La quota di "mantenimento carcere" a carico del detenuto elevata a 108,6 euro al mese Ristretti Orizzonti, 22 settembre 2015 Il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziari, con Circolare GDAP-PU-0298924 del 7 settembre 2015, ha comunicato ai direttori delle carceri ed ai provveditori regionali che la quota di "mantenimento in carcere" a carico del detenuto è aumentata a 3,62 euro al giorno (108,6 euro al mese, in pratica il doppio di quanto dovuto finora). Di seguito il testo del Decreto ministeriale del 7 agosto 2015, che sarà pubblicato nel Bollettino Ufficiale del Ministero della Giustizia n. 18 del 30 settembre 2015. "Visto l’art. 2 della Legge 26/07/1975 n. 354 recante norme sull’Ordinamento Penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà; considerato che la citata disposizione di legge precisa che le spese di mantenimento per le quali può farsi luogo a recupero sono soltanto quelle concernenti gli alimenti ed il corredo, e che il rimborso ha luogo per una quota non superiore ai due terzi del costo reale; ritenuto che il costo effettivo per gli alimenti ed il corredo risulta essere di €. 5,44 e che pertanto la relativa quota di mantenimento da porre a carico del detenuto, pari ai 2/3 del costo reale, risulta essere di €. 3,62 ripartito come segue: colazione €. 0,27, pranzo €. 1,09, cena €. 1,37, corredo €. 0.89 = quota mantenimento €. 3,62. Visto il parere espresso dal Ministero dell’Economia e delle Finanze con nota prot. n.47323 datata 08/06/2015, decreta: la quota di mantenimento da recuperare a carico dei detenuti è fissata dalla data del presente decreto in €. 3,62 per giornata di presenza". Giustizia: ddl per la riforma delle intercettazioni, è scontro nel Governo di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 22 settembre 2015 La "riserva" del Governo sull’emendamento 5 Stelle che amplia l’area della "rilevanza" delle intercettazioni pubblicabili e sul quale giovedì scorso Donatella Ferranti (relatrice dem del ddl sul processo penale) aveva dato parere favorevole, sarà sciolta oggi ma con un niet. "In effetti abbiamo riflettuto che il criterio di delega che aggancia la rilevanza "ai fini di giustizia" è sufficientemente determinato anche se ampio" diceva ieri la stessa relatrice nonché presidente della commissione Giustizia della Camera per spiegare la contrarietà del ministro della Giustizia Andrea Orlando, che quindi confermerà l’orientamento negativo manifestato dal suo vice Enrico Costa (Ncd) giovedì scorso. "Il governo vuole mani abbastanza libere per lasciare spazio alla commissione ministeriale che Orlando intende insediare subito dopo il voto della Camera e che sarà composta da magistrati, giuristi, giornalisti, avvocati" aggiunge David Ermini, responsabile Giustizia del Pd, dopo un breve incontro con il guardasigilli. Ancora incerto, poi, il sì del Governo all’emendamento Ferranti che elimina dal testo il riferimento esplicito all’udienza di selezione delle intercettazioni (la cosiddetta udienza filtro) lasciando al governo la scelta sulla scansione procedimentale del materiale intercettato. Il Pd e Orlando sono favorevoli a eliminare l’udienza prima dell’emissione di un provvedimento cautelare (atto a sorpresa) ma Ncd con Costa punta i piedi per lasciarla, tornando sostanzialmente allo schema del vecchio ddl Mastella. Fino a ieri sera non era stato trovato un accordo per cui si deciderà soltanto stamattina, prima di andare in aula. Al di là di questa modifica - e di quella Verini-Ermini sulle "registrazioni fraudolente" (la vecchia norma D’Addario) per escludere dalla punibilità "fino a 4 anni di carcere" chi esercita il diritto di cronaca, il capitolo intercettazioni regolato dall’articolo 29 del ddl sul processo penale non dovrebbe essere toccato. Oggi l’Aula di Montecitorio riprende le votazioni a partire dall’articolo 27 (partecipazione al dibattimento a distanza) e chiuderà in giornata. Domattina è infatti previsto il voto finale sul provvedimento, che poi passerà al Senato. Nel frattempo, Orlando insedierà la commissione ministeriale cui intende affidare l’attuazione della delega, ovvero la predisposizione dell’articolato. Il voto di domani potrebbe anche sbloccare il ddl Ferranti sulla riforma della prescrizione, che dopo il via libera della Camera, a maggio, si è fermato al Senato per un ampio fronte contrario, trasversale a centrodestra e centrosinistra, al quasi raddoppio dei termini attuali votato a Montecitorio, sia pure soltanto per la corruzione propria - 18 anni invece di 10 - e per quella giudiziaria - 22 invece di 12. Quel risultato è stato il frutto di una modifica dell’articolo 157 del Codice penale, che per questi reati, e per la corruzione impropria, aumenta della metà il termine iniziale. Cosicché, con l’aumento di un quarto previsto dall’articolo 161 quando iniziano le indagini, si arriva al quasi raddoppio (inspiegabilmente, però, sono rimasti fuori dall’aumento della metà del termine iniziale reati gravi come l’induzione indebita e il peculato). Una possibile mediazione - portata avanti da Ermini e da D’Ascola (Ncd) - potrebbe "spostare" dall’articolo 157 al 161 l’aumento della metà (o di un quarto). Che Orlando vorrebbe estendere anche a altri reati, come l’induzione indebita. Politicamente, l’aumento dei termini di prescrizione verrebbe giustificato con la stretta sulla durata delle indagini appena approvata dalla Camera con il ddl sul processo penale, ma contestata dai magistrati. Oggi, però, i riflettori saranno tutti puntati sul capitolo intercettazioni. I 5 Stelle daranno infatti battaglia in Aula poiché accusano governo e maggioranza di aver confezionato, con una delega "in bianco" estremamente "generica", un vero e proprio "bavaglio" alla libertà di stampa. Giustizia: sul nuovo "bavaglio" è scontro alla Camera, oggi il sì alla legge di Liana Milella La Repubblica, 22 settembre 2015 Scomparsa l’udienza filtro, il governo limita ancora l’uso delle intercettazioni. Protesta M5S: no alla delega in bianco. E siamo arrivati alla fine. Almeno del cammino a Montecitorio della riforma delle intercettazioni. Oggi si vota. Il Pd fa muro sulla delega, Ncd pure, sarà a favore Forza Italia perché è la legge che Berlusconi non è riuscito a fare. Decisamente contro i grillini, decisi a spendere oggi l’ora scarsa che resta dal contingentamento dei lavori. Domani ci sarà il voto complessivo sulla riforma del processo penale e lì, in diretta tv, M5S si toglierà qualche soddisfazione mediatica. Ma il "come" e il "che cosa" è al momento top secret. Un fatto è certo. Non è destinata a placare gli animi l’ultima trovata del Pd per cambiare il testo della delega. Finisce nel cestino la famosa " udienza stralcio" o " udienza filtro" che dir si voglia. Doveva essere il momento in cui le parti - il giudice, gli avvocati - decidevano le intercettazioni effettivamente rilevanti da portare al processo, innanzitutto depositandole. Quindi rendendole pubbliche. Quindi pubblicabili. Ma il Pd, all’improvviso, ci ripensa. Si rende conto, come dice una fonte importante al loro interno, "che l’effetto potrebbe essere controproducente, soprattutto se il processo riguarda non uno, ma decine e decine di imputati". La preoccupazione è evidente: se l’intero pacchetto delle sbobinature finisce in mano a tante persone, il rischio di veder pubblicate anche quelle che si vorrebbero considerare riservate aumenta a dismisura. Ragiona una fonte governativa: "Mettere l’udienza filtro nella delega significa creare un automatismo. Poi saremo costretti a farci i conti. Invece è preferibile avere più margine di flessibilità". A questo punto la formula diventa generica. Nel testo si parlerà di una "scansione processuale per selezionare il materiale intercettativo". La relatrice del ddl, la presidente Pd della commissione Giustizia Donatella Ferranti, la rivendica come "una mia idea", ne parla come di una correzione che evita l’equivoco di un’udienza stralcio che, per esempio prima degli arresti, non si può fare. David Ermini, il responsabile Giustizia del Pd, minimizza: "Il governo si assume la libertà di scegliere se fare o no l’udienza a seconda dello stato del processo". Il vice Guardasigilli Enrico Costa manda giù il boccone, ma è chiaro che lo considera indigesto: "Basta che non si sacrifichi il contraddittorio tra le parti, perché sulle intercettazioni non può scegliere solo il giudice". Vittorio Ferraresi, capogruppo M5S in commissione Giustizia, taglia corto: "Il governo è libero di agire come vuole, ma per noi resta un bavaglio, contenuto in una legge piena di norme pessime". Il bavaglio. Già, il vero obiettivo, anche se il Guardasigilli Andrea Orlando promette di dar vita in pochi giorni a una commissione con magistrati e giuristi. Tuttavia la delega è chiara su tre punti. Il primo: "Prescrizioni che incidano anche sulle modalità di utilizzazione cautelare dei risultati delle captazioni". Significa che il governo dovrà scrivere una norma per dire ai magistrati di utilizzare il meno possibile le intercettazioni nelle motivazioni degli arresti. Il secondo punto: ci sarà "una precisa scansione processuale per selezionare il materiale intercettativo". L’obiettivo del governo è ridurre anche il numero degli ascolti depositati per gli avvocati. Il terzo punto: garantire che non escano più le conversazioni degli imputati con gli avvocati e quelle di chi, per caso, viene in contatto con l’imputato. Nella delega non è previsto, ma una legge così dovrà comportare anche multe salate per chi pubblica. Il carcere, quello sì, resta per le registrazioni abusive. Giustizia: non c’è controllore o legge speciale che rottami la corruzione di Serena Sileoni Il Foglio, 22 settembre 2015 Secondo la Guardia di finanza, il danno erariale prodotto da funzionari pubblici corrotti o anche solo incautamente negligenti è valso, tra il 2014 e i primi sei mesi del 2015, 5.700 miliardi. Un po’ più dell’Imu e della Tasi messi insieme. Per avere un altro termine di paragone, la spending review per il 2016 dovrebbe valere, secondo le ultime voci dal ministero dell’Economia, tra i 6,5 e gli 8 miliardi. Il rapporto della Guardia di finanza anticipato ieri dal Corriere della Sera racconta non solo di corruzione, concussione, truffa, turbativa d’asta, appropriazione indebita o abuso di ufficio, ma anche di disservizi, lassismi, sprechi. Fotografa insomma quella irritante mala gestio delle risorse pubbliche che è la fonte principale di un senso di insofferenza e sconforto destinato a protrarsi fino a quando l’Italia sarà percepita come terra di corruzione e impunità. Ma quando è il "fino a quando"? Perché quella fine resta sempre una linea di un lontanissimo orizzonte? Sebbene il chiodo dell’ultimo scandalo di corruzione e malaffare scacci nella nostra memoria i precedenti, sappiamo che Mafia Capitale, ad esempio, non è un fenomeno isolato. Anche alle memorie più corte risaliranno alla mente almeno il Mose di Venezia o l’Expo di Milano, per citare i casi più eclatanti. Vicende che sintetizzano reati molto diversi ma accomunati da un elemento: l’esistenza di spazi di intervento e discrezionalità pubblici che alimentano le occasioni di illecito, o anche solo di cattiva gestione di risorse non proprie. La corruzione, l’abuso di ufficio, le consulenze inutili, l’accaparramento di soldi pubblici non potrebbero esistere se non esistessero servizi da gestire o affidare, concessioni da confermare, autorizzazioni da rendere, consulenze da richiedere: se non esistessero, in altri termini, zone franche di discrezionalità amministrativa e politica. E più sono le attività di cui l’amministrazione viene caricata, più le occasioni, naturalmente, aumentano. Un mondo in cui la Pubblica amministrazione fa meno cose non sarebbe un mondo di probi. Esisterebbero naturalmente altri reati, esisterebbe la disonestà, ma sarebbe una disonestà non adagiata nella pancia del potere pubblico e arricchita coi soldi di tutti. Gli immigrati - ha detto Carminati - sono un investimento più sicuro della droga, perché per i primi non c’è mercato - quand’anche illegale - ma la sottana di un’amministrazione aggiudicatrice. Che fare, dunque, per avvicinarci alla linea d’orizzonte del buon andamento della Pubblica amministrazione? Per lo più, si odono i ritornelli delle leggi speciali, dei maggiori controlli, di maggiori strumenti per un intervento più deciso dello stato per bonificare le amministrazioni. E così, via con una autorità anticorruzione, via con la riforma della prescrizione, via con gli obblighi di trasparenza, i codici etici, le incompatibilità e tutto l’ambaradan normativo per moralizzare la funzione pubblica. Eppure, l’accatastarsi di norme e controllori non rischia di essere solo inutile, ma persino dannoso. La corrispondenza di due indicatori, relativi uno alla corruzione e l’altro alla qualità della regolazione, intrinsecamente connessa anche alla quantità, parla da sola: più l’ambiente normativo è incerto, farraginoso, stratificato, oscuro, più si annida il malaffare e l’opacità dei comportamenti (vedi il grafico qui accanto, un’elaborazione dell’Istituto Bruno Leoni su dati della Banca mondiale, in rosso l’Italia). Non è con nuovi reati, maggiori controlli, leggi speciali o nuovi giudici che si potrà iniziare a tagliare le radici della cattiva gestione delle risorse erariali. "Nessun uomo di governo - chiosava Gogol - anche se fosse il più saggio di tutti i legislatori e i governanti, è in grado di rimediare al male, per quanto limiti nelle azioni i cattivi funzionari, facendoli controllare da altri". Ogni sforzo sarà pressoché inutile, fino a quando non verranno ridotti i luoghi e gli spazi di clientelismo e corruzione e quindi moltiplicati quelli sottratti al placet burocratico. Ossia fino a quando non verranno disidratati i rami del potere amministrativo su cui si innesta l’affarismo e bivacca l’incuria. A questo punto la formula diventa generica. Nel testo si parlerà di una "scansione processuale per selezionare il materiale intercettativo". Giustizia: Comitato StopOpg "ancora 226 persone negli Opg, commissariare le Regioni" Redattore Sociale, 22 settembre 2015 Secondo i dati forniti dal capo del Dap Santi Consolo, il 50/60 per cento dei pazienti è dimissibile. La campagna Stop Opg: "Assistiamo a un boicottaggio che sta ostacolando la chiusura delle strutture. La risposta non può essere il passaggio alle Rems, servono percorsi di cura. Il governo intervenga". Sono 226 le persone ancora internate nei cinque ospedali psichiatrici giudiziari italiani (Aversa, Napoli, Barcellona Pozzo di Gotto, Reggio Emilia e Montelupo Fiorentino). Il 50-60 per cento dei pazienti è dimissibile dal punto di vista clinico e quindi affidabile immediatamente a strutture territoriali di carattere psichiatrico diverse dalle Rems. Dimissibile è anche la metà dei pazienti già affidati alle Rems (Residenze per l’esecuzione della misura di sicurezza sanitaria). Lo ha sottolineato il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), Santi Consolo, nell’ambito dell’indagine conoscitiva sulla sostenibilità del Servizio sanitario nazionale in commissione Sanità al Senato. I dati fanno parte di uno studio realizzato dal direttore dell’Opg di Barcellona Pozzo di Gotto sulla base di interlocuzioni avute con i direttori e i responsabili sanitari degli altri ospedali psichiatrici. Santi Consolo ha assicurato il massimo impegno perché si possa arrivare in tempi brevi a un completo svuotamento degli Opg, la cui chiusura definitiva era prevista per marzo 2015. Inoltre il Capo del Dap ha sottolineato l’importanza del ruolo dei dipartimenti di salute mentale affinché si facciano carico dei pazienti dimessi o dimittendi destinati alle Rems e alle comunità terapeutiche "per un’efficace e proficua inclusione sociale". E ha spiegato che la ricettività delle 16 Rems attualmente attive, per complessivi 403 pazienti, potrebbe essere ulteriormente potenziata se, come previsto, si procederà, a breve, all’apertura di altre cinque strutture nel Lazio, Piemonte, Puglia, Campania e Toscana. Critica la campagna Stop Opg: "Ritardi vergognosi". Stando ai dati, al 31 marzo 2015, gli internati ospitati negli ospedali psichiatrici giudiziari erano 689. Dopo sei mesi la situazione è più o meno la stessa, denuncia la campagna: 226 persone sono ospitate nei cinque Opg, 220 pazienti si trovano a Castiglione Fiorentino che "ha solo cambiato targa, ora si chiama Rems, ma di fatto è una struttura manicomiale", 300 sono gli internati detenuti nelle Rems attivate in alcune regioni. "Con i numeri siamo rimasti fermi ai 600-700 pazienti di marzo, tra persone in opg e nelle Rems - spiega Stefano Cecconi, portavoce della campagna - il processo di superamento degli Opg è stato avviato ma sta incontrando diversi intoppi. Assistiamo a un boicottaggio, volontario o involontario, che sta ostacolando la chiusura delle strutture e l’avvio della riforma. I ritardi sono vergognosi, in particolare di alcune regioni. C’è chi non ha accolto subito i propri pazienti lasciandoli rinchiusi negli ospedali psichiatrici e, inoltre, quasi tutte le regioni hanno interpretato male la legge 81, concentrandosi sull’attivazione delle Rems. Quando invece è l’offerta di progetti terapeutici individuali, preparati dai Dipartimenti di salute mentale, che permette alla magistratura di evitare la misura detentiva in Rems e optare per misure alternative, certamente più efficaci per la cura e la riabilitazione". Secondo Cecconi, infatti, è sbagliato pensare che il superamento degli ospedali psichiatrici sia possibile soltanto attraverso l’istituzione di strutture che nei fatti ripropongono un modello di detenzione simile. "Ci si sta concentrando solo sulle Rems ma queste non possono essere la risposta - sottolinea - la chiusura si affronta rafforzando i percorsi cura, costruendo delle alternative e rafforzando i servizi di welfare locale. L’insensatezza delle Rems come risposta alla chiusura degli Opg è sempre più evidente, come abbiamo più volte denunciato. E ancor più evidente è il rischio che le Rems si moltiplichino, diventando il nuovo, e improprio, contenitore neo manicomiale a disposizione. Le stesse dimissioni dagli attuali Opg destinano quasi sempre alla detenzione in Rems invece che a misure alternative. In questo la responsabilità della magistratura, sia giudicante che di sorveglianza, è palese". Per questo la campagna Stop Opg chiede un intervento forte del governo. Tre in particolare sono le soluzioni proposte. Innanzitutto procedere con l’immediato commissariamento delle regioni inadempienti, " riportare nei binari giusti il processo di chiusura-superamento degli Opg. Si tratta di organizzare le dimissioni dagli opg, per chiuderli davvero e rapidamente, e di attuare correttamente la legge 81: privilegiando percorsi di cura con misure alternative alla detenzione in Rems (o in carcere). Il che implica un lavoro con la magistratura e i servizi. E la destinazione delle risorse (finanziarie, strutturali, di personale, ecc.) piuttosto che alle Rems ai servizi socio sanitari di salute mentale per garantire progetti di cura e riabilitazione". In secondo luogo, si chiede l’approvazione di un atto che impedisca - o renda eccezionale - l’invio della misura di sicurezza provvisoria in Rems, privilegiando invece le misure alternative. Infine, si propone di avviare una discussione per abolire il "doppio binario", retaggio del codice Rocco, che separa il "reo folle" dal "reo sano", destinando l’uno all’Opg-Rems l’altro al carcere. "Come per la chiusura dei manicomi - conclude Cecconi - la vera sfida è costruire nelle comunità l’alternativa all’esclusione sociale". Giustizia: processo per i sabotaggi No-Tav, chiesti 8 mesi per lo scrittore Erri De Luca di Ottavia Giustetti La Repubblica, 22 settembre 2015 Il pm Rinaudo: "Le sue parole hanno un peso determinante soprattutto sul movimento". Lo scrittore: "Sono solo un testimone della volontà di censura della parola". Sentenza il 19 ottobre. Solidarietà da Grillo, de Magistris e Cecilia Strada. Saviano: "Assordante il silenzio degli scrittori". Otto mesi di reclusione per istigazione al sabotaggio della tav: è la condanna che ha chiesto questa mattina il pubblico ministero di Torino, Antonio Rinaudo, nel processo contro lo scrittore napoletano Erri De Luca. "Nelle interviste rilasciate pubblicamente ha commesso incitazione a commettere il sabotaggio. È indiscutibile che si debba concludere arrivando alla penale responsabilità dell’imputato riconoscendo comunque le attenuanti generiche per il comportamento processuale e perché non si è mai tirato indietro rispetto alle domande dell’accusa e del giudice". Al processo che si è riaperto oggi dopo la pausa estiva Erri De Luca è presente. Alla vigilia si augurava che già oggi si potesse arrivare alla sentenza ma il giudice Immacolata Iadeluca, ha comunicato che la sentenza arriverà solo il 19 ottobre. In un’aula gremita di sostenitori No Tav, tra i quali è presente anche uno dei leader, Alberto Perino, la pubblica accusa ha parlato per poco meno di due ore ricostruendo la vicenda che ha portato a questo processo, quindi le interviste rilasciate all’Huffington Post e all’ansa, e in particolare le dichiarazioni: "La Tav va sabotata, ecco a cosa servono le cesoie, a tagliare le reti". De Luca ha commentato così la richiesta del pm: "Mi sarei aspettato il massimo della pena, invece sono stupito della differenza tra gli argomenti prodotti dall’accusa e un’entità tanto esigua della richiesta. Non sono un martire, non sono vittima, non uno cui è caduta una tegola in testa passeggiando, sono solo testimone di una volontà di censura della parola". Giustizia: l’accusa vuole Erri De Luca in cella di Mauro Ravarino Il Manifesto, 22 settembre 2015 Processo No Tav a Torino. La Procura non sottilizza sul verbo "sabotare" e chiede 8 mesi di carcere per lo scrittore. Sentenza il 19 ottobre. La prova dell’istigazione a delinquere, da parte di Erri De Luca, scivola sulle pagine digitali delle Treccani, con una svista (forse voluta) del pm Antonio Rinaudo, che durante la requisitoria ha letto la definizione del verbo "sabotare". Il primo significato, l’unico menzionato, si riferisce al "distruggere o deteriorare gravemente edifici e impianti", il secondo è stato invece omesso: "Intralciare la realizzazione di qualche cosa, o fare in modo che un disegno, un progetto altrui non abbia successo". Perché solo l’aspetto criminoso? De Luca disse in due interviste che la Tav andava "sabotata". Verbo che per l’autore de Il peso della farfalla ha anche "molti significati nobili, progressisti e pacifici". Ma le sue parole sono finite sotto processo. Una decisione controversa, che, forse già il 19 ottobre, con la sentenza del Tribunale di Torino, misurerà il grado di libertà del nostro Paese. Ieri, l’accusa, sostenuta da Rinaudo e dal collega Andrea Padalino, ha chiesto per lui una pena di 8 mesi di reclusione per istigazione a delinquere, compresa delle attenuanti generiche: il minimo. Tant’è che lo scrittore napoletano, in una pausa, ha dichiarato: "Mi sarei aspettato il massimo della pena, invece sono stupito della differenza tra gli argomenti prodotti dall’accusa e un’entità tanto esigua della richiesta". Precisando: "Non sono un martire né sono una vittima, sono un testimone della volontà di censura della parola. Questa sentenza sarà un messaggio sulla libertà di espressione". Il pm Rinaudo ha ribadito: "Mi pare inevitabile che le parole di De Luca fossero dirette a incidere sull’ordine pubblico". In quanto lo scrittore "ha peso, pregnanza, possibilità di incidere sulla volontà di altri e con la forza delle sue parole ha sicuramente incitato a commettere reati". Le frasi sui sabotaggi della Tav "non sono pronunciate da uno qualunque, soprattutto in relazione ai destinatari: il movimento No Tav". L’accusa parla "di forza suggestiva" in un periodo storico conflittuale, ricordando che a settembre 2013 dopo le frasi incriminate si sono verificate tre azioni contro ditte del Tav. De Luca "non ci venga a dire - ha aggiunto Rinaudo - che lui non aveva sentito parlare di molotov". Durante l’interrogatorio, nel maggio scorso, lo scrittore disse che quando aveva rilasciato le dichiarazioni non sapeva si parlasse di molotov: "Ero a conoscenza soltanto delle cesoie servite a tagliare le reti del cantiere e le cesoie sulle reti illegali ripristinano la legalità". Aveva chiarito cosa intendeva con la frase "la Tav va sabotata": ostruire, impedire l’opera "nociva e inutile", nessun terrorismo. E aveva chiesto di conoscere i nomi delle persone che avrebbe istigato. Sarebbe dunque responsabile di istigazione di anonimi? "Credo che a Erri De Luca venga contestato di essere un intellettuale che si è schierato contro una maggioranza, perché le parole possono istigare ad avere dubbi", ha sostenuto l’avvocato Gianluca Vitale durante l’arringa difensiva, chiedendo l’assoluzione dello scrittore "perché il fatto non sussiste e non costituisce reato". Il legale ha richiamato quanto sancito dall’articolo 21 della Costituzione, sottolineando che "il diritto alla libertà di manifestazione del pensiero resta uguale parlando di coltivazione di patate o di Tav". Poi: "Chiedo di decidere - rivolgendosi al giudice Immacolata Iadeluca - se queste parole possano essere pronunciate in un sistema democratico. Non mi dicano che si è fatto questo processo perché lo richiede il diritto, perché così non è". Secondo l’avvocato Vitale le frasi vengono interpretate sotto una lente distorsiva che elude i significati del verbo. Che sottolineino il suo essere influente intellettuale come colpa "è antigiuridico", capovolge il principio basilare dell’uguaglianza davanti alla legge. E l’avvocato Alessandra Ballarini, citando sentenze della Corte europea, ha spiegato che non ci deve essere un uso intimidatorio delle limitazioni della libertà di espressione. Lo scrittore, che sul diritto alla libertà di parola ha pubblicato un pamphlet, La parola contraria, ripete: "La parola esce dal controllo di chi la pronuncia. Salman Rushdie, con un suo libro, provocò senza volerlo un’insurrezione delle masse islamiche: forse è responsabile delle morti che ne seguirono?". Giustizia: due medici operarono un latitante, la Cassazione le assolve "prima la salute" La Repubblica, 22 settembre 2015 I magistrati: "Il diritto alla salute prevale su esigenze di giustizia". La Corte di Cassazione ha assolto i due medici che avevano curato un latitante. Assolti dalla Cassazione due medici campani che curarono un camorrista ferito in un conflitto a fuoco durante un regolamento di conti, senza denunciarlo e senza stilare il referto, operandolo nella sua abitazione. Ad avviso degli ermellini, il diritto alla salute prevale sulle esigenze di giustizia. Annullate le condanne per favoreggiamento. La decisione. Per la Cassazione, "nell’intersecarsi di esigenze tutte costituzionalmente correlate (il diritto alla salute per un verso, cui si contrappone l’interesse pubblico sotteso ad un puntuale esercizio dell’attività di amministrazione della giustizia ed all’accertamento di fatti penalmente sanzionati), i valori legati alla integrità fisica rendono necessariamente recessivi quelli contrapposti e finiscono per imporre comunque l’intervento sanitario". Secondo la Suprema Corte, "in tema di favoreggiamento ascritto ad un soggetto esercente la professione sanitaria, la situazione di illegalità in cui versa il soggetto che necessita di cure non può costituire in nessun caso ostacolo alla tutela della salute". Per questa ragione, la Cassazione ha annullato senza rinvio le condanne per favoreggiamento emesse - in primo grado dal Tribunale di Torre Annunziata e confermate dalla Corte di Appello di Napoli - nei confronti di due medici, che si erano prodigati ad assistere a domicilio un camorrista senza mettere a rischio la sua clandestinità. La richiesta di aiuto. Il primo medico aveva ricevuto la richiesta d’aiuto per telefono e dato che l’intervento richiesto era "estraneo alle sue competenze", aveva girato il caso a un collega chirurgo dopo averlo avvertito che la famiglia della persona interessata "non era buona". Il verdetto degli ermellini - sentenza 38281 depositata oggi - rileva che non vi è "dubbio" sulla "consapevolezza in capo agli imputati della situazione di illegalità in cui versava il paziente destinatario delle cure richieste", ma questa circostanza, lungi dal ritorcersi contro i due medici, "definisce, con ancora maggiore chiarezza, l’immediatezza e la non procrastinabilità delle cure mediche da prestare". "Non è favoreggiamento". Secondo la Cassazione, inoltre, i giudici di merito hanno sbagliato a condannare i medici perché li hanno voluti punire non per aver aiutato il camorrista ad eludere le indagini, ma per "non aver favorito le ricerche dell’Autorità" rifiutandosi di eseguire l’intervento a domicilio e facendo sì che il ferito si rivolgesse a una ospedale pubblico. In proposito, la Suprema Corte sottolinea che non si può sanzionare "il mancato aiuto alle indagini" che è "in aperto contrasto con la norma di riferimento". Perché si configuri il favoreggiamento a carico di un medico - spiega la sentenza molto garantista come nella tradizione della Sesta sezione penale che la ha emessa - è necessario che il suo dovere professionale vada oltre "il limite della diagnosi e quello della terapia", un limite che non è superato per il solo fatto che sia stato operato a domicilio un camorrista ferito!. L’obbligo del referto. Quanto all’obbligo del referto, gli ermellini affermano che il camice bianco ha la "prerogativa" di ometterlo "ogni qualvolta dalla sua redazione derivi la possibilità di esporre a procedimento penale la persona alla quale egli ha prestato assistenza". Come in questa vicenda nella quale nel quale il ferito non era stato solo soggetto "passivo" del regolamento di conti. In conclusione le condanne - la cui entità non è nota - sono state annullate "perché il fatto non sussiste". Ai medici si risalì perché, nonostante il loro mancato aiuto alle indagini, il paziente camorrista fu lo stesso arrestato e sottoposto a radiografie per via della ferita che fece la "spia" sull’operazione subita. Giustizia: caso Aldrovandi, dieci anni senza Federico di Micol Lavinia Lundari La Repubblica, 22 settembre 2015 Ferrara, all’alba del 25 settembre 2005 muore un ragazzo di 18 anni dopo un controllo di polizia. Quattro agenti vengono condannati in via definitiva. Se il caso giudiziario è chiuso, restano l’assenza e il dolore. E la battaglia della famiglia perché non accada mai più. 25 settembre 2005: diciotto anni, due mesi, otto giorni aveva Federico Aldrovandi la notte in cui morì in seguito a un fermo di polizia. 21 giugno 2012: a quasi sette anni di distanza, poco meno di 81 mesi dopo, la Cassazione condannava in via definitiva quattro agenti della polizia di Stato per "eccesso colposo in omicidio colposo". In mezzo a queste due date il travaglio di una famiglia - e di una città intera - alla ricerca della verità. Un risultato importante. Ma che non esaurirà la scia di dolore per chi ha perso Federico. Il caso di Federico Aldrovandi è emblematico. È avvenuto prima della tragedia di Stefano Cucchi, e prima anche del dramma di Giuseppe Uva. È emerso lentamente: sembrava, all’inizio, la morte - ugualmente incomprensibile, ingiusta e sbagliata - di un ragazzo dopo una notte di bravate. Ha invece assunto contorni più drammatici e inquietanti. Non è possibile sapere che ne sarebbe stato di questo giovane se quella notte non avesse incrociato sulla sua strada i quattro agenti condannati. Quel che oggi è certo, dopo tre gradi di giudizio, è proprio quel che è accaduto, di chi sono le responsabilità e chi è stato chiamato a pagare per aver provocato la morte di un ragazzo di 18 anni appena compiuti. Sono le istantanee, a volte, a fare la storia, e a dipingere una storia. Scavando nei ricordi mediatici appare una fotografia di Federico al mare, alcuni anni prima della tragedia: gli occhi dolci di bambino, un fisico ancora da farsi. Poi ce n’è un’altra più recente, in cui il viso ha già i contorni più paffuti, e la somiglianza con la madre Patrizia è impressionante. Poi c’è una foto terribile, quanto quella delle gambe pelle e ossa o della schiena massacrata di Stefano Cucchi. È un’immagine in cui Federico pare assopito. Ma ha il volto in parte tumefatto, e attorno ai capelli mossi, un’aureola di sangue: così appariva Aldrovandi all’obitorio. L’immagine nell’immagine è lo scatto che testimonia un’altra circostanza. Quando la madre di Federico, Patrizia Moretti, fu attaccata da un sindacato di polizia, proprio sotto le finestre del suo ufficio, al Comune di Ferrara. Scese le scale e srotolò davanti a tutti un manifesto che ritraeva quel volto e quel sangue. Federico è morto dieci anni fa e non possiamo sapere che volto avrebbe oggi, un uomo di 28 anni, probabilmente con qualche sogno realizzato e altri stipati in un cassetto. Federico Aldrovandi è morto all’alba del 25 settembre 2005, a pochi passi da casa, nella sua Ferrara. Ne hanno parlato i giornali, sono stati scritti libri, fumetti, e un documentario dal titolo emblematico: "È stato morto un ragazzo". Una storia che non smette di essere attuale, anche a dieci anni di distanza. Con una famiglia, una città e un Paese intero che non vogliono dimenticare. Giustizia: Paula Zuniga "il caso Aldrovandi a teatro, nel mio Cile alla ricerca di giustizia" di Micol Lavinia Lundari La Repubblica, 22 settembre 2015 Paula Zuniga e una ventina di giovani artisti da tre anni mettono in scena "Federico". "Anche io come regista ho un potere, e lo esercito così. Il nostro sogno sarebbe recitare a Ferrara". Tra Ferrara, Italia, e Santiago, Cile ci sono 11903 km di distanza, km più km meno, eppure la storia di Federico Aldrovandi è arrivata anche lì. "Perché qui in Cile? Perché questa storia è un caso importante per il mondo intero. E può essere d’esempio per un Paese, il mio, che non ha ancora chiuso i conti col passato". La voce di Paula Zuniga arriva pacata e determinata dall’altra parte del mondo. Da tre anni a questa parte, con diciassette giovani attori, porta in scena uno spettacolo, "Federico", sul processo Aldrovandi. Ogni replica, assicura, è un successo di pubblico e un tassello in più nella costruzione di un mosaico di coscienza civile, la cui necessità accomuna tanto l’Italia quanto il suo Cile. "Mi ha sorpreso per l’età della vittima, per i dettagli della storia, ma soprattutto perché io sono cilena: qui ci sono stati tanti morti durante il periodo della dittatura Pinochet, tanti casi che non hanno ancora soluzione, per il silenzio davanti alla giustizia di chi non è capace di dire cosa è veramente accaduto. Questa storia mi ha colpito fortemente, soprattutto perché ancora accadono queste cose, in Italia come in Cile come nel resto del mondo". Arrivata a insegnare regia alla Università cattolica del Cile ha pensato che quella fosse la storia da raccontare ai suoi studenti e da portare in scena. Si è documentata tantissimo, con tante carte e alcune trasmissioni televisive come "Chi l’ha visto?", ma prima che quel disegno che aveva in testa si trasformasse in una piece ha contattato la famiglia Aldrovandi, "con molta delicatezza, per chiedere loro il permesso: era ancora un caso aperto e non volevo coinvolgerli troppo". Zuniga, cosa può insegnare la vicenda di Federico al pubblico cileno? "Abbiamo deciso di raccontare il processo. Per me era molto importante far vedere la storia di Federico - spiega Zuniga - perché mai più, para que nunca mas accadano queste cose ad altri. Lo spettacolo è uno luogo di commemorazione, ma anche uno spazio per rivedere la storia sempre, e non dimenticare le cose successe. Ma era anche un modo per portare in Cile un colpo forte alle persone, come a dire ‘sveglia!’, perché grazie a tante persone che hanno parlato il caso Aldrovandi si è riaperto. È questo di cui abbiamo bisogno in Cile, per esempio dopo tanto tempo quest’anno grazie a una testimonianza si è riaperta una delle pagine più dure della dittatura di Pinochet. La verità è sempre importante per le famiglie e per ricostruire la storia. Per questo alla fine dello spettacolo abbiamo messo il Cile, come a chiudere il cerchio: appaiono notizie riportate dai nostri giornali su casi politici e la storia del popolo Mapuche defraudato delle sue terre, dove i ragazzi che si ribellano vengono uccisi dalla polizia. La gente non deve abituarsi che queste cose accadono e basta". E la gente come accoglie lo spettacolo? "Ogni replica la sala del teatro è piena. La gente è commossa e interessata alla storia di Aldrovandi. Gli ultimi spettacoli li abbiamo fatti a Villa Grimaldi, un centro di tortura. Ci hanno accompagnato i famigliari delle vittime, Federico è arrivato qui a trovarsi con altri. Grazie al teatro molti cileni hanno conosciuto Federico: sullo sfondo del nostro spettacolo c’è un omaggio a lui, per ricordarlo sempre, per ricordarci che stiamo facendo teatro ma stiamo raccontando una storia reale". Di fatto ha trasformato il dramma di Aldrovandi in una forma di teatro civile e di impegno morale. "È così: i diciassette attori e i due tecnici sono sempre disponibili a portare in scena Federico anche se hanno in corso altri progetti teatrali, e lo fanno di fatto senza guadagno: non lo facciamo per soldi, in Cile il teatro non lo si fa per denaro, ma perché ha un senso. Noi abbiamo fatto un compromesso con Federico Aldrovandi, e per noi è una cosa vitale. Sappiamo che stiamo facendo del bene a una persona cui hanno fatto del male, e a una famiglia che ha sofferto tanto. Il nostro sogno massimo ora è portare lo spettacolo a Ferrara. Con Lino Aldrovandi sono sempre in contatto, lo aggiorno su tutte le nostre repliche, sono certa che per la famiglia sia importante sapere che anche in una terra così lontana pensiamo a suo figlio". Dove può arrivare il teatro? Che potere ha? "In Italia avete tanti casi simili a quello di Aldrovandi: Cucchi, Uva... Per fortuna quando la parte civile della società funziona, si arriva a un punto in cui le persone iniziano a parlare con voce propria. Questo è un potere che dobbiamo ancora recuperare. Io credo che fare teatro sia una forma di potere; anche chi scrive libri, immagino, pensa lo stesso: si può arrivare a tante persone. Io mi chiedo sempre come posso utilizzare al meglio questo mio ruolo con un fine sociale. Nella misura in cui noi cittadini possiamo contribuire a denunciare questi fatti, le persone iniziano a parlare e a creare un movimento sociale, come successo a Ferrara attorno a Patrizia e alla sua famiglia. Abbiamo vinto con la riflessione e il silenzio, ricostruendo quello che è successo a Federico. La vera verità, però, è morta nel momento in cui sono state insabbiate le cose, e lì si è creata una frattura, non solo per la famiglia Aldrovandi ma per la storia umana. Ogni volta che la frattura si allarga, la ricostruzione per quella famiglia o per quel fatto è più difficile, è questo che mi tormenta. La mia missione come madre, come essere umano, è trasformare questo mondo di violenza, perché la verità possa essere presa per mano, per migliorare questo mondo, perché il sogno possa essere reale, perché si può fare, perché qualcuno lo ha fatto, perché qualcuno lo sta facendo". Giustizia: avvocati, diritto penale e amministrativo in debito di "specializzazione" di Giuseppe Sileci Il Sole 24 Ore, 22 settembre 2015 Scorrendo i programmi dei Congressi Forensi dal dopoguerra, ci si imbatte nel tema della specializzazione già nell’Assise del 1961: la seconda sessione del Congresso di Genova di quell’anno era dedicata a "Avvocati e Giudici per un migliore funzionamento della Giustizia (importanza della funzione dell’avvocato, sua formazione tecnica, specializzazione anche ai fini dell’esercizio professionale nell’ambito della comunità europea e valorizzazione)". La Legge Professionale del 2012, prima, ed il regolamento ministeriale appena approvato hanno dato una risposta, dunque, ad una aspettativa fortemente avvertita dalla categoria che era stata amplificata dal boom delle iscrizioni agli albi forensi e dalla necessità di distinguersi offrendo servizi legali ad alto valore aggiunto. La settorializzazione di molte branche del diritto, complice una legislazione di dettaglio sempre più caotica e frammentata, aveva ulteriormente esaltato l’esigenza di riconoscere quelle competenze specialistiche che, in maniera del tutto spontanea, si erano ritagliate spazi di mercato sempre più consistenti. E in effetti, già il consiglio Nazionale Forense nel 2010, con proprio regolamento, aveva provato a normare la materia, ma quell’esperienza era finita prima ancora di iniziare perché l’atto regolamentare era stato annullato dalla Giustizia Amministrativa. Adesso l’attesa è terminata perché dal prossimo 14 novembre gli avvocati potranno fregiarsi del titolo di specialista, anche se tempo trascorrerà ancora prima di imbattersi in un avvocato specializzato. Come funziona - Infatti il Regolamento, emanato in attuazione dell’articolo 9 della nuova Legge professionale, subordina l’acquisizione del titolo al buon esito di un apposito percorso formativo ovvero alla dimostrazione della comprovata esperienza, riservando quest’ultima strada agli avvocati con una anzianità di iscrizione di almeno otto anni. Ai corsi, che dovranno avere durata biennale e che dovranno prevedere almeno 200 ore di lezione, potranno accedere tutti gli iscritti agli albi, indipendentemente dalla anzianità professionale, ma prima occorrerà attendere la attivazione di questi percorsi formativi: e non sembra che questi saranno operativi in tempi brevissimi perché il Regolamento ne subordina l’attivazione alla previa verifica ministeriale dei programmi didattici. I corsi, però, dovrebbero avere una diffusione abbastanza capillare; inoltre sarà richiesto a ciascun iscritto il superamento di una prova, scritta e orale, al termine di ogni anno di frequenza. La comprovata esperienza, invece, consisterà nell’esercizio, negli ultimi cinque anni, in modo assiduo, prevalente e continuativo, dell’attività di avvocato in uno dei settori di specializzazione individuati dal regolamento ministeriale e dovrà essere dimostrata mediante la produzione di documentazione, giudiziale o stragiudiziale, comprovante che l’avvocato ha trattato nel quinquennio incarichi professionali fiduciari rilevanti per quantità e qualità, almeno pari a quindici per anno. Ed al fine di prevenire abusi, il regolamento si affretta a chiarire che non saranno presi in considerazione quegli affari che hanno ad oggetto medesime questioni giuridiche e necessitano di un’analoga attività difensiva. Il titolo di specialista, che non potrà essere conseguito in più di due rami di attività, è rilasciato dal Consiglio Nazionale Forense che, nel caso di domanda fondata sulla comprovata esperienza, convocherà l’istante per sottoporlo ad un colloquio. Specializzazione non uniforme - Tutto bene allora? Non proprio, perché il regolamento ha "spacchettato" il diritto civile in 10 ambiti di specializzazione, che vanno dal diritto delle relazioni familiari al diritto del lavoro, ha previsto la specializzazione in diritto ambientale e dell’informatica, ha riconosciuto la specificità del diritto della navigazione e dei trasporti, del diritto dell’Unione Europea e del diritto internazionale e poi ha individuato tre macro-aree: diritto tributario, diritto penale e diritto amministrativo. Eppure questi ultimi ambiti di attività, in particolare il diritto penale ed il diritto amministrativo, al loro interno presentano settori che richiedono competenze specifiche che avrebbero meritato una maggiore selettività disciplinare. Si pensi ai reati di criminalità organizzata, ai reati ambientali ed a quelli finanziari, solo per fare tre esempi, che avrebbero giustificato una settorializzazione, se le specializzazioni devono servire a tutelare l’affidamento del cliente mettendolo in condizione di rivolgersi al professionista più adatto alle proprie necessità. Ma la scelta del Ministero di prevedere la generica specializzazione in diritto penale ed invece un numero così alto di titoli specialisti nell’ambito del diritto civile determinerà anche una disparità di trattamento tra gli iscritti agli albi quando il rilascio del titolo sarà richiesto sulla base della "comprovata esperienza". La "comprovata esperienza" - Sarà molto problematico per un avvocato, che ad esempio voglia conseguire il titolo di specialista in diritto dell’esecuzione forzata, dimostrare di avere avuto affidati, nel quinquennio precedente, incarichi - in misura non inferiore a quindici per anno - che siano rilevanti per quantità e qualità e che non abbiano ad oggetto "medesime questioni giuridiche" ovvero che "non necessitino di un’analoga attività difensiva". A prescindere dall’ambiguità dei concetti, la previsione, che può anche essere condivisibile in linea di principio ma della quale si sarebbe potuto fare tranquillamente a meno se si fosse subordinato il conseguimento della specializzazione esclusivamente al buon esito della frequenza di un apposito percorso formativo, finisce per mortificare la esperienza di quell’avvocato che, occupandosi prevalentemente di esecuzioni, redige pignoramenti ovvero che, trattando affari di diritto delle relazioni familiari, delle persone e dei minori, si occupa prevalentemente di separazioni e divorzi. Se poi l’avvocato civilista specializzato in un determinato settore riuscirà ad ottenere il titolo, il cliente cha abbia bisogno di quella competenza potrà essere abbastanza tranquillo di rivolgersi ad un professionista "certificato", ma potremo dire lo stesso del cliente che abbia bisogno di essere assistito in ambito penale quando non si tratti di comuni reati contro il patrimonio ma di reati ambientali? La domanda a nostro avviso è lecita e la risposta non è così scontata, specie se lo scopo della riforma era effettivamente l’interesse del cliente e non quello di bottega. Selezione di massime sul lavoro carcerario Il Sole 24 Ore, 22 settembre 2015 Lavoro subordinato - Pretese retributive - Prescrizione - Sospensione durante il periodo della detenzione - Fondamento - Protrazione - Fino alla data di cessazione del rapporto di lavoro - Estensione sino alla fine della detenzione - Esclusione. Il termine di prescrizione dei diritti del lavoratore non decorre durante lo svolgimento del rapporto di lavoro, in sé privo di stabilità, poiché, nei confronti del prestatore, è configurabile una situazione di "metus", che, pur non identificandosi necessariamente in un timore di rappresaglie da parte del datore di lavoro, è riconducibile alla circostanza che la configurazione sostanziale e la tutela giurisdizionale dei diritti nascenti dall’attività lavorativa del detenuto possono non coincidere con quelli che contrassegnano il lavoro libero attesa la necessità di preservare le modalità essenziali di esecuzione della pena e le corrispondenti esigenze organizzative dell’amministrazione penitenziaria. Ne consegue, peraltro, che la sospensione della prescrizione permane solo fino alla cessazione del rapporto di lavoro in quanto, in assenza di specifiche disposizioni, non può estendersi all’intero periodo di detenzione. • Corte di cassazione, sezione Lavoro, sentenza 11 febbraio 2015 n. 2696. Lavoro subordinato - Lavoro carcerario - Compenso in favore dei detenuti - Divieto di cumulo di rivalutazione monetaria ed interessi - Applicazione - Fondamento. In materia di lavoro dei detenuti, trattandosi di rapporto di lavoro con il Ministero della Giustizia, opera il divieto di cumulo tra rivalutazione monetaria ed interessi poiché non ricorre la medesima "ratio" di cui alla pronuncia di accoglimento della Corte costituzionale n. 459 del 2000 - che ha escluso il divieto per i crediti dei lavoratori privati - ma sussistono ragioni di contenimento della spesa pubblica, che giustificano la differenziazione della disciplina. • Corte di cassazione, sezione Lavoro, sentenza 11 agosto 2014 n. 17869. Lavoro subordinato - Retribuzione - Prescrizione - Lavoro carcerario - Controversia relativa alla restituzione di trattenute sulla mercede - Competenza del giudice del lavoro. A seguito della pronuncia della Corte costituzionale n. 341/2006, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 69 della L. n. 354/1975, sono devolute al giudice del lavoro le controversie relative al pagamento della retribuzione spettante al detenuto, ivi comprese quelle relative alla restituzione delle somme trattenute dall’amministrazione penitenziaria sulla mercede per il lavoro svolto durante la detenzione. • Corte di cassazione, sezione Lavoro, sentenza 15 ottobre 2007 n. 21573. Lavoro subordinato - Retribuzione - Prescrizione - Lavoro carcerario - Pretese retributive - Prescrizione - Sospensione durante il periodo della detenzione - Fondamento. In tema di lavoro carcerario, il termine di prescrizione dei diritti del lavoratore non decorre durante lo svolgimento del rapporto, essendo il rapporto privo di stabilità ed atteso che le particolarità del lavoro carcerario - nel quale la configurazione sostanziale e la tutela giurisdizionale dei diritti nascenti dal rapporto possono non coincidere con quelli che contrassegnano il lavoro libero in considerazione delle modalità essenziali di esecuzione della pena e delle corrispondenti esigenze organizzative dell’amministrazione penitenziaria- possono determinare nel lavoratore una situazione di "metus" giustificativa della sospensione della prescrizione. • Corte di cassazione, sezione Lavoro, sentenza 15 ottobre 2007 n. 21573. Lavoro subordinato - Retribuzione - Prescrizione - Lavoro carcerario - Comunanza dei suoi caratteri con quelli di altri rapporti di lavoro subordinato - Conseguenza - Sospensione della decorrenza del termine di prescrizione dei diritti del lavoratore durante lo svolgimento del rapporto di lavoro - Sussistenza. Le oggettive caratteristiche del lavoro carcerario presentano tratti comuni a quelli che in altri rapporti di lavoro giustificano la non decorrenza del termine prescrizionale dei diritti del lavoratore durante lo svolgimento del rapporto e che non si identificano necessariamente col timore di rappresaglie da parte del datore di lavoro, come può accadere nel caso del lavoro nautico, marittimo od aereo, pur non potendosi escludere nei confronti del lavoratore carcerario la configurabilità di una situazione di "metus", comunque giustificativa di detta sospensione, riconducibile alla circostanza che la configurazione sostanziale e la tutela giurisdizionale dei diritti nascenti dal rapporto di lavoro dei detenuti possono non coincidere del tutto con quelle che contrassegnano il lavoro libero, in funzione della necessità di mantenere integre le modalità essenziali di esecuzione della pena e di assicurare le corrispondenti esigenze organizzative dell’amministrazione penitenziaria. • Corte di cassazione, sezione Lavoro, 26 aprile 2007 n. 9969. Messa alla prova: istanza entro la prima udienza utile di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 22 settembre 2015 Corte di cassazione - Sezione Vi penale - Sentenza 21 settembre 2015 n. 38267. La domanda per accedere alla messa alla prova deve essere presentata alla prima udienza utile dopo l’entrata in vigore della norma. La Cassazione, con la sentenza 38267, avalla la scelta del Tribunale di Belluno di respingere la richiesta di sospensione del processo per l’applicazione dell’istituto, previsto dalla legge 67/2014, che consente all’imputato, in caso di reati minori, di evitare la condanna riparando il danno e svolgendo, con esito positivo, un lavoro di pubblica utilità. Alla base del verdetto sfavorevole un’istanza arrivata fuori tempo. La norma è entrata in vigore il 17 maggio 2014, per i giudici la prima udienza utile era quella del 18 giugno, mentre la domanda era stata presentata il 9 luglio. Circa 40 giorni di ritardo che avevano fatto perdere al ricorrente il "treno" della messa alla prova. I giudici di primo grado, infatti, pur riconoscendo che il nuovo istituto può essere applicato ai processi in corso, hanno ritenuto che, in assenza di una disciplina intertemporale, la dead line per la domanda coincida con quella della prima udienza che segue il giorno di entrata in vigore della norma. Contro la decisione hanno fatto ricorso in Cassazione i difensori, sostenendo che la richiesta di accesso all’istituto può essere avanzata per tutta la durata della fase dibattimentale di formazione della prova e quindi, almeno fino all’assunzione delle testimonianze. La conclusione del Tribunale sarebbe, secondo gli avvocati, in contrasto sia con il principio generale della retroattività della legge più favorevole riconosciuto dalla Convenzione europea dei diritti dell’Uomo sia con l’omologa disciplina del processo minorile, nel quale la messa alla prova è consentita anche in fase di appello. Di parere diverso la Corte che si allinea alla requisitoria del procuratore generale che aveva chiesto il rigetto del ricorso. Per i giudici della VI sezione penale è improprio parlare di retroattività della lex mitior nel caso di messa alla prova. Il principio, contenuto nell’articolo 7 della Cedu, è limitato "alle disposizioni che definiscono i reati e alle pene che li reprimono". Mentre il nuovo istituto è strutturato come percorso alternativo all’accertamento giudiziario e non incide sulla valutazione sociale del fatto il quale resta il presupposto per imporre un percorso che, se va a buon fine, porta all’estinzione del reato. Essendo dunque fuori dal raggio d’azione del principio di retroattività della legge più favorevole non c’è violazione né della Cedu né dell’articolo 117 della Carta per quanto riguarda la parità di trattamento. Per la Cassazione la scelta, contenuta nell’articolo 464-bis comma 2 del Codice di rito, che nega la messa alla prova in caso di procedimenti pendenti all’entrata in vigore della legge se è decorso il termine per proporre la domanda è una scelta legittima, rimessa alla discrezionalità del legislatore. E il termine è quello individuato dalla Suprema corte. La Cassazione si adegua alla Corte di giustizia: la prescrizione va allungata di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 22 settembre 2015 Informazione provvisoria della Corte di cassazione - 18 settembre 2015. Va disapplicata la disciplina sulla prescrizione. Almeno per i gravi reati che colpiscono gli interessi finanziari dell’Unione europea. È questa la conseguenza immediata della sentenza della Corte di giustizia europea che pochi giorni fa (l’8 settembre) ha dichiarato l’incompatibilità di un segmento della nostra legislazione penale sui termini di prescrizione con il diritto comunitario. A prendere la via più dirompente è ora la Corte di cassazione con una pronuncia della Terza sezione penale, per ora solo anticipata in una nota vista l’estrema rilevanza della questione. I giudici della Corte hanno cioè dato risposta affermativa alla domanda chiave, quella sulla necessità della disapplicazione degli articoli 160 e 161 del codice penale, nella versione introdotta nel 2005 dalla legge ex Cirielli (n. 251). Disapplicazione che diventa scelta obbligata quando la loro applicazione comporta l’allungamento di solo un quarto dei termini quando il procedimento ha visto la prescrizione sospesa per effetto di uno o più degli atti interruttivi previsti dal Codice. Un prolungamento, quello di un quarto, che la Corte di giustizia ha giudicato troppo esiguo e tale da assicurare una sostanziale impunità agli autori di un reato grave come quello di omissione di versamenti Iva, tributo quest’ultimo di evidente matrice comunitaria. La Corte di giustizia rimetteva in realtà al giudice nazionale la decisione sulla disapplicazione delle norme contestate, al termine di una valutazione sulla portata pregiudizievole della loro applicazione per gli obblighi imposto agli Stati membri dal diritto dell’Unione europea. Quali obblighi? Soprattutto quelli di presidiare con un sistema sanzionatorio efficace e con elevato tasso deterrente l’area degli interessi comunitari. La valutazione fatta dalla Cassazione, ma sarà importante la lettura delle motivazioni, è stata quella per certi versi più estrema, conducendo a non considerare più estinto per prescrizione un giudizio che invece era destinato a morire. Di certo, però, la valutazione della Cassazione non è l’unica possibile. Tanto è vero che la Corte d’appello di Milano (si veda l’articolo in questa pagina) a poche ore di distanza ha preso una strada diversa rinviando la decisione alla Corte costituzionale alla luce della possibile fondatezza della questione di legittimità centra su conflitto con l’articolo 25, secondo comma, della Costituzione. Ovvero, per effetto della disapplicazione del conseguente dilatarsi dei termini di prescrizione, la persona imputata potrebbe venire sanzionata sulla base di un assetto della disciplina penale che non era in vigore al momento della presunta commissione dei fatti. Già, perché le conseguenza della decisione della Cassazione sono tutte da pesare, ma intanto, sempre in attesa delle motivazioni, è assolutamente probabile che i giudici, sgombrato il campo dal macigno della prescrizione, vadano a sentenza, magari condannando chi, sulla base della disciplina sinora vigente e soprattutto vigente al tempo del reato, se la sarebbe invece cavata con un processo estinto per scadenza dei termini di prescrizione. Ad aprirsi sono poi scenari inediti come quello sulla lunghezza dei termini di prescrizione per il reato di omessi versamenti Iva e altri che a questo potrebbero essere equiparati. Assodato che l’allungamento di un quarto, nella lettura degli euro-giudici, non è congruo e che atti interrotti sono più la norma che l’eccezione in un procedimento penale, quando si prescriveranno gli omessi versamenti? A fare chiarezza potrebbe allora forse essere lo stesso legislatore, visto che al Senato attende di essere esaminata proprio quella riforma della prescrizione che ha già ricevuto il sì della Camera. Riforma fondata sul congelamento dei termini in caso di condanna e che la Corte di giustizia potrebbe forse già ritenere risposta adeguata. Prescrizione: un decreto per disciplinare gli effetti della scelta Ue di Stefano Manacorda Il Sole 24 Ore, 22 settembre 2015 Era scontato che la pronuncia Taricco della Corte di giustizia sulla disciplina dell’interruzione dei termini di prescrizione per frodi gravi in materia di Iva desse luogo a prese di posizione differenziate, come conseguenza di quel controllo diffuso che fa di ogni giudice ordinario il primo destinatario del diritto dell’Unione e della estrema delicatezza della questione, atta a incidere su temi di parte generale del codice penale. Ed era prevedibile che si contrapponessero le strade alternative della disapplicazione, derivante dagli effetti diretti dell’articolo 325 Tfue, e del promovimento di una questione di legittimità costituzionale per violazione di controlimiti, scenari alternativi e per certi versi "estremi" tra i quali si aprono spazi residui di apprezzamento del giudice. Meno atteso è che questo bivio interpretativo fosse imboccato nel breve volgere di qualche ora, dando luogo, alla pronuncia della terza sezione penale della Corte di cassazione che ha proceduto il 17 settembre alla disapplicazione delle disposizioni codicistiche e all’ordinanza di remissione degli atti alla Corte costituzionale resa l’indomani dalla Corte d’appello di Milano. Per esplicito riferimento operato dai giudici della Cassazione, le norme di riferimento oggetto di disapplicazione sono contenute negli articoli 160, comma 3 ultima parte, e 161 del Codice penale, nella parte in cui limitano il prolungamento del termine di un quarto per i reati dell’articolo 2 del decreto legislativo 74/2000. Dovrebbe di conseguenza estendersi la disciplina meno favorevole prevista per gli illeciti penali negli articoli 51, commi 3-bis e 3-quater del Codice di procedura e, quindi, l’area di eccezione, che prevede il prolungamento della metà. Colpisce tuttavia che nella sentenza della Cassazione non sia menzionato il reato di associazione mentre è proprio tale fattispecie che per la Corte Ue stride maggiormente con il dato eurounitario, stante il difetto di assimilazione con l’associazione finalizzata al contrabbando di tabacchi lavorati esteri. Si attende la pubblicazione del provvedimento per comprendere come sia stata soddisfatto il requisito richiesto dalla Corte Ue per la disapplicazione e consistente nella valutazione che "detta normativa impedisca di infliggere sanzioni effettive e dissuasive in un numero considerevole di casi di frode grave". L’argomentare della Cassazione è stato invece - implicitamente, giacché non citato - ritenuto contrastante con i contro-limiti costituzionali nell’ordinanza dei giudici milanesi: la disapplicazione delle norme (di carattere sostanziale) degli articoli 160, ultimo comma, e 161, comma 2 del Codice penale imposta dalla sentenza Taricco, implicando l’allungamento dei tempi prescrizionali, produrrebbe effetti ritenuti di dubbia compatibilità con il principio di legalità in materia penale, come affermatosi nella consolidata giurisprudenza della Consulta e della Cassazione. Alla Corte costituzionale non è chiesto tuttavia di pronunciarsi sul diverso parametro, non affrontato neppure dai giudici del Lussemburgo, relativo alla ragionevole durata dei processi. In questo scenario così complesso, in cui effetti in malam partem sul singolo possono promanare da sentenze della Corte Ue - rectius dall’applicazione di norme di sfavore che incidono sulla punibilità e il cui statuto garantistico non vede Consulta e Corte Ue collocarsi sullo stesso piano - auspicabile sarebbe procedere con estrema ponderazione. Più che a un virtuoso dialogo tra giudici siamo dinanzi a una dialettica dai toni accesi, di cui può fare le spese la certezza del diritto e l’affidamento del cittadino, oltre che le garanzie individuali del singolo imputato. Andrebbe messo a punto un intervento del legislatore che, con decretazione d’urgenza e con lo sguardo rivolto al regime transitorio, disciplini gli effetti derivanti dalla sentenza, operando un attento distinguo a seconda che la prescrizione sia già maturata o meno. Escluso il favoreggiamento per il medico che cura il latitante di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 22 settembre 2015 Corte di Cassazione - Sezione VI penale - sentenza 21 settembre 2015 n. 38281. Escluso il reato di favoreggiamento per il medico che cura il latitante. La Cassazione assolve dall’accusa due camici bianchi campani. Un primo medico era finito nel mirino dei giudici perché, contattato da una sua paziente per operare un camorrista ferito in un conflitto a fuoco, aveva girato la richiesta ad un collega competente a prestare l’assistenza richiesta, avvertendolo che la famiglia dell’uomo "non era buona". L’intervento era stato eseguito a domicilio senza stilare un referto e senza avvisare la polizia. Per entrambi la Cassazione fa cadere l’accusa di favoreggiamento dando priorità al diritto alla salute, rispetto all’interesse pubblico all’amministrazione della giustizia. I giudici hanno assolto i medici che, pur consapevoli che il loro paziente era un latitante lo avevano assistito senza mettere a rischio la sua clandestinità, omettendo così di favorire le indagini. Quanto al mancato referto la Cassazione ricorda che il camice bianco non ha l’obbligo di stilarlo se con la sua redazione può esporre il paziente ad un procedimento penale. Per la Suprema corte "in tema di favoreggiamento ascritto a un soggetto esercente la professione sanitaria, la situazione di illegalità in cui versa il soggetto che necessita di cure non può costituire in nessun caso ostacolo alla tutela della salute". Falsa perizia difficile da provare di Enrico Bronzo Il Sole 24 Ore, 22 settembre 2015 Corte di cassazione - Sezione Vi - Sentenza 21 settembre 2015 n. 38307. Non può essere condannato per falsa perizia (articolo 373 del codice penale) l’ingegnere Ctu per i danni all’immobile conseguenti all’edificazione di un altro edificio se il tecnico esclude che le problematiche riscontrate siano riconducibili ai lavori, tesi sostenuta da un perito voluto dal?Pm. A stabilirlo è la Cassazione con la sentenza 38307 depositata ieri secondo cui "i pareri o le interpretazioni mendaci si concretizzano in un giudizio che intanto è caratterizzato da mendacio, in quanto si scosta e differisce da quella che, secondo la coscienza del reo, costituisce la verità: si tratta pertanto di una divergenza intenzionale, voluta e cosciente tra il convincimento reale e quello manifestato, nell’elaborato tecnico in risposta ai quesiti del giudice". I l Ctu deve "apportare il loro contributo originale di osservazioni e di giudizi sull’oggetto della prova, con il rischio che, nel pesare la loro condotta, si finisca col confondere l’involontario errore della mente, oppure la cattiva qualità della prestazione professionale, con la dolosa alterazione del vero". Quindi l’opinabilità dei temi in gioco di tipo tecnico, non a sufficienza posta in discussione dal gravame, finisce per divenire incompatibile con i presupposti oggettivi o soggettivi del reato. Peraltro la difesa a sua volta aveva confutato la perizia del Pm che lo accusava di utilizzo di falsi dati storici. Lettere: la farsa di chi nega il potere mafioso di Antonio Esposito (Presidente sezione Corte di Cassazione) Il Fatto Quotidiano, 22 settembre 2015 Le parole del capo del governo - "non si può dire che ci sono intere regioni in mano alla mafia. Questa è una rappresentazione macchiettistica" - non possono non suscitare stupore e sconcerto in quanti da anni sono impegnati, anche a rischio della vita, in processi o comunque in azioni di contrasto del crimine organizzato, che ha ormai assunto dimensioni nazionali e transnazionali. Non credo che esista, ancora, alcuno che possa aver dubbi che regioni come la Sicilia, la Calabria, la Campania siano state e siano tuttora "devastate" dalle organizzazioni criminali che spadroneggiano, da anni, in quei territori: mafia, ‘ndrangheta e camorra. È superfluo ricordare che cosa è stata ed è Cosa Nostra, la sua attività omicidiaria e stragista e la sua capacità di inquinare la vita politica e sociale. Così come lo è a proposito della ‘ndrangheta che occupa militarmente gran parte della Calabria (e segnatamente le intere zone del Reggino, del Crotonese, del Lametino): tant’è che ancora recentemente sono state emesse - su richiesta della Dda di Reggio Calabria, guidata dal valoroso Procuratore Cafiero De Raho - centinaia di ordinanze di custodia cautelare nei confronti dei componenti le cosche mafiose. E che dire della camorra che, attraverso decine e decine di "clan" criminali, ha occupato in maniera capillare i territori della provincia di Napoli e Caserta - inquinando gravemente la politica - con ramificazioni anche in altre zone: tant’è che numerosi sono stati i processi per associazione mafiosa, estorsioni aggravate dal metodo mafioso e turbativa d’asta, che hanno trovato definitiva conferma in Cassazione nell’ultimo anno. Senza dimenticare che in Puglia ha, per anni, imperversato la feroce Sacra Corona Unita e che anche in Emilia Romagna e nel basso Lazio si sono manifestate pericolose infiltrazioni ‘ndranghetiste. Ma quello che maggiormente sorprende è la completa sottovalutazione delle più recenti decisioni della magistratura che hanno esaminato il fenomeno dell’espansione nelle regioni del Nord. Le sentenze della Cassazione emesse nel processo "Infinito" - con le quali sono stati confermati secoli di carcere nei confronti di oltre 130 imputati - hanno definitivamente accertato l’occupazione da parte della ‘ndrangheta del territorio lombardo con la istituzione di ben 18 "locali", uno dei quali (quello di Pavia), capeggiato addirittura dal direttore sanitario dell’Asl di quella città (condannato a 13 anni di reclusione). Allo stesso modo un’altra sentenza ha confermato le condanne emesse dalla Corte di Appello di Torino per oltre 50 imputati nel processo "Minotauro", accertando che "la concreta capacità di intimidazione dell’associazione mafiosa in discorso è derivata, da un lato, dall’originaria filiazione e dal perdurante legame con la ‘ndrangheta storicamente insediata nella provincia di Reggio Calabria, di cui ha mantenuto modalità organizzative e comportamenti tipicamente mafiosi, dall’altro si è autonomamente e concretamente manifestata in Piemonte realizzando nella comunità locale quelle condizioni di assoggettamento e di omertà che caratterizzano la fattispecie incriminatrice di cui all’art. 416 bis c.p.". Coglie allora nel segno il Procuratore nazionale antimafia Franco Roberti quando si domanda: "Come si fa a negare che le mafie siano elemento costitutivo della società da cui hanno avuto origine e poi si sono diramate?". A questo quadro allarmante - che meriterebbe interventi immediati e decisi -si aggiunge l’inchiesta "Mafia Capitale" che ha scoperchiato il "verminaio" della corruttela politica nel Comune di Roma innestata in una associazione per delinquere caratterizzata dal metodo mafioso. Se questa è la situazione, chi vuole discettare circa tale fenomeno dovrebbe avere piena conoscenza sia delle fondamentali sentenze giudiziarie che hanno analizzato, sotto le diverse articolazioni e latitudini, il sistema del crimine organizzato, sia delle opere di chi, da anni, è impegnato a studiare il fenomeno mafioso (per esempio quelle di Nando dalla Chiesa: Buccinasco: la ‘ndrangheta al Nord, L’impresa mafiosa: tra capitalismo violento e controllo sociale, La convergenza: mafia e politica nella Seconda Repubblica); e soprattutto dovrebbe tener conto del prezioso bagaglio di conoscenze, sia della commissione Antimafia, oggi degnamente ed efficacemente rappresentata dall’on. Rosy Bindi, sia del Procuratore nazionale che, a ragione della sua carica, è colui che più degli altri ha la visione completa del fenomeno mafioso. Lettere: carcere per i ladruncoli e non per chi nasconde 300mila euro al fisco di Bruno Tinti Il Fatto Quotidiano, 22 settembre 2015 È difficile capire Renzi & C. Le anticipazioni sul ddl penale suggeriscono giudizi contrastanti: un epigone di B., con il suo carico di complicità occulte nel mondo del malaffare; un populista che cerca apprezzamento nelle pance forcaiole dei cittadini; un politicante a caccia di consensi da qualsiasi parte provenienti. Suggeriscono la prima ipotesi la prevista introduzione di norme restrittive in materia di intercettazioni (telefoniche e tra presenti) e il trattamento di favore riservato agli evasori fiscali; la seconda i cospicui aumenti di pena per furti, scippi, rapine; la terza la presenza di una norma condivisibile quale la severità sanzionatoria prevista per il voto di scambio politico-mafioso, certamente non apprezzata dall’ambiente che ha voluto accontentare con precedenza assoluta. C’è poi una quarta possibilità: un Machiavelli che nasconde il vero obbiettivo con schermi in parte irrilevanti per i suoi amici (che di galera dura per ladri e rapinatori ovviamente se ne infischiano e anzi l’apprezzano) e in parte destinati ad essere abbandonati prima della fine, come è già successo per l’inasprimento delle pene per il voto di scambio, bocciato ai tempi dell’anticorruzione. È probabile che questa sia la valutazione più corretta. Ma naturalmente non è questo il punto più rilevante di quello che sta succedendo. Cominciamo dalle intercettazioni. La delega è stata costruita appositamente per consentire al governo di scrivere il testo che vuole: si deve garantire la riservatezza delle comunicazioni e delle conversazioni telefoniche e telematiche; tutelare la riservatezza delle comunicazioni e delle persone occasionalmente intercettate; prevedere prescrizioni che incidano sull’utilizzo delle intercettazioni e che diano una precisa scansione all’udienza di selezione. Di potenziamento dell’attività di indagine, di snellimento delle procedure autorizzative, di utilizzazione delle intercettazioni in altri procedimenti, insomma di tutto ciò che serve per contrastare la criminalità non vi è traccia. Dunque non solo il governo avrà mano libera; ma l’obbiettivo previsto è quello e solo quello di costruire paletti: riservatezza e limitato utilizzo contano più della lotta al crimine. Se a questo si aggiunge che la discrezionalità garantita al governo trasformerà il testo sulle intercettazioni in appetitosa materia di scambio, si capisce bene che ogni preoccupazione è giustificata. Quando sarà necessario l’appoggio di Forza Italia e di Ncd (e della fazione interna al Pd che è sulle stesse posizioni), magari per consentire la sopravvivenza stessa del governo, del Parlamento e dei privilegi e prebende connesse, si può seriamente pensare che Renzi & C si immolino sull’altare delle intercettazioni? Il red carpet srotolato ai piedi dell’evasione fiscale è un’altra prova della complicità con il mondo del malaffare che sostiene la politica. Dell’assurdità di depenalizzare comportamenti che assicurano proventi illeciti pari a 300.000 euro all’anno (il "nero" corrispondente a un’impostazione evasa di 150.000 euro, nuova soglia di punibilità) ho scritto tutto il possibile. Quanto all’incoerenza tra gli aumenti di pena previsti per chi ruba una borsetta contenente magari 50 o 100 euro e l’impunità garantita a chi ruba allo Stato 150.000 euro è difficile trovare parole adatte. Tanto più dopo la proterva risposta data all’Agenzia delle Entrate che faceva osservare come, visto che fino a oggi, la pena per chi evade un’imposta superiore a 50.000 euro va da 1 a 3 anni, parrebbe ragionevole, se la soglia di punibilità viene triplicata, almeno aumentare proporzionalmente le pene: evadere 50.000 euro costa anche tre anni di galera, evaderne 150.000 deve razionalmente costarne di più. "Le pene sono adeguate", della serie fatti i fatti tuoi. Si può davvero pensare che gente così voglia davvero sanzionare severamente il voto di scambio? Ma se ci hanno costruito sopra le loro carriere! Così resteremo con un po’ più di delinquenti comuni in prigione. Che, intendiamoci, non è cosa di cui lamentarsi. Tanto più secondo il noto detto romano: consolamose cò l’ajetto. Lettere: la sentenza Taricco, la Cassazione e la Corte costituzionale dalla Giunta dell’Unione delle Camere penali camerepenali.it, 22 settembre 2015 Nell’interpretazione della corte di giustizia, dalla disposizione di cui all’art. 325 §§ 1 e 2 Tfue discende l’obbligo per il giudice nazionale di disapplicare gli artt. 160, ultimo comma, e 161, secondo comma, c.p. anche se dalla disapplicazione discendano effetti sfavorevoli per l’imputato e per la ragionevole durata del processo. Gli avvocati penalisti, che sono quotidianamente al fianco dei cittadini nella tutela dei loro diritti, non possono non esprimere preoccupazione per lo stato di salute della cultura delle garanzie, quale imprescindibile e invalicabile complesso di limiti operativi della giurisdizione, che connota il legittimo esercizio del magistero punitivo e lo distingue da una brutale pratica sanzionatoria. L’ultimo recente colpo inflitto al diritto penale delle garanzie e dei contro-limiti è costituito dalla sentenza della Corte di Giustizia dell’8 settembre 2015, causa C - 105/14, Taricco, che già sta facendo molto discutere. Adita con ricorso pregiudiziale dal Giudice dell’udienza preliminare di Cuneo, la Corte di Giustizia ammette (peggio: impone) che il giudice penale interno disapplichi in malam partem la disciplina italiana della prescrizione in quanto essa violerebbe l’obbligo di una tutela adeguatamente efficace, proporzionata e dissuasiva degli interessi dell’UE nello specifico settore delle frodi Iva c.d. carosello. I problemi che pone la sentenza - scorretta nelle premesse e devastante negli effetti - sono molteplici già dal punto di vista tecnico, non essendo chiaro nemmeno il perimetro della disciplina suscettibile di disapplicazione, che, secondo le prime interpretazioni, parrebbe riguardare il tetto invalicabile previsto nel caso di interruzione della prescrizione. Non è questa la sede per scandagliare gli interrogativi applicativi che pone la pronuncia. Nell’economia di una riflessione più generale sul volto del diritto penale vivente (o malvivente) sono altre le considerazioni cui deve darsi priorità, ancorché senza pretesa di completezza. Bisogna dirlo subito a costo di apparire politicamente scorretti: la sentenza evidenzia una pericolosa deriva anti-garantistica del diritto dell’UE, già avviata con la pronuncia Melloni in materia di estradizione, in dispregio dell’antica tradizione culturale che vede nel giudice penale il massimo garante del cittadino sottoposto a giudizio penale. La prescrizione, dipinta come il male assoluto, è un irrinunciabile limite temporale al Leviatano giudiziario, presente in pressoché tutti i sistemi penali di civil law. Il tetto massimo previsto per i casi di interruzione - piaccia o non piaccia - è l’unica garanzia che assicuri l’effettività della ragionevole durata del processo, la cui copertura costituzionale è oggi espressa nell’art. 111 Cost. Ma prima ancora la prescrizione risponde a istanze personalistiche anch’esse di rilevanza costituzionali. L’eliminazione del tetto prescrizionale, lungi quindi dal determinare "solo" una maggiore durata dell’azione penale, lascia il singolo imputato in balia di un processo sostanzialmente sconfinato. Né v’è da sperare che possa in tal senso sopperire la solerzia dei singoli giudici, se è vero che in Italia, nei casi in cui manca la prescrizione (si pensi da ultimo al processo sulla strage di Piazza Fontana), un procedimento penale riguardante lo stesso imputato può "ragionevolmente" proseguire per quasi vent’anni senza che scatti alcuna contromisura. Preoccupa, dunque, la recente presa di posizione della Terza sezione della Corte di Cassazione (ud. del 17 settembre 2015) che è perentoria nel ribadire l’obbligo di disapplicazione per il giudice nazionale nei termini indicati dalla sentenza Taricco. Consola almeno il diverso orientamento della Seconda Sezione della Corte di appello di Milano (18 settembre 2015), che, memore della consolidata giurisprudenza costituzionale e di legittimità, secondo cui la prescrizione è istituto di diritto sostanziale soggetto alla garanzia della legalità ex art. 25, comma 2, Cost., ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2 della legge 2 agosto 2008, n. 130, con cui viene ordinata l’esecuzione del Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea, come modificato dall’articolo 2 del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 (Tfue). La questione riguarda nello specifico la parte della normativa richiamata che impone di applicare la disposizione di cui all’art. 325 §§ 1 e 2 Tfue dalla quale - nell’interpretazione fornitane dalla Corte di Giustizia per l’appunto nella sentenza Taricco - discende l’obbligo per il giudice nazionale di disapplicare gli artt. 160, ultimo comma, e 161, secondo comma, c.p. in presenza delle circostanze indicate nella sentenza, anche se dalla disapplicazione discendano effetti sfavorevoli per l’imputato, per il prolungamento del termine di prescrizione. Da qui il sospetto - per noi un eufemismo - di un contrasto di tale normativa con l’art. 25, secondo comma, Cost. La Corte d’appello di Milano, nel caso, dimostra di avere ancora quel senso della legalità, smarrito, purtroppo, da una parte della dottrina penalistica sensibile al populismo punitivo oramai in voga da una ventina d’anni. Preoccupa inoltre il retroterra valoriale della sentenza, che persegue come prioritaria la tutela degli interessi economici dell’UE L’espansione temporale (pressoché illimitata) dello ius puniendi viene reclamata quando vengono in gioco gli interessi economici specie dell’Unione europea (in relazione ai quali abbiamo reati senza vittime). Ciò fa riflettere sulla gerarchia di valori che sottende la recente pronuncia della CG e sulla quale viene impostato il bilanciamento degli interessi in gioco, posto che la prescrizione è un diritto della persona. Ma non è tutto. Deve essere consentito un rilievo sul funzionamento dell’ordinamento c.d. multilivello (più volgarmente, la vecchia metafora dei due forni) e i suoi riflessi nel campo penale. Il cittadino, com’è giusto che sia, non può scegliersi il giudice penale. Per contro quest’ultimo può scegliersi la Corte cui demandare la fissazione dei limiti della propria giurisdizione. Il sistema consente che il giudice nazionale scelga di volta in volta l’interlocutore più comodo a seconda dei casi: in questo caso, la Corte di Giustizia, posto che, sulla base della richiamata giurisprudenza costituzionale circa la natura sostanziale della prescrizione e il primato della legalità, difficilmente il Tribunale di Cuneo avrebbe potuto ottenere dalla Consulta una declaratoria di incostituzionalità. La Corte di Giustizia invece gli ha concesso ampi poteri di disapplicazione di una garanzia fondamentale costituzionalmente rilevante. Chi continua a credere nel dialogo tra le Corti? Le Corti sono in concorrenza e finanche in conflitto. Un conflitto oramai inevitabile e accelerato dalla summenzionata questione di costituzionalità sollevata dalla Corte di appello di Milano, che ha il merito di porre schiettamente la questione. Abruzzo: Antigone; viaggio nelle carceri sovraffollate, 3 metri a detenuto e latrine aperte abruzzolive.it, 22 settembre 2015 Uno studio condotto dagli osservatori dell’associazione regionale Antigone ha rivelato che le carceri abruzzesi sono sovraffollate e ciò minaccia la dignità dei detenuti. Il presidente regionale di Antigone, Salvatore Braghini, insieme agli osservatori Claudia Sansone e Renzo Lancia, accreditati dal Ministero di Giustizia, ha svolto un’indagine sulle condizioni dei detenuti verificando il sovraffollamento delle strutture, le dimensioni delle celle, le condizioni igienico-sanitarie, l’alimentazione e l’accesso al culto. In particolare sono state visitate tutte le strutture circondariali della Regione, ad eccezione di quella dell’Aquila, inaccessibile in quanto "carcere speciale" in virtù del regime del 41bis. "Abbiamo parlato con i detenuti", spiega Braghini, "e raccolto le loro confidenze. Tutti i dati presto saranno resi pubblici". Sicuramente rispetto a qualche anno fa la situazione sembra migliorare, ma le condizioni dei detenuti nelle celle sono ai limiti dei parametri europei (tre metri quadrati calpestabili a recluso). Dallo studio emergono inoltre tanti casi di autolesionismo, di scioperi della fame e di patologie psichiatriche che richiedono assistenza. La situazione più allarmante è quella del carcere di Sulmona, dove si sta costruendo un altro blocco per duecento posti, seguito poi da Teramo. Le celle presentano arredi usurati, senza doccia interna e con bagni senza privacy. Diversamente da quanto si possa immaginare, la percentuale di stranieri è molto bassa ad eccezione del carcere di Avezzano dove i detenuti stranieri sono il 30 per cento. Un altro problema sollevato dallo studio è quello della carenza di personale penitenziario. Adeguata invece l’assistenza sanitaria con visite specialistiche di ogni tipo, anche odontoiatriche, e senza particolari tempi di attesa. Tuttavia è nel carcere di Teramo che vengono trasferiti troppi detenuti bisognosi di cure psichiatriche, con strutture totalmente inadeguate per i detenuti disabili. I tossicodipendenti e gli alcolisti sono tra il 20 e il 30 per cento della popolazione detenuta, con una percentuale che arriva a toccare il 50 a Vasto. In particolare il carcere più affollato è quello di Sulmona con due sezioni di alta sicurezza. In tutte le sezioni sono presenti due detenuti per cella salvo i casi di isolamento e si riscontra un alto numero di detenuti con patologie psichiatriche: ben 234, pari al 50 per cento. Tra i detenuti presenti otto disabili che andrebbero inviati in centri dedicati. Sono stati evidenziati 23 scioperi della fame. La situazione è difficile anche nel carcere di Teramo, con 87 detenuti in alta sicurezza e 40 donne, di cui due con figli sotto i 3 anni. Qui sono emersi ben 190 episodi di autolesionismo, 166 scioperi della fame e cinque suicidi negli ultimi tre anni. Il 40 per cento dei detenuti ha bisogno di un’assistenza psichiatrica, mentre otto detenuti disabili non ricevono assistenza adeguata per carenze di strutture. A Vasto ci sono 123 internati colpiti da misure di sicurezza da scontare in carcere in quanto dichiarati socialmente pericolosi. I soggetti detenuti invece sono solo 27. Quasi metà della popolazione carceraria è tossico-alcoldipendente e negli ultimi 3 anni si sono verificati 18 casi si autolesionismo e 90 scioperi della fame. Il più virtuoso, se così si può dire, tra gli istituti penitenziari abruzzesi è quello di Pescara. Non c’è sovraffollamento e nonostante l’edificio risalga agli anni 60, alcuni ambienti sono stati ristrutturati e arredati con criteri estetici contemporanei. Le celle, con due detenuti, sono riscaldate con termosifone e dotate di bagno con doccia e acqua calda. Ci sono poi laboratori per la produzione di scarpe, per la creazione di riviste, per attività didattiche e informatiche. A Chieti ci sono quattro reparti, femminile, maschile media sicurezza, sex-offender (reati sessuali), reparto semiliberi. Negli ultimi tre anni ci sono stati solo sei casi di autolesionismo, un suicidio, e quattordici scioperi della fame. Le celle sono aperte in tutte le sezioni per nove ore al giorno e sono garantite almeno sette ore di aria. A Lanciano, anche se le celle sono grandi, non vi sono docce all’interno e le finestre sono schermate con i punti luce sulle pareti e l’uso intensivo delle poche docce comuni genera grosse macchie di muffa negli ambienti. Quì sono stati evidenziati 145 scioperi della fame e 43 atti autolesionistici. Il carcere di Avezzano è stato ristrutturato interamente nel 2010 per cui anche se gli spazi non sono sufficienti quelli esistenti sono ben gestiti. Sono presenti due o tre detenuti per ogni camera, con un solo letto a castello. Il bagno è in un locale separato da un muro divisorio e all’interno c’è la doccia con acqua calda. Sono 32 gli episodi di autolesionismo con una tentata evasione nel 2013. Larino (Cb): cinque agenti indagati per il decesso di un detenuto avvenuto all’ospedale termolionline.it, 22 settembre 2015 La morte del 56enne Carlo Sticca, l’uomo che creò scompiglio a Campomarino nell’estate scorsa e poi venne arrestato il 10 agosto scorso, in un’azione congiunta tra Polizia e Carabinieri, non sarà immune da strascichi di natura giudiziaria. Giusto un mese dopo cessò di vivere all’ospedale Cardarelli, dopo un periodo di detenzione al carcere di Larino e qualche giorno al penitenziario di via Cavour a Campobasso. Sulla sua salma venne disposta l’autopsia e dalle risultanze pare siano emerse lesioni recentissime, per questo la Procura ha indagato per omicidio preterintenzionale cinque appartenenti alla Polizia Penitenziaria. Firenze: il direttore di Sollicciano "portare in carcere un corso universitario" La Repubblica, 22 settembre 2015 Presentati anche i nuovi arredi per la scuola interna all’istituto penitenziario fiorentino. Il corridoio che porta alle celle di un carcere La direttrice del carcere di Sollicciano propone di portare un corso universitario dietro le sbarre. Lo ha annunciato oggi Mariagrazia Giampiccolo, in occasione della inaugurazione dei nuovi arredi delle aule scolastiche all’interno del carcere. "Riportare a Sollicciano un percorso universitario - ha detto - riqualificherebbe ancora di più l’attività della scuola in carcere, che già svolgiamo. E avrebbe ancora più importanza se fosse un percorso universitario legato a Firenze e alle sue bellezze". Per il direttore, questo "permetterebbe anche un reinserimento lavorativo nei percorsi museali, e nell’accoglienza turistica". Oggi nel carcere fiorentino di Sollicciano sono stati inaugurati i nuovi arredi per sette aule scolastiche che si trovano all’interno dell’istituto. L’iniziativa è stata finanziata dall’Ente Cassa di Risparmio di Firenze con un contributo di 15 mila euro. Al taglio del nastro erano presenti il sottosegretario all’istruzione Gabriele Toccafondi, il garante dei detenuti di Firenze Eros Cruccolini, il vicepresidente dell’Ente Cr Firenze Pier Luigi Ferrini e alcuni dirigenti scolastici. A Sollicciano, e al Gozzini, il carcere minorile cosiddetto Solliccianino, ci sono circa 150 studenti della scuola dell’obbligo mentre le superiori sono frequentate da circa 70 studenti. "La scuola è ovunque e accoglie chiunque - ha sottolineato Toccafondi. Oggi la scuola nel carcere di Sollicciano esiste davvero, abbiamo potuto dare, con il contributo dell’Ente cassa, gli arredi, i libri e grazie al ministero un vero organico di insegnanti". Alla scuola per gli adulti, e a quella in carcere in particolare, crediamo molto. In Italia contiamo 17 mila studenti nelle carceri, il 55% stranieri, che ogni giorno studiano per ottenere un diploma di scuola media inferiore o superiore. L’articolo 27 della Costituzione parla di rieducazione del percorso di detenzione. Con la scuola in carcere diamo ai detenuti la possibilità di crescere e avere una prospettiva futura". Modena: Sappe; violenta protesta dei detenuti, quattro agenti feriti al carcere Sant’Annna modenatoday.it, 22 settembre 2015 Ancora episodi violenti a Sant’Anna, dove la Polizia Penitenziaria fatica a controllare i detenuti "meritevoli" del regime aperto. Il sindacato Sappe: "Siamo stanchi di prendere botte tutti i giorni". Ci risiamo. Anche lo scorso sabato mattina il carcere di Sant’Anna di Modena è stato teatro delle quotidiane violenze che stanno costando troppe visite in ospedale agli agenti della Polizia Penitenziaria. In questo caso, nel reparto dei detenuti protetti un detenuto di origine nigeriana si è scagliato contro gli agenti durante la distribuzione del vitto. Uno degli agenti, nel tentativo di bloccarlo, si è procurato una distorsione del polso, giudicata guaribile in cinque giorni. Sono complessivamente quattro gli agenti rimasti contusi, con ferite giudicate guaribili in quattro/cinque giorni. Il detenuto era infatti diventato ingestibile, nonostante i continui interventi della polizia penitenziaria per tentare di riportarlo alla calma. Subito dopo gli altri detenuti che, ricordiamo, sono tutti "aperti", hanno inscenato una violenta protesta nella sezione a loro dedicata, arrivando anche a lanciare sgabelli contro il personale di polizia penitenziaria. "Ancora una volta - affermano Durante Giovanni Battista, segretario generale aggiunto del Sappe e Francesco Campobasso, segretario regionale - il carcere di Modena è teatro di violente proteste. Ormai, la popolazione detenuta pensa di poter fare ciò che vuole. Riteniamo che debbano essere assunti seri provvedimenti, a cominciare dalla chiusura in cella dei detenuti, visto che non meritano il regime aperto. Il personale di polizia penitenziaria è ormai stanco di prendere botte tutti i giorni, visto che sono costretti a combattere, a mani nude, una quotidiana battaglia con gente violente" Potenza: Uil-Pa; detenuta aggredisce una assistente di Polizia penitenziaria Il Velino, 22 settembre 2015 Nel pomeriggio di ieri una detenuta di origine Napoletana, ha aggredito per futili motivi un Assistente Capo di Polizia Penitenziaria, C.A. che stava svolgendo il proprio turno di servizio, a dichiararlo è Donato Sabia - Segretario Regionale agg. della Uil-Pa Penitenziari di Basilicata: "oggi è un fenomeno quotidiano, aumentano giorno dopo giorno le aggressioni al personale di Polizia Penitenziaria, che paga un prezzo troppo alto dovuto all’indebolimento del Dap e del Governo Italiano" L’Agente di P.P. femminile è stata trasportata d’urgenza al P.S. del locale Ospedale San Carlo di Potenza, che ha riportato una prognosi di gg. 15 per le varie contusioni. Continua il sindacalista - "la cosa che alimenta nervosismo tra il personale è l’attuale gestione dell’Amministrazione Penitenziaria, che continua a mollare la presa con il nuovo modello di esecuzione della pena, dando sempre più libertà e spazi ai detenuti senza ascoltare nessuno, soprattutto chi lavora in prima linea nelle patrie galere. L’inefficienza dell’attuale sistema penitenziario, cade direttamente sul personale di polizia penitenziaria che sta pagando a caro prezzo, solo per aver scelto questo mestiere al servizio della comunità e dello Stato senza aver commesso nessun reato". Dal 1 gennaio ad oggi nelle nostre galere si sono verificati più di 800 aggressioni in danno di personale; dato che testimonia il fallimento totale di una politica sorda e distante dalla tragedia che si consuma in carcere ogni giorno. Il Vertici dell’Amministrazione Penitenziaria si distinguono per assenza e silenzio,…. avevano assicurato già nel mese di Maggio c.a. sezioni più stringenti per i detenuti violenti, ma gli stessi Dirigenti in ambito regionale sono inadempienti. L’Aquila: Premio Laudomia Bonanni, domani premiazione dentro la Casa circondariale asipress.it, 22 settembre 2015 Il Premio Letterario Internazionale "L’Aquila" - Bper Banca, intitolato ad una delle più grandi scrittrici italiane del ‘900, l’aquilana Laudomia Bonanni, è nato nel 2002 per volontà della Cassa di Risparmio della Provincia dell’Aquila e del Consiglio Regionale d’Abruzzo e si articola in due sezioni: "Sezione A" poesia edita e "Sezione B" riservata agli studenti degli istituti scolastici superiori della Provincia dell’Aquila. A ciò si aggiunge un concorso ad hoc dedicato ai componimenti dei detenuti degli istituti di pena italiani, organizzato in collaborazione con il Ministero di Giustizia (VIII edizione), la cui premiazione avverrà all’interno del Casa circondariale di massima sicurezza dell’Aquila il giorno venerdì 23 ottobre alle 15.30, con la partecipazione dei detenuti e dell’ospite d’onore Charles Simic, poeta tra i più importanti al mondo (di origine serbe, ma residente negli Usa), che terrà incontri e conversazioni letterarie. La cerimonia finale della XIV edizione, con la premiazione dei vincitori, si terrà sempre a L’Aquila, presso l’Auditorium del Parco (Renzo Piano), sabato 24 ottobre alle 10.30 alla presenza della Giuria, del poeta Simic, degli studenti degli Istituti superiori cittadini e della cittadinanza. La Giuria ha visto quest’anno l’ingresso di Marco Santagata, illustre docente di letteratura italiana dell’Università di Pisa, vincitore di un "Campiello" e di uno "Strega". Sin dalla prima edizione, il Premio si è affermato come uno dei più prestigiosi in Italia ed ha visto sempre la partecipazione delle maggiori case editrici nazionali e dei poeti più affermati. "Anche l’edizione 2015 - hanno dichiarato il Presidente del Premio Raffaele Marola e della Giuria Stefania Pezzopane - si presenta ricca di partecipazioni importanti a livello di case editrici e di poeti e l’ospite d’onore Charles Simic assicura, in linea con gli anni precedenti, l’apertura internazionale che da sempre ha contraddistinto la manifestazione aquilana". Slovenia, un altro muro. Orbán invia soldati al confine di Daniele Mastrogiacomo La Repubblica, 22 settembre 2015 Lubiana alza una barriera davanti alla Croazia. Caos profughi in Austria, oltre 24mila arrivi Mattarella: "I fili spinati non servono, adesso decisioni forti". Oggi nuovo vertice sulle quote. Per difendere i suoi muri anti-migranti, Viktor Orbán userà l’esercito sul confine meridionale. Anzi, farà di più: il Parlamento ungherese, con un voto a larghissima maggioranza, ha autorizzato i soldati all’uso delle armi pur di mantenere saldi le frontiere del paese. Lacrimogeni, idranti, proiettili di gomma, pistole lancia rete, bombe assordanti e accecanti accoglieranno chiunque cerchi di varcare la doppia barriera che blinda il paese da Croazia e Serbia. L’Ungheria ha fatto pubblicare sui giornali libanesi un chiaro avvertimento: non venite, siamo buoni ma inflessibili con gli illegali. Se vi becchiamo dentro i confini vi arrestiamo. E intanto la Slovenia ha iniziato ad alzare un muro al confine con la Croazia, all’altezza del valico di Bregana. L’obiettivo, fa sapere Zagabria, è di evitare che "i migranti entrino in modo indiscriminato nel Paese attraverso campi e boschi, invece di restare in attesa negli accampamenti alla frontiera". Decisioni dure, di fronte a un fenomeno che non si può trattare da semplice emergenza: in due mesi sono transitate 120mila persone sulla rotta balcanica. Dal castello di Waterburg, nella Turingia tedesca, per il vertice di Arroiolos assieme ad altri 10 Capi di Stato, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella lo spiega bene: "Siamo di fronte a fenomeni epocali di dimensioni immense che vanno affrontati con scelte lungimiranti. Ricorrere agli strumenti del passato non ha senso". La soluzione, dice, "non è la chiusura delle frontiere e il filo spinato". E invita i Paesi dell’Ue a concentrarsi sulle scelte che verranno fatte nelle prossime ore: "Si tratta di decisioni forti e importanti". "Il mondo è in marcia- aggiunge Mattarella - Moltitudini di uomini, donne e bambini si avviano verso l’Europa fuggendo dalla disperazione". In vista del vertice di stamani al tavolo del Consiglio Interni, si sondano gli umori, ma l’Europa arriva spaccata sul ricollocamento di 120mila migranti, soluzione verso cui spinge la cancelliera Angela Merkel. Ci sono ancora delle resistenze. Soprattutto dal blocco dei paesi dell’est che davanti a questo dramma si sono mostrati più ostici a un compromesso. Repubblica Ceca, Romania e Bulgaria restano contrarie ad accogliere una parte dei profughi. Ma sono anche pronte a cedere quando capiscono che chiunque faccia parte della grande comunità europea dovrà comunque versare il suo contributo in denaro (si parla di una "multa" di 6.500 euro per ogni profugo "rifiutato"). Lubiana è indecisa. Forse spaventata. Nell’attesa decide anche lei di avviare la costruzione di una barriera alla frontiera. Il fronte, tuttavia, inizia ad incrinarsi e l’Ungheria finisce per restare sempre più isolata. Per il momento si limita a trasferire, con autobus scortati e treni blindati, tutti i rifugiati e i migranti che gli vengono consegnati alla frontiera dalla Croazia. Li accompagna ai confini con l’Austria che nei fatti è diventato il primo "hotspot" dell’Unione. Tra sabato e domenica ha dovuto accogliere 21.200 persone che ieri sono diventate 24 mila. Non tutto è semplice per i profughi. Molti sono reduci da mesi di viaggio. Si sono dovuti adattare. Improvvisano giacigli e cercano cibo dove lo trovano. Il centro medico universitario di Hannover ha segnalato 30 casi di intossicazione da funghi velenosi in una sola notte. Chi li ha raccolti aveva fame. Non li conosceva. Li ha visti sparpagliati nei boschi e li ha cucinati. Sono finiti tutti in ospedale. Ancora morti, come al solito Luca Fazio Il Manifesto, 22 settembre 2015 Mentre l’Europa litiga sulle quote, blinda i suoi confini e decide di non decidere, in soli due giorni nel mar Mediterraneo sono morte almeno 14 persone (tra cui cinque bambini) e più di 5 mila sono state tratte in salvo. Con l’abitudine vengono a noia anche le cose più spaventose. Del resto non si può pretendere che tutti i giorni quell’entità astratta chiamata Europa si commuova per ogni bambino morto su una spiaggia o sparito tra le onde del mare. Quel fatto ha lasciato una traccia se non altro nella cura con cui nei resoconti si sottolinea la presenza dei bambini tra i cadaveri. Anche di questo bisognerebbe vergognarsi. "La guardia costiera greca ha recuperato il cadavere di una bimba di 6 anni nelle acque dell’isola di Lesbo", con queste poche righe è scomparsa dalle cronache la notizia dell’ultimissima tragedia nelle acque del Mediterraneo. Questa volta non ci sono foto o corpicini da esibire. Domenica, l’altro ieri. Un gommone carico di persone stava cercando di raggiungere l’isola greca di Lesbo quando è entrato in collisione con un traghetto turco. A bordo del gommone, che aveva preso il largo dal porto di Canakkale, in Turchia, c’erano 33 siriani. Venti persone sono state tratte in salvo, tredici risultano ancora disperse, "tra cui quattro bambini". Sempre nelle acque dell’Egeo, poco prima la guardia costiera greca aveva salvato venti persone avvistate da un elicottero al largo dell’isola di Lesbo. È in questo naufragio che è stato recuperato il corpo di una bambina. Il portavoce della Guardia costiera greca, Nikos Lagadianos, ha detto che la piccola era già priva di conoscenza quando è stata soccorsa in mare ed è morta all’ospedale di Lesbo. Il resto è routine. E mentre i leader dell’Europa continuano a dare il peggio di sé litigando sulle persone da ricollocare o da respingere - anche Angela Merkel ha detto di non aspettarsi granché dal vertice Ue di domani - è diventato impossibile tenere il conto aggiornato degli sbarchi quotidiani sulle coste del Mediterraneo. Sono numeri che non impressionano nessuno. Solo tra sabato e domenica, nel Canale di Sicilia, le navi impegnate nell’operazione Frontex hanno salvato più di 4.500 persone durante una ventina di operazioni di recupero: una donna non ce l’ha fatta. Palermo, una nave della marina tedesca ha portato in salvo 767 persone provenienti da Mali, Senegal e Ghana, tra cui 50 minorenni non accompagnati (29 ragazze e 21 ragazzi). Tutti sono già stati alloggiati in comunità protette. Tre bambine piccole e una neonata sono state trasferite in ospedale, ma non sono in pericolo di vita. A Pozzallo, invece, sono stati ricoverati altri 670 migranti egiziani ripescati a bordo di due gommoni; la polizia di Ragusa ha fermato due presunti scafisti, hanno 18 e 20 anni. A Messina, tra oggi e domenica, sono arrivate altre 387 persone. I primi 122 sono stati soccorsi due giorni fa da una nave militare inglese (la polizia ha arrestato un senegalese di 23 anni con l’accusa di essere lo scafista), altri 265 invece sono sbarcati ieri pomeriggio al molo Marconi. A Crotone, domenica sera, c’è stato un sbarco record: 1.144 persone tra cui 53 minori non accompagnati trovati a bordo di due barconi al largo delle coste libiche. Hanno raccontato di aver pagato somme tra i 1.200 e i duemila dollari. Quasi la metà (505 migranti) sono già stati accompagnati in diverse strutture presenti in Lombardia, Marche, Lazio, Veneto, Emilia Romagna, Umbria e provincia autonoma di Trento. Gli altri nei prossimi giorni verranno distribuiti nelle restanti regioni. Stessa sorte toccherà anche ai 328 migranti che ieri mattina, a bordo di una nave croata, sono sbarcati a Taranto. Tutti somali ed eritrei, tranne un tunisino. Anche per la guardia costiera greca questi sono stati giorni di duro lavoro. Da venerdì scorso, riferiscono le autorità greche, sono state salvate 994 persone durante più di quaranta operazioni di soccorso. E ieri una barca di legno con a bordo 70 persone si è arenata sulla costa dell’isola di Rodi. I profughi sono riusciti a raggiungere la riva a nuoto. Laurent Fabius: "La risposta alla crisi dei migranti non è la chiusura delle frontiere" di Anais Ginori La Repubblica, 22 settembre 2015 Il ministro degli Esteri francese Laurent Fabius invoca solidarietà: "È un principio fondante dell’Ue non à la carte". Su Damasco: "Possibile un governo di transizione ma senza Assad. I nostri voli contro l’Is sono legittima difesa". "Chiudere le frontiere non risolverà la crisi dei rifugiati". Nel suo ufficio al Quai d’Orsay, Laurent Fabius parla con cinque testate europee, tra cui Repubblica, dei grandi temi internazionali. "La solidarietà - dice a proposito dell’accoglienza dei migranti tra i paesi Ue - non è un principio variabile, à la carte". Sulla Siria il ministro degli Esteri conferma discussioni in corso con Mosca. "Un governo di transizione è possibile con elementi del regime ma senza Bashar al Assad", spiega Fabius, molto impegnato anche nei negoziati per la Cop21, la Conferenza delle Nazioni Unite sul Clima di cui è il Presidente. Dal 30 novembre si riuniranno a Parigi 196 paesi. Un summit "vitale", dice il ministro, per il futuro del nostro Pianeta. L’Europa è divisa sull’accoglienza ai rifugiati. Un accordo è ancora possibile? "L’Europa ha conosciuto altre crisi. Ma ora, in un certo senso, è in causa la sua ragione d’essere. È illusorio credere che ne possiamo uscire ristabilendo le frontiere nazionali. Ma bisogna avere l’onestà di dire che al di là della solidarietà necessaria nei confronti dei rifugiati, non possiamo spalancare le porte ai migranti economici, sennò avremmo il caos, un’estremizzazione dei fenomeni, e delle conseguenze pesanti per l’Europa". Come far fronte al flusso dei rifugiati? "Bisogna organizzare i centri di accoglienza e identificazione, hotspost, nei paesi d’ingresso come l’Italia, organizzare un sistema di ripartizione equo e aiutare i paesi fuori dall’Unione che sono in prima linea, penso a Turchia, Giordania, Libano. Dobbiamo anche avere una politica di sviluppo per l’Africa. Non è attraverso gli egoismi nazionali che usciremo da questa crisi". Ormai c’è un abisso tra la posizione sui rifugiati della Germania e quella dell’Ungheria. Qual è il collante dell’Europa? "Ci sono dei principi di base che ognuno deve rispettare. L’Europa si è allargata in particolare sulla solidarietà interna: non è un principio à la carte". La libera circolazione nello spazio Schengen è minacciata. Ogni paese, a turno, chiude le frontiere. "Schengen prevede che, in alcuni casi eccezionali, si possa ristabilire le frontiere per un tempo limitato. Ma bisogna risolvere le cause profonde del disfunzionamento". La Francia potrebbe tornare a presidiare i suoi confini? "Sempre nei termini previsti da Schengen. È quello che è già accaduto al confine con l’Italia". Cosa pensa dello slancio di generosità della Germania? "All’inizio è stato uno slancio positivo e generoso di solidarietà rispetto a situazioni umane intollerabili. Ma bisogna poter reggere sul lungo termine". Angela Merkel ha sbagliato? "Il suo gesto forte può essere stato percepito in maniera ancora più forte. La Francia, con la Germania, cerca le soluzioni adatte. Ognuno deve fare la sua parte, senza perdere il controllo della situazione". Lanciare raid in Siria contro l’Is non è un modo indiretto di aiutare Assad? "Abbiamo avuto prove di attentati contro la Francia preparati da elementi dell’Is in Siria. Di fronte a questa minaccia abbiamo deciso di fare voli di ricognizione per colpire, se necessario. Si tratta di legittima difesa". Ci potrebbe essere un intervento a terra? "Nessun paese è disposto a farlo. La lezione dei conflitti armati recenti è che non si vincono questo tipo di guerre con truppe a terra straniere. L’aviazione esterna può e deve aiutare, ma bisogna che siano le popolazioni locali o regionali a intervenire". Vladimir Putin chiede una coalizione internazionale contro l’Is. Cosa risponde la Francia? "Mosca vuole una coalizione dei volonterosi. Perché no? Ma tra i volenterosi come si può includere Assad? Ricordatevi l’inizio del caos siriano: una manifestazione di giovani repressa in modo tale che il dramma si è propagato con violenze inaudite, l’utilizzo di armi chimiche, l’internazionalizzazione del conflitto. E oggi abbiamo 240mila morti, milioni di rifugiati, un paese martoriato. Non voglio sminuire la responsabilità mostruosa dell’Is. Ma come proponevamo già a Ginevra 1 (la prima conferenza sulla Siria, nel giugno 2012, ndr.), la soluzione è un governo di unione nazionale". Un governo con membri del regime di Assad? "Per evitare il crollo di un sistema, com’è accaduto in Iraq, bisogna conservare i pilastri dell’esercito e dello Stato. I negoziati devono puntare su due aspetti: servono elementi del regime e membri dell’opposizione che rifiutano il terrorismo". La conferenza mondiale sul Clima è davvero l’ultima chance per salvare la Terra? "È un negoziato vitale. Se non agiamo subito ci saranno conseguenze devastanti. Non centinaia di migliaia, ma milioni di persone saranno costrette a fuggire a causa di siccità, carestie, inondazioni, guerre. Superata una certa soglia del riscaldamento climatico, stimata ai 2 gradi per questo secolo, il fenomeno diventerà irreversibile". Cos’è cambiato rispetto alla conferenza di Copenhagen del 2009, che fu un fallimento? "Ormai c’è una presa di coscienza. L’anno 2014 è stato il più caldo da sempre. E il 2015 potrebbe essere ancora peggio. Oggi esistono tutte le soluzioni finanziarie, tecnologiche per intervenire. Secondo l’economista Nicholas Stern, se non fermeremo il riscaldamento climatico ci sarà un impatto tra il 5 e il 20% del Pil mondiale nel 2050". L’impegno preso dalla Cina è importante? "Sì, la Cina è leader di quello che chiamiamo gruppo dei 77. Il suo impegno ha un considerevole effetto di trascinamento su altri paesi. Negli Stati Uniti, anche Barack Obama si è impegnato molto. Stati Uniti e la Cina sono i più grandi paesi produttori di gas a effetto serra. Quindi si tratta di un’evoluzione notevole". I paesi del Sud frenano. È ottimista sulla possibilità di un accordo? "Il mio è un ottimismo prudente. Dobbiamo arrivare a un accordo per limitare a 1,5 o 2 gradi al massimo l’innalzamento delle temperature entro il 2100. È la base giuridica dei negoziati, che determina il successo o il fallimento del vertice. In passato non ci siamo riusciti. Il famoso protocollo di Kyoto riguardava solo una minoranza di paesi. La conferenza di Parigi può segnare una svolta per il nostro Pianeta, anche se non possiamo pensare di risolvere tutti i problemi in un solo vertice. È un punto d’arrivo ma anche di partenza". Francia: caso Daniele Franceschi, la sentenza del processo di appello slitta al 26 ottobre Il Tirreno, 22 settembre 2015 Rinviato al mese prossimo il processo di appello contro l’infermiera condannata in primo grado per la scomparsa di Daniele Franceschi. È stato rinviato a lunedì 26 ottobre il processo di appello per la morte di Daniele Franceschi, l’operaio viareggino di 33 anni che il 25 agosto 2010 fu trovato senza vita nella cella del carcere francese di Grasse, in Costa Azzurra, dove era rinchiuso da sei mesi per una vicenda di carte di credito rubate. Il Tribunale di Aix-en-Provence ha infatti fissato per quella data la seconda udienza nel corso della quale dovrebbe essere pronunciata la sentenza di secondo grado per Stéphanie Colonna, l’infermiera condannata in primo grado ad un anno di reclusione e ad un anno di interdizione dalla professione perché ritenuta responsabile del decesso del detenuto italiano. Non ha invece presentato appello Jean Paul Estrade, il medico dell’ospedale di Grasse quel giorno in servizio nel carcere dove si trovava Daniele Franceschi e condannato in primo grado ad un anno di reclusione e ad un anno di interdizione dalla professione di medico. Nel frattempo Cira Antignano, la madre di Daniele Franceschi che si è presentata parte civile e che da cinque anni si batte perché sia fatta giustizia sul caso del figlio, ha rifiutato la proposta di indennizzo avanzata da parte dei legali dell’ospedale di Grasse. Una offerta che secondo alcune indiscrezione si aggirerebbe intorno ai 30mila euro e che la stessa madre di Franceschi ha dichiarato "oltraggiosa e offensiva". Cira Antignano, fra l’altro, non è ancora riuscita ad ottenere dalle autorità francesi la restituzione degli organi del figlio prelevati in occasione dell’autopsia. Tunisia: 1.000 i detenuti accusati di reati legati al terrorismo, 30 donne Ansa, 22 settembre 2015 Sono 1.000 i detenuti presso le carceri tunisine accusati di reati legati al terrorismo, tra essi 30 le donne e numerosi i cittadini di nazionalità straniera (algerini, marocchini, libici, francesi, tedeschi e portoghesi). Lo ha dichiarato il ministro della Giustizia tunisino Mohamed Salah Ben Aissa al quotidiano locale Ettounsia, specificando che la maggior parte di essi si trova in custodia cautelare in attesa di giudizio e che l’amministrazione carceraria sta compiendo un grande sforzo per tenerli separati dai detenuti per altri reati. Le carceri tunisine ospitano attualmente dai 22 ai 23.000 ristretti per reati comuni (ma il loro numero cambia continuamente), tra i quali 600 donne ripartite su 8 diverse case circondariali. Il ministro ha anche annunciato che il pool di magistrati anti-terrorismo, composto da 30 giudici specializzati, entrerà in funzione questa settimana dopo aver completato i preparativi logistici necessari. Svizzera: respinto dal Consiglio nazionale l’inasprimento del diritto minorile Corriere del Ticino, 22 settembre 2015 Il diritto minorile non va inasprito. È l’opinione del Consiglio nazionale che ha respinto oggi - con 89 voti contro 79 e 8 astenuti - una mozione di Hans Fehr (Udc/Zh). Per lo zurighese quello proposto era l’unico modo per combattere l’aumento dei reati gravi commessi da giovani registrato negli utili anni. Nel suo atto parlamentare, Fehr chiedeva al governo di presentare rapidamente una modifica di legge tesa a inasprire il diritto penale minorile. Lo zurighese proponeva di limitare la concessione della condizionale per i crimini gravi, di eseguire la pena in un penitenziario per i giovani non collaborativi collocati in un istituto, aumentare considerevolmente la privazione massima della libertà (attualmente pari a quattro anni) e fare in modo che i giovani possano essere giudicati secondo il diritto penale degli adulti in caso di reati particolarmente gravi. "Bisogna guardare in faccia la realtà: i minori commettono sempre più crimini gravi", ha sostenuto Fehr, che ha fatto anche riferimento al giovane pregiudicato di Zurigo conosciuto con lo pseudonimo di "Carlos". Servono dunque pene più lunghe, "altrimenti succede come nella scuola reclute: ci si limita a contare i giorni". L’elemento centrale del diritto minorile è la rieducazione, le pene privative della libertà servono solo per evitare che l’imputato commetta altri reati, ha però replicato la consigliera federale Simonetta Sommaruga. Non è inoltre provato che una pena più lunga abbia un reale effetto deterrente. L’esempio della Germania lo dimostra, ha affermato, convincendo la maggioranza del Plenum, la ministra di giustizia e polizia. Stati Uniti: suicida in carcere Marvin Sharp, coach accusato di abusi sui minori fanpage.it, 22 settembre 2015 Secondo l’accusa l’uomo avrebbe abusato sessualmente di numerose ginnaste minorenni. Erano le 20 e 17 di sabato quando i secondini del carcere di Marion County in Indiana, Stati Uniti, hanno scoperto il corpo senza vita di Marvin Sharp, 49 anni e coach di ginnastica. L’uomo dal 24 agosto era detenuto in attesa di essere giudicato per abusi e molestie su minori. Nel processo a suo carico, che sarebbe iniziato il 28 ottobre, l’allenatore avrebbe dovuto rispondere di ben sette capi d’accusa: quattro per abusi su minori e tre per violenza sessuale. Recentemente gli inquirenti avevano trovato nell’abitazione di Sharp materiale pedopornografico collezionato a partire dal 2002 e riguardante sei studentesse di 6-7 anni. "Queste minorenni sono state identificate come ex ginnaste allenate - e fotografate - da Sharp", ha detto in una dichiarazione Darin Older, detective di Indianapolis. Secondo fonti investigative sarebbero migliaia le fotografie di minori trovate nelle casseforti di Sharp sia nella sua abitazione che nelle palestre da lui gestite. L’allenatore nel 2010 era stato eletto "coach dell’anno" e tra le sue atlete figuravano anche le olimpioniche Bridget Sloan e Samantha Peszek, vincitrici della medaglia d’argento nel concorso a squadre di Pechino 2008. Il caso dell’arresto di Sharp aveva fatto molto discutere e non poche persone si erano dette incredule. Michele Callahan, collega di Sharp, aveva tuttavia commentato: "La natura stessa della ginnastica mette a rischio gli allenatori maschi. Spero proprio che questa cosa venga chiarita prima che metta fine a una carriera rispettabile". Nei confronti del coach sarebbero state comunque prodotte prove schiaccianti soprattutto da parte di una ginnasta 12enne, vittima per due anni delle "attenzioni" di Sharp, che le avrebbe rivolto apprezzamenti ma sarebbe anche andato al sodo con carezze e palpeggiamenti, per finire a fotografarla con addosso una camicia di forza. Pakistan: "non si regge in piedi sul patibolo", rinviata impiccagione detenuto paralizzato Ansa, 22 settembre 2015 Un giudice pachistano ha sospeso oggi l’impiccagione nel carcere di Faisalabad di Abdul Basit, un detenuto paralizzato dalla vita in giù e costretto a muoversi su una sedia a rotelle. Lo ha annunciato il giudice Dilshad Malak. "L’esecuzione è stata rinviata - ha spiegato il magistrato - perché Basit non ha potuto mettersi in piedi sul patibolo come prescrive il regolamento carcerario. E per questo non ha potuto essere impiccato". Lo stesso magistrato ha disposto l’invio del dossier al governo per una decisione.