materiale di ogni tipo contro le forze dell’ordine, brandendo un punteruolo. Si era quindi denudato e aveva dato via a una serie di atti osceni. Trasferito con un carro attrezzi in Commissariato a Termoli, il 56enne proseguì la sua giornata di follia lanciando contro i poliziotti cipolle, bastoni, tenaglie, tronchesi, marmitte e cassette di plastica. Infine fu immobilizzato e arrestato. Due esponenti delle forze dell’ordine rimasero feriti in modo lieve. Foggia: "ha rubato un melone", bracciante del Burkina Faso ucciso a fucilate di Gianmario Leone Il Manifesto, 23 settembre 2015 Un altro è ferito grave. A sparare il titolare di un terreno a Lucera e suo figlio. La comunità africana: "Non volevano rubare, ma chiedere lavoro". Un dramma della povertà in una zona diventata da diversi anni una specie di moderno Far West. A perdere la vita un bracciante di 37 anni originario del Burkina Faso, Sare Mamoudou, centrato alla schiena dal fucile imbracciato da Ferdinando Piacente, 67enne proprietario del terreno agricolo in cui Sare, insieme ad altri due braccianti africani si era introdotto nella giornata di lunedì. Siamo in contrada Vaccarella, nelle campagne tra Foggia e Lucera. L’intento dei tre non è chiaro: secondo le ricostruzioni ufficiali pare volessero rubare un po’ di frutta, qualche melone, che per i braccianti del Gargano è l’unico alimento di una risibile dieta mediterranea, per chi come loro guadagna pochi euro al giorno, quando c’è lavoro. Qualcosa però non va secondo i piani: i cani della tenuta dei Piacente abbiano, allertando padre, e figlio, Raffaele di 27 anni, che escono dalla loro abitazione imbracciando i fucili, regolarmente detenuti. Non sparano subito, anche perché i tre braccianti sono molto vicini a loro: urlano, intimano a Sare e i suoi colleghi di andarsene, avvicinandosi. Ne sarebbe venuta fuori una colluttazione violenta: tra chi per sopravvivere è disposto anche a rischiare la vita e chi, per difendere il proprio orto, è disposto anche ad andare in galera, ad uccidere. Ad avere la peggio è il 27enne Raffaele, che viene colpito al naso. È forse questo il motivo che fa scattare nel padre l’eccesso di violenza: spara un paio di colpi in aria, sotto forma di avvertimento. Sare e i suoi due amici scappano verso la loro Fiat Uno e provano la fuga. Ma i Piacente non hanno intenzione di desistere e partono all’inseguimento dei tre. Un altro colpo di fucile, dopo pochi chilometri, fora una delle ruote della Fiat Uno che finisce fuori strada e costringe i tre braccianti alla fuga a piedi. Non contento del "risultato" ottenuto, Ferdinando Piacente prende la mira e spara tre colpi: due feriscono mortalmente alla schiena e ad un braccio Sare, mentre un terzo coglie in pieno petto Kadago Adam che resta a terra. L’ultimo dei tre, di cui ancora non si conoscono le generalità, riesce a fuggire nei campi salvandosi la vita. Soltanto in quel momento i Piacente riacquistano un minimo di lucidità e si ritirano nella loro abitazione in stato di choc, come li ritroveranno soltanto poche ore dopo i Carabinieri del comando provinciale di Lucera, affiancati dai colleghi di Foggia. Il terzo bracciante, scampato il pericolo, torna indietro da Kadago Adam che è a terra, ma ancora vivo: allerta il 118 che lo trasporterà agli ospedali Riuniti di Foggia dove viene ricoverato in prognosi riservata, ma non in pericolo di vita. Grazie alla ricostruzione fornita dal sopravvissuto, i Carabinieri risaliranno ai Piacente che saranno arrestati in piena notte con le accuse di concorso in omicidio volontario e concorso in tentato omicidio volontario e porto illegale di armi. Il fucile infatti, pur detenuto legalmente, è stato portato fuori dall’abitazione. Il magistrato ha inoltre disposto l’autopsia sul corpo di Sare. Fin qui la ricostruzione "ufficiale" dei fatti. Perché da quanto abbiamo appreso le cose non starebbero esattamente così. Nella serata di ieri, al ghetto di Rignano Garganico, si è svolta un’assemblea della comunità del Burkina Faso. Dalla quale sarebbe emersa un’altra versione: secondo la quale i tre non sarebbero andati nel podere dei Piacente per rubare, ma per cercare lavoro. Ed inoltre i fatti si sarebbero svolti di pomeriggio e non di sera. Aspetti sui quali inquirenti e sindacati hanno intenzione di indagare a fondo. Ciò nonostante, è indubbio che la provincia di Foggia sia diventata una specie di Far West moderno. Un fenomeno che dura da anni, non certo da oggi, ma fa specie la continuità di certi avvenimenti così ravvicinati nel tempo. Lo scorso 26 agosto scorso a Troia, in provincia di Foggia, un agricoltore di 52 anni aveva ucciso un 67enne italiano che stava rubando nel suo podere. Il fatto accadde in un fondo agricolo in località "Case Rotte" in agro di Troia, lungo la strada provinciale che collega la città del Rosone a Faeto, sui Monti Dauni. A sparare fu Michele Marchese, di Castelluccio Valmaggiore, denunciato per omicidio colposo. La vittima, Antonio Diciomma, 67enne di Cerignola, aveva piccoli precedenti per reati contro il patrimonio, venne raggiunto da una fucilata alla schiena: insieme a lui - secondo i militari - vi erano altre persone, fuggite nei campi dell’azienda avicola. Poi, lo scorso 14 settembre a Foggia, fu ferito in un agguato il pregiudicato Mario Piscopia scampato alla morte per miracolo. E soltanto domenica scorsa un uomo di 45 anni di San Severo, sempre in provincia di Foggia, è stato ucciso con un colpo di arma da fuoco, al termine di un litigio. Se non è Far West questo, poco ci manca. Sassari: la Garante dei detenuti Cecilia Sechi lascia l’incarico per motivi di salute sardegnadies.it, 23 settembre 2015 Cecilia Sechi ha lasciato dopo quattro anni e mezzo l’incarico di garante dei detenuti nel carcere di Bancali. L’annuncio è stata dato questo pomeriggio in Consiglio comunale, in occasione della presentazione del rapporto annuale dell’attività del garante, che è nominato dall’Assemblea Civica e svolge i suoi compiti a titolo gratuito. Attualmente nel carcere di Bancali sono ospitati 419 detenuti, di cui 195 stranieri (19 albanesi, 23 rumeni, 14 tunisini, i gruppi più consistenti). A controllarli 320 agenti. "Non posso riassumere quattro anni e mezzo di lavoro. Mi è però rimasta impressa una frase dei detenuti che si sono ritrovati nel nuovo penitenziario: è una struttura immensa. Ed è veramente disorientante, anche umanamente. Una detenuta mi disse anche: questo è un carcere. Quasi un rimpianto allora per San Sebastiano, che era in città", ha detto Cecilia Sechi, che con commozione ha annunciato le sue dimissioni per motivi di salute. "Bisogna avere forze emotive ed anche fisiche. E per fare bene il garante bisogna studiare". "Stasera abbiamo assistito tutti ad una lezione di bontà nei confronti di una categoria di cittadini ai quali occorre donare una sensibilità che è assai rara. Lo dico a nome di tutti i sassaresi che credono nel recupero di una vita. Il trasferimento del carcere ha portato una cella più comoda ma anche l’isolamento e l’allontanamento dal cuore pulsante della città", ha detto il sindaco Nicola Sanna, che ha rivolto a Cecilia Sechi "un grande grazie e un grande abbraccio". Modena: la Garante; senza Magistrato di sorveglianza attività bloccata alla Casa Lavoro Il Nuovo Giornale, 23 settembre 2015 L’assenza di un magistrato di sorveglianza a Modena sta causando "il blocco dell’attività ordinaria legata alle istanze degli internati della Casa di reclusione di Castelfranco Emilia, con conseguente interruzione dei percorsi trattamentali esterni anche già avviati". Lo riferisce la Garante regionale delle persone private della libertà personale, Desi Bruno, dopo che venerdì scorso il suo Ufficio ha visitato la struttura, dove al momento sono presenti 84 internati e 7 detenuti, in seguito anche alle numerose segnalazioni da parte dei ristretti per i gravi disagi legati alla mancanza della piena operatività da parte dell’Ufficio di sorveglianza di Modena. Come spiega la Garante, "ci sono internati, nella casa di lavoro da anni, che hanno maturato il diritto alla concessione di una licenza negli ultimi 6 mesi della misura detentiva, prima della scadenza fissata per il riesame della pericolosità sociale, ma che, pur a fronte di un positivo percorso trattamentale e di un’adeguata progettualità sul territorio, non stanno ricevendo risposte". Addirittura, continua Bruno, "in talune circostanze, si stanno verificando sensibili ritardi anche per i provvedimenti relativi alle licenze per gli appuntamenti istituzionali, da tempo calendarizzati, come, per esempio, gli appuntamenti con Servizi territoriali per la presa in carico dei tossicodipendenti, che possono preludere all’ingresso in comunità terapeutiche". Per questo motivo, insiste la Garante, la speranza è che "la recentissima attribuzione della titolarità della funzione a un nuovo magistrato possa porre tempestivamente rimedio alla criticità in essere, garantendo la continuità e la progressione dei percorsi trattamentali che interessano gli internati". Continua poi, ricorda in conclusione la figura di garanzia dell’Assemblea, l’impegno della Garante al tavolo di lavoro 11, dedicato anche alle misure di sicurezza detentive per gli imputabili (proprio come quella che si esegue presso la struttura di Castelfranco Emilia), nell’ambito degli "Stati generali sull’esecuzione penale", promossi dal ministero della Giustizia per la definizione di un nuovo modello di esecuzione penale. Milano: l’ex capo dei Casalesi Zagaria: "nel carcere di Opera un isolamento disumano" di Mary Liguori Il Mattino, 23 settembre 2015 "Non incontro nessuno da dieci mesi". Ad Opera gli è negata l’ora d’aria: non ci sono detenuti "compatibili" con lui. A gennaio ci sarà la prima proroga del 41 bis, ma il boss, in quelle "condizioni disumane", dice di non resisterci più. Sono passati quattro anni da quando Michele Zagaria, il capo dei capi del clan dei Casalesi, veniva stanato dal bunker di via Mascagni, scavato sotto una villa nella "sua" Casapesenna e, dal giorno successivo, finiva detenuto al carcere duro, a Parma. Una storia controversa quella della sua cattura, durante la quale il padrino, uscendo di scena, mentre pronunciava quella frase che fece il giro del mondo, "Lo Stato ha vinto, lo Stato vince sempre", avrebbe fatto scivolare nelle mani di un poliziotto infedele una pen drive con dati segretissimi (la vicenda è oggetto di un’inchiesta). L’alba del 7 dicembre del 2011 segnò la fine di una fuga impossibile, una conclusione controversa quasi quanto la storia della latitanza di Zagaria, durata ben quindici anni, tre lustri durante i quali il boss non si allontanò mai dalla sua terra, visse in diversi covi realizzati appositamente per lui, comandando, come un fantasma, nascosto da coperture che dal basso andavano, forse, fino a sfere più alte. Lo cercavano tutti, ma sembrava inafferrabile. Poi lo arrestarono, e dal bunker è passato alla cella, in 41 bis. Da dieci mesi Michele Zagaria è nel penitenziario di massima sicurezza di Milano, ad Opera, e ieri, collegato in videoconferenza col tribunale di Santa Maria Capua Vetere, dove si sta celebrando il processo per le presunte minacce all’ ex sindaco di Casapesenna, il boss ha chiesto la parola, per dire che lui, di stare al 41 bis, non ne può più. "La mia è una situazione disumana, non posso vedere nessuno, eppure sarebbe un mio diritto": il padrino, detto "capa storta", fa riferimento all’ora di socialità, anzi le due ore quotidiane che avrebbe la possibilità di trascorrere con altri tre detenuti, prerogativa che da quando è nel carcere milanese non gli viene accordata. Non per motivi giudiziari, spiegano i suoi avvocati (Andrea Imperato, Paolo Di Furia e Angelo Raucci), che hanno scritto sia al carcere che alla Dda di Napoli per far presenti le lamentele del loro assistito, ma per una sorta di coincidenze negative. Non ci sarebbe, ad Opera, tra le decine di detenuti al carcere duro, quasi nessuno "compatibile" per passare l’ora d’aria con Zagaria e, chi potrebbe, si rifiuta di farlo, forse temendo che dialoghi col super-boss possano aggravare le loro già pesanti condizioni di detenuti. Solo, quindi, se non per quell’ora al mese in cui, cinque per volta, i suoi parenti più prossimi vanno a fargli visita. Al colloquio si recano a turno le cinque sorelle libere ed incensurate del boss e alcuni dei suoi nipoti. I fratelli, e la sorella Elvira, sono a loro volta detenuti. Per i restanti giorni del mese, il capoclan vive dunque in assoluta solitudine, in una cella di due metri per tre, videosorvegliata ventiquattr’ore su ventiquattro. L’arredamento è composto da un letto e da un piccolo tavolino, sul quale consuma i tre pasti giornalieri: caffellatte al mattino, con qualche biscotto; spesso pasta al sugo, per pranzo; carne e pane, a cena. E la cella è isolata dagli altri ambienti del carcere, quasi ovattata: Zagaria non sente rumori, né voci, se non quella dell’agente di penitenziaria che lo avvicina per portargli il cibo e che, nel pomeriggio, lo accompagna fuori per l’ora d’aria che il boss è quindi costretto a passare da solo. "Fuori", per Zagaria, è un corridoio di otto metri per due, fiancheggiato da muri alti quasi dieci metri, all’estremità dei quali si vede, a fessura, il cielo. Alcuni detenuti nelle sue stesse condizioni rinunciano all’ora d’aria. Andare avanti e indietro, in quelle condizioni, può rendere pazzi, spiegano. Il capo dei capi dei Casalesi, invece, non ci rinuncia e ieri, durante il processo, ha chiesto che i suoi diritti vengano rispettati. Il tono quasi indecifrabile, a metà tra il provocatorio e il disperato, le parole di chi sa di avere, nonostante la sua condizione, ancora un appeal sui suoi interlocutori. Napoli: intervista al ministro Orlando "al 41bis ci sono più camorristi che mafiosi" di Gigi Di Fiore Il Mattino, 23 settembre 2015 Gli ultimi dati fanno parte dell’undicesimo rapporto nazionale dell’Associazione Antigone. Sono 725 i detenuti al 41bis, tra cui otto donne e un solo straniero. Ne fanno parte, naturalmente, 648 condannati per associazione mafiosa: 294 appartenenti alla camorra, 210 a Cosa nostra, 135 alla ‘ndrangheta, 22 alla Sacra corona unita pugliese. Campania e camorra, dunque, al primo posto tra i detenuti al carcere duro. La detenzione che rende difficile la vita ai boss dietro le sbarre, che interrompe di netto i loro rapporti con le organizzazioni criminali all’esterno è figlia delle stragi del 1992, come risposta alle morti dei giudici Falcone e Borsellino. Fu la stretta, decisa per reagire all’attacco stragista dei Corleonesi. Da subito, nel 1993, vennero messi al regime duro 473 detenuti. Nove anni dopo, erano saliti a 678. Doveva essere un provvedimento straordinario e provvisorio, ma resiste dopo tre leggi di proroga e una di modifica. Sono 20 le carceri attrezzate, per ospitare i boss pericolosi che devono essere sorvegliati da un nucleo speciale della polizia penitenziaria chiamato Gruppo operativo mobile. Cosa differenzia il carcere di chi è al 41bis dagli altri? Tanto. I colloqui con familiari e conviventi, ad esempio, sono solo uno al mese e di un’ora. Colloqui videoregistrati, da un vetro blindato e attraverso un telefono. Dopo i primi sei mesi, viene concessa anche una telefonata mensile di dieci minuti, naturalmente controllata. E poi censura nella corrispondenza, due ore di aria in compagnia, al massimo, di altri tre detenuti. In più, ai propri processi si assiste solo con un sistema di video li regime duro dietro le sbarre risale al 1992: fa introdotto dopo la morte di Falcone e Borsellino conferenza dal carcere. Come è accaduto ieri al boss Michele Zagaria. Una stretta, in grado di ridurre allo stremo detenuti anziani, come raccontò, due anni fa, il video diffuso dal tg La7 con un minuto di colloquio tra Bernardo Provenzano e la figlia. Il boss appariva inebetito, con ferite alle testa per una caduta, incapace perfino di capire come doveva prendere la cornetta del telefono per parlare con la figlia. Nessun contatto fisico, neanche una mano, ai parenti. E poi, da casa, può arrivare un pacco di abiti e denaro molto limitato rispetto agli altri. È un regime di isolamento totale e di lontananza dagli affetti, che ha la sua giustificazione nella necessità di impedire ogni segnale o messaggio da far arrivare fuori all’organizzazione criminale. Fu il 41bis, uno dei temi della famosa trattativa Stato-mafia. Ed è sempre il 41-bislo strumento che, da 22 anni, viene esibito da ogni governo come dimostrazione di impegno nella lotta alla mafia. Tredici anni fa, i radicali Maurizio Turco e Sergio D’Elia fecero una loro indagine sui detenuti al carcere duro, poi pubblicata nel libro "Tortura democratica". Scrisse Marco Pannella nell’introduzione: "Su sedici morti in regime di 41bis di cui è stato possibile sapere, sette si sono suicidati. Le inutili, meramente afflittive soverchierie del 41 bis provocano soltanto durezza di comportamenti, irriducibilità, autolegittimazione, rifiuto di ogni dialogo". E i radicali da anni conducono una battaglia sul 41-bis, inserita in quella più generale sulle condizioni carcerarie. Due sentenze, nel 1997 e 1998, della Commissione europea dei diritti dell’uomo lo ritennero "inumano e degradante" per alcuni detenuti. Di certo, il risultato principale del regime duro è indurre alla collaborazione con la giustizia chi non riesce a resistere. Il caso recente più clamoroso è quello del boss dei Casalesi, Antonio Iovine. Proprio il boss che, con Michele Zagaria, era stato tra gli ultimi latitanti al vertice dei Casalesi. Nell’ultima relazione della Direzione investigativa antimafia, si definisce "indispensabile" lo strumento del carcere duro. È un provvedimento amministrativo, firmato dal ministro dell’Interno su segnalazione degli organi inquirenti. Elemento essenziale è la "attualità" nel rapporto del detenuto con l’organizzazione mafiosa di appartenenza. Uno strumento sul filo della costituzionalità, hanno spesso scritto giuristi e studiosi. Ma necessario, per "impedire ai capi delle organizzazioni criminali di continuare ad impartire ordini e direttive sebbene detenuti", scrive la Dia nella sua relazione. Un atto amministrativo e i giudici di sorveglianza intervengono solo nell’esame dei reclami sull’applicazione e la proroga del provvedimento ministeriale, ø sostanza, il Tribunale valuta solo se esistono le condizioni previste dalla legge. E, su questo, scrivevano Maurizio Turco e Sergio D’Elia: "I magistrati del tribunale di sorveglianza recepiscono le note informative come fatti accertati". Napoli: il ministro Orlando "la camorra emergenza nazionale, rimuovere non serve" di Dario Del Porto La Repubblica, 23 settembre 2015 Intervista al ministro della Giustizia oggi a Torre Annunziata per il trentennale della morte di Giancarlo Siani: "Il giudizio di Saviano sull’azione di governo è ingeneroso". "La camorra non è un fenomeno circoscritto, ma un’emergenza nazionale che ha progressivamente interessato anche altre aree del Paese. Non penso proprio che la rimozione sia la via migliore per affrontarla". Tra un’audizione al Copasir e un impegno alla Camera, il ministro della Giustizia Andrea Orlando risponde alle domande di Repubblica sull’emergenza criminalità a Napoli. Oggi il Guardasigilli è atteso a Torre Annunziata per i trent’anni dall’omicidio del giornalista Giancarlo Siani. "Ero giovane, ma ricordo quel delitto e quei giorni, travagliati, che vennero dopo". Il ministro non nasconde la preoccupazione per l’offensiva scatenata dai baby boss, ma avverte: "La lotta non si combatte solo con l’azione di forze dell’ordine e magistratura. Bisogna costruire le condizioni per un cambiamento sociale". Ministro Orlando, come si affronta la criminalità giovanile? "Non si può non essere preoccupati per il coinvolgimento di tanti ragazzi in vicende criminali. La situazione, a mio modo di vedere, è frutto di un’implosione sociale. Non può essere risolta se prima non si individuano i fattori di questa vera e propria contaminazione criminale di pezzi di società". Da dove bisogna iniziare, allora? "Tutto ciò che fa società rappresenta la risposta alla penetrazione culturale ed economica di cui la camorra si è resa protagonista. Dunque è fondamentale il contrasto all’evasione scolastica. Va sostenuto concretamente chi, con abnegazione e coraggio, è in prima linea nei quartieri disagiati e si fa promotore di momenti di denuncia, incontro e crescita collettiva. Penso alle parrocchie, alle associazioni, alle scuole". L’età di chi commette reati si abbassa ogni giorno di più. È arrivato il momento di rivedere il codice minorile? "Le sanzioni per i minorenni esistono già. Poi, è giusto interrogarsi davanti a una criminalità organizzata che si evolve con grande rapidità. Credo però che prima di tutto debba esserci il contrasto di carattere sociale. Ha ragione Raffaele Cantone, quando parla di "welfare di camorra": dove lo Stato si ritrae oppure non è in grado di includere e la società si ammala, i luoghi collettivi si indeboliscono e la criminalità trova spazio. I disagi delle famiglie, la crisi economica, la mancanza di lavoro, rafforzano il tessuto malavitoso e rappresentano, per questa ragione, il primo tema su cui discutere". Roberto Saviano contesta al premier Renzi e al governo di trascurare il Mezzogiorno e il problema della camorra. "Sul Sud le prime risposte arriveranno dalla legge di stabilità. Quanto alla camorra, credo che il rilievo di Saviano sia ingeneroso. Il governo sta portando a termine un percorso legislativo importante sull’aggressione ai patrimoni dei clan e per rendere più efficiente l’utilizzo dei beni confiscati. Si tratta di interventi che hanno come obiettivo quello di indebolire la potenza economica e finanziaria delle mafie. È stato approvato anche il reato di auto-riciclaggio con le norme e l’azione contro la corruzione che è la principale arma della camorra. Si può sempre fare di più, naturalmente. Questi però sono fatti". In commissione Antimafia i magistrati napoletani hanno denunciato che un condannato ha a disposizione quindici istituti per ottenere benefici. Servono leggi per rendere più effettiva la pena? "Se ci sono segmenti normativi sui quali riflettere, siamo pronti a farlo. Ma non vorrei che passasse un messaggio sbagliato: contro la criminalità organizzata, lo ribadisco, non c’è alcun lassismo. Anzi, dobbiamo spiegare chiaramente ai cittadini che lo Stato ha incrementato gli strumenti di contrasto alle mafie. Proprio ieri la Camera ha approvato una norma che impone, raccogliendo un’indicazione della commissione Gratteri, che i boss partecipino al processo solo in videoconferenza, impedendo contatti con l’ambiente di origine. Io stesso, come ministro della Giustizia, firmo ogni giorno provvedimenti di applicazione del carcere duro. È vero che va messo a punto un sistema che consenta il ricorso a pene alternative per i reati di minore allarme sociale, così da riservare il carcere per i casi più gravi. Ma contro mafia e camorra nessuno, al governo, pensa di abbassare la guardia". Che pensa delle considerazioni di Rosy Bindi, sulla camorra "elemento costitutivo della società napoletana"? "Ho interpretato quelle parole come riferite a un discorso di carattere storico, non certo antropologico. La presenza storica della camorra è difficile da superare. Ma per fortuna, rappresenta un dato ormai consolidato anche l’esistenza, nella società civile della città, di soggetti collettivi che si sono dimostrati in grado di contrastare questo fenomeno". È d’accordo con quei sindaci che hanno vietato le riprese della fiction Gomorra perché preoccupati dal rischio emulazione? "Temo proprio che l’emulazione non passi attraverso la fiction. I modelli, purtroppo, sono quelli che vengono trasmessi dal contesto in cui questi ragazzi vivono. Inoltre, un fenomeno non si combatte rimuovendone il racconto. Semmai, si può controllare che la rappresentazione non si presti ad interpretazioni indulgenti, ma non mi pare che sia questo il caso. E comunque, il fatto che in questi anni la realtà camorristica sia stata raccontata in maniera efficace ha aiutato il Paese a capire che ci troviamo di fronte a un’emergenza nazionale". Si riuscirà a realizzare a Castel Capuano il memoriale delle vittime innocenti della camorra? "È un obiettivo nel quale crediamo. Nei prossimi giorni convocherò una riunione per far partire il progetto". Trent’anni fa veniva ucciso Giancarlo Siani. "Avevo appena iniziato ad occuparmi di politica. Ricordo bene quei giorni, segnati da tanti omicidi. Negli anni, ho potuto apprezzare ancora di più la figura di quel giovane cronista che non ha mai disgiunto la sua attività professionale da una profonda passione civile". Forlì: la parrocchia di Civitella Di Romagna accoglie i detenuti, il paese in agitazione di Matteo Miserocchi corriereromagna.it, 23 settembre 2015 Sui detenuti in paese si inizia a discutere con la gente. Tutto esaurito per l’incontro chiarificatore di domenica sera sul progetto di reinserimento dei carcerati a fine pena che si sta svolgendo anche a Civitella. L’iniziativa, realizzata dalla Caritas dopo il decreto "svuota carceri", vede partecipare anche la locale parrocchia. Un coinvolgimento che non era stato anticipato ai cittadini, che per questo motivo hanno espresso il loro malumore. La sala consigliare del Municipio, dove si è svolta l’assemblea richiesta dal sindaco Claudio Milandri, era gremita di gente, con molte persone anche in piedi. Il progetto prevede che chi si trova in prossimità del termine della pena possa scontare gli ultimi mesi all’interno delle aree pertinenti agli edifici di culto, facendo piccoli lavoretti, pulendo e occupandosi di dare una mano. A parlare ai cittadini erano presenti il parroco don Massimo Masini, il vescovo di Cesena-Sarsina monsignor Douglas Regattieri, delegato regionale per la carità, la salute e la pastorale carceraria, e don Enzo Zannoni, cappellano del carcere di Forlì. È intervenuto anche l’assessore comunale di Forlì, Raoul Mosconi, in qualità di presidente del tavolo istituzionale sul carcere. "Non c’era stata nessuna condivisione del progetto e tutto era stato fatto senza informare i cittadini - spiega il sindaco Milandri. I detenuti che stanno finendo di scontare la pena vengono accolti in canonica, alcune madri hanno espresso disappunto e preoccupazione per questa cosa. Si sono chieste se la struttura è idonea ed i presenti hanno fatto una serie di domande. La gente vorrebbe essere informata su chi viene accolto e quali reati ha commesso. Se, insomma, uno è in galere per piccoli furti o perché ha commesso reati più gravi. Se uno si è macchiato di pedofilia o omicidio, ad esempio, è stato detto che viene escluso da questo progetto. La Caritas di Forlì organizza queste iniziative e deve essere la prima a condividerle". Mosconi ha promesso di fare verifiche sulle possibilità di condividere i percorsi alternativi alla detenzione, ma è stato chiaro. "Sono intervenuto per spiegare il tema delle esecuzioni penali esterne (tutte le misure alternative alla prigione ndr) - racconta l’assessore forlivese - i cittadini non possono sindacare su chi viene accolto in questi piani, perché il compito tocca ai giudici. Certo si possono creare percorsi condivisi ed in cui la gente è informata. Il Comune di Forlì ha bisogno di collaborare con tutto il territorio. Mi sono impegnato proprio per incentivare la collaborazione di tutti i Comuni nei confronti di questi soggetti con progetti operativi che coinvolgano anche i cittadini con appositi incontri". Firenze: Sappe; nel carcere di Sollicciano crolla un pezzo di cornicione nell’inter-cinta di Laura Montanari La Repubblica, 23 settembre 2015 Crolla un pezzo di cornicione nel carcere fiorentino. La denuncia del Sappe: "Dieci metri di muro caduto". C’erano delle crepe. Si trova in una zona già interdetta a guardie e detenuti. Da tempo allarmi sulla struttura fatiscente. Un crollo improvviso dopo le crepe che già nei giorni scorsi c’erano su uno dei muri del carcere fiorentino di Sollicciano. Si susseguono i problemi strutturali su questo istituto di pena, il più grande della toscana che ospita 700 detenuti. "La struttura da tempo è in una situazione precaria - dice il garante dei detenuti Eros Cruccolini - con i tetti a terrazza si contano numerose infiltrazioni di acqua anche nelle celle e nei corridoi, quando piove a Sollicciano sono costretti a mettere i secchi". Oggi è crollato un cornicione, un grosso pezzo, "di una decina di metri all’interno dell’inter-cinta del penitenziario" sostiene il sindacato Sappe. E il segretario Donato Capece aggiunge: "Una situazione che per fortuna non ha registrato feriti, perché la direzione del carcere, autotutelandosi, aveva delimitato il camminamento degli agenti di polizia penitenziaria di sentinella sul muro di cinta in quel tratto, nonostante i tecnici del provveditorato regionale toscano dell’amministrazione penitenziaria ritenessero agibile il camminamento. Una decisione che la direzione del carcere ha per fortuna disatteso, impedendo una probabile tragedia". La direzione del carcere spiega che a cadere è stato non tutto un muro ma un parapetto. Il sindacato parla di "situazione assurda e incredibile, della quale ci siamo resi conto personalmente nel corso della visita ai posti di servizio della polizia penitenziaria che il Sappe ha tenuto lo scorso giovedì 17 settembre nella struttura fiorentina". Il Sappe, attraverso il segretario regionale toscano Pasquale Salemme, invita "l’amministrazione penitenziaria a un tempestivo intervento per risolvere il grave problema, che determina ora un aggravio di lavoro per la polizia penitenziaria che è costretta a percorrere due volte l’intero camminamento del muro di cinta, per un totale di 4,5 chilometri, al fine di assicurare la completa vigilanza della struttura". Biella: sale sul tetto e minaccia il suicidio, detenuto tiene in scacco il carcere di Andrea Formagnana La Stampa, 23 settembre 2015 Voleva cure sanitarie urgenti. La direttrice: "Situazione gestita bene". Sale sul tetto del carcere, eludendo incredibilmente la sorveglianza, e per due ore tiene in scacco tutto il personale del carcere di Biella minacciando di gettarsi nel vuoto. Pomeriggio di follia ieri per un detenuto marocchino, 29 anni, nella casa circondariale di via dei Tigli. Solamente dopo due ore di protesta, l’uomo decide di arrendersi e di scendere a terra accompagnato dai vigili del fuoco prima del trasporto in ospedale per accertamenti. "Criticità gestita in maniera ottimale", dichiara Antonella Giordano, direttrice di un carcere che attualmente ospita 320 detenuti quando la capienza, considerata tollerabile, è di 568, e che vede in servizio circa 200 uomini di custodia. Terminata l’urgenza sarà ora da capire cosa non ha funzionato nella sicurezza da permettere al detenuto di arrampicarsi sul tetto. Duro l’attacco del segretario Osapp, Leo Beneduci, alla direttrice Giordano: "La situazione di Biella è grave anche e soprattutto per le condizioni ingenerate dagli attuali direttore e comandante in ordine alla vivibilità lavorativa per il personale di polizia penitenziaria". Catania: Medicina Protetta. Al "Cannizzaro" Convegno nazionale il 25 e 26 settembre insalutenews.it, 23 settembre 2015 A due anni dall’apertura del reparto di Medicina Protetta, dedicato alla cura dei detenuti, e al riconoscimento del ruolo da esso svolto, l’ospedale Cannizzaro di Catania ospita il "Convegno delle Unità Operative di Medicina Protetta in Italia: la rete dei progetti", che si terrà nell’aula convegni (edificio P), venerdì e sabato prossimi (25 e 26 settembre). Organizzato dalla Simspe, Società italiana di Medicina e sanità penitenziaria, con il Patrocinio del Ministero della Giustizia e il partenariato con l’Istituto Superiore di Studi Penitenziari (ISSP), l’evento scientifico di carattere nazionale vuole essere una finestra su tutte le UUOO di Medicina Protetta oggi presenti in Italia, che rappresentano un sistema di attività di valore che ha come obiettivo il benessere del paziente detenuto. "La relazione tra professionalità appartenenti a culture organizzative diverse deve essere curata nei minimi aspetti affinché la salute del detenuto possa essere garantita. Il reparto di medicina protetta è, quindi, il paradigma operativo del concetto di Connected Health (sanità connessa), una sanità che pone al centro il paziente come individuo e non solo come sorgente di un bisogno sanitario", spiega la dott.ssa Maria Concetta Monea, presidente del convegno, direttore dell’UO di Anestesia e Rianimazione con Tipo e della Medicina Protetta dell’Azienda ospedaliera Cannizzaro. Un reparto, questo, che "si pone senz’altro come un esempio di modernità di cure data la sua impostazione per intensità di cure e multidisciplinare: ci avvaliamo, infatti, se necessario - prosegue la dott.ssa Monea - di consulenti di elevato livello professionale. In questo modo siamo stati in grado, offrendo la massima sicurezza, di affrontare percorsi diagnostici di elevato livello di accuratezza o, ad esempio, interventi molto impegnativi. In questi primi due anni di lavoro insieme, l’impegno e la collaborazione con i medici e gli infermieri delle case circondariali, con l’amministrazione, ed in particolare con la Polizia penitenziaria, sono sempre stati al massimo e ciò ha consentito una sinergia che ha portato risultati di elevatissimo livello", conclude la dottoressa. I lavori del convegno, di cui è responsabile scientifico il dott. Giulio Starnini, direttore dell’Unità Operativa di Medicina protetta - Malattie infettive dell’ospedale Belcolle di Viterbo e segretario generale della Simspe, si svolgeranno per l’intera giornata di venerdì 25, fino alle 14.00 di sabato. Alessandria: cena benefica preparata dai detenuti della Casa di Reclusione di S. Michele alessandrianews.it, 23 settembre 2015 Giovedì 24 settembre alla Cittadella di Alessandria con l’associazione Betel una cena preparata da e per aiutare le persone detenute, con un menu davvero invitante. Ad Alessandria è in programma una cena davvero speciale, in cui assaporare il gusto della solidarietà nello scenario suggestivo della Cittadella di Alessandria: grazie all’associazione Betel, giovedì 24 settembre alle 19 sarà possibile gustare una cena unica, preparata dai cuochi della Casa di Reclusione di San Michele. Con una piccola offerta, i partecipanti alla cena potranno quindi aiutare i volontari di Betel nella loro quotidiana attività di recupero e reinserimento delle persone recluse: una cena preparata da e per aiutare le persone detenute, con un menu davvero invitante. Nel corso della serata, sarà anche festeggiato il terzo compleanno della delegazione Fai. Per informazioni e prenotazione chiamare il numero 0131 362421 (lunedì, giovedì e venerdì ore 9-14, martedì e mercoledì ore 12,30-18). L’iniziativa è realizzata in collaborazione con la Casa di Reclusione, il Comune di Alessandria, il Fai, Coompany e il supporto del Csv Asti Alessandria. Padova: trofeo "Pallalpiede" al Due Palazzi, triangolare tra i detenuti e selezioni giovanili di Gabriele Fusar Poli padovagoal.it, 23 settembre 2015 Un antipasto del prossimo derby andrà in scena questo pomeriggio al carcere Due Palazzi. Ma il campionato di Lega Pro e la rivalità tra le due squadre più importanti della nostra provincia c’entrano ben poco. Il piccolo sogno della polisportiva Pallalpiede verrà realizzato oggi, quando, a partire dalle 14.30, andrà in scena la prima edizione del torneo "Pallalpiede", che metterà di fronte, oltre alla squadra composta esclusivamente da detenuti del carcere, anche una selezione di giocatori delle giovanili di Padova e Cittadella. Principalmente saranno in campo le squadre Berretti, che hanno iniziato la settimana scorsa il proprio campionato, ma l’evento resta storico, perché per la prima volta entreranno in carcere con una propria rappresentativa due società professionistiche. Un’idea che era maturata già la scorsa primavera ai dirigenti della Pallalpiede, i quali prima hanno invitato, per assistere all’ultima partita stagionale di Terza Categoria, il vice-presidente biancoscudato Edoardo Bonetto (presenza che portò bene, visto che il giorno dopo il Padova conquistò a Legnago la promozione), quindi hanno assistito con una propria rappresentativa alla gara contro l’Altovicentino all’Euganeo. Oggi, oltre ad alcuni rappresentati delle due società (dovrebbero esserci Edoardo Bonetto e Marco Bergamin), ha annunciato la propria presenza anche il sindaco Massimo Bitonci. Un piccolo sogno per l’Associazione Nairi Onlus, che ha fondato la polisportiva nell’estate 2014, e anche per i tanti giocatori-detenuti, che nell’ultimo campionato hanno agguantato il secondo posto nel proprio girone, vincendo la Coppa Disciplina come squadra distintasi per fair play. Fischio d’inizio alle 14.30, tre tempi da mezz’ora, e un centinaio di tifosi sugli spalti che entreranno donando un’offerta libera e avranno l’opportunità di acquistare alcuni gadget per sostenere il progetto. Immigrazione: arrivano gli "hotspot", le nuove carceri per migranti targate Ue ilquotidianoitaliano.it, 23 settembre 2015 Taranto è una delle cinque città italiane scelte come luogo dove realizzare un hotspot. Parliamo di una nuova forma di detenzione. L’altra faccia, quella securitaria, del Piano Juncker. Accanto alla riallocazione dei 160mila profughi, l’Unione Europea impone la costruzione nei paesi di arrivo, Italia e Grecia, di moderni centri di identificazione. Strutture nelle quali, siamo convinti, si verificheranno ulteriori violazioni dei diritti umani e migliaia di persone saranno trattenute illegittimamente. Non bastavano i C.I.E, troppo vecchi e lontani dall’attuale emergenza umanitaria. Nuove carceri nelle quali l’Europa democratica tenterà di nascondere le sue enormi responsabilità, il suo colpevole fallimento in tema di migranti e diritto alla vita. Missioni militari umanitarie che hanno destabilizzato numerosi Paesi. Operazioni di polizia internazionale pensate per capovolgere determinati governi. Oggi paghiamo le conseguenze disastrose di quelle scelte finalizzate al controllo strategico, e di fatto fasullo, dello scacchiere geopolitico. Abbiamo sparato, bombardato, ucciso, sempre nel "rispetto" delle regole di ingaggio, ma fuggiamo davanti allo scempio da noi generato. Loro, quelli che sopravvivono a Caronte, cercano la Pace, la libertà, la vita. Noi, anziché accoglierli degnamente, scusandoci anche per i danni loro arrecati, decidiamo di richiuderli in un recinto blindato, come bestie in attesa di essere marchiate. Gli hotspot a Sud, per i migranti che dovranno essere espulsi, mentre a Nord gli hub aperti che ospiteranno le persone considerate meritevoli di protezione. Migrazioni di serie A e di serie B. Razzismo istituzionale che consapevolmente decide, in maniera del tutto miope, di ghettizzare e precarizzare ulteriormente l’esistenza di gente che fugge da conflitti e devastazioni di matrice occidentale. Bisogna opporsi con tutte le forze dinnanzi alla creazione in Puglia di inediti esperimenti di vivisezione umana. La nostra terra è luogo di accoglienza e non di esclusione. Davvero tristissimo lo scenario che si profila. Aerei carichi di immigrati ritenuti clandestini che solcheranno i nostri cieli con destinazione la Libia, l’Egitto o la Nigeria. Corridoi umanitari sotto l’egida delle Nazioni Unite e apertura delle delegazioni diplomatiche presenti nei paesi di transito. Queste le soluzioni praticabili e non cariche di polizia o pallottole al sale sparate sui profughi all’interno del territorio europeo. Troppe morti sulla coscienza. Di questo passo i poveri, ormai sempre più poveri, non potranno che sfondare gli argini e chiedere "legittimamente" giustizia. E noi non riusciremo a fermare il corso della storia che abbiamo contribuito, purtroppo, a scrivere e disegnare in maniera ignobile. Immigrazione: via alla ricollocazione di 120mila profughi, ma l’Ue è divisa di Carlo Lania Il Manifesto, 23 settembre 2015 Repubblica Ceca, Ungheria e Romania votano contro, come la Slovacchia che annuncia disobbedienza. Alla fine la proposta della Commissione europea passa con un voto a maggioranza, ma quella che esce dal Consiglio dei ministri degli Interni che si è tenuto ieri a Bruxelles è un’Europa profondamente in crisi che vede, forse per la prima volta in maniera così clamorosa, tutte le sue divisioni rese definitivamente ufficiali dall’incapacità dimostrata in cinque mesi nel saper arrivare a una decisione comune su come affrontare l’emergenza profughi. La determinazione dimostrata soprattutto dalla Germania l’ha avuta vinta sull’opposizione dei Paesi dell’est, che fino all’ultimo hanno cercato di bloccare il meccanismo della ricollocazione dei profughi: Repubblica Ceca, Ungheria, Slovacchia e Romania hanno votato contro. La Polonia, fino a pochi giorni fa contraria anche lei alle quote, ha invece ceduto e votato a favore. Astenuta la Finlandia. "Avremmo preferito prendere una decisione per consenso, ma alcuni Paesi hanno fatto valere altri punti di vista. Non dubito che metteranno in atto le decisioni prese da una maggioranza molto più grande di quanto previsto dai Trattati", è stato il commento forse troppo ottimistico del presidente di turno, il lussemburghese Jean Asselborn. Il premier slovacco Robert Fico ha infatti fatto sapere subito di non avere alcuna intenzione di rispettare il voto e di voler intentare una causa contro Bruxelles. "Preferisco entrare nella procedura di infrazione piuttosto che rispettare questo diktat della maggioranza", ha dichiarato. Il voto di ieri prevede che a partire da ottobre tutti i Paesi, anche quelli che hanno votato contro o che si sono astenuti, dovranno dividersi la quota di 120 mila profughi fissata dalla Commissione europea. Non sono più previste sanzioni per quegli Stati che dichiarano di poter accogliere, per motivi giustificati e verificabili, un numero inferiore a quello stabilito, ma avranno la possibilità di vedersi ridurre del 30% la quota prevista solo per il primo anno. Dall’Italia e dalla Grecia, i due Paesi maggiormente interessati dagli sbarchi, verranno ricollocati in tutto 66 mila profughi, mentre per quanto riguarda i 54 mila che avrebbero dovuto essere redistribuiti dall’Ungheria - possibilità rifiutata da Budapest - nei prossimi mesi il Consiglio Ue deciderà se prelevarli sempre da Italia e Grecia o da un altro Paese in difficoltà. A nulla dunque sono valsi i tentativi messi in atto dalla presidenza lussemburghese di trovare una mediazione che mettesse finalmente d’accordo tutti. Fino al punto di rischiare di snaturare la natura stessa dell’operazione di redistribuzione dei profughi che da maggio Bruxelles cerca inutilmente di mettere in atto scontrandosi sempre con l’ostilità di Romania, Slovacchia, Ungheria e Repubblica Ceca. Tanto che ieri il presidente della commissione europea Jean Claude Juncker, stanco dell’indecisione dei ministri, ha perso la pazienza: "120 mila rifugiati? Siamo ridicoli data la grandezza del problema, mi chiedo se i libanesi o i giordani capiscono quello di cui stiamo parlando", ha detto riferendosi ai due Paesi che da soli ospitano milioni di profughi siriani. La parola passa adesso al consiglio dei capi di Stato e di governo in programma per oggi e al quale parteciperanno anche il premier italiano Renzi e quello greco Tsipras. Vertice che potrebbe essere tutt’altro che tranquillo se oltre alla Slovacchia anche altri Stati sceglieranno di non accettare la decisione presa ieri. Oltre alle quote, all’ordine del giorno ci sono anche i finanziamenti da destinare alla Turchia perché impedisca ai profughi di arrivare in Europa. Il Paese ospita più di due milioni di profughi siriani ma soprattutto è il punto di partenza di quanti vogliono arrivare in Europa. Tutte cose di cui il presidente del consiglio europeo Donald Tusk, che si è recato due volte ad Ankara negli ultimi giorni, ha parlato con il presidente Erdogan. L’accordo sulla redistribuzione di 120 mila richiedenti asilo è "una grande violazione di tutti i sacri principi del regolamento di Dublino", ha commentato con soddisfazione il ministero degli Interni Angelino Alfano al termine del vertice. Ora l’Europa si aspetta che Italia e Grecia aprano gli hotspot, i centri di identificazione e smistamento delle persone tra richiedenti asilo e migranti economici (questi ultimi da rimpatriare), come ha ricordato ieri anche il commissario all’Immigrazione Dimitri Avramopoulos. L’Italia ne ha pronti cinque ma per renderli operativi il Viminale aspettava che venisse approvata la ricollocazione dei migranti.. Concetto ribadito anche ieri da Alfano. "Gli hotspot sono centri in cui di distingue chi è migrante illegalmente da chi invece è richiedente asilo - ha detto il ministro. Noi li attiveremo, ma chiediamo in parallelo il funzionamento dei rimpatri e della distribuzione dei profughi" Immigrazione: la brutta accoglienza all’italiana di Luca Fazio Il Manifesto, 23 settembre 2015 Presentato il Rapporto sulla protezione internazionale in Italia 2015 elaborato da Anci, Caritas, Fondazione Migrantes e Rete Sprar. Un approfondito studio ricco di dati e statistiche utile per comprendere il fenomeno mondiale delle migrazioni. Nei primi nove mesi di quest’anno in Italia sono sbarcate 121.500 persone, di queste 25 mila hanno presentato domanda di protezione. L’anno scorso le domande sono state 65.000 ma solo la metà dei richiedenti ha avuto un esito positivo. Dice tante cose il nuovo Rapporto sulla protezione internazionale 2015 in Italia realizzato da Caritas, Cittalia, Fondazione Migrantes, Rete Sprar e Anci (con la collaborazione dell’Unhcr). Sono dati, cifre, statistiche che se incrociate con attenzione confermano una realtà storica che confondiamo con la cronaca: il fallimento dell’Europa di fronte a un fenomeno mondiale che di fatto sta solo sfiorando il vecchio continente. Per ora. Secondo il rapporto, nel mondo vivono circa 59 milioni e mezzo di "migranti forzati". Sono invece 19 milioni e mezzo i rifugiati che sono già fuori dai loro paesi di origine e tra questi ben due terzi (12,4 milioni di persone) è accolto da paesi in via di sviluppo: Turchia, Pakistan, Libano e Iran da soli ospitano il 36% del totale dei rifugiati (5 milioni e 200 mila persone). Questo è il quadro globale cui bisogna affiancare l’altro dato fondamentale: meno del 10% dei rifugiati arriva in Europa e di questi meno del 3% arriva in Italia (meno del 3 per mille del totale). Non per niente il rapporto parla di "disunione europea" e di "prova fallita", visto che ogni paese "ha agito in ordine sparso, adottando una propria politica, spesso contraddittoria e xenofoba". "Il fenomeno - ha sottolineato il sindaco di Prato e delegato Anci all’immigrazione Matteo Biffoni - ha una complessità mondiale oltreché nazionale che può essere risolta non con il richiamo alla paura ma attraverso un sistema organizzato di accoglienza dove lo Sprar (Sistema di protezione per Rifugiati e richiedenti asilo, ndr) funga da sistema principale, in modo da mettere gli enti locali nelle condizioni di fare la propria parte in maniera funzionale e dignitosa". Logica e buon senso. Purtroppo un focus sul nostro paese per ora offre soltanto altri desolanti spunti di riflessione in merito alla scarsa capacità di accoglienza. Nei primi nove mesi di quest’anno sono sbarcate sulle nostre coste circa 121.500 persone (circa 9mila persone in più dell’anno scorso). Di queste, 25mila hanno presentato domanda di protezione internazionale nei primi cinque mesi dell’anno (erano quasi 65 mila l’anno precedente). Con che esito? Uno sì, l’altro no. Solo la metà dei richiedenti ha avuto riconosciuta una forma di protezione internazionale (meno del 2014, quando era al 60%). Per contro, sono aumentate le decisioni di diniego (47%). Un altro dato dovrebbe mettere a tacere i teorici dell’emergenza nostrana: la Grecia quest’anno ha registrato 288.020 arrivi, quindi più del doppio dell’Italia, invece ha registrato solo 1.953 arrivi in Spagna. Quanto alla presunta "invasione" su cui ogni giorno specula la Lega di Salvini, ecco le cifre reali: a fine giugno erano circa 82mila i migranti presenti nelle strutture di accoglienza sparse in quasi tutte le regioni italiane (Sicilia, Lombardia e Lazio in testa). Allargando lo sguardo al continente, il rapporto segnala che nel 2014 nei 28 paesi membri dell’Unione Europea sono state presentate 626.715 domande di protezione internazionale (circa 200 mila in più rispetto all’anno precedente). La Germania è il paese più richiesto (202.815, pari al 32,4% del totale). A seguire la Svezia con 81.325 richieste e poi Italia e Francia (poco meno di 65 mila). È vero però che se si confrontano i dati con quelli del 2013, in Italia si registra la crescita maggiore di domande presentate (+142,8%: significa essere passati da 26.620 a 64.625). Alto anche l’incremento registrato in Ungheria (da 18.900 a 42.775). Il dato relativo al "nodo" Siria, invece, dice che non ci sarà politica di accoglienza o solidarietà che possa funzionare senza la risoluzione di quel conflitto. Rispetto ai paesi di origine dei rifugiati, alla fine del 2014, la Siria risulta essere il primo paese al mondo con quasi 3,9 milioni di rifugiati presenti in 107 paesi: da più di trent’anni questo triste primato apparteneva all’Afghanistan. Terzo paese in classifica la Somalia. Questi tre paesi, con 7,6 milioni di migranti, rappresentano il 53% di tutti i rifugiati sotto la responsabilità dell’Unhcr (ma il dato è fermo al 2014). Infine, altre statistiche, nude cifre ormai incapaci di restituire il dramma dell’ecatombe in corso, anche se corredate da immagini scioccanti. Sono i morti. Non solo nel mar Mediterraneo. Dall’inizio dell’anno ad oggi sono "circa" 2.900 le persone che hanno perso la vita tentando di sfidare il mare. Oltre 200 invece sono morte soffocate nei camion o travolte nelle strade o lungo le ferrovie. Droghe: l’Onu sceglie la depenalizzazione di Marco Perduca Il Manifesto, 23 settembre 2015 In apertura della Trentesima sessione del Consiglio dei Diritti umani delle Nazioni unite di Ginevra, l’Alto Commissario Onu per i diritti umani, il principe giordano Zeid Ràad Zeid Al-Hussein, ha reso note una serie di raccomandazioni per garantire il rispetto dei diritti umani violati dal sistema internazionale del controllo delle droghe. Il documento è il frutto di una consultazione pluriennale coordinata con altre agenzie del sistema delle Nazioni Unite e una trentina di Stati membri e verrà discusso il 28 settembre. Non è la prima volta che il sistema degli organismi delle Nazioni Unite si interessa laicamente di stupefacenti, ma mai come questa volta le raccomandazioni dell’Alto Commissario erano state così puntuali e specifiche e in radicale discontinuità con quanto promosso per anni dall’Ufficio di Vienna, quello competente sulle droghe e il crimine (Unodc). I motivi di questo cambiamento di orientamento sono legati sia al crescente malcontento di alcuni paesi dell’America Latina, quelli che maggiormente subiscono gli effetti devastanti del proibizionismo, sia all’arrivo a Ginevra di Al-Hussein, un diplomatico da sempre attento alla promozione e protezione dei diritti umani. Il primo dato di rottura e progresso del documento riguarda la terminologia: si riconosce infatti che le droghe possano esser "usate" e non, sempre solo e comunque, "abusate". Le sedici pagine rese note a metà settembre chiedono a chiare lettere: la totale depenalizzazione dell’uso e del consumo personale delle sostanze, senza far distinzione tra "leggere" e "pesanti"; misure alternative a qualsiasi tipo di restrizione della libertà personale per i tossicomani con problemi penali; la proibizione dell’astinenza forzata per estorcere informazioni o confessioni; la promozione delle politiche di Riduzione del danno a partire dalle terapie sostitutive (senza auspicare dosaggi a scalare); una piena informazione per i minori sull’uso delle sostanze; politiche che non discriminino gruppi etnici o le donne che usano stupefacenti come "micro-distributori"; l’uso tradizionale o sacro di alcune sostanze illegali; un ampio accesso alle medicine essenziali a base di oppio, specie per i paesi in via di sviluppo; e, infine, un chiaro no alla pena di morte per reati connessi all’uso e al traffico delle sostanze proibite. Il documento dell’Alto Commissario si inserisce nel quadro delle attività che le Nazioni Unite stanno portando avanti da una ventina d’anni in materia di controllo degli stupefacenti e che nell’aprile del 2016 porteranno alla convocazione di una Sessione Speciale dell’Assemblea generale dell’Onu (Ungass 2016) interamente dedicata alle droghe. Da oltre un anno, l’Italia ha una nuova direzione tecnica del Dipartimento sulle dipendenze, ma non ha nominato un sottosegretario con delega alle droghe. Inoltre il Governo non ha ancora chiarito quando e come intende convocare la sesta conferenza nazionale sulle droghe, né si è distinto, all’interno del sistema delle Nazioni Unite, per una chiara volontà riformatrice o per cercare di comporre un fronte trans-regionale per cogliere l’occasione della Ungass 2016 e lanciare un processo di revisione delle tre Convenzioni Onu in materia di stupefacenti che rappresenta il problema dei problemi. Le raccomandazioni del principe Zeid verranno discusse pubblicamente a Ginevra in tre ore di dibattito; prima il Governo italiano si pone il problema di come reagire, meglio riuscirà ad affrontare un tema di rilevanza mondiale che, come si vede, ha gravi ripercussioni negative sui diritti umani. Fyrom: sovraffollamento delle carceri, manifestazioni di piazza per chiedere l’amnistia Nova, 23 settembre 2015 Nell’ex Repubblica jugoslava di Macedonia (Fyrom) si registrano proteste davanti al palazzo del parlamento per richiedere la riduzione o la cancellazione delle pene, per i carcerati condannati per reati minori. Lo riferisce il sito d’informazione "Balkan Insight". I manifestanti stanno cercando di ottenere 10 mila firme per presentare una richiesta di amnistia per tutti i carcerati per reati meno gravi, che sarebbero "il 40 per cento" di tutti le persone recluse nella Fyrom. Le proteste sono esplose dopo che è circolata la notizia che una serie di persone sono state imprigionate per "traffico di esseri umani", avendo favorito il trasporto dei migranti che hanno invaso il paese negli ultime settimane. Gli organizzatori delle proteste, in prevalenza familiari delle persone condannate, evidenziano come le condizioni delle carceri nella Fyrom sono caratterizzate da "sovraffollamento" e non rispettino gli standard richiesti dall’Ue. In particolare viene denunciata la situazione "allarmante" del carcere di Idrizovo, predisposto per accogliere 900 carcerati mentre attualmente ne ospita il doppio. L’ultima amnistia nella Fyrom è stata concessa nel 2001, dopo l’accordo di pace di Ocrida, che ha messo fine alle violenze inter-etniche che hanno visto coinvolta la comunità albanese.