Roverto e l’ergastolo. Ascoltare chi è detenuto di Agnese Moro La Stampa, 20 settembre 2015 Quando priviamo qualcuno della libertà diveniamo tutti responsabili di ciò che gli succede. Vale anche per la vita di Roverto Cobertera che continua il suo sciopero della fame. Per sostenere le sue ragioni la redazione di Ristretti Orizzonti - la rivista, e non solo, del carcere Due Palazzi di Padova - ha deciso di associarsi al suo sciopero il prossimo 30 settembre e ha inviato per lui un appello al ministro di Giustizia, al responsabile del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, agli Stati Generali dell’esecuzione penale. Scrivono i redattori (il testo completo è su ristretti.org): "Roverto Cobertera è un ergastolano, e anche un redattore di Ristretti Orizzonti, e ha deciso di morire. Vuole morire perché ritiene di essere stato "massacrato" dalla Giustizia italiana, che lo ha condannato all’ergastolo per un omicidio, che lui sostiene di non aver commesso. E questo ora lo dice anche il suo coimputato, che si è assunto tutta la responsabilità per quel reato. Roverto non è un "innocente", no, lui non ha mai negato di aver commesso dei reati, ma non è un assassino". E aggiungono: "Sappiamo benissimo che ci diranno che uno sciopero della fame della redazione di Ristretti Orizzonti non serve a nulla e forse non aiuta neppure Roverto a trovare la forza di combattere contro una Giustizia spesso poco umana, ma questo sciopero lo vogliamo fare ugualmente, proprio per aiutare tutti a provare a immaginare l’impotenza che si prova a venir condannati ingiustamente e non avere gli strumenti per difendersi [...]. Il nostro sciopero della fame sarà anche simbolico, ma ha degli obiettivi chiari e concreti". Eccone alcuni: in carcere nessuno deve più morire di disperazione, ci vuole attenzione e capacità di dar voce a chi sta male o ritiene di aver subito un’ingiustizia; Roverto deve avere una revisione del processo, con tempi certi e non disumani; che la parola "umanizzare", riferita alle prigioni, si traduca in fatti. "La storia di Roverto - scrivono - è anche una storia di affetti negati dal carcere: lui ha retto per anni il peso di un ergastolo ingiusto proprio per la famiglia, per quelle sue figlie bambine che lo cercavano e lo aiutavano a stare al mondo. Ma ora le figlie sono lontane, vivono in Spagna, la famiglia arranca, e quel rapporto di affetto tra padre e figlie non si può salvare con una miserabile telefonata di dieci minuti a settimana". Perché l’Italia resta un Paese orfano della vera giustizia di Vincenzo Vitale Il Garantista, 20 settembre 2015 Magistrati onnipotenti, politica in ginocchio, sistema penitenziario inumano: abusi e liturgie vuote continuano a prevalere sull’interesse dei cittadini. E scontri come quello sulle intercettazioni fanno temere che la svolta sia ancora lontana. Quindici mesi di vita, per un quotidiano, bastano a delineare un carattere, un modo di vedere la vita, le cose del mondo. Da tanto vive "il Garantista", diretto in modo leggero (la bella "leggerezza" di cui parla Calvino) ed insieme assai incisivo da quel gentiluomo ironico e geniale che è Piero Sansonetti. E "il Garantista" continuerà ad occuparsi di giustizia, di come viene amministrata in Italia, di tutte le storture che ne impediscono il fiorire effettivo, dei problemi che ne scaturiscono per chi abbia a che fare con i Tribunali. Per adesso, dobbiamo purtroppo rilevare che il quadro complessivo delle cose relative alla amministrazione della giustizia si presenta in Italia ancora sconfortante: troppe e troppo gravi le disfunzioni. L’azione penale, che si predica come obbligatoria, risponde sempre di più a criteri ampiamente discrezionali e sostanzialmente occulti messi in opera dal pubblico ministero e che cambiano a seconda delle Procure e a seconda dei singoli magistrati; il pubblico ministero è arbitro assoluto ed insindacabile nel decidere quando inserire il nome dell’indagato nell’apposito registro, onde far decorrere i termini delle indagini preliminari; la custodia cautelare viene adoperata a sproposito e senza una vera ed uniforme ricerca dei requisiti che la legge pretende; le carceri scoppiano, mentre i suicidi ormai non fanno più notizia; le intercettazioni telefoniche divengono un terreno di scontro ideologico, mentre nessuno ammette che in uno Stato di Diritto esse dovrebbero essere l’eccezione e non la regola; le correnti divorano dall’interno ciò che rimane della sanità istituzionale della magistratura; il Consiglio Superiore della magistratura è ormai inserito nelle istituzioni quale terza camera parlamentare, con parere obbligatorio e vincolante sui disegni di legge in tema di giustizia; la responsabilità disciplinare dei magistrati è inesistente, quella civile ipocritamente costruita da una legge che, anche se nuova, la relega a casi del tutto marginali; il processo civile, ferito da una riforma nuova al mese, è ormai irriconoscibile e tuttavia sempre più incarcerato in griglie assurde e perfino telematiche; il processo telematico non decolla, le cancellerie sono impreparate: a volte, per recapitare un atto telematico occorre un giorno intero e neppure si è sicuri di avercela fatta; l’appello, sia in civile che in penale, è guardato male e lo si incolpa di ritardare i processi, senza capire che l’appello è proprio ciò che salva la giustizia, dal momento che oltre le metà delle sentenze di primo grado vengono appellate e poi numerose riformate: sicché, senza appello, poveri noi. I giovani magistrati vengono condotti alla Scuola appositamente creata, dove vengono pericolosamente introdotti (per poi farsene sedurre) all’esercizio del potere che gestiranno, alle sue modalità, alla sua estensione, alla sua pervasività; nessuno si preoccupa di testimoniare loro il senso del limite, l’umiltà intellettuale, la modestia - anche nel senso della moderazione - insomma le virtù in assenza delle quali non è lecito giudicare Essi vengono così ammaestrati alla conoscenza del diritto, delle norme sempre più specifiche e settoriali, dei casi più capziosi, dimenticando però che il diritto è soltanto un mezzo e non un fine, mentre il vero fine è la giustizia, da tutti snobbata e perfino ignorata; i Presidenti e i Procuratori celebrano se stessi nelle cerimonie inaugurali annuali, magnificando la loro capacità di organizzare gli uffici e lamentando, in una stanca ripetizione di una liturgia laica ormai incomprensibile, sempre le medesime cose da almeno sei decenni: la riduzione delle spese, del personale, dei mezzi a disposizione, la durata dei processi, sicché nessuno - neppure loro che la leggono - si accorgerebbe se invece della relazione dell’anno in corso, si desse lettura di quella di dieci o vent’anni prima. Mai nessuno di essi però - alla ricerca di una non meglio precisata efficienza - osa interrogarsi sul tasso di giustizia che le sentenze dei giudici italiani sono in grado di esprimere: questo, che sarebbe davvero l’unico aspetto fondamentale, viene completamente ignorato; i politici hanno ormai da tempo abdicato alla loro funzione e sempre più numerosi sono i sindaci o i presidenti di Regione che cooptano in giunta un magistrato antimafia quale scudo personale contro ogni possibile pericolo e quale biglietto di presentazione e di legittimazione in pubblico. La politica, in senso lato, è ormai spodestata dalla giurisdizione: sono i Tribunali a decidere chi debba fare il sindaco o l’assessore e quando, a mandare a casa questo o quello: non più gli elettori; i politici, dal canto loro, spaventati, abbozzano, subendo in silenzio. Sapete tutti che potrei continuare a lungo. Ma è meglio fermarsi qui, per ora. Giustizia: da Bindi e Sabelli, continua l’epidemia di moralismo di Giuseppe Gargani Il Garantista, 20 settembre 2015 Le ormai ben note dichiarazioni dell’onorevole Bindi e del dottor Sabelli, presidente dell’Associazione nazionale Magistrati, rispondono entrambe alla stessa logica, a una cultura fondamentalista che è perniciosa ed è antagonista al concetto stesso di società, non utile per garantire una adeguata convivenza civile. Bindi ritiene che la devianza camorra sia diffusa nell’intero organismo sociale anzi "appartenga" alla società napoletana, ritiene cioè che una grave patologia da condannare e da reprimere sia, di fatto, diventata una fisiologia e quindi immanente nel "carattere" e nel pensiero dei napoletani. Questo pregiudizio contraddice la storia del pensiero degli ultimi secoli perché il ruolo che la cultura napoletana ha avuto nel mondo è un dato acquisito. Sabelli ritiene che i politici, ma non solo, si preoccupino più delle intercettazioni e della loro diffusione che degli scandali dei fatti corruttivi, cioè sono indulgenti rispetto alla devianza. Un deputato e un magistrato, in questo caso, danno giudizi moralisti, dimostrando di non rappresentare adeguatamente il ruolo istituzionale che esercitano. Infatti le due dichiarazioni risentono del degrado culturale che caratterizza questa epoca per cui la condanna preventiva e presunta è nelle cose ed è generica e assoluta. Si ritiene cioè che sia giusto condannare preventivamente la politica, le Istituzioni, il Parlamento, si ritiene che la società nel suo complesso sia infetta e per assecondare il populismo giudiziario dilagante sia necessario inasprire le pene, unico rimedio al dilagare della corruzione e della criminalità organizzata. Non per niente il Parlamento dopo aver fatto la "riforma"(!) della Giustizia aumentando di due anni la pena per i corrotti, si appresta ad aumentare le pene per gli scippi e per i furti, ritenendo appunto così di "riformare". Ha ragione Franco Roberti, il procuratore nazionale antimafia, a dire che la corruzione non è stata e non è adeguatamente combattuta in Italia perché si opera solo sulle leggi ritenendo che si possa in questo modo risolvere il problema. Non è così. Illustri giuristi hanno spiegato per il passato che aumentare le pene non serve perché l’ordinamento deve avere una sua armonia anche sul piano edittale e che la legge è il momento finale di un’organizzazione diversa della nostra società, in cui il valore culturale e morale deve orientare non solo la coscienza dei cittadini ma anche una adeguata strategia giudiziaria. A Napoli o in Campania o nell’Italia meridionale convivono una società onesta e virtuosa accanto a una società violenta e deviata. Non può essere diversamente perché la lotta tra il bene e il male è una caratteristica di questo mondo. La prevalenza e la vittoria della società onesta si ottiene organizzando la cultura, aumentando il tasso di scolarità; si ottiene se la politica è un momento d’attrazione, se i partiti svolgono il loro peculiare e insostituibile ruolo nella società, se le Istituzioni sono effettivamente rappresentative della realtà del Paese e sono rispettate per la funzione che svolgono. Se tutta la società fosse compromessa come ritiene la Bindi, non avremmo sviluppo, non avremmo vita, e se i fatti corruttivi, come dice Sabelli, non determinassero scandalo, non avremmo più bisogno di leggi perché non più utili e idonee. Ritengo che la società meridionale nel suo complesso soffra per questo disvalore e aspiri a riscattarsi. Come non interpretare in questo modo le tante iniziative di eccellenza, sul piano economico come sul piano culturale, che Napoli, la Campania e il Sud Italia portano avanti per avere un ruolo adeguato nella società italiana e internazionale. Naturalmente si possono ottenere risultati positivi e certamente "scandalizzarsi" per i fatti corruttivi se insieme alla repressione c’è la garanzia dei diritti dei cittadini e il rispetto della loro privacy, la protezione da parte dello Stato nei confronti di chi si ribella o denunzia il malaffare. Il problema è appunto questo. Le intercettazioni diffuse in maniera selvaggia e incontrollata in violazione dei principi elementari di libertà compromettono la civiltà giuridica e il rispetto per le istituzioni che debbano essere di garanzia per il cittadino. Sabelli ritiene che ci sia una ostilità nei confronti della magistratura e fa un profondo errore perché non tiene conto della sacralità della funzione del magistrato, e della ostilità che i magistrati suscitano nei cittadini quando interpretano in modo distorto le loro funzioni, quando a tutti i costi vogliono avere una funzione etica, di arbitri delle questioni sociali e di operatori dell’applicazione della legge. Quante inchieste giudiziarie sono fatte approssimativamente e preventivamente per esaltare il ruolo salvifico della magistratura contro la politica e appunto per privilegiare la sua funzione etica. Ripeto un concetto che è stato per me d’orientamento per le funzioni che ho esercitato. Il deputato, il sacerdote, il professore, per fare alcuni esempi, e l’intera classe dirigente, debbono orientare alla legalità, debbono garantire la legalità: il magistrato invece non deve garantire la legalità, come comunemente si dice, ma deve reprimere la illegalità. Nessuno deve scavalcare l’altro. Questa è l’armonia e al tempo stesso la separazione dei poteri voluti dalla Costituzione. Sono funzioni profondamente diverse e ognuno deve esercitarle con scrupolo e correttezza. La conclusione è che vi è certamente in questo Paese una questione morale molto delicata che è legata ai nostri comportamenti, all’ossequio alle regole che deve essere il compito primario della classe dirigente. È la cultura che ispira i comportamenti e li orienta: la legge viene dopo, ha un compito regolatore e al tempo stesso di repressione così come previsto dalla Costituzione. Giustizia: ghigliottinismo, ormai è pandemia... ma non abbiamo nulla da farci perdonare? di Renato Farina Tempi, 20 settembre 2015 Il Papa ha chiesto l’amnistia ma il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, per me irriconoscibile, ha bocciato il Papa come fosse un mentecatto fuori dal mondo. Che malattia del cuore sta crescendo tra noi? La chiamerei ghigliottinismo. È un lascito del giustizialismo del tempo truce di Mani pulite, quando si godeva del male del prossimo. Ormai non c’è forza politica, ambiente umano che non siano contagiati dal ghigliottinismo. Mi ha molto colpito il "no" senza eccezioni o quasi alla proposta di papa Francesco di accompagnare l’Anno Santo della Misericordia con un segno: un’amnistia. Il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, per me irriconoscibile, ha bocciato il Papa come fosse un mentecatto fuori dal mondo. Ha detto: "Chi sbaglia ed è condannato in via definitiva in carcere ci sta fino all’ultimo giorno. E se le carceri non bastano ne costruiamo di nuove". Destra, sinistra e centro concordano, salvo eccezioni minime. Ci hanno invaso gli immigrati? No, ci ha invaso il contrario della pietas, che è l’empietà, l’hubris, il sostituirci al giudizio di Dio. Elenco tre casi di contagio ghigliottinesco di massa. Giovanni Scattone è stato condannato per l’omicidio colposo di una studentessa universitaria, inerme e gentile, Marta Russo. Pena scontata. Si è scoperto che aveva vinto una cattedra di liceo. L’opinione pubblica lo ha costretto a mollare, come indegno di insegnare. Chi sentenzia su dignità e indegnità? Se si dovesse stabilire chi è degno di insegnare in base a errori noti o sconosciuti, e ci fosse onestà verso se stessi, verrebbe da ripetere la frase che mette in fuga i lapidatori di ogni tempo: chi è a posto, scagli la prima pietra contro Scattone. Non è il caso però di rifare l’esperimento. Oggi non esiste il senso del peccato proprio, ma solo di quello altrui: e Scattone sarebbe seppellito di sassi. È chiaro che è una vendetta extragiudiziale, non c’entra l’amore al bene degli studenti, ma il trovare qualcuno più in basso per salirci sopra e sentirci migliori. Martina Levato e suo figlio Achille. Martina è quella ragazza che insieme al suo amante ha tirato dell’acido muriatico a uno, due, forse più ex fidanzati, sfregiando a tradimento le proprie vittime. È in carcere, dove ha partorito il figlio Achille, concepito con il complice. Secondo Boris, non possono essere i giudici, e soprattutto la vox populi, a separare per sempre madre e figlio. Se c’è pericolo immediato e concreto per il piccolo, sì. Ma qui si è alzata un’altra voce, che è quella della vendetta: essa impone una pena extra-codice, e non importa se colpisce un bambino, perché è figlio di una strega, i geni di Achille vanno coltivati lontano da Martina e dai suoi incantesimi malvagi. La pena aggiuntiva è la negazione dell’essenza di una donna: l’essere madre. Il mondo è passato, anche nei sentimenti, dal tifo per Antigone a quello per Creonte. Siamo ai Casamonica. Vera e Vittorino sono liberi e - mi risulta - incensurati. Ma hanno un reato di sangue anzi nel sangue: sono "i" Casamonica, roba infetta, per cui si vuole togliere loro il diritto di parola, il diritto del giornalista Bruno Vespa di fare cronaca e intervistarli a Porta a porta, e il nostro di ascoltarli. Non sono persone, appartenenti alla razza umana, ma zingari sinti Casamonica. Domanda: chi dà il diritto di togliere diritti alla ghenga di presunti puri? È il ghigliottinismo, malattia che ha un esito spesso strano, sin dai tempi di Robespierre: chi di ghigliottina ferisce, di ghigliottina perisce. Un gesto di misericordia, come quello che ha chiesto Francesco, purificherebbe Boris e l’Italia. Lo diceva già Manzoni con la bocca di Lucia: "Dio perdona molte cose per un’opera di misericordia". Ma noi non abbiamo nulla da farci perdonare, vero? O forse sì. Giustizia: Manconi e Guerra (Pd) "basta carceri senza magistrati di sorveglianza" di Errico Novi Il Garantista, 20 settembre 2015 Un detenuto strappato al suo cappio mortale. Un caso drammatico precipitato sul capo di Giovanni Legnini, da pochi mesi vicepresidente del Csm, che prova a intervenire sulle cause "istituzionali" della tragedia. I radicali che ottengono finalmente attenzione dal Consiglio superiore della magistratura sulla sottovalutata emergenza nei Tribunali di sorveglianza. È un tentato suicidio, quello di Antonio C, carcerato a Modena e tuttora in coma dopo aver cercato di impiccarsi, che non sembra aver esaurito le sue ricadute politiche. Sulla vicenda arriva infatti un’interrogazione parlamentare al ministro della Giustizia, firmata da Luigi Manconi, presidente della commissione Diritti umani di Palazzo Madama, e dalla senatrice modenese Cecilia Guerra, anche lei del Pd. Ricordano che Antonio "sin dal mese di maggio aveva fatto istanza di detenzione domiciliare alla luce delle sue condizioni di salute". Il riferimento è a conclamate sofferenze psichiatriche: il detenuto era in cura presso il Centro di igiene mentale della città emiliana. Fanno notare, i due senatori, che "la concessione della misura alternativa al carcere è pervenuta soltanto all’indomani del tentativo di suicidio". E, soprattutto, che "le ragioni di un simile, e forse fatale, ritardo sono rinvenibili nella assenza del magistrato di sorveglianza di Modena, che per ragioni diverse si protrae dall’estate del 2014, come da tempo denunciato anche dal Presidente del Tribunale di sorveglianza di Bologna, dottor Franco Maisto". Manconi e Guerra chiedono dunque "se il Ministero aveva contezza della gravissima situazione dell’Ufficio di sorveglianza di Modena e, nel caso, cosa avesse fatto - prima del tentativo di suicidio del Signor Antonio C. - per porvi rimedio e cosa intende fare ora". E qui i possibili rimedi, mancati e futuri, alludono in realtà a una faccenda dal senso politico delicatissimo. Manconi Guerra sanno bene che sul vuoto d’organico all’ufficio modenese proprio l’incolpevole Legnini ha già dato precipitosamente seguito alle richieste di Rita Bernardini e Marco Pannella, avanzate diversi giorni prima che Antonio C. tentasse di uccidersi: il vicepresidente del Csm ha messo in moto la commissione preposta perché individui "in pochi giorni" un magistrato da spedire a Modena. Lo ha fatto, certo, dopo la notizia del tentato suicidio. Ma non è questo il punto. I due senatori Pd si chiedono di fatto al ministero della Giustizia di verificare come si sia potuti arrivare fino a quel punto. Conoscono già la risposta: per l’incarico a Modena il Csm aveva individuato un magistrato che appena insediatosi ha scontato le ferie residue ed è andato in pensione; quindi la scelta di Palazzo dei Marescialli è caduta su un nuovo giudice di sorveglianza che per altre ragioni non ha potuto prendere servizio. "Incidenti" che in realtà mostrano la leggerezza del Consiglio superiore nell’assegnazione degli incarichi, conferiti sulla base degli equilibri tra correnti e, spesso, senza attenzione per le necessità dei singoli uffici. Nell’interrogare via Arenula su questa storia dal terribile sottofondo, Manconi e Guerra insomma sollevano implicitamente il nodo delle regole a cui il Csm dovrebbe attenersi. Regole che il governo avrebbe dovuto modificare con un apposito ddl di riforma. Il progetto è finito in ibernazione pochi giorni fa: anziché presentare un testo in Parlamento, il guardasigilli Andrea Orlando ha individuato una commissione ministeriale, affollata di magistrati, che dovrà elaborare la proposta. Il governo dunque dovrebbe cambiare il Csm ma di fatto si attiene alla pretesa di autoriforma affermata dallo stesso Consiglio superiore. Questo è il terreno decisivo su cui si giocano gli ultimi scampoli di partita per il riequilibrio tra i poteri dello Stato. Una partita che forse dovrà prendere un’inerzia diversa, se si vogliono evitare casi come quello di Modena. Giustizia: Legnini (Csm): i giudici ricerchino le soluzioni meno impattanti per l’economia di Giorgio Santilli Il Sole 24 Ore, 20 settembre 2015 Riconoscere il ruolo delle magistrature superiori nel garantire la prevedibilità della giurisprudenze. Non c’è solo il tema della riforma degli appalti e del recepimento delle direttive Ue nel 61° Convegno di diritto amministrativo organizzato dal Consiglio di Stato a Varenna. Nella giornata conclusiva domina il tema delicatissimo - riesploso con le recenti sentenze Fincantieri e Uva - del rapporto fra diritto, giurisdizione ed economia. A riproporlo è il vicepresidente del Csm, Giovanni Legnini, che ha chiarito la sua posizione sul ruolo del giudice in una fase caratterizzata da profonda crisi economica e ipertrofia normativa "spesso astratta e incapace di dare risposte a situazioni concrete". In questo quadro dice Legnini - "nessuno pensa che il giudice possa agire al di fuori della legge o oltre la legge ne che il giudice debba farsi carico del bilanciamento di interessi che spetta al legislatore, ma ho detto e ripeto che, di fronte a uno scenario di grande difficoltà economica e sociale e di crisi della legislazione, sul giudice pesa l’onere di ricercare, fra le diverse soluzioni sempre ammesse dalla legge, quella soluzione meno impattante sul sistema economico e sociale". È una "riflessione aperta nella magistratura" e nel Csm proprio perché di fronte all’ipertrofia normativa e ai continui ripensamenti del legislatore, si amplia la sfera di intervento del giudice. "Non è più tempo di parlare di protagonismo dei giudici dice Legnini - ai giudici si chiede piuttosto sempre più spesso di tappare i buchi". E anche la soluzione che il legislatore sembra privilegiare da qualche tempo quella di autorità amministrative indipendenti che affianchino il giudice in obiettivi prioritari come il contrasto alla corruzione "siamo sicuri - chiede Legnini che rispondano a un disegno luci do e che la degiurisdizionalizzazione, con i nuovi rapporti che si creano fra giudice e Autorità, sia la strada giusta se al contempo non riflettiamo sulle regole di organizzazione del processo penale?". Sulla bassa qualità della produzione legislativa concorda Bruno Tabacci, presidente della commissione Bicamerale per la semplificazione, che ricorda come nel fare le leggi e anche nell’attività di presentazione degli emendamenti da parte dei colleghi parlamentari vi sia oggi l’esaltazione del particolarismo". Se le leggi tutelano "una sommatoria di interessi particolari, è poi difficile perseguire obiettivi generali". Quando non si scelga addirittura "in malafede" di fare "battaglie ambigue come quella degli esodati per poi scoprire che riguardano meno di 2mila persone e dimenticare che la legge Fornero che si vuole smontare in nome di quella battaglia ci ha portato fuori da un periodo in cui lo spread era arrivato a 550". Ivan Lo Bello, presidente di Unioncamere e vicepresidente di Confindustria, pone una questione "decisiva per i mercati e per le imprese" in materia di rapporti fra giurisdizione ed economia: la "uniformità giurisprudenziale", vale a dire "la giurisprudenza che si consolida nel tempo e da certezze alle imprese". Non c’è solo una questione di celerità delle decisioni (è stato evidenziato da Legnini che i nuovi tribunali delle imprese e i giudici amministrativi per gli appalti decidono in meno di un anno), ma di superare una incertezza giurisprudenziale che disincentiva l’attività economica e resta una delle maggiori criticità del sistema-Italia visto dagli investitori internazionali. "Bisogna avere il coraggio di rivedere il sistema della Cassazione", ha sintetizzato Lo Bello. E Filippo Satta ha ricordato che "le sentenze di Cassazione civile in un anno sono un’assurdità". Ha risposto Alessandro Pajno, presidente di sezione del Consiglio di Stato e curatore scientifico delle giornate di Varenna, confermando che il problema esiste e la risposta va trovata nel "riconoscimento del ruolo, non solo cartolare, che spetta alle magistrature superiori nel garantire l’accountability o prevedibilità della giurisprudenza. Questo ruolo deve essere assunto con consapevolezza - ha continuato Pajno perché il Paese deve sapere che ci sono magistrature che hanno questo compito". Incontri e consultazioni per andare in questa direzione - ha aggiunto Pajno - sono per altro in corso fra Consiglio di Stato e Cassazione. Il tema doppio del riordino del codice degli appalti e del recepimento delle direttive del 2014 è tornato nelle sue molteplici accezioni: la digitalizzazione (su cui ha molto battuto Lo Bello con l’agenda digitale delle Camere di commercio), il ruolo di potere regolatorio affidato all’Autorità nazionale anticorruzione (Anac), la marcia indietro europea sull’in house, la semplificazione dell’impianto normativo italiano (con l’ipotesi di soppressione del regolamento per fare spazio alla soft regulation), la maggiore discrezionalità da dare all’amministrazione, soprattutto nella fase della negoziazione del contratto. E se Pierluigi Mantini, componente della "commissione Manzione" chiamata a stilare i testi dei decreti attuativi della delega, è favorevole ad allontanarsi dal sentiero tracciato dal Ddl delega approvato dal Senato per fare un "copy out" delle direttive Ue nel sistema italiano, sintetizzando brutalmente che la scelta è "fra più Europa e più Anac", Michele Corradino, componente dell’Anac e anche lui nella commissione Manzione, gli risponde che i maggiori poteri all’Anac vogliono favorire proprio quello che la Ue raccomanda, maggiore discrezionalità e maggiore flessibilità per le stazioni appaltanti, soprattutto rispetto all’eccesso di rigidità dell’attuale impianto normativo codice + regolamento. Per altro, ha detto Francesco Caringella, consigliere di Stato e scrittore, "più discrezionalità significa più controlli anche del giudice amministrativo che però devono essere meno formali e più sostanziali". Tutti d’accordo sulla necessità di fare presto - entro il 18 aprile - per evitare bacchettate Ue sulla politica italiana delle riforme e per scongiurare una paralisi del settore da "shock normativo". Sull’in house un invito al legislatore a inserire norme più stringenti in termini di concorrenza viene dal presidente dell’Antitrust, Giovanni Pitruzzella. "La concorrenza resta alla base della normativa europea sugli appalti - ha detto - anche se direttive e legislatore nazionale hanno posto l’accento anche su altri obiettivi, come per esempio la lotta alla corruzione". Anche "a fronte dell’arretramento delle direttive Ue rispetto alla giurisprudenza della Corte di Giustizia sull’in house - ha detto ancora il presidente Antitrust - è sempre possibile per il legislatore nazionale ricostruire in sede di delega quel sistema normativo che riduca, anche attraverso il nostro intervento, gli affidamenti senza gara". Giustizia: Contrada "Strasburgo mi ha dato ragione, adesso Dell’Utri può tornare libero" di Luca Rocca Il Tempo, 20 settembre 2015 Il 14 aprile scorso la Corte europea dei diritti umani ha stabilito che l’ex agente del Sisde Bruno Contrada non andava condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, perché i reati a lui attribuiti sarebbero stati commessi fra il 1979 e il 1988, dunque prima del 1994, anno in cui, con la sentenza Demitry, le sezioni unite della Cassazione decretarono in modo esplicito l’esistenza di quel reato. Tre mesi dopo il governo italiano ha presentato ricorso contro la sentenza della Cedu, respinto pochi giorni fa dalla Grande Camera del Tribunale di Strasburgo. Una decisione che ha riempito di soddisfazione il cuore di Contrada, il quale, conversando con Il Tempo , chiede all’Italia di recepire la decisione della Cedu, annullando la sua condanna, e ipotizza riflessi inevitabili sul caso di Marcello Dell’Utri, come lui condannato per concorso esterno per reati compiuti prima che quel reato prendesse corpo. Contrada, la decisione della Grande Camera potrebbe avere effetti notevoli su altri casi giudiziari? "Guardi, io ho appreso la notizia dalla stampa. Per ore nessuno ne ha saputo nulla. Con la professoressa Andreana Esposito, consulente dell’avvocato Enrico Tagle che si è occupato del ricorso, siamo stati presi alla sprovvista. È accaduto qualcosa di strano, connesso proprio alle conseguenze che la decisione della Grande Camera potrà avere. In determinati ambienti politici e della magistratura c’è l’intenzione di far passare il più possibile sotto silenzio quanto stabilito da Strasburgo, perché chi avversa Berlusconi sa che la decisione dei 17 giudici della Grande Camera crea problemi notevoli nell’ambito della giustizia italiana e può avere riflessi seri sulla detenzione di Dell’Utri, che ora potrà avvalersi di questa sentenza per uscire dal carcere e tornare libero". La sua doppia vittoria in sede europea rispedisce al mittente la tesi, da molti sostenuta, secondo la quale il concorso esterno è non già un’"emanazione giurisprudenziale" ma ha una matrice "inequivocabilmente normativa", essendo un combinato disposto fra l’articolo 416 bis del 1982 (associazione mafiosa) e il 110 (concorso nel reato). Dunque, secondo questa impostazione, la sua condanna sarebbe sacrosanta. "È quanto sostenuto nella sentenza "Infinito", anche dal giudice Antonio Esposito. Ma è un errore. Nel diritto penale, dove i reati devono essere chiari, definiti e precisi, non c’è un’estensione analogica della norma, come accade dell’ordinamento civile. Siamo di fronte a una questione giuridica di enorme importanza di cui deve essere investito il parlamento, che dovrebbe definire questa figura di reato. Anche se la dottrina più accreditata lo definisce un assurdo giuridico. Lei davvero s’illude che questo parlamento, pieno di "onorevoli" che amano o temono le toghe, andrà a impelagarsi in questo ginepraio giuridico? Certo che no. In ogni caso, dovrò esperire le necessarie azioni giudiziarie affinché l’Italia si conformi alla pronuncia della Cedu, come stabilito dalla Corte Costituzionale, che con la sentenza 113 del 2011 ha dichiarato incostituzionale l’articolo 630 del cpp nella parte in cui non prevede tra i motivi di revisione del processo la necessità di conformarsi a una sentenza della Corte europea. D’altronde, se così non fosse, il Tribunale di Strasburgo che ci starebbe a fare?" Quali sarebbero le conseguenze se l’Italia recepisse la decisione della Corte Europea? "L’annullamento della mia condanna. Il governo ha presentato ricorso, tra l’altro l’ultimo giorno utile, anche nella speranza che la Grande Camera modificasse la sentenza di aprile, ma è stato un boomerang. Per cui io adesso per l’Europa non dovevo essere condannato, mentre per l’Italia, firmataria della Convenzione che prevede di conformarsi alle sentenze definitive della Corte, sono colpevole. Ma non lo sono. E ai miei nipoti voglio almeno lasciare in eredità la mia onorabilità". Giustizia: manifesti con "cosa nostra" per il battesimo del figlio di un pregiudicato di Natale Bruno La Repubblica, 20 settembre 2015 L’annuncio del battesimo nei cartelloni 6x3. La questura ne ordina la rimozione. Il padre del bimbo vicino al clan Laudani. Il questore di Catania Marcello Cardona con una propria ordinanza ha stabilito la rimozione dei manifesti 6x3 affissi in alcuni impianti abusivi in cui veniva dato l’annuncio del battesimo di un bambino che nella foto viene mostrato con la coppola in testa. Il bimbo che si chiama Antonio è figlio del pregiudicato Francesco Rapisarda, detto Ciccio Ninfa, residente a Giarre e ritenuto dagli investigatori vicino al clan Laudani, indagato in passato per associazione mafiosa. "Non volevamo per nulla offendere le istituzioni. Sul quel manifesto è successo il finimondo, ho già ricevuto centinaia di telefonate. A questo punto annulliamo tutto", commenta il papà del piccolo Angelo. "Non c’è niente di male, è una cosa carina, lo abbiamo fatto per fare una cosa diversa - ha spiegato al telefono Francesco Rapisarda - questa è sempre stata un’abitudine di famiglia. Io e mia moglie abbiamo fatto la stessa cosa anche per i battesimi degli altri miei due figli. Nel 2008, per la foto del manifesto del battesimo del primo bimbo lo abbiamo vestito da diavoletto, con tanti angioletti attorno e la scritta: "Nato per essere diverso". A noi piace fare le cose sfarzose". Due manifesti erano stati già individuati a Macchia di Giarre e a Riposto, ma stando alle indiscrezioni ce ne dovrebbero essere altri, lungo le strade della provincia di Catania ed in particolare a San Giorgio, quartiere alla periferia sud di Catania. Nel manifesto del battesimo, la cui festa era prevista per domani, sarebbero stati invitati volti noti della televisione italiana da Andrea Azzurra di "The Voice", ad Angela di "Uomini e Donne", a Claudio Tropea da "Io Canto" e per finire una sfilza di cantanti neomelodici, da Luigi Di Pino a Dany Diamante e Gianni Narcy. La questura fa sapere che oltre alla decisione di coprire i manifesti, domani sarà effettuata una precisa vigilanza sullo svolgimento della festa privata. La foto del piccolo Antonio Felice fa capolino con la coppola in testa sul 6x3, poco accanto l’annuncio firmato dai genitori, ("per la gioia di papà Francesco e mamma Alice" si legge). "Battesimo di Antonio Felice Rapisarda. Questa creatura meravigliosa è… cosa nostra". Giustizia: quel marchio di "mafia" in versione cattivo gusto di Attilio Bolzoni La Repubblica, 20 settembre 2015 Povero piccolo, affiliato a sua insaputa. Antonio Felice Rapisarda, battezzato mafioso dal papà a Paternò, provincia di Catania, Sicilia. Un predestinato. Con questi boss da strapazzo, continuando di questo passo, avremo anche cannoli Cosa Nostra, cassate Cosa Nostra, arancine e sarde a beccafico Cosa Nostra. Tutto "firmato", la linea della casa o della Cosa, esibizionismi che a loro - quei galantuomini - fanno più danno (ma come non se ne rendono conto, come si può essere più coglioni?) che un mandato di cattura o una misura patrimoniale. Ma sono "tasci", pacchiani, questi mafiosi vecchio stampo che non solo non si mimetizzano come quelli veri e più contemporanei ma vantano quarti di nobiltà criminale davanti al mondo intero. Parenti e perdenti. Marchiano loro stessi e condannano al patibolo i loro eredi. Un pomeriggio di tantissimi anni fa, almeno venticinque, ci siamo ritrovati fra gli stucchi e gli specchi dei sontuosi saloni di Villa Igiea - l’albergo palermitano sul mare dell’Arenella restaurato alla fine del XIX secolo dal famoso architetto dell’Art Nouveau Ernesto Basile su commissione della famiglia Florio - con le note de "Il Padrino" che arrivavano fin nel giardino, dove era posteggiata una Rolls Royce color panna dalla quale erano appena scesi marito e moglie. Leiera Vincenzina Marchese (sorella dell’autista di Totò Riina che poi si è pentito), lui Luchino Bagarella, il cognato dello "zio Totò" che momentaneamente per qualche aggiustatina di un processo era ergastolano a piede libero. Viva gli sposi. Poco corleonese come matrimonio, Totò e Ninetta avrebbero preferito sicuramente più discrezione. Ma così è andata. Il Padrino e la sua musica sono irresistibili per alcuni di loro, come quell’assessore regionale siciliano - in governi di centrosinistra e di centrodestra, tanto per farvi capire cos’era e cos’è la politica nei palazzi dell’isola - che sempre su quelle note girava perle vie di Canicattì a fare campagna elettorale. Nome all’anagrafe Vincenzo Lo Giudice, nome riconosciuto da tutti Mangialasagna per la sua voracità in tutti i sensi, amico di boss ("Io non faccio parte della chiesa ma i padrini li rispetto") e condannato a svariati anni di carcere per 416bis. È più forte di loro, sembrano tutti controllati e "strutturati" e poi scivolano sulla buccia di banana. Come Rosalia Messina Denaro, la sorella dell’imprendibile Matteo, "Testa dell’Acqua", il presunto capo della mafia (scriviamo presunto non per peloso garantismo ma perché crediamo che i veri capimafia della Sicilia oggi siano altri), che fa sposare la figliola alla Cappella Palatina - basilica palermitana a tre navate all’interno del complesso architettonico di Palazzo dei Normanni, chiesa dedicata al santo Pietro Apostolo - e poi scoppia il bordello. Inutile dimostrazione di potere. Chi se lo sarebbe mai aspettato dai "Trapanesi", i più riservati di tutti, a volte ancora di più dei "Palermitani", che la materia - mafiosa - la conoscono e se la cantano e se la suonano? Fra gli Anni Cinquanta e Sessanta un trapanese, tale Fazio, che nessuno conosceva (figurarsi se era "attenzionato" dagli sbirri o dai magistrati, che con i boss ci andavano a braccetto) era il capo della Commissione regionale, il governo della Cosa Nostra. Eppure tutti in Sicilia, e in Italia grazie ai reportage di Bernardo Valli e di Indro Montanelli, in quell’epoca sapevano che il boss dei boss della Mafia era un contadino semianalfabeta di Mussomeli, Giuseppe Genco Russo. Era un pezzo grosso della politica - la Democrazia Cristiana - e un pezzo grosso del crimine. Si pavoneggiava come una star, rilasciava interviste, si faceva fotografare dai reporter dell’Ora, quotidiano indipendente della sera, "L’Ora, morti e feriti", "L’Ora, quantini cadiru, quantini muriru", quanti ne sono caduti, quanti ne sono morti, urlavano gli strilloni agli angoli delle strade di Palermo. E dunque, questo Genco Russo sapete come lo chiamavano dentro Cosa Nostra gli altri uomini d’onore? "Per noi Genco Russo era Gina Lollobrigida", raccontava il pentito Antonino Calderone al giudice Falcone nel gennaio del 1988. Attrice straordinaria, sex symbol di mezzo secolo fa, la Lollo era esuberante e appetitosa, ma nell’immaginario mafioso il vecchio e puzzolente "zù Pè" risultava tanto popolare che l’accomunavano a lei. Insomma, uno che alla fin fine parlava assai e ostentava troppo. Mettersi in mostra non paga mai in quel mondo. Prendete i Casamonica di Roma e quell’indecente funerale celebrato ad agosto. Cavalli e cocchieri, i fiori e l’elicottero. Il prefetto Gabrielli ha detto quello che tutti volevamo sentirci dire: "La pagheranno cara". È così, la pagheranno loro e - indirettamente - tutti quei vampiri della politica di Mafia Capitale. L’hanno fatta grossa. Danneggiamento incalcolabile per le consorterie criminali fra il Campidoglio e Ostia. Alla fine di questo articolo, ci viene in mente un video che un paio di anni fa abbiamo girato per Rep.it con Salvo Palazzolo sui nuovi boss di Palermo. La mafia e il loro mangiare. Anche quella volta ci siamo trovati di fronte a fanfaroni che preferivano ostriche e Monsciandò (Moët et Chandon) piuttosto che un piatto di pasta con le sarde e vino bianco di Salaparuta. Li abbiamo pure visti che si baciavano in bocca quei nuovi boss. Si baciavano in bocca "ma senza lingua". Sardegna: "Dentro e fuori dal carcere", presentato a Oristano un dossier della Caritas Ansa, 20 settembre 2015 L’ingresso in carcere costituisce un momento traumatico per tutti i detenuti. Per molti di loro, in particolare per quelli stranieri, anche la scarcerazione è in tanti casi un ulteriore momento difficile e di sbandamento. Parte anche da questo dato di fatto l’inchiesta sulla popolazione straniera detenuta negli istituti di pena sardi presentata ieri mattina a Oristano dalla Delegazione regionale delle Caritas della Sardegna, nell’ambito di un convegno organizzato in collaborazione con la Conferenza regionale Volontariato Giustizia. L’obiettivo di questa indagine, come ha spiegato la referente del Gruppo regionale Promozione Umana-Settore Carcere, Giovanna Lai, è duplice: da una parte capire quali sono i problemi e le difficoltà di questi detenuti, dall’altra individuare percorsi e interventi di "accompagnamento sociale" finalizzati a una effettiva integrazione. "A fine pena, oltre alle porte del carcere per queste persone si devono aprire anche le porte delle città", ha detto ancora Giovanna Lai. L’inchiesta è stata condotta negli istituti di pena di Cagliari, Iglesias, Isili, Massama, Nuoro, Onanì e Tempio Pausania coinvolgendo più di 300 detenuti (tra i quali però solo sei donne), provenienti per la maggior parte dal continente africano e arrivati in Sardegna dopo periodi di detenzione cominciati fuori dall’isola. Il 60 per cento per reati legati al traffico e allo spaccio di stupefacenti, un altro 20 per cento per reati contro il patrimonio. I problemi più grossi sono le difficoltà di relazione non solo con gli altri detenuti ma anche con il personale penitenziario, le difficoltà economiche legate alla mancanza di una rete familiare di sostegno, e la quasi impossibilità per molti di accedere a misure alternative e benefici di legge. L’indagine è andata oltre gli aridi numeri delle statistiche con 16 storie di vita raccontate da altrettanti detenuti e raccolte nel volume "Caritas: dentro e fuori dal carcere". Senza permesso di soggiorno 6 detenuti stranieri su 10 Quasi sei detenuti su dieci di nazionalità straniera ospitati nelle carceri della Sardegna sono privi di permesso di soggiorno. La maggior parte di loro proviene dall’Africa e vive disagi maggiori rispetto agli altri reclusi, secondo quanto rilevato dall’indagine sulla popolazione straniera negli istituti di pena dell’isola, curata dal Settore Carcere della Caritas della Sardegna diretto da Giovanna Lai e presentato stamane in un convegno svoltosi a Oristano. A rendere più dura la detenzione dei carcerati di nazionalità straniera sono le difficoltà di comunicazione e di relazione, la scarsa conoscenza dei propri diritti e le profonde diversità culturali. Il 60% è recluso per reati di droga. Inoltre, la mancanza di risorse economiche e di un supporto familiare vicino al luogo di pena rendono impossibile agli stranieri ottenere misure alternative alla detenzione o dei benefici di legge. La ricerca della Caritas sarda ha coinvolto tutte le dieci strutture carcerarie dell’Isola, ma i dati che formano oggetto dello studio statistico sono stati raccolti nei sette istituti di pena. Tra febbraio 2013 e febbraio 2014 i volontari hanno distribuito 303 questionari nelle Case circondariali di Cagliari, Iglesias, Massama, Badu e Carros, Isili, Mamome e Tempio. I dati sono stati poi elaborati e analizzati dal sociologo Loreno Scalia. Dei 741 detenuti stranieri ospitati nelle carceri sarde nel periodo dell’indagine, 502 (circa il 70%) provenivano dall’Africa, uno su quattro dal Marocco; 162 (pari al 22%) da paesi europei (soprattutto Spagna e Francia) e i restanti 77 (pari all’8%) dai paesi asiatici. L’85% dei detenuti è arrivato nelle carceri sarde dopo detenzioni in altri penitenziari europei. Quasi sei su dieci detenuti sono privi di permesso di soggiorno: una circostanza che pesa negativamente sullo sconto della pena prima, durante e dopo la detenzione. Il 60% dei detenuti intervistati è recluso per reati di droga, il 14% sconta una pena legata al reato di furto, il 7% per rapina e il 3% per omicidio. Trapani: Osapp; un detenuto nel carcere di Favignana ha dato fuoco alla cella Adnkronos, 20 settembre 2015 "Durante la notte un detenuto, per ragioni a noi sconosciute, ha inscenato un’azione di protesta dando fuoco ai suppellettili della cella. La Segretaria Regionale dell’Osapp esprime preoccupazione sulla tenuta della sicurezza presso la casa reclusione di Favignana". È quanto si legge in una nota del sindacato. "Dopo la chiusura degli Opg bene ha pensato l’Amministrazione Penitenziaria a distribuire i detenuti con regime di "Internati" negli Istituti della Regione che secondo la loro logica potrebbero accogliere", si legge. "Favignana - dichiara il Segretario Regionale Rosario Di Prima - non ha più le condizioni numeriche per gestire le attività e la sicurezza dell’intero istituto. La gravità dei fatti, le condizioni di sicurezza sono in seria discussione e di difficile gestione. La carenza del personale ha determinato un vuoto incolmabile che non permette più di gestire le attività e i servizi su 4 quadranti". "La Segreteria Regionale ha attivato tutti i canali istituzionali per una rivisitazione degli organici di Polizia Penitenziaria. L’Amministrazione non può mantenere la situazione attuale che rischia di portare al collasso il personale di Polizia Penitenziaria che, in mille difficoltà riesce ancora a gestire le situazioni - dicono - Se pur certi di una ventata di democrazia degli ultimi mesi, non basta per dare certezza nella gestione del personale. L’Osapp sin da subito dichiara lo stato di agitazione del personale di Polizia Penitenziaria. La Segretaria Regionale ha attivato tutte le procedure per una ripresa negoziale sull’organizzazione del lavoro chiedendo l’intervento del Provveditore Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria". Avellino: Spp; detenuto aggredisce agenti ad Ariano, conseguenza organico insufficiente Ansa, 20 settembre 2015 Un detenuto tunisino del carcere di Ariano Irpino (Avellino) ha aggredito due assistenti capo della Polizia penitenziaria procurando ematomi e ferite guaribili in quindici giorni. Lo rende noto Aldo Di Giacomo, segretario del sindacato autonomo Spp, affiliato al Sinappe, che denuncia le gravi difficoltà nella gestione della casa circondariale a causa dell’organico insufficiente. Lo stesso sindacato, che incontrerà nelle prossime ore il direttore della casa circondariale irpina, Gianfranco Marcello, preannuncia anche un incontro, martedì prossimo a Roma, con i vertici dell’amministrazione penitenziaria per chiedere interventi urgenti a garanzia della incolumità degli agenti penitenziari. Nel carcere di Ariano Irpino, prestano servizio 170 agenti, 20 in meno rispetto all’organico previsto, mentre i detenuti sono 270. Il detenuto tunisino, che deve scontare ancora 11 anni di carcere, era stato trasferito da alcuni mesi dal carcere di Poggioreale (Napoli) ad Ariano Irpino. Padova: droga ai detenuti, intercettato un etto di eroina nascosto in scatola di biscotti di Roberta Polese Corriere del Veneto, 20 settembre 2015 Lo stupefacente in un pacco di biscotti. Controlli nelle celle: spuntano cinque cellulari. La droga era nascosta in alcuni piccoli involucri di plastica ben celata dentro un pacco di biscotti destinati a un detenuto. Due giorni fa la polizia penitenziaria in servizio alla casa circondariale di Padova ha sequestrato 125 grammi di eroina intercettata dal metal detector cui vengono sottoposti tutti i pacchi in entrata destinati ai carcerati, n fatto è stato riportato in una dettagliata informativa consegnata in procura, e ora sono in corso indagini per capire da dove arrivasse la droga, e soprattutto il ruolo del detenuto, coinvolto con ogni probabilità in un giro di spaccio interno al carcere. Una volta trovata la droga gli agenti di polizia penitenziaria hanno dato subito l’avvio a una perquisizione nelle celle e sono stati trovati cinque cellulari illegalmente detenuti. Si tratta dell’ennesimo sequestro di questo tipo, che dimostra come i continui controlli messi in campo dalla polizia del carcere non siano in grado di fermare l’ondata di criminalità che continua anche dentro le celle. Lo scorso giugno infatti sempre la polizia penitenziaria aveva trovato alcuni uncini in ferro realizzati dai detenuti che stavano progettando una possibile evasione, oltre a un giro di sim-card per i telefonini che erano state nascoste dentro alcuni materassi nelle celle. Anche in quell’occasione la procura di Padova venne informata immediatamente dei fatti. Ora il ritrovamento dell’eroina destinata a un detenuto lascia credere che i traffici all’interno della casa di reclusione siano continuati durante questi mesi, nonostante la retata avvenuta l’anno scorso al quarto piano dei Due Palazzi. Fu un caso eclatante, che vide coinvolte alcune "mele marce" all’interno della struttura carceraria, si trattava di poliziotti infedeli che vennero rimossi immediatamente e che nulla avevano a che fare con tanti altri agenti che svolgono puntualmente e con responsabilità il proprio dovere. A distanza di un anno il problema della droga si ripresenta, segno che i controlli non bastano. "Questa è la dimostrazione che le forze in campo per combattere i traffici illeciti dentro il carcere Due Palazzi non sono adeguate - spiega Giovanni Vo-na del Sappe - ribadiamo che siamo in pochi e che nessuno sembra ascoltare le nostre esigenze, siamo pronti a far partire una vertenza nei prossimi mesi, la situazione è ingestibile ormai da tempo". Ora spetta alla procura indirizzare le indagini sulla droga sequestrata, e a scoprire da chi è stata mandata e, soprattutto, se qualche altro pacco è riuscito a superare i controlli. Imperia: Sappe; detenuto tenta la fuga… non si può gestire un carcere per telefono riviera24.it, 20 settembre 2015 Il Sappe chiede l’immediato reintegro della Polizia penitenziaria e l’assegnazione di un direttore. Un altro grave episodio ha fatto scattare l’allarme rosso nel carcere. "Proprio a ridosso del nostro consiglio regionale - commenta il segretario regionale del Sappe Michele Lorenzo - dove, alla presenza dell’On. Franco Vazio, dell’assessore regionale alla sanità, Sonia Viale e del segretario generale del Sappe Donato Capece, è stato affrontato lo scottante tema degli eventi critici causati dalla presenza, nelle carceri liguri, dei detenuti psichiatrici. A riprova di quanto questo sindacato ha illustrato durante l’incontro, in Liguria è avvenuto l’ennesimo evento critico: il personale di Imperia intento a sorvegliare in ospedale un detenuto straniero ricoverato con la procedura del Tso (trattamento sanitario obbligatorio) in quanto psichiatrico, ha tentato la fuga dall’ospedale di Imperia approfittando delle operazioni di somministrazione della terapia. Il detenuto - continua il Sappe - con uno scatto fulmineo si è diretto verso la porta della stanza colpendo con un violento pugno l’agente penitenziario intervenuto per impedire la fuga. Subito l’intervento del secondo agente con il quale si è riusciti a bloccare il detenuto riconducendo la situazione alla normalità". Sottolinea il segretario Lorenzo: "è da rimarcare la tenacia e sprezzo del pericolo che ha contraddistinto i colleghi nello sventare il tentativo di fuga sicuramente preventivato dal detenuto. Ammiro il comportamento del collega che, benché sanguinante ed intontito, non ha mollato la presa sul detenuto impedendone, di fatto la fuga. Il detenuto si era già reso protagonista di azioni violente sul territorio tanto da determinare l’arresto ed il ricovero con la procedura Tso". "Ma così non si può andare avanti - rimarca il Sappe - Imperia non ha la giusta considerazione da parte dell’Amministrazione centrale, carenza d’organico assenza di un direttore, assenza inaccettabile di un commissario vice comandante inviato senza alcuna motivazione nell’istituto di Pontedecimo ed un ispettore inviato a La Spezia, determinando una carenza di organico appurata di 16 unità. Oggi Imperia gestisce quasi 90 detenuti dei quali il 58% sono stranieri. Questo episodio si va ad aggiungere agli altri 60 eventi critici già avvenuti nel carcere di Imperia e non so sino a quanto la Polizia Penitenziaria di Imperia possa reggere". "Non si può - continua il Sappe - gestire solo per telefono un istituto importante e strategico come quello di Imperia, così come accade oggi perchè il direttore di Sanremo co-gestisce anche Imperia. L’appello del Sappe è rivolto alla magistratura: "Se il caso chiederò un colloquio con il Procuratore capo di Imperia chiedendo di accertare la sussistenza di responsabilità soggettive di chi sta condizionando negativamente la sicurezza dell’istituto". Stranieri e diritti. Le libertà che l’Europa assicura di Ernesto Galli della Loggia Correrie della Sera, 20 settembre 2015 Se è vero che il fenomeno della migrazione politico-economica che si sta rovesciando sull’Europa è un fenomeno di gigantesche proporzioni storiche, epocale come si dice, allora è quasi certo che la percezione complessiva che ne abbiamo non corrisponde alla realtà alla quale esso darà luogo quando si sarà definitivamente assestato. Oggi, insomma, esso ci appare una cosa diversa da quella che risulterà nei fatti, diciamo tra mezzo secolo. Per una semplice ragione, anzi due: che i fenomeni sociali evolvono in modo relativamente prevedibile nel breve-medio periodo ma in modo assolutamente imprevedibile su quello medio-lungo; e in secondo luogo perché il nostro sguardo e il nostro cervello sono, diciamo così, tarati per vedere da vicino o relativamente da vicino, non a distanza di decenni. Del futuro ci facciamo il più delle volte un’idea assai imprecisa; spessissimo sbagliata. Possiamo allora provare a considerare quanto oggi sta accadendo in modi un po’ diversi da quelli che di solito ci viene fatto di adoperare (tra l’altro sempre sotto la pressione di una fortissima polemica ideologico-politica nella quale siamo inevitabilmente coinvolti). Il primo modo diverso potrebbe essere questo. Lo spostamento di grandi masse perlopiù islamiche verso l’Europa è un riconoscimento inequivocabile delle conquiste realizzate dalla nostra civiltà. È una sorta di grande consultazione popolare realizzata con i piedi invece che con la scheda. C oloro che infatti fuggono dalla Siria, dall’Eritrea, dall’Afghanistan, dall’Iraq, non chiedono di stabilirsi in Turchia, non vogliono diventare ospiti permanenti della Giordania e del Libano che pure li accolgono di buon animo. Né pensano minimamente di cercare rifugio in Arabia Saudita o negli altri Stati del Golfo, tanto straripanti di ricchezza quando ferocemente discriminatori verso chiunque non abbia avuto la ventura di nascere entro i loro confini. No. Pur essendo perlopiù musulmane quelle grandi masse umane non mostrano alcun desiderio di restare nella "Terra dell’Islam". Esse cercano l’Europa. Vogliono stabilirsi qui, tra i crociati e gli ebrei amici del Grande Satana. Perché? Perché qui sanno di poter trovare un po’ di benessere, almeno un minimo di assistenza sociale, ma soprattutto un quadro di protezione legale, di libertà. Qui, per quante traversie gli capiti di vivere, quelle persone non sono alla mercé del potere arbitrario e spesso crudele che salvo pochissime eccezioni domina nei Paesi islamici. Esistono dei giudici, in Europa. Faremmo male, io credo, a sottovalutare il significato e le conseguenze di tutto questo, specie per quanto riguarda le seconde generazioni di chi oggi arriva tra noi. Per un giovane uomo che diventa un terrorista, dobbiamo chiederci, quante migliaia invece non lo diventano? E quante giovani donne, che a casa loro sarebbero rimaste delle analfabete sottomesse, decidono invece, dopo essere state nelle nostre scuole e aver visto la nostra televisione, di prendere in mano la propria esistenza e di non sottostare più all’antica autorità dei padri padroni? Beninteso pur restando gli uni e le altre islamici. E siamo qui al secondo modo diverso in cui forse dovremmo guardare al fenomeno odierno dell’immigrazione, cercando di immaginarne gli effetti sui tempi lunghi. Nel clima del suo nuovo radicamento in Europa che cosa ne sarà di questo Islam? Non è forse possibile pensare che esso conoscerà per esempio una profonda differenziazione interna, una pronunciata diversità rispetto a quello rimasto nelle sue aree originarie? E non è immaginabile che i contenuti di tale diversità, sviluppatasi sul terreno di un’inevitabile ibridazione con la nostra cultura, possano facilmente andare verso un maggiore orientamento allo spirito di razionalità, alla liberalità e alla tolleranza, verso un’inedita sobrietà di modi cultuali? Nulla è mai la stessa cosa dovunque, o dura immutabile. Così come già nel 600 il Cristianesimo di Amsterdam non era quello di Roma, ci fu anche un tempo in cui l’Islam di Cordoba o di Salonicco non era certo quello della Mecca. Oggi, insomma, gli europei temono che l’arrivo di tanti stranieri possa mutare negativamente il proprio modo di vivere e di sentire. Con molta più ragione, mi pare, dovrebbero essere però questi stranieri, e in prima fila quelli provenienti dall’Islam, a temere circa la possibilità di mantenere inalterato alla lunga il loro patrimonio culturale. E infatti i fanatici del cosiddetto Stato Islamico se ne sono accorti, e hanno già lanciato la scomunica contro chi decide di emigrare. Ma perché avvenga quanto ho ipotizzato, perché possano innescarsi i mutamenti di cui sopra, sono assolutamente necessarie due condizioni. Innanzi tutto che le società europee non si perdano dietro a un vuoto universalismo multiculturale, e quindi si mostrino ferme nel non abiurare la propria cultura e le proprie tradizioni; anche - per quanto possibile, e per quanto ciò possa apparire intollerabile al mainstream secolarista - la propria tradizione religiosa. In secondo luogo è necessario che i governi e gli Stati siano egualmente fermi nell’esercitare le loro prerogative in materia di ordine pubblico e di giustizia. Ciò richiede un oscuro impegno quotidiano, lo sappiamo: ed è difficile, costoso, spesso sgradevole, quasi sempre suscita le proteste indignate dei "buonisti" per partito preso. Ma è assolutamente necessario. Chi fa scempio con la massima indifferenza di un parco pubblico o gira abbigliato in modo improprio, o esprime propositi illegali, o vende merce contraffatta, va sanzionato sempre e senza esitazione. Altrimenti chi giunge tra noi avrà l’impressione di trovarsi non già in una società organizzata, con regole e principi suoi, attenta a tutelarli, non avrà l’impressione di trovarsi perciò a fare i conti con una cultura consistente e coerente con la quale il confronto è ineludibile; bensì crederà di essere capitato in un limbo sociale, in un nulla informe, in un non luogo senza norme e senza autostima. Dove quindi si può fare ed essere ciò che si vuole: naturalmente restando in tutto e per tutto quelli che si era prima. Il paese di sinistra senza più pace per 25 migranti di Aldo Cazzullo Corriere della Sera, 20 settembre 2015 C’è un paese in Toscana, ai confini con la Romagna, uno degli angoli più remoti - e rossi - d’Italia, in subbuglio per l’arrivo dei migranti. Da mesi ci si ribella, ci si batte, ci si divide. Anche se i migranti, come i tartari, finora non li ha mai visti nessuno. In mezzo al paese c’è la chiesa, la badia del Mille con cripta dell’VIII secolo. Dietro la chiesa c’è l’hotel ristorante pizzeria Bellavista, chiuso per mancanza di turisti: il proprietario, Paolo Mulinacci, l’untore, ha vinto il bando per ospitare i migranti. Davanti alla chiesa c’è l’hotel ristorante pizzeria La Foresta, pieno di turisti: il proprietario, Andrea Betti, è disperato perché i migranti li faranno fuggire. Quasi tutti in paese sono con lui. Per protesta hanno portato le chiavi dei negozi alla prefettura. Hanno ottenuto che i migranti da cento diventassero 25. Ma ora ci siamo, stanno per arrivare, dicono le voci da Arezzo. E la battaglia riprende. Una goccia nell’oceano di una questione epocale. Ma una goccia uguale a tante altre gocce. Qui tutto suona, ogni nome evoca un pezzo dell’identità italiana. Da Arezzo si sale verso Sansepolcro, nelle terre di Piero della Francesca, si attraversa la piana di Campaldino, dove Dante combatté con i guelfi di Firenze vincitori sui ghibellini. Le cime che dominano il paese sono il monte Falterona da dove nasce l’Arno, Camaldoli con il suo eremo, la Verna dove san Francesco in una notte del settembre 1224 ricevette le stimmate. Salendo agli 850 metri di Badia Prataglia, frazione di Poppi, i cipressi cedono ai pini, gli ulivi ai cerri, le viti ai castagni. Il luogo è selvaggio e bellissimo. Terra di Resistenza, qui passava la linea gotica, una lapide celebra quattro ragazzi "uccisi da rappresaglia nazifascista". Sindaco Pd, eletto con l’83%. Alle Europee il Pd ha preso il 62%, la Lega il 2. Dice Betti: "Prima facevo il barista, poi ho preso l’albergo in affitto, ora l’ho comprato. Ho investito mentre le banche della zona, Etruria e Montepaschi, chiedevano indietro i soldi. Ho dieci dipendenti, compresa mia moglie Loredana, romena, e sua madre Maddalena, la prima ad arrivare in Casentino. Le pare che io possa essere contro gli stranieri? Ma in paese 25 profughi non li possiamo prendere. Ufficialmente siamo 785, però i residenti sono meno, quest’anno abbiamo avuto 17 morti e neppure un neonato; in inverno non c’è lavoro, scendono tutti a valle, qui restano solo in 300, vecchi donne bambini. Chi li protegge? I vigili salgono da Poppi solo per fare qualche multa. Al valico con la Romagna c’è una caserma della polizia, ma la chiuderanno. I forestali erano 50, sono rimasti in cinque. Restano tre carabinieri ma dovranno pur fare i turni, no? Una notte su due i profughi saranno padroni dal paese. Chi ci assicura che siano tutti brave persone? Come possiamo fidarci di loro?". Mulinacci dice che con i giornalisti non parla, perché "se dico mela scrivono pera". Al bar del paese lo stanno processando l’insegnante in pensione, il pizzaiolo in pensione, la cancelliera del tribunale di Arezzo in pensione. "Ditemi: chi di voi nelle mie condizioni non farebbe la stessa cosa? Non sono il vostro carnefice. L’albergo è chiuso. Ci vivo con mia moglie e due figli, mi costa 7.500 euro l’anno di tasse. Nessuno di voi si è fatto avanti per comprarlo. Lo sapete che i turisti non vengono più come una volta: c’è un po’ di passaggio nei weekend e a Ferragosto; per il resto, niente. Io devo pur campare. Quella gente è un’opportunità". Lo interrompono: "Paolo, la tua non è accoglienza, è convenienza. Tu pensi al business, e noi passiamo per razzisti. Fai bene a farti i tuoi interessi; noi dobbiamo farci i nostri". "Ma mica verranno a mettere Badia a ferro e a fuoco! Sono tutti richiedenti asilo: li hanno già controllati, anche dal punto di vista sanitario…". La discussione è interrotta dalle immagini del tg. Eccoli finalmente i profughi, anche se solo in televisione. I badiani discettano della Merkel come fosse una vicina di casa. Sono informatissimi: gli hotspot, l’accoglienza diffusa, il traffico di falsi passaporti siriani. L’altro giorno è passato di qui un medico dell’ospedale di Pisa, ha detto che è proprio vero, i casi di tubercolosi sono in aumento, e pure di malaria. Un ragazzo molto simpatico, all’apparenza con qualche disturbo psichico - "iperattivismo" hanno detto i dottori - ripete: "Io ho paura di quei cento dei loro..."; "non sono cento, non devi aver paura" lo rassicurano. Un solo cliente del bar resta muto. A ogni battibecco chiude gli occhi celesti, si passa le mani tra i capelli bianchi. È il parroco, don Francesco Cecconi. "Sono qui da 48 anni. Questo è luogo di pace…". "Don Francesco dovrebbe prendere posizione sugli stranieri - dice Patrizia Marri la cancelliera in pensione -. Ci sono i frati di Ponte a Poppi, di Camaldoli, della Verna: potrebbero aprire i conventi per loro". Tutti concordano su un punto: "Il paese non è razzista. Si fa volontariato, c’è la Misericordia. Abbiamo sempre accolto tutti. A cominciare dal mafioso". Quale mafioso? Risponde Sara, la commessa del negozio di alimentari: "Trent’anni fa mandarono qui al confino un mafioso, Giuseppe. Gli portavamo da mangiare e da bere. Trovò lavoro come muratore, si spostava in motorino perché gli avevano tolto la patente. Ora il sù figliolo fa l’università. Poi ci mandarono gli albanesi, e tra loro c’era gente cattiva. Il Rosso, quello che dava noia alla mì cugina, è morto in una sparatoria. Un altro si è ucciso in macchina scappando dalla polizia. Altri ancora si sono integrati, ora sono badiani come noi. Poi ci mandarono i kosovari: gente tranquilla. Poi ci mandarono i rom dall’Isolotto di Firenze, ma per fortuna dopo 40 giorni li spostarono altrove: rubavano a man bassa e noi si faceva finta di nulla, le donne entravano qui in negozio e sotto i gonnoni facevano sparire di tutto, una volta anche un prosciutto, e quella volta ho detto: no, il prosciutto no. Infine ci hanno mandato pure i profughi macedoni. Avevano un capoclan, sfilavano in silenzio a baciargli le mani. Lavoravano come taglialegna. Quest’estate sono venuti i marocchini a vendere abusivamente le cose che vendiamo anche noi, i guanti da cucina, le tovaglie. Abbiamo sempre accolto tutti. Ma i migranti no. Non ce la facciamo. Loro no". "Diciamo la verità: Mulinacci, il mio collega, non ha voglia di lavorare - si sfoga Betti. Il suo era l’albergo più bello del paese, l’unico con l’ascensore; venivano i nobili, è venuto pure il Duce. Anche oggi, se ti dai da fare, se vai a funghi e a tartufi, se sei gentile, i turisti arrivano. Anch’io mi ero informato sui bandi: ti danno 37 euro al giorno per ogni migrante, sei mesi garantiti: fanno quasi 350 mila euro. Tanto loro sono musulmani, vino non ne bevono, prosciutto non ne mangiano, una pizza e via… tutto profitto. Facile così! Arrivano loro. E il paese muore". Mulinacci: "Anche a scuola c’era chi era più bravo di me. Non ce l’ho fatta. Non sono l’unica vittima della crisi. È vero, il Duce è stato qui, con donna Rachele: camera 24. Ho sentito che in Piemonte si sono autotassati per rilevare un albergo pur di non avere i neri: volete farlo anche voi? Ecco le chiavi. Perché non può finire come in altri paesi qui attorno? A Montemignaio ci sono 25 profughi, a Chitignano pure, e non è successo nulla". La Toscana non ha scelto l’"hotspot", il centro di raccolta, ma l’accoglienza diffusa. Ci sono state discussioni tra albergatori che ospitano e altri che non ospitano a Chianciano, a Viareggio. Nei paesi i migranti spesso si integrano, alle Piastre, sotto Pistoia, hanno partecipato pure al tradizionale campionato della bugia, un ivoriano Ibrahim Kone è arrivato terzo. Il sindaco di Poppi e Badia è un colosso con gli occhi chiari e i capelli legati a coda, Carlo Toni: "Non si ha idea della pressione. Su Facebook minacce di morte e insulti. Dalla prefettura due fax al giorno: "Altri mille sbarcati al Sud… Cento verranno in Toscana... Che si fa?". Ho trovato una famiglia che ne ospita cinque nella casa dove vivevano i genitori. "Il babbo e la mamma avrebbero voluto così" mi hanno detto. Poi ci sono i 25 del bando dell’albergo". "Non possono venire tutti da noi a Badia - si inserisce Alberto Ciampelli, consigliere comunale d’opposizione -. Ad Arezzo ne ospitano 260 su 90 mila abitanti; facciamo la stessa proporzione. Anche se il Tg3 ce l’ha con noi, qui non troverà nessuno che dice: non vogliamo i migranti. Non alziamo le mani, non tiriamo sassi; cantiamo l’inno del paese. Lo vuole sentire? "O Badia Prataglia dai mille color/ sopra i monti e tra gli abeti coglieremo i fior/ la mia fanciulla la più bella sarà/ nella sua pupilla splende la vivacità". Ma 25 di loro no. Sono troppi". L’untore Mulinacci è arrivato alla conclusione opposta: "La verità - dice in un sussurro - è che qui i profughi non li vogliono. E non lo vogliono neppure ammettere. Io non condanno i miei compaesani. Li capisco. Ma nella vita esistono stati di necessità". Esiste la crisi. Esiste il mondo globale, con le sue opportunità e le sue tragedie. E non se ne è al riparo. Da nessuna parte. Profughi benvenuti, in Austria è "rivoluzione di settembre" di Angela Mayr Il Manifesto, 20 settembre 2015 L’emergenza. 10 mila arrivi in un solo giorno, volontari instancabili. Paradossi austriaci: l’estrema destra della Fpoe vola nei sondaggi, lo spirito di accoglienza anche. "Alle 5 porto 100 uova sode, 20 chili di feta e dolci di cioccolata" posta sul sito Train of hope uno dei migliaia di volontari che prestano assistenza 24 ore su 24 alle stazioni di Vienna. "Ho raccolto tende, sacchi a pelo e impermeabili, tante altre cose le ho comprate" si legge invece su Soskonvoi, sono cose richieste con urgenza che verranno portate lontano, a Bregona, al confine sloveno e a Tovarnik al confine tra Croazia e Ungheria. Lì l’iniziativa Soskonvoi diventata famosa per essere andata a prendere i rifugiati in Ungheria ha attrezzato un suo ufficio: sul posto manca tutto, raccontano, acqua, cibo, riparo. Alla fine, venerdì notte i rifugiati intrappolati oltreconfine sono approdati alla frontiera austriaca orientale, a Nickelsdorf e Heiligenkreuz, dopo la lunga disperata odissea tra Croazia e Ungheria. 10mila in un giorno solo, alcuni a piedi. Grazie alla mobilitazione continua della società civile è stato possibile gestire l’accoglienza. Approdati. Solo sabato sera, attesi lì fin da venerdì, arrivo di profughi a Spielfeld al confine sloveno, dove sono stati attrezzati in ogni dove posti letto per 4000 persone. Decine di autobus dell’esercito hanno portato i rifugiati a Vienna, Salisburgo e Graz. Per molti c’erano subito i treni pronti in direzione Germania. Il controllo ai confini, oggetto di contrasto della coalizione di governo tra socialdemocratici (Spoe) e popolari (Oevp) avviene "a campione", o "per niente", come ha accusato il ministro degli interni della Baviera. L’Austria, paragonata a Italia e Grecia. I 1500 soldati austriaci schierati al confine con Ungheria e Slovenia svolgono soprattutto funzioni umanitarie e logistiche. A Graz, capoluogo della Stiria, un’ora dal confine sloveno, venerdì sera una fiaccolata di solidarietà organizzata dai giovani socialisti (Sj) e Ong ha attraversato la città: "Non solo di solidarietà, ma contro l’odio, la discriminazione e l’istigazione. Per l’estrema destra di H.C. Strache il sostegno ai rifugiati è una posizione di minoranza. Non è così, la maggioranza, prima silenziosa ha alzato la voce". Una manifestazione con candele e fiaccole ha attraversato venerdì anche Wiener Neustadt, capoluogo della Bassa Austria. Sabato tutto il pomeriggio e sera concerto in piazza per "ringraziare la popolazione che aiuta i rifugiati del centro di accoglienza di Traiskirchen". Dal canto suo la Fpoe, quasi scomparsa dai tg, su mega cartelloni annuncia la "Oktoberrevolution"(rivoluzione d’ottobre, si riferisce all’11 ottobre, elezioni di Vienna). Il movimento welcome refugees gli contrappone la "rivoluzione di settembre", la solidarietà concreta largamente diffusa. Rivoluzione di settembre o di ottobre? Nei sondaggi pubblicati dal settimanale Profil sabato, su scala nazionale il 33%, un terzo della popolazione, voterebbe per il partito di Strache, salito al primo posto. La Spoe del cancelliere Werner Faymann, attuale primo partito segue col solo 23%, l’alleato di governo, i popolari al 21%, i Verdi al 14%. Nello stesso sondaggio però un 72% condivide l’impegno della società civile verso i profughi, solo un 23% si sente rappresentato dalla xenofoba Fpoe su questo argomento. Il successo di questa dimensione della Fpoe, più e oltre la xenofobia il sondaggio lo riconduce alla impopolarità perdurante della grande coalizione fortemente divisa al suo interno, bloccata, considerata incapace di decidere e agire. In un altro sondaggio l’85% della popolazione si dichiara orgogliosa per il modo in cui l’Austria ha accolto i profughi. Venerdì e sabato a Vienna, su invito del cancelliere Faymann si è svolto un mini vertice di dirigenti di partiti socialdemocratici in vista del vertice europeo di mercoledì, con il vicecancelliere tedesco Sigmar Gabriel, il primo ministro svedese Stefan Loefven e Martin Schulz. Ribadita la necessità di investire subito 5 miliardi per i campi profughi vicini alla Siria, e su scala europea, la difesa del lavoro e il rilancio di un Europa sociale. Francia: caso Franceschi, la madre accusa "l’indennizzo è un insulto" di Laura Montanari La Repubblica, 20 settembre 2015 Cira Antignano, madre di Daniele Franceschi, il giovane viareggino morto a 36 anni nel 2010 dentro il carcere di Grasse, ha rifiutato l’indennizzo offerto dai francesi. Dice: "Cosa vuol dire un indennizzo? Sono soltanto soldi contro il suo diritto a vivere e io non me ne faccio niente, se li tengano". La proposta è arrivata alla vigilia del processo di appello. "Un’indecenza, ecco, è proprio un’indecenza". Un sospiro lungo come il ricordo. "Cosa vuol dire un indennizzo per la morte di mio figlio? Diecimila euro? Ventimila? Trentamila? Cinquantamila? Sono soltanto soldi contro il suo diritto a vivere e io non me ne faccio niente, se li tengano". Cira Antignano ha i capelli bianchi. Sulle pagine dei giornali la si vede sempre con in mano una foto di Daniele, suo figlio. Daniele Franceschi è morto il 25 agosto 2010 nel carcere francese di Grasse. "Non è morto, l’hanno fatto morire" corregge lei. "Come si permettono le assicurazioni dell’ospedale di offrirmi adesso un indennizzo?" chiede come se quella parola fosse una frustata su una ferita fresca. "Lo sanno che Daniele aveva scritto una lettera al direttore del carcere implorando un ricovero in ospedale perché stava male e ogni sua richiesta è stata negata? L’infermiera che hanno condannato al processo di primo grado, la mattina del 25 agosto gli disse di tornare in cella che era tutto a posto, che bastava un antidolorifico. Invece l’hanno trovato morto". Tutto il dolore come allora, tutta la rabbia, lo sdegno e il buio. Cira Antignano andrà a Parigi a protestare, a chiedere "perché non mi hanno mai restituito gli organi interni di mio figlio, cosa volevano nascondere?". Mille domande e altrettanti tormenti. "Io non so di cosa è morto mio figlio. Di un infarto, di una polmonite, di altro. Non so perché aveva il naso rotto. Quando mi hanno restituito il corpo è stato 55 giorni dopo la sua morte, non me l’hanno nemmeno fatto vedere e sa perché? Perché non l’avevano messo in una cella frigorifera. E mio mi chiedo ancora: perché? Se non per cancellare delle tracce?". Il 21 settembre si svolgerà al tribunale di Aix ex Provence in Francia il giudizio d’appello richiesto da una delle due infermiere, Stephanie Colonna, condannata ad un anno di reclusione (con pena sospesa) e a un anno in interdizione dalla professione, per la morte di Daniele Franceschi, viareggino, 36 anni, finito in carcere per aver usato al casinò una carta di credito clonata. L’altra infermiera anche lei in servizio nel carcere di Grasse, Francoise Boselli è stata assolta, il medico Jean Paul Estrade invece condannato dal tribunale a un anno di reclusione (pena sospesa), e a un anno di interdizione dalla professione. Cira Antignano, seguita dall’avvocato Aldo Lasagna, andrà a Parigi a prescindere da quella che sarà la sentenza d’appello: "E stavolta non mi muoverò da lì fino a che il presidente Hollande o qualcun altro non mi darà rassicurazioni, rivoglio gli organi di mio figlio perché mi appartengono". In quell’estate 2010 seppe della morte di Daniele due giorni dopo: il 27 agosto quando i carabinieri di Viareggio rintracciarono l’altro figlio, Tiziano. "Da allora è cambiato tutto nella mia vita. Vado avanti a depressione e tranquillanti, attacchi di panico e pasticche. Inseguo una normalità che non c’è più e io lo so. Vivo per dare giustizia a Daniele sapendo che comunque non sarà mai una giustizia piena dal momento che me l’hanno tolto per sempre. Aveva soltanto 36 anni, potete capirmi? Il suo compagno di cella raccontò che la mattina del 25 agosto non aveva voce, quello stesso giorno prima di morire Daniele mi scrisse una lettera, diceva che stava male, che aveva un forte dolore a un braccio e al torace. "Mamma sono settimane che ho questi dolori" mi è toccato leggere ed era già tardi per poterlo aiutare". Svizzera: detenuta 45enne trovata morta nella sua cella del carcere La Tuilière a Lonay Corriere del Ticino, 20 settembre 2015 Il corpo senza vita della 45enne è stato ritrovato questa mattina nella sua cella del carcere La Tuilière. Il corpo senza vita di una detenuta svizzera di 45 anni è stato ritrovato stamattina verso le 8.15 nella sua cella del carcere La Tuilière a Lonay (Vd). Secondo i primi accertamenti, viene privilegiata la pista di una morte naturale. Le cause esatte del decesso non saranno note prima di diversi giorni, ha spiegato all’ats la portavoce della polizia cantonale vodese, Olivia Cutruzzola. La macabra scoperta è stata fatta da un secondino. A nulla sono valsi gli interventi di un medico e due soccorritori. Una volta giunti sul posto non hanno potuto che constatare la morte della donna. Sulla vicenda è stata avviata un’indagine e un’autopsia è stata ordinata dalla procura vodese. Arabia Saudita: Alì, l’ultima vittima degli "amici" sauditi; sarà decapitato e il mondo tace di Fulvio Scaglione Avvenire, 20 settembre 2015 Ha 21 anni, si chiama Alì al-Nimr ed è stato condannato a essere decapitato, poi crocifisso e infine, per quel che resterà di lui, a essere portato in giro per le strade per servire da lezione agli altri. Dove accade tutto questo? In qualche landa della Siria o dell’Iraq occupata dall’Is? No, in un Paese "amico" dell’Italia come di tutte le democrazie occidentali, Stati Uniti in testa, per opera di un Governo cui vendiamo tutti un mucchio di armi tanto da averne fatto, quest’anno, il primo compratore di armi del mondo: l’Arabia Saudita. Per capire meglio quanto accade, bisogna raccontare chi è il ragazzo condannato a quell’atroce fine. Alì è nipote di Sheikh Nimr al-Nimr, 53 anni, illustre esponente della minoranza sciita. Da sempre critico della monarchia degli Al Saud, lo Sheikh è stato tra i protagonisti delle proteste del 2011-2012, quell’abbozzo di Primavera che le autorità saudite hanno stroncato con la repressione. Arrestato nel luglio 2012, torturato, autore di un lungo sciopero della fame, Nimr al-Nimr è stato condannato a morte (anche lui decapitazione, crocifissione e gogna) il 15 ottobre del 2014. Ora tocca a suo nipote, arrestato durante i disordini del 2011. In carcere c’è anche il padre del ragazzo, Mohammad, colpevole di aver dato notizia della condanna a morte del fratello Sheikh con un tweet. A questo possiamo aggiungere qualche altro fatto. Nelle carceri dell’Arabia Saudita (29 milioni di abitanti) ci sono 30 mila prigionieri politici. Se e quando verrà eseguita, la decapitazione di Ali al-Nimr sarà la numero 90 del 2015, in netto aumento rispetto alla già sconvolgente quota del 2014: 88. Non molto tempo fa Raif al-Badawi, un blogger, è stato condannato a dieci anni di prigione e mille frustate per aver aperto in Rete una discussione sul ruolo dell’islam nel sistema giudiziario. Da moltissimi anni, per intenderci dal sostegno al terrorismo in Cecenia fino al finanziamento dell’Is in Siria, l’Arabia Saudita è in prima linea nel fomentare e incrementare qualunque forma di estremismo (anche armato), in omaggio alla forma di islam, quella wahabita, che le fa da religione di Stato ed è con ogni probabilità la più intransigente di tutto la galassia islamica. La domanda quindi è: perché l’Arabia Saudita non entra mai nelle liste degli "Stati canaglia"? Perché, al contrario, tutti corrono a omaggiare i suoi regnanti? Perché nessuna cancelleria alza la voce di fronte alla ricorrente barbarie di Stato saudita? Nell’ottobre dell’anno scorso, in Iran, una giovane donna di 27 anni, Reyhaneh Jabbari, fu condannata a morte e impiccata per aver ucciso l’uomo che aveva tentato di stuprarla. Una decisione orrenda, che provocò decine di appelli internazionali di politici e intellettuali. Vogliamo scommettere che per Alì al-Nimri non succederà nulla di simile? Perché? L’impunità garantita ai sauditi ha radici lontane, economiche e politiche. Dall’inizio degli anni Settanta l’amicizia con il primo estrattore al mondo di greggio ha messo l’Occidente al riparo da un altro choc petrolifero come quello del 1973. E dalla fine dello stesso decennio, l’asse con i Paesi sunniti, primo fra tutti appunto l’Arabia Saudita, è servito a contenere il timore per l’Iran investito nel 1979 dalla rivoluzione khomeinista. A tutto questo, però, abbiamo pagato un caro prezzo: diffusione dell’islam radicale grazie soprattutto ai petrodollari sauditi, terrorismo, instabilità, indifferenza ai diritti umani di cui, per altri Paesi, così tanto ci preoccupiamo. Se era una strategia non ha funzionato, perché oggi il Medio Oriente sta peggio che mai. Qualche piccola avvisaglia di un cambiamento di rotta per la verità si vede. Di nuovo grazie al petrolio e al gas: con le nuove tecnologie di estrazione (il cosiddetto fracking), gli Usa e il Canada sono diventati autosufficienti, liberi da qualunque ricatto. E la tenacia con cui Barack Obama ha perseguito l’accordo sul nucleare con l’Iran, che tanto fa arrabbiare i sauditi, fa pensare che il Governo di Ryad pesi un po’ meno nelle strategie occidentali. Ma per Alì al-Nimr e tanti altri come lui sarà sempre troppo tardi. Pakistan: Human Rights Watch "stop a impiccagione di condannato paralizzato" Ansa, 20 settembre 2015 La Ong Human Rights Watch (Hrw) ha rivolto un pressante appello alle autorità del Pakistan affinchè sia sospesa l’esecuzione della condanna a morte per impiccagione fissata per martedì di Abdul Basit, che è dal 2010 su una sedia a rotelle, paralizzato dalla vita in giù. In un comunicato diffuso a New York Hrw sottolinea come "questo caso sottolinea la crudeltà che è connaturata con la pena capitale permettendo l’esecuzione di essa nel caso di una persona severamente disabile". Basit, ex amministratore di una università medica, è stato condannato a morte nel 2009 per omicidio. L’anno successivo, mentre era nel ‘braccio della mortè del carcere di Faisalabad, ha contratto una meningite tubercolare che ne ha provocato la paralisi della parte inferiore del suo corpo. Al riguardo il direttore per l’Asia di Hrw, Brad Adams, ha osservato che "piuttosto che interrogarsi sulla crudeltà connaturata con la pena capitale, i funzionari pachistani stanno scervellandosi su come impiccare un uomo su una sedia a rotelle. Ritengo che il Pakistan dovrebbe urgentemente commutare la sentenza di Basit". Dopo il cruento attacco dei talebani ad una scuola pubblica dell’esercito pachistano a Peshawar il 16 dicembre 2014 in cui morirono quasi 150 persone quasi tutti studenti, il premier Nawaz Sharif ha revocato la moratoria sulla esecuzione della pena di morte che era in vigore dal 2008. E ciò ha fatto sì che il Pakistan sia il Paese al mondo che ha eseguito più condanne a morte.