Giustizia: Sabelli (Anm) "il carcere non è vendetta, no al populismo penale" Ansa, 21 settembre 2015 "Bisogna chiedersi se oggi ci sia una profonda consapevolezza della funzione della pena che è stata scritta ormai 70 anni fa nella Costituzione e considerare anzitutto la funzione rieducativa": lo ha detto ieri, nell’aula magna dell’Università di Messina, Rodolfo Maria Sabelli, presidente dell’Associazione nazionale magistrati (Anm), a margine del convegno "Senso e futuro della pena" organizzato dal Coordinamento nazionale dei magistrati di sorveglianza. "Il carcere non è vendetta - ha proseguito Sabelli - non è retribuzione per il male commesso, e la pena detentiva deve tendere alla rieducazione del condannato. Purtroppo spesso, nella cultura diffusa, ma anche in alcune scelte legislative si coglie altro. Pensiamo ad esempio alle scelte che vanno nel senso dell’aumento delle pene detentive piuttosto che verso la soluzione di quelli che sono i problemi reali della giustizia penale. È vero che spesso si sente dire che c’è un diffuso populismo penale cioè un generico e superficiale giustizialismo, che coglie più l’aspetto retributivo della sanzione che non la sua funzione educativa. Tuttavia, non serve scagliarsi contro questo populismo. In realtà, non si colgono i problemi reali della giustizia penale, che sostanzialmente sono nell’efficacia del processo penale ancora inferiore a quella che dovrebbe essere il risultato del processo. Cerchiamo di recuperare il senso della certezza della pena intesa nel senso di reazione della Giustizia penale che deve essere rapida e efficace". "Il problema della pena - continua - lo si affronta anzitutto intervenendo sul processo, rendendolo un momento efficace di intervento serio e rapido. Altrimenti se si sceglie la via di aumentare le pene senza intervenire sui mali della giustizia penale che sono la lentezza, la cattiva organizzazione, la mancanza di risorse, credo che non faremo tanta strada". Giustizia: il Sottosegretario Ferri "garantire ai detenuti possibilità di studio e di lavoro" Adnkronos, 21 settembre 2015 Garantire la possibilità di studio-lavoro ai detenuti. Lo ha evidenziato il sottosegretario alla Giustizia, Cosimo Maria Ferri. "In alcuni istituti penitenziari - ha osservato - i detenuti sono ancora posti di fronte alla scelta tra lo studio e il lavoro, talvolta per esigenze meramente amministrative o trattamentali: è necessario fare in modo che le due attività, che corrispondono a diritti costituzionalmente garantiti, non si sovrappongano e sia data ad ogni detenuto la possibilità di studiare e, insieme, lavorare. La finalità della scuola in carcere è soprattutto ‘trattamentale e rieducativa". "Istruzione in carcere - ha detto ancora Ferri - significa anzitutto "rieducazione alla convivenza civile con azioni positive che aiutino a rivedere il proprio percorso di vita", come ribadito da diverse formulazioni normative. Occorre, tuttavia, evitare che gli insegnanti possano decidere della libertà dei condannati, limitando le competenze dei docenti agli aspetti strettamente didattici e consentendo, così, di mantenere la cultura in uno spazio aperto e quanto più possibile libero da ipocrisia e simulazioni". Il sottosegretario alla Giustizia è intervenuto ieri mattina al Consiglio delle Regioni dell’Unione cattolica insegnanti, dirigenti, educatori e formatori (Uciim), tenutosi a Pontremoli. Istruzione chiave per educare minori a libertà "Il ruolo dell’istruzione nelle carceri è fondamentale e strategico: per i minori occorre mettere in campo un percorso educativo che punti non solo a insegnare di non violare le leggi, ma anche e soprattutto a educare alla libertà, a riconquistarla, a viverla in modo proficuo per sé e per gli altri". Lo ha detto il sottosegretario alla Giustizia, Cosimo Ferri, partecipando ieri mattina al Consiglio delle Regioni dell’Unione cattolica insegnanti, dirigenti, educatori e formatori (Uciim). "Educare alla libertà significa - ha spiegato Ferri - insegnare a vivere il quotidiano, favorire la crescita, spingere il minore ad assumersi le responsabilità delle scelte che compie e delle conseguenze che queste comportano. Non basta far conoscere le regole: il minore deve essere in grado, poi, di operare una scelta tra il rispetto o la violazione delle norme. Il tentativo è di spingerlo verso un cammino di consapevolezza, autonomia, coscienza e, in senso più ampio, di crescita". Bullismo: rafforzare prevenzione, puntare su formazione "Contro il bullismo è necessario attivare delle strategie di intervento decise, che devono avere come obiettivo quello di evitare conseguenze gravi sul piano psicologico, ma anche su quello penale: la strategia migliore per combattere questo increscioso fenomeno nelle scuole è la prevenzione". Lo ha evidenziato il sottosegretario alla Giustizia, Cosimo Maria Ferri. "Occorre promuovere un clima emotivo, sociale e culturale in grado di scoraggiare sul nascere i comportamenti di prevaricazione, prepotenza e denuncia. Non possiamo restare inermi di fronte a un fenomeno che ogni giorno si fa sempre più grave, come dimostrano i recenti fatti di cronaca, non ultimo il suicidio di un ragazzo che non ha sopportato il peso della derisione e degli atti indegni che alcuni suoi coetanei hanno messo in campo nei suoi confronti". "La scuola - ha insistito il sottosegretario Ferri - deve configurarsi come uno dei luoghi nei quali possiamo passare al contrattacco: tra le azioni di contrasto che possono essere messe in campo c’è la progettazione di un’organizzazione scolastica che favorisca, in modo permanente, comportamenti responsabili e prosociali in tutte le sue componenti (alunni e studenti, insegnanti, personale Ata, genitori, etc.)". Da qui la necessità di "puntare sulla formazione del personale scolastico che deve costituire la leva strategica per implementare la qualità del sistema di istruzione e di formazione attraverso l’offerta di strumenti e di metodologie volti a creare una rete sociale di tutela e di ripristino dei diritti lesi". "I nostri sforzi devono inoltre concentrarsi sulla necessità di favorire la reintegrazione sociale di tutti i protagonisti dei fenomeni di aggressività: bullo, vittima, spettatori passivi, nonché predisporre rapporti collaborativi con gli altri enti e le istituzioni del territorio, con i quali la scuola deve interfacciarsi in modo efficace: le aziende sanitarie, le forze dell’ordine, l’ente locale", ha concluso. Giustizia: "L’atlante del crimine", una ricerca del sociologo Marzio Barbagli di Vladimiro Polchi La Repubblica, 21 settembre 2015 Crollano gli omicidi, ora al minimo storico, è boom di borseggi. Diminuiscono le auto rubate ma crescono le rapine. E Napoli si scopre più sicura di Torino e Milano sul fronte dei furti in casa. La ricerca del sociologo Marzio Barbagli racconta come si è evoluta la malavita in Italia negli ultimi trent’anni "Agivano per lo più di notte. Entravano in casa con i proprietari ancora a letto. Erano una banda di sei topi d’appartamento super-specializzata: sessanta colpi andati a segno in pochi mesi, A fermarne la corsa, pochi giorni fa, sono stati i carabinieri di Torino. I sei già preparavano un nuovo colpo. Sarà anche grazie a loro, se il capoluogo piemontese potrà oggi continuare a vantare il suo record: Torino è la città d’Italia con il più alto tasso di furti in appartamento. Ma non tutto è nero. Il ritratto criminale del Paese è in chiaroscuro. Basta vedere gli ultimi dati: è boom di borseggi, rapine in strada e furti in casa, ma crollano omicidi, rapine in banca e furti d’auto. E poi ci sono numeri che stupiscono: i morti ammazzati diminuiscono soprattutto durante gli anni della crisi economica e Napoli, a dispetto del senso comune, vede calare gran parte dei suoi reati. A scartabellare tra i dati ancora inediti del Viminale è una ricerca del sociologo Marzio Barbagli, che da anni maneggia le statistiche su reati e sicurezza. Ebbene, qual è lo stato di salute del nostro Paese? Partiamo dagli omicidi. Anche se nessuno ha celebrato l’evento, l’Italia ha battuto nell’ultimo anno un nuovo record: quello del più basso numero di omicidi della sua storia. Nel 2014 sono stati 468, nel 1991 erano 1.916. Un crollo che accomuna tutti i tipi di omicidio (da quelli di criminalità organizzata ai passionali), sia consumati che tentati. Durante gli anni della crisi economica la diminuzione è stata ancora maggiore: mentre nel periodo 2000-2009 la flessione è stata del 2,5% ogni anno, dal 2009 al 2014 ha raggiunto il 3,6%. "Interessante - aggiunge Barbagli - è il confronto fra l’Italia e la Grecia, un Paese che ha sofferto molto negli anni della crisi e nel quale le tensioni sociali non sono mancate. Ebbene, questi due Paesi hanno avuto nell’ultimo periodo andamenti del tasso di omicidi non solo diversi, ma opposti. Mentre in Italia sono diminuiti, ancor più che negli anni precedenti, in Grecia sono aumentati". E ancora: in base alle elaborazioni di Barbagli su dati Sdi/Ssd, a Sud il crollo del tasso di omicidi è stato ancora più rapido che a Nord. La flessione maggiore (16% annuo) è a Genova, che oggi è la più sicura fra le grandi città, seguita da Catania (14% all’anno) e Napoli (5%). "Un effetto di grande rilievo di questo mutamento - si legge nella ricerca - è che nell’ultimo quarto di secolo le differenze fra il Mezzogiorno e il Settentrione riguardo ai tassi di omicidio sono continuamente diminuite. Nel 1990, il primo aveva un tasso 5,3 volte maggiore del secondo. Oggi ne ha uno solo 1,4 volte maggiore. È un mutamento che è giusto interpretare come un grande processo di modernizzazione di un’area tradizionalmente e ingiustamente considerata statica". Sui furti, la fotografia è invece più sfocata. Alcuni continuano a diminuire. Come i furti d’auto: "Dopo essere raddoppiato in soli sette anni, dal 1984 al 1991 - scrive Barbagli - il numero delle macchine rubate ha cominciato a diminuire e ha continuato questa tendenza anche negli anni delle crisi, raggiungendo nel 2014 il livello più basso dell’ultimo trentennio (119mila)". Una spiegazione c’è: "La flessione è ricondotta alla minore remuneratività di questo tipo di furto, perché è diventato più difficile, e meno conveniente di prima, collocare le auto di piccola e media cilindrata presso uno sfasciacarrozze che ne ricavi dei pezzi di ricambio". Questo non si è verificato per altri tipi di furto, la cui frequenza (pur avendo subito una flessione nel corso degli anni 90 o nei primi otto anni del Duemila) ha ripreso a crescere nel periodo della crisi economica: i borseggi e i furti in appartamento. I primi sono passati, dal 2009 al 2014, da 113mila a 179mila, con un incremento annuo del 7,3%. L’aumento è avvenuto in tutto il Paese, ma è stato più forte nelle regioni settentrionali, nelle quali negli ultimi trent’anni la frequenza dei borseggi è sempre stata maggiore. "La crescita media annua di questo tipo di furto è stata del 4,1% a Milano, del 13,2% a Torino, del 19%a Bologna, del20%a Firenze, addirittura del 31,5% a Roma. Bologna - sottolinea Barbagli - è ritornata capitale dei borseggi (come è stata dal 1995 al 2006)". Al Nord l’eccezione è Genova, con un aumento medio annuo dell’1%. Va segnalato il caso di Napoli, dove l’incremento medio è stato solo del 2,9%. Ma quelli che più colpiscono sono i furti in casa, passati, dal 2009 al 2014, da 149mila a 255mila, con un’impennata annua eccezionale: più 13,9%. Non è un caso se il disegno di legge delega sul codice penale in discussione ora alla Camera inasprisca proprio le pene per scippi e furti in appartamento. Le città centro-settentrionali hanno visto la crescita maggiore. "Bologna ha avuto un incremento straordinario (il 24,4% medio annuo), seguita da Milano e Catania, con il 20%. Napoli è la città che ha conosciuto il minor aumento (3,2% annuo). Torino è oggi la città con il tasso più alto di furti in appartamento, seguita immediatamente da Milano e Firenze. Quella più sicura è proprio Napoli, con un tasso 6,7 volte più basso del capoluogo piemontese". Infine le rapine. La crescita del più grave dei reati contro il patrimonio è stata forte, soprattutto guardando il lungo periodo. Le rapine sono cresciute dalle 35mila del 2009 alle oltre 43mila del 2013, per scendere solo leggermente nel 2014 (40mila). Ma ogni tipo di rapina fa storia a sé. "Grazie al miglioramento dei sistemi di sicurezza, il numero dei colpi contro le banche è crollato, passando da 1.735 nel 2009 a 789 nel 2014. Anche quelli ai danni degli uffici postali sono diminuiti. Sono cresciute invece nel corso degli anni le rapine in strada e quelle in abitazione". Non solo. Mentre nel Settentrione il tasso di rapine è aumentato, nel Meridione è diminuito. Illuminanti i dati delle grandi città. Torino segna un incremento medio annuo del 4,5%, Roma del 4,8%, Firenze del 6,4%, Milano del 6,9%, Bologna addirittura del 7%. Anche in questo caso Genova fa eccezione, con un aumento annuo dell’1%. E mentre nelle città centro-settentrionali il numero delle rapine cresceva, a Napoli negli anni della crisi diminuiva. Dal 2009 al 2014 il capoluogo partenopeo ha avuto una diminuzione media annua del 5%. "Di conseguenza, pur restando ancor oggi la città con il tasso più alto di rapine - conclude Barbagli - Napoli è sempre più vicina a Milano e Torino". Giustizia: 88 casi di femminicidio da gennaio 2015, il 25% sono dovuti a "malagiustizia" Agi, 21 settembre 2015 "Da gennaio 2015 a oggi, in soli 9 mesi, le vittime del femminicidio sono già 88, con un Incremento di circa l’8% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. L’emergenza, è evidente, non ha subito alcuna battuta d’arresto". Ma, spiega l’associazione Sos Stalking, "di malagiustizia si muore più che di omicidio. Una significativa percentuale delle vittime (circa il 25%) aveva denunciato, spesso anche ripetutamente, il persecutore, prima di essere tragicamente uccisa da chi non avrebbe nemmeno dovuto più avvicinarsi. Le cronache ci hanno purtroppo abituato a episodi di quotidiana violenza, che spesso vedono coinvolte le donne. L’ultimo caso riguarda Vincenza Avino, uccisa a colpi d’arma da fuoco per strada a Napoli, dall’ex compagno più volte denunciato per stalking dalla donna. Dopo un periodo agli arresti domiciliari l’uomo è stato rimesso in libertà e a nulla è valsa la misura cautelare del divieto di avvicinamento. Ma se a fronte della denuncia il magistrato non dispone il carcere, né gli arresti domiciliari, né altre misure cautelari come il braccialetto elettronico, la tutela per le vittime è totalmente azzerata". La diretta conseguenza, sottolinea Sos Stalking, "è il calo della fiducia nella giustizia da parte delle vittime, che non sentendosi protette, denunciano meno". Secondo l’associazione, "nel 2013 i femminicidi sono stati 179, 110 nel 2014. Da gennaio 2015 a oggi, in soli 9 mesi, le vittime sono già 88. Se in Italia il quadro è piuttosto allarmante e non sembra avere una soluzione immediata, negli Usa, la misura cautelare del braccialetto elettronico è invece ampiamente utilizzata: più di 100.000 detenuti in libertà vigilata e molestatori sessuali indossano il braccialetto elettronico negli Stati Uniti a fronte di 90 unità in Italia nel 2014. Nel 2015 il numero è aumentato di poco, ma è gravemente insufficiente a fronte dell’attuale numero di detenuti in attesa di processo, che ammonta a circa 17.000. I motivi? Il braccialetto elettronico costa. I dati ufficiali dell’amministrazione penitenziaria parlano di circa 100-120 euro al giorno per ciascun braccialetto. Le casse dello Stato, quindi, hanno permesso finora di noleggiarne soltanto una manciata". Giustizia: Guardia Finanza; tutti gli illeciti funzionari pubblici, il caso degli affitti a 7 € di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 21 settembre 2015 Il rapporto della Guardia di Finanza sui primi sei mesi del 2015: un buco da oltre tre miliardi di euro su sanità, ferrovie e corsi di formazione. In appena sei mesi hanno sottratto allo Stato oltre tre miliardi di euro. Sono 4.835 dipendenti pubblici che hanno rubato o sperperato i soldi della collettività. Funzionari, medici, politici, impiegati di primo livello: tutti citati adesso in giudizio dalla Corte dei conti, chiamati a restituire il maltolto. È il rapporto della Guardia di Finanza sui danni erariali contestati tra il 1 gennaio e il 30 giugno 2015 a rivelare quanto profondo sia il "buco" nei conti causato dai lavoratori infedeli. Con un dato che fa impressione: più di un miliardo di euro è stato perso con la cattiva gestione del patrimonio immobiliare. Case concesse in affitto a prezzi stracciati, terreni mai utilizzati, edifici svenduti rappresentano la voce più consistente della relazione. Corrotti e truffatori. Sono 1.290 le segnalazioni inviate dalla magistratura ordinaria o direttamente dagli stessi finanzieri ai giudici contabili. I numeri dimostrano come nei primi sei mesi di quest’anno ci sia stata una vera e propria impennata con contestazioni pari a un miliardo e 357 milioni di euro, il 13 per cento in più di tutto il 2014. Vuol dire che aumenta il malaffare, ma anche che l’attività di controllo delle Fiamme gialle diventa più incisiva, si concentra in quei settori ritenuti maggiormente a rischio rispetto alla possibilità di un arricchimento personale. Le accuse per i dipendenti pubblici sono corruzione, concussione, truffa, ma anche turbativa d’asta, appropriazione indebita, abuso d’ufficio. Nell’elenco compare anche chi, per inerzia o incapacità ha provocato un disservizio e quindi deve essere sanzionato. Appartamenti a 7 euro. Sono migliaia gli immobili dai quali lo Stato potrebbe ricavare guadagno e invece si trasformano addirittura in un costo. Un capitolo a parte riguarda le case popolari. Da Lecce ad Aosta i finanzieri sono impegnati in indagini e verifiche per stanare i morosi e tutti i privati che versano canoni irrisori. Perché in questi casi bisogna accertare se si tratti esclusivamente di cattiva gestione o se, come è stato scoperto in Puglia, la concessione dell’immobile sia in realtà una contropartita, ad esempio per ottenere voti alle elezioni. I casi sono diversi, la somma provoca una voragine nei conti. C’è il Comune in provincia di Bolzano che non riscuote l’affitto per l’occupazione di suolo pubblico e perde 350 mila euro, ma c’è anche il direttore dell’Agenzia territoriale di Asti noto per l’accusa di aver sperperato 9 milioni di euro. È ancora in corso la verifica sulle case del Comune di Roma affittate a sette euro al mese, e quella sul patrimonio dell’Inps, ma è già finita l’indagine sul Comune di Nepi, in provincia di Viterbo, dove "reiterati episodi di "mala gestio" tramite una serie di artifizi, raggiri e ammanchi di cassa al patrimonio" avrebbero causato un danno di un milione e 200 milioni di euro". I manager della sanità. Quello della sanità si conferma un settore dove continuano sprechi e abusi, non a caso in appena sei mesi il danno contestato supera gli 800 milioni di euro. Gli investigatori delle Fiamme gialle hanno aperto 264 pratiche, 2.325 sono le persone denunciate o arrestate. Un accertamento svolto in 18 Regioni dal "Nucleo speciale spesa pubblica" della Finanza ha consentito di individuare 83 dirigenti medici che hanno provocato un danno al servizio sanitario di 6 milioni di euro. Due le contestazioni principali: "Mancato rispetto degli obblighi di esclusività delle prestazioni da parte dei dirigenti medici per aver accettato incarichi extraprofessionali non autorizzati preventivamente dall’ente di appartenenza e impiego presso altre strutture private convenzionate". All’ospedale di Gallarate, in provincia di Varese, è stato raddoppiato il valore di un appalto a una società esterna incaricata della manutenzione passando da 15 milioni e mezzo di euro a ben 36 milioni per poter - questa è l’accusa per i manager dell’azienda sanitaria - ricavare una sostanziosa "cresta". I corsi di formazione. La creatività nel settore della Pubblica amministrazione evidentemente non ha limiti. E così è diventato un caso da manuale quello del dipendente di un ente di Catanzaro che per sette anni ha percepito stipendio e pensione. Pochi giorni dopo essere stato congedato per limiti d’età e aver cominciato a incassare l’assegno dell’Inps "ha presentato domanda di riammissione in servizio presso la sua azienda confidando che le esigenze di organico gli avrebbero consentito di tornare immediatamente al proprio posto, cosa che è effettivamente accaduta". Il problema è che nessuno tra i dirigenti si è preoccupato di segnalare la nuova assunzione all’Istituto previdenziale e l’uomo ha incassato illecitamente ben 700 mila euro. Quello dei mancati controlli è uno dei problemi che emerge con evidenza nel dossier della Guardia di Finanza perché provoca danni immensi. Basti pensare a quanto accaduto in Sicilia con 47 milioni di euro sprecati tra il 2006 e il 2011 per corsi di formazione finanziati con soldi pubblici e in realtà mai svolti. La Polonia e i treni. Emblematico è il caso scoperto a Bari dove i manager delle Ferrovie Sudest hanno speso 912 mila euro per l’acquisto di 25 carrozze passeggeri, le hanno rivendute a una società polacca "incaricata di eseguire interventi di ristrutturazione per 7 milioni di euro" e qualche tempo dopo hanno deciso di riacquistarle a 22 milioni e mezzo di euro provocando un danno alla società pubblica che la Corte dei conti ha stimato in oltre 11 milioni di euro. Giustizia: riforma delle intercettazioni alla stretta finale, ma il governo cambia idea di Francesco Grignetti La Stampa, 21 settembre 2015 Niente udienza "di selezione" per decidere cosa è rilevante e cosa no. Una commissione di saggi sceglierà le nuove norme. Domani il voto finale. Sarà la settimana della verità per le intercettazioni: domani la Camera è chiamata a votare l’ultimo capitolo, forse il più controverso, della riforma del processo penale. La novità è che il governo e la maggioranza hanno cambiato idea sul meccanismo che dovrebbe impedire la pubblicazione di intercettazioni "non rilevanti". Già perché quella "udienza di selezione" alla presenza di pubblici ministeri e avvocati che per tanto tempo è stata considerata la panacea del problema, è stata affondata dalle osservazioni dei tecnici. Come ha spiegato ai suoi la presidente della commissione Giustizia, Donatella Ferranti, Pd, servirebbe piuttosto un "procedimento di selezione". E sta crescendo il consenso per il lodo Pignatone-Bruti-Lo Voi (dal nome dei procuratori di Roma, Milano e Palermo) che in un’audizione parlamentare avevano ipotizzato di diffondere in conferenze stampa le ordinanze dei gip o anche i decreti di sequestro e perquisizione dei pubblici ministeri. Se poi nell’atto fossero contenute intercettazioni inopportune, sarebbe colpa del singolo magistrato. Disse in quell’occasione Giuseppe Pignatone: "Si può riflettere se adottare lo stesso trattamento anche per la richiesta del pubblico ministero che preluda all’ordinanza del gip". E Bruti Liberati: "Occorrerebbe anche salvaguardare la parità tra testate e tra giornalisti". La novità degli ultimi giorni è che dalla legge sta per sparire il riferimento all’udienza di selezione. Si sono resi conto, di fronte alle articolate obiezioni dei magistrati (inascoltati invece sulla rigidità di imporre l’iscrizione di massa al registro degli indagati), che stavano per creare un mostro: imponendo un’udienza soltanto per esaminare le intercettazioni, si rischiava una toppa peggio del buco. La selezione tra intercettazioni rilevanti e irrilevanti, infatti, si potrebbe mai fare prima di un arresto? Una procura avrebbe dovuto chiamare l’avvocato difensore di un arrestando il giorno prima dell’arresto per esaminare tutti assieme le intercettazioni che lo riguardavano? Grottesco. Ovviamente una selezione con contraddittorio tra le parti si può fare solo a posteriori di una ordinanza. Ma se l’udienza di selezione si fa una settimana o un mese dopo un arresto, peraltro possibile già oggi, come impedire che la serie integrale delle intercettazioni, contenute negli atti a supporto, finisca ai giornalisti non appena si va davanti al Tribunale della Libertà? La delega. Il governo, fin dal primo testo del dicembre scorso, ha sempre chiesto una delega per riformare le intercettazioni. L’obiettivo dichiarato è bilanciare meglio le norme, tutelando i tre profili costituzionali coinvolti: diritto alla privacy dei cittadini, diritto di cronaca dei giornalisti, segretezza delle indagini dei magistrati. Si profila però ora una delega più vaga. E sul punto i grillini annunciano battaglia perché contrarissimi al metodo: vedono che le decisioni cruciali vengono sempre più spesso avocate dal governo ai danni del Parlamento e non ci stanno. Il ministro Andrea Orlando intende però andare avanti e anche decisamente. Subito dopo il voto della Camera annuncerà la costituzione presso il ministero di una commissione di saggi, "personalità dal profilo inattaccabile" ha detto a una delle ultime feste del Pd, per studiare tecnicamente la soluzione di questo rebus. L’idea che circola a via Arenula è di chiamare alcuni tra quelli auditi in Parlamento. Non sarebbe da meravigliarsi se Orlando chiamasse Pignatone, Bruti o Lo Voi, ma non si può escludere anche qualche colpo a sorpresa. Un nome alla Stefano Rodotà, ad esempio, che in Italia è giurista tra i più quotati sul versante della difesa della privacy. No ai farisei. I procuratori, nella loro audizione, erano stati espliciti. La situazione attuale è "farisaica": la legge vieta la pubblicazione delle ordinanze, che però sono pubbliche e nella disponibilità di decine di avvocati. I tempi del black-out sono interminabili, però a violare i divieti i giornalisti rischiano una risibile multa. Meglio distribuire le ordinanze a tutti e non se ne parli più. Segreto rafforzato, invece, sugli atti a supporto, fino all’udienza preliminare, che in genere arriva un annetto dopo un arresto. Gli avvocati, da parte loro, sottolineano un punto della riforma che per loro è fondamentale: le intercettazioni tra un legale e il suo assistito vanno cancellate. "Ne va della sacralità del diritto di difesa", dice Beniamino Migliucci, presidente dell’Unione Camere penali. Giustizia: le spese di gestione dei tribunali diventano di competenza del ministero di Antonello Cherchi Il Sole 24 Ore, 21 settembre 2015 Nei Comuni è in atto una piccola rivoluzione: dal 1° settembre le spese per la gestione e il funzionamento degli uffici giudiziari, che fino a tre settimane fa venivano sostenute dal municipio presso cui si trova il tribunale o la Corte di appello, ora diventano di competenza del ministero della Giustizia. Viene, dunque, modificato un sistema che era in piedi da più di 60 anni, da quando la legge 392 del 1941 aveva deciso che i costi degli uffici giudiziari dovessero gravare sulle casse comunali. Acqua, luce, riscaldamento, telefono, manutenzione, custodia: tutte queste spese le sosteneva il Comune, che poi chiedeva il rimborso al ministero della Giustizia. Rimborso che, però, non solo arrivava con ritardo, ma anche con importi ridimensionati rispetto alle richieste. Negli ultimi anni, la somma complessiva riconosciuta dalla Giustizia è stata di 280 milioni di euro annui. Però, per esempio, di tale cifra relativa al 2012 il ministero ha finora pagato il 21%, mentre per il 2013 ci si ferma all’11 per cento. Se si considera anche la quota del 2014 e gli otto mesi di quest’anno, i Comuni aspettano ancora dalla Giustizia circa 700 milioni. Dal 1° settembre questo meccanismo cambia radicalmente, perché a far fronte alle uscite è direttamente il ministero. Il legame tra via Arenula e i municipi non viene, però, reciso del tutto. Resta, infatti, a libro paga dei Comuni tutto il personale inquadrato nei municipi e distaccato presso gli uffici giudiziari. Si tratta di custodi, centralinisti, manutentori, addetti ai servizi di accoglienza e orientamento all’interno dei tribunali. Persone di cui il ministero della Giustizia non dispone e per le quali deve continuare a fare ricorso ai Comuni. Una convenzione firmata a fine agosto dal ministero con l’Anci indica come muoversi: gli uffici giudiziari dovranno sottoscrivere - e in diverse realtà è stato già fatto - convenzioni e accordi con i municipi per continuare ad avvalersi dei servizi finora assicurati dal personale comunale. Servizi che saranno pagati dalla Giustizia in base a quanto gli addetti costano all’amministrazione locale. Spese che non potranno, complessivamente, superare i 35 milioni di euro. Ma l’Anci ha stimato la cifra sufficiente. Nelle realtà dove le convenzioni con la Giustizia non sono state ancora firmate - precisano all’Associazione dei Comuni, che sta inviando una comunicazione in tal senso ai sindaci - gli addetti impiegati negli uffici giudiziari continueranno a svolgere il lavoro, in attesa che venga formalizzato il cambio di sistema. Giustizia: 273 Comuni "salvano" i giudici di pace, manterranno a proprie spese il servizio di Antonello Cherchi Il Sole 24 Ore, 21 settembre 2015 Il 40% delle sedi di giudice di pace soppresse dalla riorganizzazione degli uffici giudiziari partita a settembre di due anni fa continuerà a funzionare. Ci sono, infatti, 273 Comuni che si sono fatti avanti per mantenere a proprie spese i servizi dei magistrati onorari. E così le 667 sedi di giudice di pace di cui la riforma - voluta dalla legge delega 148/2011 e applicata con il decreto legislativo 156 del 2012 - aveva previsto di disfarsi, in realtà si riducono a 394. Ultimo appello - I numeri sono ancora suscettibili di aggiustamenti, perché al primo salvataggio degli uffici scattato ancora prima che la nuova geografia giudiziaria diventasse operativa - salvataggio a cui avevano fatto ricorso circa 300 enti locali, di cui 201 poi risultati avere le carte in regola - si aggiungono ora i Comuni che hanno usufruito della riapertura dei termini (introdotta dal decreto legge 192/2014, convertito nella legge 11/2015) ed entro il 30 luglio scorso hanno inviato al ministero della Giustizia la richiesta per mantenere in vita la sede del giudice di pace. A questo secondo appello hanno risposto 72 amministrazioni, di cui ben 13 nel distretto giudiziario di Catanzaro. Non è, però, detto che - così come è avvenuto in occasione della prima "sanatoria" - i richiedenti abbiano tutti i requisiti per essere accontentati. È pur vero che possono aver fatto tesoro dell’esperienza dei Comuni che avevano usufruito della prima opportunità. E anzi, tra gli enti locali che hanno risposto alla seconda chiamata possono anche esserci quelli esclusi in prima battuta. Non solo: la percentuale di "bocciature" dovrebbe essere minore, perché il ministero della Giustizia ha fornito precise indicazioni sul da farsi con una circolare diramata a maggio scorso. In quel documento viene ribadito che le spese per il funzionamento degli uffici di giudice di pace salvati dal taglio sono totalmente a carico dei Comuni, a esclusione degli stipendi dei magistrati onorari e quelle per la formazione del personale. Quest’ultimo, però, deve essere messo a disposizione dagli enti locali. La formazione dei cancellieri, funzionari, assistenti, ausiliari e operatori giudiziari dovrebbe partire nella prima settimana di ottobre e concludersi entro fine anno, così che a fine febbraio 2016 il ministero della Giustizia possa ufficializzare il nuovo elenco di sedi escluse dalla sforbiciata. Domande sotto esame - Al momento a via Arenula hanno istituito un gruppo di lavoro che ha effettuato un esame preliminare delle 72 nuove richieste, verificando se sono state spedite correttamente (era consentito anche l’invio per posta elettronica certificata) e se sono arrivate nei termini. Il passo successivo sarà la valutazione dei requisiti, per capire se per le sedi "sopravvissute" gli enti locali assicurano le condizioni logistiche e di personale per un funzionamento senza intoppi. Un impegno non facile per le amministrazioni locali, considerati i tempi di ristrettezze finanziarie. Un parziale ristoro arriverà dal fatto che le spese per la gestione degli altri uffici giudiziari dal 1° settembre sono passate dai Comuni alla Giustizia. C’è, inoltre, da considerare che ai municipi è stata riservata la possibilità di unirsi, così da dividere costi e incombenze delle sedi "salvate". In tal caso - così come in quello di enti consorziati o di comunità montane - a rispondere davanti al ministero è l’amministrazione che ha chiesto il ripristino dell’ufficio del magistrato onorario. Se la solidarietà iniziale dovesse venir meno e qualche ente dovesse tirarsi fuori dal gruppo, gli altri "partecipanti" potranno decidere di andare avanti e ripartire i costi oppure fare marcia indietro e rinunciare al desiderio di avere l’ufficio del giudice di pace sotto casa. Giustizia: riforma degli avvocati allo sprint finale di Antonello Cherchi e Bianca Lucia Mazzei Il Sole 24 Ore, 21 settembre 2015 Seppur in ritardo rispetto alla tabella di marcia, l’attuazione della legge di riforma della professione di avvocato sta andando avanti e negli ultimi mesi ha accelerato il passo. La settimana scorsa sono arrivati in Gazzetta due regolamenti ministeriali ed in itinere ce ne sono altri sette. Il delicato tema della disciplina delle società professionali, cui avrebbe dovuto essere dedicato un apposito Dlgs, è inoltre confluito nel disegno di legge sulla concorrenza attualmente all’esame della Camera dei deputati. Il punto di partenza è la legge 247/2012 (in vigore dal 2 febbraio 2013) che, oltre a dettare regole direttamente operative, prevedeva quasi trenta provvedimenti di attuazione, per la maggior parte assegnati al ministero della Giustizia e che, stando alla legge, avrebbero dovuto vedere la luce entro il 2 febbraio 2015. Altri regolamenti (fra cui la predisposizione del nuovo Codice deontologico) spettavano invece al Consiglio forense che li ha varati nel biennio 2013-2014. Tutti i tasselli del complesso mosaico della riforma forense stanno quindi, anche se con lentezza, andando al loro posto. Gli ultimi regolamenti. Come ottenere il titolo di specialista e la pubblicità delle procedure relative all’esame di Stato sono le materie disciplinate dagli ultimi due decreti ministeriali usciti in Gazzetta il 15 settembre scorso. Il regolamento che disciplina le modalità per diventare specialista entrerà in vigore il 14 novembre. Individua due percorsi alternativi: frequentazione di corsi biennali o comprovata esperienza nel settore. Le aree di specializzazione elencate dal decreto sono diciotto e vanno dal diritto dell’ambiente a quello dell’Unione europea (ma l’avvocato non può sceglierne più di due). In dirittura d’arrivo. Altri sette decreti sono in via di approvazione. Hanno infatti cominciato l’iter che prevede i pareri del Consiglio nazionale forense, del Consiglio di Stato e del Parlamento. All’esame delle Camere c’è ad esempio, uno dei provvedimenti più attesi, quello che detta i requisiti che un avvocato deve rispettare per rimanere iscritto all’Albo. L’obiettivo è la verifica dell’esercizio "effettivo, abituale e prevalente" della professione. Il testo inviato alle commissioni parlamentari individua sei condizione che, come specifica la relazione illustrativa, "devono ricorrere congiuntamente": titolarità di una partita Iva attiva (anche intestata a una società o associazione di cui il professionista fa parte); disponibilità di locali adibiti a studio professionale e di un’utenza telefonica; trattamento di almeno cinque "affari" annui (la voce comprende sia gli incarichi giudiziali che quelli stragiudiziali come consulenze e pareri), anche quando il mandato arriva da un altro professionista; possesso di un indirizzo di posta elettronica certificata; assolvimento dell’obbligo di aggiornamento professionale; polizza assicurativa. Le società fra professionisti. Fra i tasselli mancanti c’è la disciplina dell’esercizio della professione forense in forma societaria previsto dalla legge 247. L’articolo 5 rinviava, infatti, la disciplina di questa materia a un decreto legislativo che avrebbe dovuto essere varato entro il 2 agosto 2013 e fissava, di conseguenza, i principi e i criteri direttivi cui il Governo avrebbe dovuto attenersi. Questo Dlgs non ha mai visto la luce e ora il disegno di legge sulla concorrenza (attualmente all’esame della Camera dei deputati) interviene sull’argomento con l’obiettivo di "assicurare una maggiore concorrenza" e prevede quindi l’abrogazione dell’articolo 5 della legge 247. Botta e risposta. Non tutto quel che c’è scritto nei regolamenti attuativi piace al Consiglio di Stato. Tra Palazzo Spada, chiamato a esprimere il parere sui testi, e il ministero della Giustizia è un continuo botta e risposta. Si prendano, per esempio, gli ultimi due regolamenti, quello sui criteri da rispettare per rimanere iscritti all’Albo e l’altro sullo svolgimento dell’esame di Stato. In entrambi i casi i regolamenti hanno richiesto un doppio passaggio perché il del Consiglio di Stato aveva chiesto al ministero di apportare correzioni. Invece, via Arenula ha deciso di tirare dritto per la propria strada. Riguardo alla permanenza nell’Albo Palazzo Spada aveva chiesto, in linea con il Cnf, di introdurre una sorta di sanatoria, così da permettere all’avvocato in difetto dei requisiti di mettersi al passo, spiegando che il rifiuto del ministero appariva "poco convincente". Niente da fare: anche il testo arrivato in Parlamento non tiene conto di quei suggerimenti. Ancora più "accorato" l’invito sull’altro regolamento. Lì c’è una norma che impone al commissario che abbandoni l’aula della prova di non potervi rientrare, così da evitare fughe di notizie. Allo stesso tempo, però, si affida ai commissari il compito di trasferire dalla sede della Corte d’appello a un altro ufficio del distretto gli elaborati scritti. Scelte che - scrive Palazzo Spada - appaiono "poco funzionali e contraddittorie". "Non si può condividere - aggiungono i giudici - la risolutezza, certamente degna di miglior causa", con la quale il ministero ha continuato a disattendere tali indicazioni. Si tratterà di vedere se ci sarà un ripensamento nel testo da inviare alle Camere. Anche perché - avverte il Consiglio di Stato - è pur vero che il parere può essere ignorato, ma con motivazioni "oltre che giuridicamente corrette", anche "legittimamente coerenti con l’interesse generale". Il cantiere incompleto di un progetto ambizioso, di Giovanni Negri A poco a poco la professione di avvocato cambia faccia. Meno di quanto qualcuno vorrebbe, più di quanto altri si sarebbero aspettati. A fotografare la situazione c’è, tra l’altro, anche il florilegio di provvedimenti attuativi censiti in questa pagina, la cui ampiezza è certo rilevante. All’origine c’è senza dubbio il nuovo ordinamento forense approvato a fine 2012, che rappresenta un punto di riferimento indiscusso. Da lì è partita una fase attuativa tuttora non conclusa che sta però toccando una pluralità di temi. Dalla specializzazione ai requisiti per l’esercizio effettivo della professione, passando per il riordino della difesa d’ufficio, la rideterminazione dei parametri per i compensi in caso di mancato accordo tra le parti e liquidazione giudiziale, per finire alla riforma del procedimento disciplinare. Un flusso quasi ininterrotto di disposizioni che sono destinate a dispiegare pienamente i propri effetti solo nel corso del tempo. Un giudizio allora sarebbe almeno avventato, anche solo nella contabilità di quello che c’è, ed è molto, e di quello che ancora manca. I binari erano in qualche modo già tracciati dalla nuova Legge professionale, attesa da molto tempo e poi comunque meritoriamente condotta al traguardo anche tra qualche mal di pancia interno alla stessa avvocatura. Alla fine la domanda chiave non può che essere quella sull’adeguatezza delle nuove misure a delineare una figura di avvocato all’altezza di questo tempo. E la risposta non può essere troppo assertiva, perché se è vero che alcuni passi sono stati fatti, altri restano ancora da compiere. I cittadini potranno senza dubbio contare su una figura di legale più preparata, se la categoria vorrà giocare con intelligenza la carta della specializzazione, più deontologicamente inattaccabile, se funzionerà la progressiva esternalizzazione della giustizia "domestica", con un esercizio effettivo della professione, tenuto conto delle condizioni per l’iscrizione all’Albo. Nello stesso tempo, però, posizioni più avanzate sarebbero state possibili e alcuni obiettivi restano da raggiungere. Sul primo versante, le forme di esercizio della professione, oggetto del disegno di legge sulla concorrenza, in via di approvazione in Parlamento, hanno rappresentato un buon banco di prova per l’intensità innovativa della categoria. Molte (troppe) le resistenze all’ingresso dei soci di capitale, poi ammessi ma solo se minoritari, e forti i timori di snaturare in questo modo la professione, come ancora diffusa è l’ostilità nei confronti di forme di soluzione stragiudiziale delle controversie (quando non coinvolgono direttamente gli avvocati) e troppo spesso il rapporto con altre professioni, vedi i notai, appare caratterizzato più da una guerra di piccolo cabotaggio sull’assegnazione di competenze che su forme innovative di collaborazione. Tra gli obiettivi ancora da raggiungere c’è infine, per una categoria che conta quasi 250mila professionisti scritti all’Albo, la revisione del corso di laurea in giurisprudenza, più volte evocata e mai concretizzata. Giustizia: caso Aldrovandi. Il padre "10 anni senza Federico, manca piena giustizia" Adnkronos, 21 settembre 2015 "Il pensiero è sempre uno, quello di un’ingiustizia nei confronti di un ragazzino che non aveva fatto nulla di male e che una mattina ha incontrato quattro elementi che alla fine lo hanno massacrato, provocandogli 54 lesioni e spezzandogli il cuore, mentre lui gridava "aiuto, basta". Così Lino Aldrovandi, padre di Federico Aldrovandi, parla all’Adnkronos a 10 anni dal quel 25 settembre del 2005, quando il figlio 18enne, tornando a casa a Ferrara, ha subito un controllo della polizia che gli è costato la vita. A fermarlo all’alba, in via dell’Ippodromo, dove Federico camminava a piedi da solo alla volta di casa, dopo una notte passata fuori con gli amici, sono stati i poliziotti Enzo Pontani, Luca Pollastri, Paolo Forlani e Monica Segatto, tutti condannati per eccesso colposo in omicidio colposo in via definitiva, con sentenza della Cassazione nel 2012, alla pena di 3 anni e 6 mesi di reclusione, in parte coperta dall’indulto. "Le sentenze sono state molto dolci, le accetto perché bisogna - prosegue papà Lino - ma questa è una storia che non è andata fino in fondo, non credo sia stata fatta piena giustizia". Oltre all’insanabile dolore per la perdita senza ragioni di un figlio, innocente, di soli 18 anni, secondo Lino Aldrovandi i 4 quattro agenti dovrebbero essere espulsi dal corpo. Una battaglia che nel 2014 divenne una mobilitazione virale, con adesioni in tutto il mondo, sotto l’hastag "vialadivisa" ed un corteo di 5mila persone che sfilò a Ferrara. Una divisa che per papà Lino ha un valore in più rispetto ad un cittadino qualunque, visto che lui stesso la indossa, essendo un ispettore della Polizia Municipale. "In Cassazione il procuratore generale nella sua arringa definì i quattro schegge impazzite - ricorda Aldrovandi - ed io mi chiedo in quale posto di lavoro si continua a tenere una persona definita in questi termini". "Io vesto la divisa e nel mio piccolo ci credo - prosegue - ho giurato fedeltà allo Stato e penso che chi ha tolto la vita vada cacciato fuori senza se e senza ma. Io sono solo un cittadino, ma non sto zitto". Un’altra battaglia civile è legata al caso Aldrovandi, quella dell’introduzione del reato di tortura nell’ordinamento italiano. Una proposta di legge è approdata in Parlamento nel 2013, ma da allora continua ad essere rimpallata da una Camera all’altra. "Io mi auguro sempre che le persone che sono nelle istituzioni e nella politica abbiano un sobbalzo - afferma in proposito il papà di Federico - perché introdurre il reato di tortura non significa fare una legge contro le forze dell’ordine, perché nessun poliziotto vuole procurare danni ad un’altra persona". "Ma guardando il caso di Federico e i molti altri casi simili che sono sotto gli occhi di tutti, non mi pare che la Polizia venga fuori in modo perfetto" rimarca, ribandendo che "bisogna buttare fuori coloro che sono un cancro per la società". A dieci anni dalla sua uccisione, Federico sarà ricordato il 25 e 26 settembre a Ferrara con una due giorni di musica, parole e immagini, organizzata dall’associazione che porta il suo nome. Il 25 settembre alle 21 in Sala Estense si terrà il dibattito "Tra cittadino e Stato: la violenza è inevitabile"‘. Ne discuteranno il presidente della commissione diritti umani del Senato Luigi Manconi, la madre di Federico e presidente dell’Associazione Federico Aldrovandi Patrizia Moretti, il segretario nazionale dell’Associazione funzionari di Polizia Lorena La Spina ed il segretario generale del sindacato di Polizia Silp Daniele Tissone. L’incontro è organizzato dalla Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani del Senato della Repubblica. Il 26 settembre, ancora un dibattito alle 10,30 in Sala Estense a Ferrara sul tema del reato di tortura, mentre alle 18 in Piazza Municipale, ci sarà il Concerto per Federico, con ingresso ad offerta libera. Sul palco saliranno Thomas Cheval, Costa, Gasparazzo, Giorgio Canali e Rossofuoco, Strike, 99 Posse e Punkreas. Lino Aldrovandi, come ogni anno, ci sarà, insieme agli amici di Federico, alla madre Patrizia Moretti e al fratello Stefano. "La cosa più bella che mi sono sentito dire in questi anni dalle persone che parlavano con noi di Federico è stata: "Tu e Patrizia - conclude Lino - ci avete fatto amare molto di più i nostri figli". Figli ai quali rimboccare le coperte, come Lino Aldrovandi fa virtualmente ogni sera, ormai da anni, con un post pubblicato sul suo profilo Facebook. Una frase, un pensiero, a volte le strofe di una canzone, spesso accompagnati dai fotogrammi estratti da vecchi filmati Vhs. Ritratti sfocati di Federico bambino e sorridente, al quale il padre ogni sera dà così, a suo modo, la buonanotte. La cella angusta non basta (da sola) per il risarcimento di Fabio Fiorentin Il Sole 24 Ore, 21 settembre 2015 Ufficio di Sorveglianza di Siena - Sezione I civile - Ordinanza del 24 luglio 2015, n. 560. Nessuna violazione delle norme europee sulla "detenzione inumana e degradante" se la riduzione degli spazi personali al di sotto dei tre metri quadrati è controbilanciata da altre condizioni del trattamento penitenziario come numero di ore di permanenza all’aperto, disponibilità di attività sportive, culturali e ricreative. È questa la motivazione con cui il magistrato di sorveglianza dell’ufficio di Siena ha negato con l’ordinanza del 24 luglio 2015, n.560 la violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, recependo l’interpretazione più rigorosa relativa all’accertamento del danno subito per le condizioni detentive contrarie alle regole europee emersa dalle più recenti pronunce della Corte dei diritti dell’uomo. Il ricorso di natura risarcitoria, introdotto dal Dl 92/2014 con l’articolo 35-ter della legge di ordinamento penitenziario per ottemperare alla sentenza della Corte dei diritti dell’uomo dell’8 gennaio 2013 (Torreggiani contro Italia) consente al detenuto, che abbia subito un trattamento detentivo degradante e contrario al senso di umanità a causa del sovraffollamento carcerario, di adire il magistrato di sorveglianza o il giudice civile per ottenere il risarcimento del danno. La norma di matrice europea stabilisce che, il diritto al risarcimento scatta se le condizioni di detenzione violano l’articolo 3 della Convenzione, "come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo". In base a tale rinvio, la nozione di "detenzione inumana e degradante" ha assunto una connotazione flessibile, poiché dipende dall’evoluzione della giurisprudenza della Corte di Strasburgo, cui i giudici italiani sono tenuti ad adeguarsi. In tale contesto, una recente pronuncia del giudice europeo (sentenza 12 marzo 2015, ricorso Mursic/Italia n. 7334/13), superando un precedente indirizzo che riteneva sempre sussistente la violazione comunitaria in caso di accertata disponibilità di uno spazio personale inferiore a 3 metri quadrati, ha invece precisato che tale circostanza integra soltanto "a strong presumption" di sussistenza della violazione dell’articolo 3 della Convenzione: una probabilità molto alta, cioè, che tuttavia va verificata in concreto sulla base del livello minimo di gravità che il maltrattamento deve in concreto avere raggiunto per costituire violazione della Convenzione, alla luce della durata del medesimo e tenuto conto della compresenza di eventuali, ulteriori fattori che possono aver mitigato il livello inevitabile di sofferenza e umiliazione derivante dalla restrizione carceraria (ad esempio la detenzione in strutture adeguate e salubri, la disponibilità di acqua calda, di sufficiente illuminazione e ricambio dell’aria, la presenza di opportunità ricreative, culturali e lavorative etc.). La giurisprudenza italiana si è rapidamente adeguata, iniziando a ponderare il dato spaziale con gli altri elementi, indicati dalla Corte Ue, che possono aver contribuito a controbilanciare le condizioni di sovraffollamento. Il divieto di avvicinamento deve indicare dettagliatamente i luoghi dove è inibito l’accesso di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 21 settembre 2015 Corte di cassazione - Sezione VI penale - Sentenza 6 luglio 2015 n. 28666. In tema di misure cautelari, se il giudice ritiene di disporre il divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa (articolo 282-ter del Cpp) e lo modula guardando ai luoghi frequentati dalla vittima, il divieto di avvicinamento deve necessariamente indicare in maniera specifica e dettagliata i luoghi rispetto ai quali è inibito l’accesso all’indagato. Questo il principio espresso con la sentenza n. 28666 del 2015. Secondo i giudici della sesta sezione penale della Cassazione ciò è imposto, da un lato, dall’inequivoco tenore del dato normativo, che fa espresso riferimento a luoghi determinati, e, dall’altro, dall’esigenza di tipizzazione della misura, perché solo in tal modo il provvedimento cautelare assume una conformazione completa che consente il controllo delle prescrizioni funzionali al tipo di tutela che la legge intende assicurare Il caso specifico - Nella specie, la Corte ha ravvisato una eccessiva indeterminatezza del provvedimento, perché né il provvedimento impositivo, né quello successivo del tribunale del riesame, avevano ritenuto necessaria la specifica indicazione dei luoghi frequentati dalla persona offesa rispetto ai quali all’indagato era fatto divieto di avvicinarsi: per l’effetto, l’ordinanza è stata annullata con rinvio. L’esigenza di tipizzazione della misura - La Cassazione interviene sulla determinatezza della misura cautelare del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa ovvero di mantenere una determinata distanza da tali luoghi o dalla persona offesa prevista dall’articolo 282-ter del Cpp. Tale misura cautelare, introdotta, come è noto, con il decreto legge 23 febbraio 2009 n. 11, convertito dalla legge 23 aprile 2009 n. 38, si rivela particolarmente utile rispetto a quelle condotte, quali tipicamente gli atti persecutori (articolo 612-bis del Cp), le cui modalità commissive comprendono normalmente il costante pedinamento della vittima, da parte del soggetto agente, anche in luoghi nei quali questa si trovi occasionalmente, ovvero si sostanziano nell’espressione di atteggiamenti minacciosi o intimidatori, anche in assenza di contatto fisico diretto con la persona offesa e pur tuttavia dalla stessa percepibili. Secondo la Corte, il giudice, allorquando ritenga di disporre la misura di cui all’articolo 282-ter del Cpp, può modulare il divieto di avvicinamento sia guardando ai luoghi frequentati dalla vittima che prendendo, come parametro di riferimento, direttamente quest’ultima, così imponendo all’indagato di tenersi a una certa distanza dalla vittima. Anzi, i due possibili contenuti della misura ben possono convivere all’interno dello stesso provvedimento giacché si tratta pur sempre di un’unica misura con un contenuto flessibile, da declinare a seconda delle esigenze del caso concreto. Peraltro, osserva il giudice di legittimità, quando il provvedimento si riferisce alla persona offesa, e non ai luoghi a essa frequentati, non è necessario delimitare, attraverso la indicazione di luoghi ben individuati, il perimetro di operatività del divieto: in tale evenienza, la norma privilegia la libera circolazione del soggetto passivo garantendogli il compiuto svolgimento della propria vita sociale in condizioni di sicurezza, e conseguentemente l’indagato non può pretendere una analitica specificazione dei luoghi di operatività del divieto che, dunque, per esempio, non andrà confinato ai soli ambiti afferenti la sfera del lavoro e degli affetti familiari propri della persona offesa. Al contrario, quando il provvedimento faccia anche o solo riferimento ai luoghi abitualmente frequentati dalla persona offesa, il divieto di avvicinamento deve necessariamente indicare in maniera specifica e dettagliata i luoghi rispetto ai quali è inibito l’accesso all’indagato: ciò è imposto, da un lato, dall’inequivoco tenore del dato normativo, che fa espresso riferimento a luoghi determinati, e, dall’altro, dall’esigenza di tipizzazione della misura, perché solo in tal modo il provvedimento cautelare assume una conformazione completa che consente il controllo delle prescrizioni funzionali al tipo di tutela che la legge intende assicurare. L’imposizione deve rispettare la connotazione legale - In definitiva, se il provvedimento ha per contenuto il divieto di avvicinamento ai luoghi abitualmente frequentati dalla persona offesa, anche se cumulato con il divieto immediatamente collegato alla persona offesa, l’imposizione, avuto esclusivamente riguardo al primo divieto, deve rispettare la connotazione legale che lo vuole riferito a determinati luoghi, che è compito del giudice indicare a pena di una censurabile indeterminatezza. La conclusione è convincente, non potendo essere concepibile una misura cautelare che si limiti a fare riferimento genericamente a tutti i luoghi frequentati dalla vittima, giacché si tratterebbe di un provvedimento che finirebbe con l’imporre una condotta di non facere indeterminata rispetto ai luoghi, la cui individuazione finirebbe per essere di fatto rimessa alla persona offesa. Il materiale giornalistico sequestrabile solo ai fini dell’accertamento della notizia di reato di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 21 settembre 2015 Corte di cassazione - Sezione VI penale - Sentenza 10 giugno 2015 n. 24617. Il sequestro probatorio della memoria del personal computer di un giornalista che ha opposto il segreto professionale è consentito solo se sussiste l’infondatezza del segreto e la necessità dell’acquisizione risulta indispensabile per l’indagine. Ma allo stesso tempo, l’attività investigativa deve essere condotta in modo da non compromettere il diritto del giornalista alla riservatezza della corrispondenza e delle proprie fonti. Lo ha stabilito la Suprema corte con la sentenza n. 24617 depositata lo scorso 10 giugno. La norma e il potere del giudice - Il comma 3 dell’articolo 200 del Cpp riconosce al giornalista il segreto professionale limitatamente al nominativo delle persone dalle quali ha ricevuto notizie fiduciarie, con la particolarità, rispetto alle altre categorie tutelate da segreto, che il giudice può ordinare al giornalista di indicare comunque la fonte delle notizie in suo possesso laddove tali notizie siano indispensabili per le indagini e sia necessario accertare l’identità della fronte. Il mezzo della perquisizione e del sequestro - Tale diritto al segreto, con il limitato ambito in cui esso può essere escluso, si riflette anche sulle condizioni e i limiti che devono caratterizzare il mezzo della perquisizione e del sequestro. Infatti, il rispetto del principio di proporzionalità tra il segreto professionale riconosciuto al giornalista professionista a tutela della libertà di informazione e l’esigenza di assicurare l’accertamento dei fatti oggetto di indagine penale, impone che l’ordine di esibizione rivolto al giornalista ai sensi dell’articolo 256 del Cpp, e l’eventuale successivo provvedimento di sequestro probatorio, siano specificamente motivati anche quanto alla specifica individuazione della res da sottoporre a vincolo e all’assoluta necessità di apprendere la stessa ai fini dell’accertamento della notizia di reato. In definitiva, anche alla luce delle stringenti indicazioni dei principi della Cedu non può ritenersi legittimo il provvedimento che disponga l’attività di ricerca e l’eventuale sequestro di documenti per individuare la fonte del giornalista senza che sia esplicitata contestualmente la situazione particolare che, a determinate condizioni, consente di superare il diritto del giornalista alla segretezza della fonte. Reati fiscali: le presunzioni legali non costituiscono di per sé fonte di prova di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 21 settembre 2015 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 16 luglio 2015 n. 30890. In materia di reati tributari, le presunzioni legali previste dalle norme tributarie hanno valore indiziario sufficiente a integrare il fumus commissi delicti idoneo a giustificare l’applicazione di una misura cautelare reale, giacché ai fini dell’applicazione della cautela reale non occorre che il compendio indiziario si configuri come grave ai sensi dell’articolo 273 del Cpp, ma è appunto sufficiente l’esistenza del fumus in concreto. Per converso, le presunzioni legali previste dalle norme tributarie, ai fini di una pronuncia sul merito, pur potendo avere valore indiziario, non possono costituire di per sé fonte di prova della commissione del reato, assumendo esclusivamente il valore di dati di fatto, che devono essere valutati liberamente dal giudice penale unitamente a elementi di riscontro che diano certezza dell’esistenza della condotta criminosa. Questo il principio che i giudici penali della Cassazione hanno espresso con la sentenza n. 30890 del 2015. La prova del reato - Ai fini della prova del reato, quindi, il giudice può fare legittimamente ricorso agli accertamenti condotti dalla Guardia di finanza o dall’ufficio finanziario, anche ai fini della determinazione dell’ammontare dell’imposta evasa, ma a condizione che detti elementi, quando determinano presunzioni secondo la disciplina tributaria, siano assunti non con l’efficacia di certezza legale, ma come dati processuali oggetto di libera valutazione ai fini probatori, e, siccome dette presunzioni hanno il valore di un indizio, esse, per assurgere a dignità di prova, devono trovare oggettivo riscontro o in distinti elementi di prova ovvero in altre presunzioni, purché siano gravi, precise e concordanti. Brindisi: reato lieve? vai a pulire le strade. Presto convenzione tra Comune e Tribunale di Roberta Grassi Quotidiano di Puglia , 21 settembre 2015 Condanna penale? Ora si potrà "riparare il danno" arrecato alla collettività lavorando gratis per il Comune e scontare così la pena. Pulendo le strade, curando il verde. Occupandosi della vigilanza e della custodia dei beni architettonici e monumentali. La formula "alternativa" che favorisce il reinserimento sociale di chi è incappato in qualche problema con la giustizia sarà a breve una strada percorribile anche a Brindisi. La giunta comunale ha infatti dato il via all’iter che porterà alla sigla di una convenzione con il Tribunale per l’assunzione (senza contratto e senza retribuzione) di persone riconosciute colpevoli di reati per cui è prevista la sanzione del lavoro di pubblica utilità. Per il momento il numero massimo di lavoratori impiegati contemporaneamente non potrà superare le 10 unità. Si occuperanno di lavori socialmente utili, di tutela del patrimonio pubblico e ambientale. O anche di attività pertinenti alla specifica professionalità di chi ha da scontare una pena. Insomma, piuttosto che la carcerazione (nei casi più gravi), in alternativa a multe o ammende, ci si potrà rimboccare le maniche e mettersi a disposizione dei cittadini fornendo un servizio che altrimenti la pubblica amministrazione dovrebbe pagare. Lo prevede un decreto ministeriale del 26 marzo del 2001, la cui attuazione non è ancora consuetudine nelle municipalità d’Italia. Non in tutte per lo meno. Coloro per i quali è prevista la sostituzione della pena con il lavoro di pubblica utilità possono svolgere presso lo Stato, le Regioni, le Province o i Comuni o presso enti e organizzazioni di assistenza sociale o volontariato, una prestazione di lavoro che però deve essere dedicata a persone affette da malattie gravi, a portatori di handicap, malati, anziani, minori, ex detenuti o extracomunitari. O comunque compiuta nel settore della protezione civile. Tutto ciò purché l’ente abbia sottoscritto con il ministero della Giustizia o con i presidenti dei Tribunali una specifica convenzione che fissa i criteri, disciplina orari, modalità di svolgimento di lavoro e di rapporto con chi è in caricato poi di verificare che tutto fili così come stabilito. La giunta comunale di Brindisi ha ritenuto che "il lavoro di pubblica utilità vada incentivato e diffuso in quanto si ispira a una funzione rieducativa e vantaggiosa per il condannato oltre che utile per la collettività in cui viene inserito e che è opportuno avvalersi di tale istituto per il Comune di Brindisi per gli indubbi vantaggi derivanti agli imputati e alla collettività". Sarà data priorità all’impiego di lavoratori residenti a Brindisi, per ognuno dei quali "sarà stilato un apposito piano di lavoro e individuato quale referente il dirigente a cui l’attività da svolgere fa capo". L’Ente non spende un solo cent. L’ufficio di esecuzione penale esterna vigilerà su eventuale incarico del giudice di verificare che il lavoro venga effettivamente eseguito, dopo aver concordato con l’imputato le modalità di svolgimento dell’attività riparativa, tenuto conto delle sue attitudini lavorative, delle specifiche esigenze personali e familiari e dialogando in questo caso con il Comune di Brindisi. La formula è applicabile anche a coloro che beneficiano della sospensione condizionale della pena o della messa alla prova e ai detenuti ammessi al lavoro esterno, ma in quest’ultimo caso la competenza di intrattenere rapporti con la pubblica amministrazione è in capo all’istituto di pena in cui si trova recluso. Originariamente la sanzione era prevista solo nei procedimenti di competenza del giudice di pace, poi è stata estesa anche a numerosi altri casi di competenza del Tribunale ordinario e quindi "sulla carta" ritenuti più gravi. Il protocollo è stato stilato e definito. Il 10 settembre scorso la giunta lo ha approvato. Non resta che la firma. E l’avvio della "selezione". Mantova: in fuga dall’Opg Castiglione delle Stiviere, trovato ad Aosta grazie a Facebook Gazzetta di Mantova, 21 settembre 2015 È stato ritrovato ieri ad Aosta in stato confusionale, ma in salute discreta Mattia Perrone, il 22enne di Ventimiglia (Im) fuggito mercoledì 9 dall’ex Opg di Castiglione. Il ritrovamento è stato reso possibile grazie a Facebook, dove un gruppo di amici aveva creato un gruppo per aiutare le ricerche. E proprio gli amici hanno sottolineato la necessità che il giovane venga vigilato affinché non si allontani nuovamente dalla struttura. Il suo caso era anche andato in tv a "Chi l’ha visto". Verona: Casa circondariale di Montorio, una cena speciale per un lettino alla Pediatria L’Arena, 21 settembre 2015 Detenuti studenti dell’alberghiero, avvocati e imprenditori hanno collaborato per un’iniziativa benefica. Se una mano aiuta l’altra tutte insieme possono costruire una casa. O, come in questo caso, acquistare un letto per la sezione di Terapia intensiva pediatrica dell’ospedale di Borgo Trento, reparto diretto dal dottor Paolo Biban. Per questo l’altra sera, nella Casa circondariale di Montorio ognuno ha fatto la sua parte, dagli invitati ai cuochi, dagli studenti dell’Istituto alberghiero di Chievo alle imprese che hanno contribuito offrendo il vino e altri prodotti perché il ricavato della cena potesse essere non solo più consistente che in passato ma proprio perché tante mani insieme possono realizzare qualcosa di rilevante. Un centinaio gli invitati alla cena organizzata dall’Avis di Polizia penitenziaria con la collaborazione della Camera Penale Veronese, dell’Istituto Angelo Berti e, indispensabile, della direttrice della casa circondariale, Maria Bregoli. Moltissimi avvocati ma anche imprenditori, rappresentanti delle associazioni che si occupano del sociale e che collaborano attivamente affinché l’articolo 21, ovvero la possibilità di consentire ai detenuti di lavorare per un migliore reinserimento sociale, poggi su basi concrete. E che a Verona questa realtà inizi a concretizzarsi lo dimostra il numero delle cooperative che si avvalgono dell’opera di donne e uomini detenuti a Montorio. Dalla pelletteria alla sartoria, dalla panificazione alla falegnameria alla meccanica per finire con l’ultimo nato, il risciò adibito a trasporto di persone. E l’altra sera c’erano tutti, a dimostrazione che i progetti Stanno diventando realtà se ognuno fa la sua parte. Dall’antipasto al dolce, tutto è stato realizzato all’interno del carcere, pizza, pane e tortino di cioccolato e pere con mousse di zabaione da "Oltre il forno", il laboratorio che da anni produce dolci e pane (e recentemente ha aperto un punto vendita a Verona). E poi il tortino di cavolfiori e monte Veronese, il risotto al pomodoro con gamberetti, bacon e mascarpone e per finire il maialino all’aceto balsamico con verdure spadellate dagli allievi del corso di cucina diretto dai due insegnanti dell’Alberghiero, i professori Tinazzi e Massignan. E se gli invitati hanno contribuito con una somma in denaro tutto il resto è stato fratto di collaborazione. In sala gli studenti di quinta del Berti, che hanno scelto di rinunciare ad un venerdì sera tra amici per servire a tavola mentre i vini sono stati offerti da quattro cantine (Rubinelli Vaiol, Buglioni, Farina e Magosso). Il Famila di Fondo Frugose ha "fatto la spesa". Se una mano aiuta l’altra tutte insieme possono costruire una casa. In rappresentanza dell’amministrazione comunale l’assessore Anna Leso e tra gli invitati anche l’onorevole Alessia Rotta e, naturalmente, il dottor Roberto Biban. Gli ospiti istituzionali e la presenza massiccia della Camera penale scaligera ma soprattutto di chi interagisce ogni giorno con i detenuti per lavoro. Dal referente di "Riscatto", la cooperativa che esegue lavori di pelletteria sotto la direzione di Mario Gastaldin, ad Anna Fiscale, "anima" di Progetto Quid che svolge attività di sartoria artigianale, a quelli di Lavoro & futuro, la cooperativa che dal 2005 si occupa esclusivamente di promuovere il lavoro all’interno delle carceri. C’erano anche i i referenti dell’ultimo nato, il "Risciò solidale" (ideato da Clv impresa sociale, Clv Pensionati-Cisl Verona e Anteas Verona con il supporto della Fondazione Cattolica) che attualmente è a disposizione della Fondazione Oasi presieduta da Serafina Dalla Tomba. Il contributo di tutti per un progetto comune. Migranti e quote, vertici a rischio flop di Valentina Errante Il Messaggero, 21 settembre 2015 Volontarietà, prontezza o disponibilità, anziché obbligatorietà nella redistribuzione dei rifugiati. Ancora una volta il piano della Commissione Juncker fallisce. L’esame più difficile, l’ultimo, è previsto prossimi giorni, ma sembra già che l’Europa non sia in grado di superarlo. I vertici straordinari, convocati per l’emergenza immigrazione, domani e mercoledì, saranno la prova della scarsa capacità politica di un’istituzione che non trova una linea comune e rimane spaccata. Si naviga a vista, nella speranza di trovare una mediazione prima del voto finale. Ma la proposta del Consiglio, che prevedeva l’obbligo di ridistribuzione in base a parametri stabiliti, è già saltata. Eppure, domani, il vertice dei ministri degli Affari Interni dovrà trovare un accordo sulla cosiddetta "relocation" dei 120mila profughi, una misura già approvata dal parlamento, che una settimana fa ha portato soltanto a un violento scontro tra i ministri, con la netta opposizione dei Paesi di Visegrad (Ungheria, Slovenia, Repubblica Ceca e Polonia). Il giorno successivo toccherà ai capi di stato e di governo incontrarsi, il Consiglio europeo non negozia né adotta atti legislativi, ma adotta all’unanimità "conclusioni", fissando i termini entro i quali raggiungere gli accordi. E ipotizzare il consenso dei 28, adesso, sembra impossibile, quasi quanto l’ipotesi che si possa votare a maggioranza. Le trattative. Ieri a Bruxelles, il Coreper (comitato delle rappresentanze diplomatiche permanenti) è andato avanti fino a sera, ma l’attenzione era già rivolta alla riunione di oggi tra la presidenza lussemburghese di turno dell’Ue e i Paesi dell’Europa centrorientale, compatti contro il sistema di ridistribuzione dei migranti. All’incontro straordinario, annunciato dal ministro degli Esteri lussemburghese, Jean Asselborn, che sta conducendo i negoziati, parteciperanno i paesi del gruppo di Visegrad più Romania e Lettonia. Il nodo è sempre la relocation dei 120mila rifugiati da Ungheria, Grecia e Italia. La decisione più probabile è l’eliminazione dal testo finale dei criteri per il calcolo della redistribuzione, basato su pil, tasso di disoccupazione, densità della popolazione, numero di richieste di asilo, poco gradito anche ad altri paesi come la Spagna. La nuova indicazione, con cifre definite per ciascun paese, sarebbe preventivamente concordata sulla base della volontarietà della prontezza o disponibilità, anziché di obbligatorietà, come previsto dalla Commissione Juncker. Resta un nodo: i 54mila rifugiati in quota all’Ungheria, profughi che Budapest avrebbe dovuto cedere ai 27 paesi membri. Una parte dei 120mila (16mila dovrebbero partire dall’Italia e altri 36mila dalla Grecia). Ma la linea di Orban è netta: pur di non rientrare nel Piano, rifiuta anche di cedere i profughi. Sono due le ipotesi sul tavolo: la prima di dividere i 54mila tra gli altri paesi in difficoltà, la seconda, invece, che possa costituire una riserva per i futuri arrivi. Ieri, almeno altri 13 migranti (quattro bambini) sono morti al largo delle coste turche, dopo la collisione con un traghetto del gommone sul quale viaggiavano in 46 per raggiungere l’isola greca di Lesbo. Intanto, in Italia, mentre il confine con la Slovenia è ormai un sorvegliato speciale, si tenta di prevedere come agire in caso di arrivi massicci da terra. Oggi al Viminale, il numero due del dipartimento Pubblica sicurezza, Alessandro Marangoni, incontrerà i vertici della polizia di frontiera. Unione Europea: nella bozza del vertice multe da 6.500 euro per ogni profugo rifiutato di Alberto D’Argenio La Repubblica, 21 settembre 2015 Settimana decisiva sulle quote, si va verso un voto a maggioranza per superare il no dei paesi dell’Est. È la settimana decisiva per capire se l’Europa sarà in grado dimettere fine al caos rifugiati, ma ancora una volta all’appuntamento i governi arrivano spaccati. Per costringere il fronte dell’Est ad accettare la solidarietà tra partner, spunta l’ipotesi di far pagare alle capitali egoiste 6.500 euro per ogni richiedente asilo scaricato alle cure degli altri paesi dell’Unione. E mentre John Kerry annuncia che nel 2017 gli Usa ospiteranno fino a 100mila rifugiati, in Europa si va verso un voto a maggioranza che metterà nell’angolo l’ex blocco sovietico, uno shock politico inevitabile dopo le scelte sul filo della xenofobia di leader come l’ungherese Orbàn. Domani a Bruxelles si riuniscono i ministri degli interni dei Ven-totto, mercoledì toccherà ai leader. Sul tavolo la proposta della Commissione di ripartire tra tutti, dopo una prima tranche di 40mila richiedenti asilo, altri 120mila migranti arrivati in Italia, Grecia e Ungheria. Contro le quote restano Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Romania, Slovacchia e Lettonia. Scontato che questa volta, dopo il flop della scorsa settimana, si andrà al voto per mettere in minoranza i ribelli, ma per limitare i danni politici si cerca di tenere a bordo almeno Varsavia, la capitale dal peso specifico maggiore. Ieri gli ambasciatori dei Ventotto hanno lavorato fino a tardi per limare le conclusioni del Consiglio Interni. Per permettere al governo di Ewa Kopacz di rientrare salvando la faccia in piena campagna elettorale (lo spauracchio è il ritorno al potere del partito estremista di Jaroslaw Kaczyn-ski), verrà annacquata l’obbligatorietà delle quote: tutti saranno vincolati da) voto, anche a maggioranza, ma il numero di rifugiati siriani o eritrei che ogni governo dovrà accogliere non sarà più quello stabilito con criteri vincolanti dalla Commissione, ma sarà deciso dai ministri in una nota allegata alle conclusioni. Anche se le cifre ricalcheranno quelle calcolate da Bruxelles, i governi contrari potranno dire ai propri elettori di non essersi fatti imporre quote dall’Unione, bensì di averle accettate volontariamente. Inoltre il blocco dell’Est eviterà il precedente di un sistema automatico vincolante in vista della battaglia di ottobre, quando Bruxelles cercherà di rendere permanente il meccanismo delle quote per emendare il regolamento di Dublino che ad oggi lascia ogni Paese da solo nel gestire i migranti. Per evitare il fuggì fuggi registrato a luglio, con molti governi che hanno preso un numero irrisorio di rifugiati nella redistribuzione dei primi 40mila, si pensa a un sistema sanzionatorio per chi cercherà di sfilarsi. La proposta originaria di Bruxelles prevedeva che una nazione potesse esimersi in cambio di una multa pari allo 0,002 del Pil, ma l’idea non piaceva alla Germania (la Merkel non vuole permettere a nessuno di sottrarsi alla solidarietà) e a Italia e Francia, eticamente e politicamente contrarie a scambi soldi-migranti. Per venire incontro a Berlino, ieri si discuteva se sostituire l’esenzione totale con la possibilità di chiedere, dietro motivi comprovati, dì sottrarsi dal prendersi carico di un numero di richiedenti asilo fino al 30% della quota nazionale. In cambio il governo in questione dovrebbe pagare 6.500 euro a migrante rifiutato (la Polonia con 20 milioni potrebbe scaricare 3000 rifugiati). I richiedenti asilo saranno assorbiti dagli altri paesi, ai quali andranno ì soldi della "sanzione". Ieri sera questa soluzione è stata al centro della discussione, ma resta l’ostilità di molti paesi a permettere ai leader estremisti di pagare anziché salvare famiglie in fuga dall’inferno siriano. Gli ambasciatori torneranno sul punto oggi, quindi la palla passerà ai ministri. Sì discute poi cosa fare dei 54mila migranti che l’Ungheria potrebbe ricollocare tra i partner Uè ma che Orbàn, pur di opporsi alle quote, si terrà in casa. O saranno aumentate le quote in favore di Italia e Grecia (al momento 39mila e 50mila da ricollocare), oppure saranno "congelati" per essere prelevati in futuro da chi si troverà in emergenza (Slovenia, Croazia, Austria). Non è ancora chiaro a cosa porterà il summit di mercoledì. L’auspicio è che i ministri domani chiudano sulle quote per permettere ai leader di ritrovare un linguaggio comune e attutire lo strappo guardando ai punti sui quali c’è accordo. Per questo i premier parleranno di un pacchetto di assistenza alla Grecia, dove la gestione dei migranti è al collasso, e di un sostegno economico a Turchia, Giordania e Libano, che ospitano milioni di siriani. Si parlerà anche di una strategia di lungo termine sulla Siria (ieri il ministro Pinotti ha detto che sono 87 i foreign fighters collegati all’Italia). Eppure sembra difficile che i leader solidali, a partire da Mer-kel, Renzi e Hollande, non si scontrino con quelli estremisti, Orbàn in testa. Accogliere e integrare, la visione di Papa Francesco di Andrea Riccardi Corriere della Sera, 21 settembre 2015 La questione dei rifugiati scuote l’Europa. Ed anche i cattolici che, negli anni scorsi, hanno molto parlato del continente, ma oggi hanno idee meno chiare: non sono concordi sulla questione dei rifugiati. Francesco però ha superato incertezze e mediazioni con un "appello al popolo" nell’Angelus del 6 settembre: "Ogni parrocchia, ogni comunità religiosa, ogni monastero, ogni santuario d’Europa ospiti una famiglia". Non ha usato la mediazione delle conferenze episcopali o altro per invitare all’accoglienza. Ha espresso la sua visione sulle chiusure: "la famiglia chiusa, il gruppo chiuso, la parrocchia chiusa, la patria chiusa; questo non è Dio, è il nostro peccato". Non è un’esortazione, ma una ferma convinzione: non c’è futuro per l’Europa nella chiusura. Infatti l’invito del Papa non è a una carità occasionale legata all’emergenza. Bergoglio, figlio di emigrati, viene dall’Argentina la cui identità si è creata integrando varie migrazioni. Sa bene che accogliere flussi ormai permanenti di gente dal Sud vuol dire realizzare una società capace di sintesi etnica. Per questo ha parlato alle comunità, chiedendo a ognuna di accogliere i profughi: non integrano le strutture, ma le comunità. L’idea di Europa del Papa è un continente dalle società aperte. Lo confortano le energie di solidarietà emerse dall’impatto con i rifugiati. Non mancano in Occidente resistenze. La Germania, con la cancelliera Merkel (sostenuta da cattolici e evangelici), ha dato un forte segnale. L’Austria (sulla cui secolarizzazione tanto si è parlato) ha mostrato grande slancio nell’accoglienza. IL problema viene dall’Est europeo. Qui il discorso del Papa non è troppo sentito. Se non fosse stato chiaro, le resistenze "cattoliche sarebbero state molte. In Ungheria, la Chiesa si è trovata a confronto con la politica del muro di Orbàn e con tanti rifugiati. Imbarazzo e prudenza hanno in genere caratterizzato il mondo ecclesiastico. Non mancano le critiche a Francesco, come dal vescovo di Szeged che, sul Washington Post (poi da lui negato), ha detto che il Papa non capisce l’Ungheria e che i rifugiati sono immigrati economici. In realtà la Chiesa ungherese è piuttosto timida verso la linea dura del governo. Spesso si esalta l’Ungheria, baluardo europeo verso i musulmani, come ai tempi degli ottomani. Il mondo dell’Est ha un’idea di nazione, marcata dal carattere etnico. La religione cementa l’identità nazionale alla luce dell’antico binomio di religione e nazione, come ha ricordato Roberto Morozzo. La Chiesa, in Polonia o Lituania, ha svolto la funzione di "madre" della nazione, altrove di riferimento tradizionale. In Polonia, l’episcopato ha invitato ad aprirsi ai rifugiati, ma emergono cautele. Il vescovo Kupny, alla guida degli affari sociali, concorda sull’invito, ma osserva che i rifugiati cristiani starebbero meglio nel Paese rispetto ai musulmani. Il 56% dei polacchi interrogati preferisce immigrati ucraini, armeni o bielorussi. I Paesi dell’Europa orientale temono l’islamizzazione, ricordando la storia antica, paventando una modifica della prevalenza demografica cristiana. Su questo rischio, concorda pure una parte dei vescovi mediorientali, ricordando che la maggioranza dei profughi siriani è musulmana. Ma recentemente, su Avvenire, Marco Tarquinio, ha lucidamente ridiscusso la tesi di chi fa distinzione religiosa o etnica tra rifugiati. Questa sembra la visione del Papa. Con l’appello al popolo, Francesco ha forzato le incertezze e mediazioni episcopali. Del resto, anche in Occidente, la recezione all’invito papale (in favore dei rifugiati) ha fatto talvolta emergere alcune cautele per evitare accoglienze troppo spontanee, mentre si è tentato di centralizzare il processo attraverso l’inquadramento nelle istituzioni. Francesco, che pure ha il senso dell’istituzione, punta soprattutto a una mobilitazione di popolo e a un cambio di mentalità, non solo a un coinvolgimento istituzionale. Vuole che la sua Chiesa rappresenti in Europa un cristianesimo che non ha paura e si chiude, anzi che sia un attore di apertura e integrazione. Così non solo crede di rispondere al bisogno dei rifugiati, ma anche di aiutare a realizzare un’Europa diversa, aperta al futuro. Senza una politica comune si spiana la strada ai populismi di Grzegorz Schetyna (Ministro degli Affari esteri polacco) Corriere della Sera, 21 settembre 2015 Mentre da qualche settimana discutiamo animatamente sulla ripartizione dei 120 mila migranti tra gli Stati membri dell’Unione, l’ondata dei migranti continua a crescere. Dall’inizio di quest’anno in Europa è arrivato quasi mezzo milione di profughi (secondo i dati del Commissariato dell’Onu per i Rifugiati) e ogni giorno il numero degli arrivi aumenta. Lo vediamo tutti i giorni sui nostri teleschermi. Ogni Paese interessato direttamente dal problema cerca di far fronte in maniera autonoma a questa ondata crescente, ma la sfida è talmente grande che non è possibile cavarsela da soli. Se non metteremo in atto - come Europa Unita - azioni coraggiose basate sulla solidarietà e se non garantiremo la sicurezza dei nostri cittadini, la crisi sarà destinata ad aggravarsi. La Polonia non è contraria ad accogliere gli immigrati. Tutt’altro. A luglio, quando l’emergenza dell’immigrazione non aveva ancora raggiunto i livelli attuali, abbiamo dichiarato spontaneamente la disponibilità ad accogliere 2 mila profughi provenienti dalla Siria e dall’Eritrea. Nel corso degli ultimi 20 anni attraverso il nostro Paese sono passati circa 90 mila profughi dalla Cecenia, essendo la Polonia il primo Paese sicuro sulla loro rotta. Eravamo solidali nei loro confronti, perché anche noi, quando il nostro Paese era in balìa delle guerre o delle repressioni, tante volte avevamo cercato aiuti dall’estero. Allo stesso modo, siamo solidali con alcune centinaia di migliaia di immigrati dall’Ucraina i quali, naturalmente, cercano nel nostro Paese non solo la fuga dalla guerra, ma anche la speranza di una vita migliore. Rimarremo solidali anche nei confronti dei altri nuovi arrivi a seconda dello sviluppo della situazione. Consideriamo il dibattito sulle quote solamente una mezza misura. Innanzitutto, per non aggravare il caos ed evitare la chiusura delle frontiere e i violenti scontri sui confini, bisogne semplicemente renderle maggiormente impermeabili. Anche i Paesi che finora avevano dichiarato la loro piena apertura hanno ben presto dovuto riconoscere che il problema en superiore alle loro possibilità È per questo che dobbiamo collaborare in maniera migliore e più efficace con i Paesi vicini dell’Ue. È necessario esigere che essi rispettino gli accordi sull’estradizione, effettuino accurati controlli alle frontiere proteggano le frontiere. Pe questo dovremmo sostenere il maniera significativa i loro servizi e infrastrutture di frontiera. Bisogna assolutamente investire nella creazione di centri di accoglienza per i rifugiati dove essi possano essere identificati e controllati dal punto di vista della sicurezza e dove sia possibile distinguere i profughi dai migranti economici. A tale scopo sarà utile creare in tempi brevi un elenco comune di Paesi cosiddetti sicuri che definisca dei criteri netti. Buona parte di queste proposte è contenuta nell’ultimo proclama del capo della Commissione europea Jean-Claude Juncker, ma è necessario agire subito e con efficacia. Frontex, l’agenzia dell’Unione Europea per la protezione delle frontiere con sede a Varsavia, dovrebbe inoltre ottenere sostegni ed essere più presente laddove la situazione è critica. Un’altra questione è l’azione volta alla stabilizzazione dei Paesi dai quali i profughi fuggono. Mi riferisco non soltanto agli aiuti umanitari o al sostegno allo sviluppo, ma anche a un maggiore sforzo per risolvere i conflitti, soprattutto in Siria o in Libia. È un compito eccezionale per il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk e per l’Alto rappresentante per gli Affari esteri e la politica di sicurezza Federica Mogherini. Dall’inizio dell’attività dello Stato Islamico e del conflitto in Ucraina si è cominciato a parlare di un "arco di instabilità" nell’area di frontiera Sudest europea. Oggi, insieme all’arrivo dell’ondata incontrollata dei profughi, i focolai di questa instabilità sono entrati nel nostro territorio cogliendoci di sorpresa. Dobbiamo prima possibile rimediare a questo errore. Se non lo facciamo potrebbero esserci conseguenze imprevedibili. E non si tratta affatto dei soli profughi, bensì delle conseguenze politiche, economiche e soprattutto sociali del loro arrivo incontrollato. In ogni Paese dell’Unione ci sono delle forze più o meno seguite che cavalcano populismo, antagonismo e fobie sociali. La mancanza di idee efficaci e coraggiose e l’assenza di decisione oggi spiana loro la strada per la presa del potere domani. Qualche giorno fa il mio collega tedesco Frank Walter Steinmeier ha espresso il pensiero secondo cui sono la Polonia e la Germania che devono collaborare per la politica migratoria dell’Ue. Ci sono buone ragioni perché i nostri Paesi e i nostri popoli - oltre a potenziale e grandezza - abbiano potuto dimostrare in maniera esemplare negli ultimi decenni come passare dalle ostilità alla riconciliazione, alla collaborazione e ai rapporti di buon vicinato. Non possiamo permettere che la crisi migratoria divida le nazioni europee e le renda antagoniste. Cerchiamo di pensare in termini di solidarietà e comunione piuttosto che in termini di ripartizione di quote che quasi sicuramente oggi non sono più sufficienti. E soprattutto facciamo in modo di attuare interventi immediati ed efficaci che risolvano realmente la crisi e non la acuiscano rimandandola nel tempo. Ventimiglia: "foglio di via" per chi aiuta i migranti, la clamorosa iniziativa della polizia di Giulia Destefanis La Repubblica, 21 settembre 2015 Tra le storie che arrivano dal confine di Ventimiglia, quelle dei migranti ancora accampati reclamando l’apertura delle frontiere, e quelle degli attivisti giunti per sostenerli, c’è la storia di Pasquale. Lui, il contadino della vicina Dolceacqua, che si era precipitato sugli scogli sin dai primi giorni della protesta, a giugno, con il suo marchingegno ad energia solare che ha ricaricato i telefonini di centinaia di migranti. Tutti in fila per ore, aspettando il loro turno: "Ma non lo usavano solo loro, la sera arrivavano anche i poliziotti con i cellulari", mette i puntini sulle "i", Pasquale. Lui, portando energia (elettrica e non solo) all’accampamento, era diventato una colonna della protesta. Fin quando un documento della Questura gli ha vietato di mettere piede a Ventimiglia. E non è l’unico ad averlo ricevuto: "Sono i provvedimenti con cui stanno decimando il nostro movimento, sperando di fermarci", spiega il giovane Lorenzo, una delle anime del presidio nato al confine in sostegno dei profughi. Il campo "No Borders", autogestito da attivisti e migranti stessi, un’occupazione di suolo pubblico contestata "ma necessaria alla lotta politica sulla frontiera". Ebbene: "Pasquale, che per il campo ha fatto tanto, ha costruito anche bagni e docce, è stato una delle vittime di quei provvedimenti che colpiscono sempre più attivisti italiani - continua Lorenzo - Per ora abbiamo ricevuto 20 denunce per occupazione abusiva di suolo pubblico o manifestazione non autorizzata, e 8 fogli di via". Ovvero atti amministrativi - simili al Daspo dato agli ultras perché non si avvicinino alle manifestazioni sportive - che accompagnano la denuncia, e vietano di permanere in città per 3 anni. Se violato, il reato diventa penale e si apre un ulteriore procedimento. Tutto perché i destinatari dell’atto sono considerati "socialmente pericolosi": la decisione viene presa "ritenuto che in quel Comune non vi ha residenza né alcuna regolare occupazione lavorativa - si legge nelle motivazioni del foglio di via che ha colpito anche Pasquale - e che si reca allo scopo di reiterare quei reati che creano allarme sociale, nonché valutata l’urgente necessità di allontanare (il soggetto) dal Comune di Ventimiglia in quanto si ha fondato motivo di reputarlo elemento pericoloso per l’ordine e la sicurezza pubblica". L’allontanamento è, di fatto, un tentativo da parte delle istituzioni di allentare le maglie della protesta evitando lo sgombero del campo, che farebbe esplodere la polveriera di confine. Che è sempre più scomoda, tanto che il sindaco di Ventimiglia Enrico Ioculano continua a chiedere alle forze dell’ordine di intervenire. E l’altra sera, durante l’ultima manifestazione con slogan e un temporaneo blocco della carreggiata davanti alla frontiera, la polizia italiana ha reagito a colpi di scudi e manganelli. Ma quel provvedimento, che ha costretto a tornare a casa tanti ragazzi di fuori, colpisce più nel profondo Pasquale, "e non solo per la passione che mettevo nell’aiuto ai migranti al campo - racconta - ma perché questa è casa mia, abito a 7 chilometri da Ventimiglia e ci passavo spesso, per andare a fare compere, o all’ufficio di collocamento, perché vivo di lavoretti in città. Se ho commesso dei reati sono pronto a pagare, ma questa limitazione è eccessiva, non sono mica Totò Riina". E poi torna a pensare con orgoglio alla sua esperienza. "So fare un po’ di tutto e dopo il pannello solare per ricaricare i cellulari mi sono messo a costruire docce, bagni e montare rubinetti dove i ragazzi possono lavarsi dopo le preghiere, come prevede il loro rito". Tubi e allaccio all’acqua pubblica c’erano, loro se ne sono serviti. "Tutto funzionale, ci sono i servizi per gli uomini e quelli per le donne". E ora? "Intanto mi oppongo a questo provvedimento, facendo ricorso alla Prefettura. Nel frattempo ho comunicato alla polizia che in qualche modo devo infrangere il divieto, per Ventimiglia passo almeno due volte al giorno per andare in Francia dove ho trovato un lavoro come giardiniere. Già ho perso tutti i lavori in città e sto guadagnando molto meno". Pasquale "ci manca - concludono Lorenzo e gli altri del presidio. Se temiamo che le forze dell’ordine taglino le gambe alla protesta? D’ora in poi cercheremo di rischiare meno. Ma quello che rischiamo noi è comunque nulla rispetto a quanto hanno passato i migranti". Stefano Rodotà: "la fame nel mondo, un’eredità maledetta" di Gabriele Bassanetti Gazzetta di Modena, 21 settembre 2015 "Inammissibile che l’umanità non sia ancora riuscita a debellarla. Anzi ora torna anche nelle zone ricche". Fame, diritto al cibo, dignità. Stefano Rodotà, ospite ieri pomeriggio in piazza Garibaldi a Sassuolo, ha creato con una serie di precisi riferimenti un legame diretto fra la fame atavica ed ereditaria dell’uomo, la sua condizione di dignità come persona e la situazione odierna, in cui molti aspetti di questa dignità vengono calpestati. La conclusione è proprio che "solo un paese che riconosce il diritto al cibo può dirsi realmente civile e democratico". Diritto al cibo che, se sembra affermazione scontata, non lo è affatto. "La parola cibo è spesso associata a fame. La fame atavica è quella che ricorda chi l’ha patita in passato ed è la drammatica eredità di intere società. Ma è proprio legandola alla parola eredità, tema del festival, che la parola fame mantiene soltanto le sue accezioni negative. Tre miliardi di persone al mondo in condizioni che vanno dalla malnutrizione alla fame senza speranza consentono di parlare a ragion veduta di maledizione ereditaria". Il "diritto al cibo" non è nemmeno oggi una condizione riconosciuta. Ma si tratta proprio di un’invenzione piuttosto recente, come ha spiegato Rodotà: "Se partiamo dalle opere di carità del Vangelo, dare da bere agli assetati e da mangiare agli affamati, siamo nell’ambito delle diseguaglianze, cogliamo il dovere di chi è nato con il dono della ricchezza di farsi carico della povertà di chi non ha avuto questo dono. Ma siamo nell’ambito della benevolenza e della carità. La rottura vera avviene con "Lo spirito delle leggi" di Montesquieu nel 1748. È qui che per la prima volta viene incluso fra gli obblighi dello stato quello di garantire il cibo, il vestire e una vita che metta la persona al riparo dalle malattie. E qui che nasce l’idea di dignità della persona. E il riferimento a un’esistenza libera e dignitosa è ancora più chiaro nell’articolo 36 della nostra Costituzione dedicato al lavoro e alla sua adeguata retribuzione". Ma ancora nell’era moderna il diritto al cibo è prima sfumato e solo dopo diventa evidente. "Nella dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 non è ancora esplicitato. Prima ci si è riferiti alla lotta alla fame nel mondo, nobile obiettivo che ha portato però anche distorsioni e abusi: corruzione, uso di alimenti impropri in comunità che non li potevano consumare, invio di beni scaduti. Facciamo ancora riferimento alla dignità della persona e in questo caso all’ereditarietà delle sue tradizioni e delle sue credenze. In nessun caso il bisogno di nutrimento ad ogni costo può azzerare questo tipo di caratteristica della persona, nelle scuole come nelle carceri le credenze e le limitazioni al consumo di certi cibi devono essere rispettate. Solo di recente arriviamo al diritto al cibo chiaramente esplicitato, che diventa punto essenziale della vita privata e pubblica di una persona". E oggi qual è la condizione in relazione al diritto al cibo, in Italia e nel mondo? "Da un lato dobbiamo ancora uscire dalla contraddizione del cibo ad ogni costo. Non dovremmo e non dobbiamo accettare che sulle nostre tavole arrivino alimenti che sono stati prodotti tramite la schiavitù di altre persone. Sappiamo del caporalato e dello sfruttamento ma mettiamo lo stesso quel cibo in tavola, venendo ancora una volta meno al legame diretto fra il cibo, i diritti e la dignità personale. Dall’altro ci troviamo a combattere con la sovranità sempre più insistente del mercato: dobbiamo porci il problema di fondo se la voce cibo, come altre che possono essere l’acqua ma anche la conoscenza tramite la rete, tutte necessarie per formare una persona compiuta e con diritti, possano rientrare nelle logiche di mercato o debbano essere considerate beni primari. Vediamo i casi limite come quelli delle multinazionali che creano sementi sterili, negando l’eredità del ciclo naturale e piegando la nutrizione alla potenza del mercato. Alla fine la parola chiave è la dignità, aspetto legato a doppio filo col diritto al cibo". Linea dura del Papa contro la pedofilia: commissioni, nuove norme ed espulsioni di Carlo Tecce Il Fatto Quotidiano, 21 settembre 2015 Monsignor John Clayton Nienstedt, titolare della diocesi di Saint Paul e Minneapolis, è l’ultimo arcivescovo che ha lasciato l’incarico perché incapace di proteggere i bambini da un sacerdote accusato di pedofilia e poi condannato. Il nome di Nienstedt s’inserisce in un lungo elenco degli errori e degli orrori. Il Vaticano teme che l’elenco sarà presto aggiornato. Papa Francesco ha più volte dichiarato che non esiste una "ragion di Chiesa": il colpevole va punito, e pure chi non l’ha fermato. A giugno, Jorge Mario Bergoglio ha introdotto il reato di abuso d’ufficio per i vescovi che insabbiano le inchieste sui pedofili. E ha approvato una procedura che consente a tre congregazioni vaticane (che sono strutture di governo) di raccogliere le denunce. Per accorciare i tempi fra l’indagine e la sanzione, Francesco ha ordinato la costituzione di una nuova sezione giudiziaria interna. Così s’è compiuta la strategia di Bergoglio, che già lo scorso dicembre ha presentato la Commissione per la tutela dei minori formata da 17 membri, otto donne, nove uomini: dieci laici in totale, incluse due vittime di sacerdoti pedofili. Gli effetti del repulisti di Francesco appaiono immediati. Oltre al monsignore di Detroit, il pontefice argentino ha rimosso gli arcivescovi Robert William Finn (Kansas City), Rivera Plana (Paraguay) e agevolato le istruttorie in Vaticano su diversi prelati australiani. Accusa in comune: insabbiamento. Quest’opera di pulizia di Bergoglio è efficace e rigogliosa perché ha radici profonde, seppur spesso sottovalutate, che risalgono all’epoca di Joseph Ratzinger. Il Conclave ha eletto Bergoglio il 13 marzo del 2013. Il tema pedofilia era in cima agli interventi urgenti dei cardinali, e se n’era discusso parecchio durante le riunioni informali che precedono le riflessioni nella Cappella Sistina sotto gli affreschi di Michelangelo. Neanche un mese dopo l’elezione, Bergoglio ha incontrato il porporato tedesco Gerhard Ludwig Muller, prefetto della Congregazione per la dottrina della fede. Proprio in piazza del Sant’Uffizio, il teologo Ratzinger ha trascorso ventiquattro anni. Francesco ha riferito a Muller: "Confermo la linea voluta da Benedetto XVI, si agisca con decisione contro gli abusi sessuali". Ratzinger ha dissodato il terreno, poi è toccato a Bergoglio. Per decenni, la Chiesa ha coperto prelati coinvolti negli scandali di pedofilia. Ma con il clamoroso arresto e la riduzione allo stato laicale di monsignor Jozef Wesolowski (scomparso qualche settimana fa), l’ex nunzio che adescava minorenni a Santo Domingo, s’è compresa meglio l’intenzione di Bergoglio: soltanto scovando il marcio dentro la Chiesa - senza silenziare i media - la stessa Chiesa potrà diventare pulita. E un ruolo di primaria importanza lo svolgono i vescovi. Bergoglio ha anche scritto una lettera a tutti i presidenti delle conferenze episcopali, a tutti i superiori degli ordini religiosi proprio per incentivare il controllo nelle diocesi e per "sanare la piaga degli abusi". Francesco è il pontefice che ha chiesto perdono per gli abusi sessuali commessi dal clero. Un perdono difficile da ottenere: "Sono cicatrici che restano per tutta la vita". Guatemala: due anni in carcere da innocente, nostro figlio Samuele rischia di morire di Daniele De Salvo Il Giorno, 21 settembre 2015 Sos dei genitori di Samuele Corbetta, condannato in Guatemala. Di prove non ce ne sono, c’è solo il racconto della sua accusatrice, un’alunna delle elementari, e di sua madre che già in passato aveva tentato di inguaiare altre persone per lo stesso motivo. Eppure Samuele Corbetta, cooperante di 34 anni di Sirtori in Guatemala, è stato condannato a otto anni di carcere per l’infamante reato di abusi su una minore e già da due anni sta scontando la pena in una prigione del posto. I medici che hanno stilato i referti sulla presunta vittima hanno escluso tale eventualità, come molti testimoni. I giudici tuttavia non ne hanno tenuto conto. Che il processo sia stato una farsa e che presenti molte irregolarità lo hanno riconosciuto anche i magistrati della Suprema corte, che hanno accolto il ricorso presentato dai legali del brianzolo, il quale tuttavia da otto mesi attende che si pronuncino, quando normalmente impiegano otto giorno per esprimersi. Fortunatamente per ora si trova in una struttura protetta una cella due metri per due, con un corridoio e un piccolo giardino, dove può lavorare per mantenersi perché per il cibo, i vestiti e tutte le altre necessità deve arrangiarsi da solo. Il rischio tuttavia è che possa essere trasferito in un penitenziario normale. "Lì non durerebbe a lungo, gli farebbero certamente la pelle - raccontano disperati e terrorizzati papà Roberto di 64 anni e mamma Emiliana di 62, che appena possono fanno la spola per andarlo a trovare, nonostante i costi del viaggio -. Bisogna assolutamente riportarlo a casa". L’ambasciatore italiano Fabrizio Pignatelli si sta adoperando per trovare una soluzione, come i funzionari della Farnesina, ma la mancanza di accordi bilaterali complica il tutto. Anche l’allora ministro degli Esteri Emma Bonino si era occupata del caso, ma la situazione è ancora lontana dallo sbloccarsi. "Sappiamo che la situazione è complicata ma chiediamo uno sforzo - implorano i genitori -. Sono stati salvati tanti ostaggi e sono stati rimpatriati tanti detenuti italiani all’estero, perché lui no? Per noi è un incubo, non dormiamo più, non viviamo più, vogliamo solo che venga portato via da lì". Le porte dell’inferno per Samuele Corbetta si sono spalancate nell’estate 2012, quando una bambina di una scuola di San Lucas - un centro di 17mila abitanti nell’entroterra del Paese centroamericano - dove il brianzolo si era trasferito nel 2005 per operare gratuitamente come volontario per una congregazione religiosa, lo ha accusato di violenza. Lui era talmente convinto di uscirne pulito che ha deciso di restare in Guatemala, in quella che considerava la sua nuova patria. Invece, il 4 luglio 2013 è stato emesso il verdetto di colpevolezza. "Per noi è finito in un gioco più grande di lui per questioni che non lo riguardano, le prove a discarico sono state volutamente ignorate", spiegano i genitori mostrando il voluminoso incartamento con le trascrizioni delle varie udienze. Ma a loro ormai non interessa nemmeno più che venga proclamato innocente, passerebbe comunque troppo tempo tra altri appelli e ricorsi: "Vogliamo solo che qualcuno lo riporti da noi, in fretta, sano e salvo, prima che sia troppo tardi". Samuele da parte sua cerca di rincuorarli: "Me la cavo, non vi preoccupate, vedrete che andrà tutto bene", li rassicura ogni volta che scrive o li sente al telefono. Ma anche lui, un inguaribile ottimista che pure dietro le sbarre si adopera per aiutare gli altri, comincia ad avere dubbi e spera di rientrare dal Guatemala, per il quale ha lasciato tutto, casa, familiari, amici, affetti, un lavoro sicuro e che si è trasformato nel suo incubo quotidiano a occhi aperti. Israele: linea dura del governo Netanyahu "la polizia sparerà a chi lancia sassi o molotov" Il Messaggero, 21 settembre 2015 In certi casi e condizioni, al tiro di sassi e molotov la polizia israeliana a Gerusalemme risponderà aprendo il fuoco. Dopo giorni di scontri violenti sulla Spianata delle Moschee e il tiro continuo delle ultime settimane di sassi e bombe incendiarie nei sobborghi arabi della città e in Cisgiordania, il governo del premier Netanyahu ha approvato le misure che lo stesso primo ministro aveva già annunciato. "Le pietre e le bottiglie incendiarie - ha spiegato - sono armi letali: possono uccidere e hanno già ucciso. Per cui negli ultimi giorni abbiamo cambiato gli ordini di apertura del fuoco per gli agenti impegnati a Gerusalemme". Una mossa subito contestata dall’Ong araba, Adalah, che ha definito "illegali" le misure, denunciate già duramente dalla dirigenza palestinese nei giorni passati. Ma i passi intrapresi dal governo non si fermano qui: Netanyahu ha detto che sarà accelerata la legislazione "per imporre multe ai parenti dei minori che tirano pietre e bombe incendiarie". Così come una legge che stabilisce "un minimo di pena" per gli autori dei lanci: i media riferiscono di 4-5 anni di carcere per i tiri dei sassi e di 10 anni per le bottiglie incendiarie. Giudici contrari. Il procuratore generale Yehuda Weinstein non sembra però - secondo quanto riporta Ynet - condividere la linea complessiva di Netanyahu: le leggi attuali così come le regole di ingaggio della polizia sono sufficienti. Un braccio di fer ro che dovrebbe essere sciolto nei prossimi giorni. Netanyahu ha poi rigettato l’accusa politica - avanzata dal mondo arabo e da Ramallah - che Israele voglia cambiare lo status quo sulla Spianata delle Moschee; anzi - ha detto - "è vincolato al suo mantenimento". Sulle tensioni sulla Spianata ha fatto eco da Amman il re Abdallah che ieri ha incontrato una delegazione di deputati arabi della Knesset. "Lo dirò una volta sola e per tutte - ha sottolineato, citato da Haaretz - non c’è partnership né divisione: Al-Aqsa è un luogo musulmano di culto. Cosa vuole Netanyahu con queste azioni - ha continuato secondo la stessa fonte. Provocare una rottura?". Poi ha annunciato che sulla Spianata avrà un incontro in sede di Assemblea generale dell’Onu con il presidente palestinese Abu Mazen e quello egiziano Abdel- Fattah al-Sisi. La delegazione dei parlamentari arabi della Knesset dalla Giordania proseguirà per Istanbul dove, sullo stesso dossier, dovrebbe incontrare il presidente turco Recep Tayyep Erdogan. Afghanistan: soldati Usa obbligati a ignorare gli stupri su minori da parte dei poliziotti Corriere della Sera, 21 settembre 2015 Il New York Times rivela: casi segnalati ma nessuna punizione contro agenti locali. Il racconto di un militare: "Durante la notte li sentivamo gridare, ma non potevano far nulla. Non ci era permesso". Soldati Usa di stanza in Afghanistan sono stati testimoni di diversi episodi di violenza sessuale nei confronti di bambini da parte di poliziotti locali, ma sono stati istruiti a ignorare l’accaduto. È quanto emerge da un’inchiesta del New York Times che si base sul racconto, agghiacciante, di diversi ex militari e delle loro deposizioni. Uno di questi, il caporale Gregory Buckley, ucciso alla base militare Usa nel 2012, raccontò al padre di aver sentito in più occasioni i poliziotti afghani abusare sessualmente i bambini portati alla base. "Durante la notte li sentivamo gridare, ma non potevano far nulla. Non ci era permesso", disse al padre il quale lo esortò a dirlo ai suoi superiori. "Mio figlio lo fece, ma loro risposero di volgere lo sguardo dall’altra parte perché faceva parte della cultura locale". Gli stupri di bambini sono una piaga dilagante in Afghanistan, in particolare tra i comandanti militari che dominano le zone rurali e possono opprimere la popolazione, fa notare il Nyt. La pratica viene chiamata "bacha bazi" (letteralmente "gioco su bambini": secondo il Nyt i bambini fino a nove anni vengono vestiti da bambine e costretti a danzare per uomini che poi abusano di loro e li tengono come schiavi sessuali. Una pratica diffusa in tutto il paese, ma apertamente praticata nella città di Kandahar) e i soldati e marine americani sono stati istruiti a non intervenire, in alcuni casi neanche quando gli alleati afghani abusavano dei ragazzini nelle basi militari. Gli abusi sono proseguiti anche mentre le forze americane reclutavano i soldati afghani per addestrarli a combattere contro i talebani. Ma i soldati e i marine sono stati turbati dall’impossibilità di denunciare i pedofili mentre in alcuni casi li armavano e li piazzavano a capo di villaggi. "Il motivo per cui eravamo lì era per le terribile cose che sapevamo i talebani facevano contro la popolazione, abusando dei diritti umani", ha detto Dan Quinn, ex capitano delle forze speciali Usa che una volta picchiò a sangue un comandante delle milizie sostenute dagli americani che teneva un ragazzino incatenato al letto come "schiavo del sesso". "Ma stavamo dando il potere a persone che commettevano cose peggiori dei talebani, come mi dissero anche gli anziani del villaggio", ha aggiunto. La politica di istruire i soldati a ignorare i pedofili tra le forze afghane è ora sotto esame soprattutto dopo che è emerso che alcuni dei militari che hanno disobbedito a quegli ordini, hanno subito azioni disciplinari, come il capitano Quinn e, in alcuni casi, hanno avuto la carriera rovinata. Stati Uniti: rimpatriato marocchino detenuto da 13 anni a Guantánamo senza processo Nova, 21 settembre 2015 L’amministrazione del presidente statunitense Barack Obama ha annunciato ieri il rimpatrio di un cittadino marocchino detenuto senza processo da 13 anni presso Guantánamo Bay (Cuba). L’annuncio - scrive il "New York Times" - segna un minuscolo passo verso la chiusura del malfamato penitenziario speciale, noto per i maltrattamenti e le torture dei detenuti sospettati di terrorismo e che Obama si era impegnato a chiudere sin dall’inizio del suo primo mandato. Col rimpatrio del cittadino marocchino, il numero dei detenuti in custodia a Guantánamo scende a 115, e potrebbe presto calare di un’ulteriore unità, dal momento che una commissione composta da sei agenzie governative Usa ha approvato proprio ieri il rimpatri odi un secondo detenuto, un kuwaitiano che in precedenza era stato giudicato troppo pericoloso per consentirne il rilascio. Ad oggi 53 detenuti di Guantánamo, quasi la metà, sono stati individuati come potenzialmente idonei per il trasferimento a patto vengano soddisfatte le necessarie condizioni di sicurezza.