Carcere di Parma: a chi dice “qui abbiamo sempre fatto cosi”… di Giovanni Donatiello Ristretti Orizzonti, 1 settembre 2015 Noi rispondiamo: “ma non sarebbe ora finalmente di cambiare?”. Luglio 2015: fine del feudalesimo nel carcere di Parma? A volte l’accostamento degli eventi storici diversi può apparire banale, in quanto affermare che per il sol fatto che fenomeni “rivoluzionari” siano scoppiati nello stesso periodo dell’anno abbiano una qualche analogia è davvero improbabile. Infatti, ogni moto rivoluzionario ha alla sua origine delle ragioni sociali, politiche ed economiche diverse, ma in comune tutti hanno avuto sempre il riconoscimento dei diritti negati alla persona nelle forme più svariate di tirannia, e cosi quasi per gioco mi azzardo a ricordare le ricorrenze della proclamazione d’indipendenza degli Stati Uniti d’America e la rivoluzione francese, avvenute entrambe nel mese di luglio. Eventi che hanno modificato il corso della storia dell’umanità con la conquista della libertà, dei diritti universali e l’adozione delle assemblee di rappresentanza dei ceti popolari. Per restare allora a questa idea di luglio e di rivoluzione, vorrei percorrere le tappe del luglio 2015 che si è concluso in questo carcere di Parma. Questo istituto, balzato agli onori della cronaca solo negli ultimi tempi, ha avuto in passato come sua peculiarità l’impenetrabilità, e anche quando fatti di cronaca più o meno noti sono stati portati alla luce, i riflettori si sono inspiegabilmente spenti e tutto è caduto nel dimenticatoio lasciando le condizioni della vita detentiva immutate, ovvero invivibili! Qualche tempo fa poi tutto è iniziato con la notizia che nella sezione AS1 sarebbero dovuti arrivare da Padova ben 16 detenuti, ciò avrebbe significato che nella stragrande maggioranza i detenuti sarebbero stati alloggiati in celle a due, che tradotto in termini pratici significa secondo me violazione dell’art. 3 della Convenzione dei diritti dell’uomo (Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti). Preso atto della situazione che si stava per verificare, i detenuti della sezione AS1 sottoscrivevano una lettera aperta lamentando l’assenza di percorsi trattamentali, la carenza strutturale delle attività scolastiche, lavorative, formative e culturali, la condizione inaccettabile di alcuni detenuti, tra cui chi scrive, stipati in due in uno spazio esiguo al di sotto dei 3 metri quadri per il quale si configura il reato di tortura. Si faceva appello inoltre alla necessità che gli arrivi previsti per disposizione ministeriale fossero bloccati a tutela dei diritti delle persone qui detenute. L’appello non è rimasto inascoltato, e a partire proprio dal primo luglio con l’incontro avuto con il Provveditore regionale Pietro Buffa si sono susseguiti una serie di incontri e visite presso questo carcere proprio per verificare le condizioni della vita detentiva. Per amor del vero, è doveroso segnalare che il nuovo direttore, Carlo Berdini, precedentemente all’incontro con il Provveditore aveva incontrato i detenuti della sezione AS1 dimostrando la propria disponibilità per cercare di rimediare alle carenze ataviche presenti in particolar modo proprio nella sezione AS1. Una grossa mole di lavoro è stata poi fatta dal garante comunale, Roberto Cavaliere, il quale è stato sempre presente durante le varie fasi di questi incontri, e si è accompagnato sia alla delegazione di Antigone, sia al Garante regionale Desi Bruno, che ha voluto verificare di persona le reali condizioni di vita di coloro che condividono la cella, ha voluto controllare gli spazi e in modo particolare le condizioni igieniche e sanitarie. Ne è seguito un documento che denuncia la violazione dell’art. 3 della Convenzione dei diritti dell’uomo. Il 28 luglio poi c’è stato l’incontro con Ornella Favero, direttrice della rivista “Ristretti Orizzonti”, che è stata autorizzata dal capo del DAP, dott. Santi Consolo, a condurre un’inchiesta sul circuito AS 1 e sulle declassificazioni. Tutti i detenuti sentiti hanno convenuto che è stato un incontro importante e costruttivo. Anche il direttore ha accettato di partecipare a una parte dell’incontro, che si svolgeva con gruppi formati da 5/6 detenuti. La presenza del direttore ci ha permesso di approfondire tematiche riguardanti il trattamento, la declassificazione, la sanità e la vivibilità interna sotto diversi aspetti. Di fronte alle nostre incalzanti richieste, il direttore ci ha invitati a preparare un documento, chiedendo un impegno comune per una leale collaborazione affinché si possano migliorare, e non ci vuole poi tanto, le condizione della detenzione in questo carcere. Il suo impegno è stato di convocare una delegazione di detenuti per un confronto continuo. La giornata si è conclusa con la visita in sezione di Ornella Favero, che ha potuto verificare le condizioni di vita all’interno della cella. Ebbene ditemi voi se questo luglio 2015 in via Burla non dovrà essere ricordato come il mese rivoluzionario, considerato che tutti i detenuti che sono ristretti in questa sezione da anni non avevano mai avuto modo di vedere accedere nella sezione del personale che non fossero quasi esclusivamente agenti della polizia penitenziaria! Allora potremmo anche azzardare che il sistema di tipo feudale con cui è stato spesso gestito il carcere di Parma è stato violato e portato alla luce… questa volta però, i riflettori non si spegneranno cosi facilmente fintanto che non si apporteranno quelle modifiche necessarie per garantire una vita detentiva decente, nel rispetto della dignità umana, alle persone qui detenute. Agosto 2015 - Stranezze del carcere di Parma: panettone a ferragosto! Arrivano i dati Istat: il prodotto interno lordo (P.I.L.) nel secondo trimestre è in rialzo dello 0,2% e cosi nel pieno del ferragosto gli attori principali degli schieramenti politici snocciolano le loro analisi dando i loro giudizi sulla ripresa economica. Nel gioco delle parti le posizioni si distinguono tra chi intravede un segnale positivo, frutto dell’azione di governo, e chi giudica negativamente questo dato e di conseguenza ritiene fallimentare la politica del governo. Io che sono uno sprovveduto in tema di economia politica, colgo qualche segnale positivo nel rialzo del P.I.L., attingendo dall’esperienza empirica, cioè dalla programmazione della produzione in prospettiva futura, ad esempio, la produzione dei panettoni per le festività natalizie. La mattina del 15 agosto 2015 infatti nel carcere di Parma sono stati distribuiti, da parte dell’amministrazione, dei panettoni formato mignon. Sono rimasto meravigliato, chiedendomi il perché di questa concessione, in quanto qui non si distribuiscono dolci o merendine da parte dell’amministrazione, fatta qualche rarissima eccezione nel corso di diversi anni, come invece accade, perché previsto dalle tabelle ministeriali, in tutti gli istituti d’Italia, o almeno in tutti quelli da me “visitati”, e in questi lunghissimi oltre ventinove anni di carcere ne ho girati tanti. Sono ricorso ad un accostamento tra aumento del P.I.L. e produzione panettoni, perché si potrebbe notare una interessante propensione al consumo, considerato che già in agosto si producono i panettoni, ma mi sorge il dubbio che i panettoni che oggi ci sono stati distribuiti non siano di nuova produzione quanto piuttosto rimanenze di magazzino che ci hanno rifilato nel pieno dell’estate ferragostana, considerato anche che le confezioni mancavano di qualsiasi indicazione. Questo dilemma mi ha portato a fare una scelta: non mangiare il panettone, se non altro per tener fede a quel detto calcistico, riferito agli allenatori, secondo il quale quando le cose vanno male l’allenatore rischia di “non mangiare il panettone”, cioè di non arrivare neppure a Natale. Io però spero proprio di non mangiarmi neanche il panettone di Natale a Parma, o meglio di mangiarne qualcuno di più buono altrove e non in questo posto dove di stranezze - uso un eufemismo - se ne sono verificate tante e al limite dell’incredibile, ne farò una raccolta per stimolare le menti più ingegnose in tema di “logica”. Nel precedente diario dal carcere di Parma, sezione AS1, pubblicato sulla news letter di Ristretti Orizzonti, ho portato alla luce una serie di situazioni che in questo istituto si sono “cristallizzate” e appaiono “inviolabili”, perché frutto, a mio avviso, di un lavoro scientifico che sembra mirare all’annientamento psicofisico e alla infantilizzazione della persona. Mi sono limitato ad illustrarne alcune sommariamente, successivamente proporrò le situazioni limite tutte verificabili e riscontrabili da documentazione, che accadono qui… Non è affatto una dichiarazione di “guerra”, ma soltanto una presa d’atto di un sistema custodiale opprimente, che speriamo cambi quanto prima. Il nuovo direttore, Carlo Berdini, si è detto pronto ad affrontare i tanti problemi esistenti, noi ci attendiamo una proficua discussione, affinché una volta per tutte in questo carcere si vada “controcorrente” in senso positivo, cioè contro quella che era la corrente dominante, la propensione a gestire il carcere come se dovesse essere tutto regolato sulla base del regime duro del 41 bis. Io infatti spero che in un “mondo” dove sono stati innalzati dei muri ideologici, possa, invece, abbattersi definitivamente questo muro istituzionale che c’è stato e che ancora c’è (in parte), tra detenuti e direzione, per non sentirsi più rispondere, con una sufficienza disarmante, da parte di chi è preposto alla sicurezza o responsabile di qualsiasi altro comparto: “qui siamo a Parma”. Come dire che a Parma vigono altre leggi, altri regolamenti rispetto al “resto del mondo”. Ma la frase più pericolosa in assoluto è: “qui abbiamo sempre fatto cosi”. Giustizia: estate nera di suicidi nelle carceri, in otto mesi le vittime sono state 32 di Ilaria Sesana Avvenire, 1 settembre 2015 Un cinquantenne si è tolto la vita. Dodici i decessi nei mesi di luglio e agosto. I volontari: il caldo eccessivo e il vuoto di attività vanno ad appesantire un periodo già particolarmente difficile. Si continua a morire nelle carceri italiane. Nella notte tra domenica e ieri Giorgio S., 50 anni, si è tolto la vita impiccandosi poche ore dopo essere entrato nel carcere del Bassone di Como. Non hanno potuto fare nulla gli agenti di polizia penitenziaria che hanno trovato troppo tardi il corpo dell’uomo: i disperati tentativi di rianimarlo non sono serviti. Giorgio S. era stato portato nel penitenziario solo poche ore prima, con un carico pesantissimo di accuse: sequestro di persona, violenza sessuale e tentato omicidio ai danni dell’ex convivente. Sale così a 32 il numero dei suicidi nei penitenziari italiani dall’inizio dell’anno. L’ultima morte - forse - di questa estate particolarmente difficile nelle carceri durante la quale ben 12 persone si sono tolte la vita tra i mesi di luglio e agosto. Appena cinque giorni prima del suicidio del Bassone, era stata la volta di un ragazzo catanese di 32 anni: l’affidamento in prova ai servizi sociali non era andato bene e così Remo R. era tornato dietro le sbarre nel carcere di Gela dove si è tolto la vita, il 26 agosto scorso, impiccandosi. A Ferragosto la morte di una ragazza di 27 anni che si è tolta la vita a Pisa: aveva alle spalle appena due settimane di detenzione. Mentre nel carcere romano di Regina Coeli, tra il 19 e il 20 luglio, due persone si sono tolte la vita: un ragazzo romeno di 18 anni e Ludovico C, l’uomo arrestato meno di 24 ore prima con l’accusa di aver ucciso un gioielliere romano durante una rapina. “L’estate è un momento particolarmente difficile per chi si trova in carcere”, commenta Ornella Favero, volontaria e direttrice della rivista Ristretti orizzonti, cu- rata da un gruppo di detenuti del “Due Palazzi” di Padova. Sovraffollamento e caldo rendono più difficile sopportare le giornate in cella. Soprattutto quando le temperature sono elevate come negli ultimi mesi. Al caldo, agli spazi limitati e ai disagi che affliggono le celle italiane bisogna poi aggiungere il “vuoto” di attività che caratterizza la quasi totalità degli istituti di pena. “Le attività trattamentali si interrompono da giugno a settembre. In alcuni casi fino a ottobre. E questo succede in un momento dell’anno difficile soprattutto per chi è solo e lontano dalla famiglia. Interrompere completamente le attività è una follia”, dice Favero. Anche le attività di volontariato - spesso - si fermano: vuoi per un calo della presenza, vuoi per la riduzione del numero di agenti di polizia penitenziaria a causa delle ferie. Prevenire i suicidi in carcere resta un compito difficile. Spesso non basta aumentare la sorveglianza per i più giovani e per coloro che si trovano per la prima volta a fare i conti con la detenzione. Lo stesso vale per coloro che, dopo anni di carcere, sono prossimi al fine pena: in tanti, vinti dall’ansia e dalla paura del “vuoto” che li attende fuori dalla cella, si sono tolti la vita. “Ci sono tante situazioni complesse anche durante la detenzione”, spiega Ornella Favero, che torna a rivendicare con forza la battaglia di Ristretti Orizzonti per ampliare i momenti e gli spazi per i colloqui tra detenuti e famiglie. “Un provvedimento che non costa nulla, ma che porterebbe grandi benefici”, sottolinea. Ad esempio la possibilità - già sperimentata al “Due Palazzi” - per i detenuti che non possono fare i colloqui con le famiglie a causa della distanza, di usufruire di una video-chat via Skype. Opportunità di cui beneficiano soprattutto gli stranieri, ma anche chi ha lasciato la famiglia in Sicilia o in Calabria. A Padova, inoltre, il direttore ha concesso la possibilità per i detenuti di fare due telefonate in più rispetto alle quattro consentite dal regolamento. “La vera prevenzione consiste nel rafforzare tutto ciò che rende la vita carceraria più umana - conclude Favero. A volte, sentire la voce di una persona cui vuoi bene in un momento difficile può fare la differenza”. Soltanto nel 2005 una stagione così funestata da “gesti estremi” A luglio e agosto si sono tolte la vita 12 persone nelle carceri italiane. Il dato è stato diffuso ieri dall’Osservatorio permanente sulle morti in carcere a poche ore dal suicidio di un uomo nel penitenziario di Como. Sale cosi a 32 il numero dei suicidi registrati nel corso del 2015 mentre, complessivamente, sono 78 i detenuti morti in carcere nel corso degli ultimi otto mesi. Dodici suicidi in soli due mesi rappresenta un triste record, sottolinea l’Osservatorio, che eguaglia quello del 2005. Anno in cui, però, “negli istituti penitenziari vi erano oltre 60mila persone, costrette in uno stato di intollerabile sovraffollamento, a cui fu posto momentaneo rimedio l’anno successivo con la concessione di un indulto”. Nel 2005, furono 12 i detenuti che si tolsero la vita tra luglio e agosto, mentre a fine anno se ne contarono complessivamente 57. Nel luglio del 2006 fu concesso l’indulto e i suicidi durante quell’estate furono sei. In base ai dati raccolti dall’Osservatorio, a partire dal 2000 e fino al 31 agosto 2015, 875 persone si sono tolte la vita nelle carceri italiane. Mentre il numero complessivo dei decessi, considerando anche le morti per cause naturali e incidenti, è di 2.450. Negli ultimi anni, inoltre, si registra una lieve flessione nel numero complessivo di suicidi: rispettivamente 44 e 49 nel 2014 e nel 2013 contro le 60 del 2012, i 66 del 2011 e del 2010 o i 72 del 2009. Giustizia: il conto dei suicidi in carcere e una proposta di Rita Bernardini (Segretario di Radicali Italiani) Il Garantista, 1 settembre 2015 Anche l’ultimo se ne è andato impiccandosi in una cella del carcere di Como. È il trentaduesimo detenuto che si toglie la vita dall’inizio dell’anno. “Ristretti Orizzonti” informa, con il suo dossier “morire di carcere”, che tra luglio e agosto in dodici si sono suicidati nelle patrie galere. Giorgio Napolitano, quattro anni fa -cioè due anni prima del suo unico messaggio costituzionale alle camere - parlò della situazione carceraria italiana in un convegno organizzato dai radicali. Napolitano fu lapidario: “È una realtà che ci umilia in Europa e ci allarma, per la sofferenza quotidiana - fino all’impulso a togliersi la vita - di migliaia di esseri umani chiusi nelle carceri”. Poneva la questione sotto il profilo del mancato rispetto da parte dell’Italia di diritti umani fondamentali, consacrati non solo nella nostra Costituzione ma in tutte le carte europee e dell’ONU. E nel messaggio Etile Camere datato ottobre 2013 (!) poneva solennemente l’accento sull’OBBLIGO per il nostro Paese di uscire immediatamente - prefigurando anche un provvedimento di amnistia e di indulto - da una condizione di manifesta illegalità, condannata per anni in sede Europea. Il trentaduesimo suicida, quello di ieri, fa parte della schiera di “indesiderabili” vittime della strage di legalità e di diritto che a cuor leggero gli Stati sovente impongono ai loro popoli in nome di una “ragione” che anziché salvarli (i popoli) li rende martiri di un potere tanto cieco quanto spiegato. Marco Pannella, due giorni fa, ha pronunciato la parola OLOCAUSTO riferendosi alle migliaia di migranti morti per asfissia nei furgoni e nelle stive delle navi, o nelle persecuzioni di cristiani e musulmani da parte dei fondamentalisti dell’Isis. Anche loro appartengono alla schiera degli “indesiderabili”, come lo erano gii ebrei e altri gruppi etnici e religiosi nella Germania nazista. Quel termine, Pannella lo usò anche quando, all’inizio degli anni 80 del secolo scorso - cioè 35 anni fa - intraprese la lotta radicale contro lo sterminio per fame che venne sostenuta da oltre 130 Premi Nobel, 1.300 sindaci, 12 capi di stato africani. Anche allora poneva il problema sotto l’aspetto della violazione dei diritti umani universalmente riconosciuti, e sulla necessità vitale di assicurare il diritto alla conoscenza delle genti, dei popoli. Oggi, mentre insiste su quella parola -”Olocausto” -, offre al nostro Stato la possibilità di farsi promotore, nel corso dell’imminente sessione ONU, di una risoluzione che, rivolgendosi a tutti i Paesi, promuova la “transizione” verso lo stato di diritto democratico, laico, federalista, e il diritto universale alla conoscenza. Perché il rispetto dello stato di diritto è a garanzia degli ultimi, dei diseredati, dei senza potere. E se lo è per loro lo sarà per tutti, senza violenze e prevaricazioni. La proposta - o, meglio, il monito - è rivolto anche ai Paesi che si ritengono solidamente “democratici” ma che albergano in sé i germi, anche visibili, di una insidiosa crisi di valori e di democrazia. Ci auguriamo che anche questa volta, come capitò per l’istituzione della Corte Penale Internazionale o per la Moratoria delle esecuzioni capitali. Marco Pannella sia ascoltato dal Governo italiano e dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella: i giorni perché l’auspicio - anzi il progetto -pannelliano possa prendere corpo non sono molti, visto che l’Assemblea plenaria all’ONU prenderà il via il 28 settembre. Siamo proprio agli sgoccioli. L’Europa, finora assente ed ignava, tenta di correre ai ripari sul tema dei migranti. Temiamo che le decisioni che si appresta a prendere siano tardive e soprattutto inefficaci. L’ONU è stata richiamata alle sue responsabilità, anche dall’autorità religiosa. Finora, però, non ci pare di aver ascoltato un progetto della vastità e della profondità di quello proposto dal leader radicale. Sembra che sia qualcosa di impossibile: ma, come Pannella spesso ricorda, nei momenti più gravi occorre, con lucido coraggio, mettere in atto il motto cristiano, “Spes cóntra spem”. Intorno al quale, come possiamo, sollecitiamo la convergenza di coloro che hanno compreso quale sia il baratro verso il quale ci stiamo, tutti, avviando. Giustizia: per il Giubileo dei detenuti 2016 in mille saluteranno il Papa “sindaco” di Paola Zanca Il Fatto Quotidiano, 1 settembre 2015 Giubileo detenuti 2016. In 1.000 saluteranno il Papa “sindaco”. Il sindaco di Roma sarà affiancato da un tutor, il prefetto Gabrielli, che controllerà, vigilerà e di fatto avrà l’ultima parola su ogni operazione e appalto del Giubileo prossimo venturo. Ma a Ignazio Marino e tutor la linea la detta direttamente un’altra testa, una che per definizione è infallibile. Sul Fatto Quotidiano Paola Zanca prende a pretesto l’ultima delibera della Giunta (Marino è ancora ai Caraibi) per ironizzare sul Papa sindaco, il Papa commissario. La delibera definisce il “Piano organico e coordinato” del Giubileo, rigorosamente ispirato al “Misericordiae Vultus”, la bolla di Papa Francesco che annuncia l’evento santo. E dedicato agli ultimi della Terra. Quindi niente opere faraoniche, tipo il terminal dei pullman sulla salita del Gianicolo dell’ultimo Giubileo: anzi, torpedoni a 2 km dal Vaticano, suggerisce il Papa, fuori dal raccordo, rilancia l’assessore ai Trasporti Esposito. Tra gli ultimi della Terra, poveri, diseredati, ammalati, migranti, senza casa, ci sono anche i carcerati. Papa Francesco desidera che mille di loro vengano a salutarlo di persona il 6 novembre. Detto, fatto, anche se qualche apprensione per una grande fuga ci sono. Ce n’è uno che a Roma preoccupa particolarmente: è quello del 6 novembre 2016, Giubileo dei carcerati. Francesco vuole un migliaio di detenuti in piazza San Pietro: ma chi garantisce che nessuno ne approfitti per la fuga? L’ipotesi, al momento, pare quella di ridurre l’eventuale danno scegliendo reclusi vicini alla fine della pena, in modo che abbiano meno incentivi all’evasione. La collaborazione tra le forze dell’ordine italiane e la gendarmeria vaticana è regolata da trattati internazionali. Che non prevedono soluzioni per le bizzarrie di un papa, figuriamoci di un papa-sindaco. Giustizia: una giungla di 90mila associazioni, così prospera la finta antimafia di Nino Femiani La Nazione, 1 settembre 2015 Bilanci e attività poco trasparenti, eppure è facile accedere ai fondi. “Basta erogare soldi pubblici ad associazioni che nascono dal nulla: l’antimafia non può essere un mestiere”. Lo ha detto in un’intervista pubblicata ieri sul Qn il procuratore di Reggio Calabria, Gratteri. Che ha criticato il governo: “Ha fatto piccole cose, ma manca di coraggio”. Non ci sono solo le associazioni benemerite. Non ci sono solo nomi come Libera, Fai, Addiopizzo o Agende rosse. Intorno all’impegno antimafia è cresciuta una galassia di sigle su cui ora si allunga un’ombra. Una “faccia oscura dell’antimafia” (la definizione è della giornalista Federica Angeli) che rischia di compromettere il lavoro che alcune associazioni svolgono da lustri e che il procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Nicola Gratteri, ha voluto ancora una volta denunciare nell’intervista al QN. In questo cono d’ombra si muovono decine di soggetti che hanno capito che intitolare un circolo a un eroe dell’antimafia significa ottenere aiuti pubblici e privati. Per creare un club antimafia basta un banale atto costitutivo con tanto di statuto e la richiesta di iscrizione nell’albo regionale delle associazioni di volontariato o anche, più semplicemente, all’anagrafe comunale delle associazioni. Il numero delle associazioni registrate in Italia si avvia a raggiungere la quota di 100mila (a gennaio erano 87mila), metà delle quali ha lo status di Onlus e può partecipare (previa iscrizione al registro dell’Agenzia delle entrate) al 5 per mille dell’Irpef. E sempre più crescono quelle che si fregiano del nome dei martiri antimafia - da Borsellino a Falcone, da Libero Grassi a Peppino Impastato - che, in maniera non sempre trasparente, gestiscono risorse pubbliche (anche immobili sequestrati) e quote associative. I conti? Escluse le fondazioni storiche, il resto non ha quasi mai pubblicato un bilancio on line. Negli ultimi tempi, poi, personaggi considerati delle icone antimafia sono finiti nei guai. “Dispiace vedere come nascano paladini dell’antimafia sempre più spesso, salvo poi accorgersi che si tratta di persone che nella loro vita per combattere Cosa Nostra hanno fatto poco”, ha detto Tina Montinaro, vedova di Antonino, uno dei poliziotti uccisi nella strage di Capaci. Il caso più clamoroso è quello di Roberto Helg, presidente di Confcommercio Palermo e vicepresidente della Gesap, la società che gestisce l’aeroporto “Falcone e Borsellino”. FU arrestato con l’accusa di estorsione, stesso reato contro cui diceva di battersi. Uno dei tanti, imbarazzanti, paradossi siciliani. Altra vicenda è quella di Antonello Montante, delegato di Confindustria per la legalità, accusato da tre pentiti di amicizie compromettenti coi mafiosi. O, in Campania, la parabola antimafia dell’ex senatore dei Ds, Lorenzo Diana, raggiunto da un provvedimento di divieto di dimora per la metanizzazione di alcuni Comuni controllati dal clan dei Casalesi. “L’antimafia è nella storia del nostro paese. Ma il termine antimafia è connesso con il termine legalità”, dice Salvatore Calieri della Fondazione Caponnetto. Ma molti lo hanno dimenticato. Giustizia: Ferri; abbiamo fatto tanto contro la mafia ma l’allarme di Gratteri va ascoltato di Andrea Bonzi La Nazione, 1 settembre 2015 Verifiche “a raggi X sui soggetti che riceverebbero questi finanziamenti” e controlli “su come questi soldi vengono spesi”. Cosimo Maria Ferri, magistrato e sottosegretario alla Giustizia del governo Renzi, rilancia così l’allarme del Procuratore Nicola Gratteri sui professionisti dell’Antimafia. Sottosegretario, sa che ci sono ben 87mila associazioni in Italia legate in vario modo alla lotta al crimine organizzato? “Non si può generalizzare, ma certo l’allarme di Gratteri non va sottovalutato. Io credo molto nel contributo del volontariato, si pensi al lavoro svolto da Libera di Don Ciotti: dopo aver dato atto del lavoro a chi si è impegnato, però, bisogna controllare bene che cosa facciano concretamente e quanti finanziamenti percepiscano”. È ipotizzabile una stretta ai fondi degli enti locali a questi soggetti? “Bisogna verificare i meccanismi dei finanziamenti, magari anche gli stessi Prefetti possono svolgere una funzione di controllo. L’importante è distinguere caso per caso”. Nell’intervista a QN, Gratteri è stato critico col governo. Dice che ha fatto “piccole cose”. “Un giudizio ingeneroso. Il ministro tiene in grande in considerazione i lavori delle commissioni presiedute da Canzio e dallo stesso Gratteri, gliel’assicuro”. Il procuratore dice che, a parte l’inasprimento del 41bis (reati di mafia), i 150 articoli del suo pacchetto di norme giacciono in un cassetto. “Non è vero, abbiamo lavorato su molti spunti offerti dalla relazione della commissione”. Qualche esempio? “Abbiamo rivisto l’articolo del 416 ter che riguarda il voto di scambio tra politica e mafia, uno dei reati più insidiosi, come dimostrano gli intrecci di Mafia Capitale. Prima era difficile da applicare, l’abbiamo migliorato. Poi c’è il reato di auto-riciclaggio, che era proprio nelle proposte di Gratteri, così come la riforma dei reati ambientali, con nuove ipotesi di reato anche a seguito della questione della Terra dei fuochi. E altri spunti sono stati recepiti negli emendamenti del governo al ddl sul processo penale, ora alla Camera, come la revisione per consentire ampi margini per il dibattimento a distanza, che vale per imputati e testimoni”. Eppure Gratteri dice che manca il coraggio per dare veramente una svolta alla lotta al crimine. È così? “Il coraggio non è affatto mancato: quelli che ho elencato sono fatti, non parole. Non siamo fermi, tutt’altro. Certo, non abbiamo recepito tutto il pacchetto”. Le intercettazioni: il sì arriverà entro l’anno, ha detto il ministro Orlando. La materia è calda, non teme intoppi all’orizzonte? “No, le linee guida le ha indicate il ministro: vogliamo garantire lo strumento investigativo, è indispensabile. Fermo restando il diritto alla cronaca, vareremo però misure che, senza alcun equivoco, fermino la pubblicazione di conversazioni che non c’entrino nulla col processo penale e coinvolgano persone che nulla hanno a che vedere con le indagini, nel rispetto della privacy”. Giustizia: il capo dell’antiracket Tano Grasso “fondi concessi solo ad enti col bollino blu” di Nino Femiani La Nazione, 1 settembre 2015 Nei primissimi anni 90, Grasso, commerciante di scarpe di Capo d’Orlando (Me) convinceva un gruppo di negozianti a denunciare gli estorsori. Ex deputato Ds, oggi è presidente della Federazione antiracket “Gratteri ha ragione, non si può fare dell’antimafia un mestiere. Immagino una carta delle associazioni che definisca princìpi e modalità operative per ogni associazione che voglia definirsi antimafia”. Tano Grasso è da sempre schierato sul fronte delle iniziative contro Cosa Nostra. Il Presidente onorario della Federazione antiracket e antiusura, punta il dito contro il proliferare di iniziative che ottengono l’imprimatur dell’antimafia. “La responsabilità è in primo luogo dei mass media”. La colpa è sempre dei giornalisti. “Venticinque anni fa quando iniziai questa battaglia coi commercianti di Capo d’Orlando, se nasceva una nuova associazione, i giornalisti mi chiamavano e chiedevano: “Tano, chi sono questi, c’è da fidarsi?”. Oggi non più. Prevale il clamore mediatico, la creazione di personaggi dietro ai quali, talvolta, non c’è nulla. A volte c’è solo la furbizia di chi si mette in mostra per accreditarsi. Si dà una patente antimafia a gente che con quest’impegno non ha nulla a che vedere”. Davvero non c’è possibilità di scoprire questi millantatori? “Le verifiche si possono fare. Noi, come associazione antiracket, siamo soggetti a controlli che sarebbe possibile immaginare anche per i soggetti che beneficiano di sostegni pubblici”. Quali sono questi controlli? “Intanto siamo per legge sottoposti a un controllo da parte delle prefetture”. Siete gli unici. “Sì, è vero, quelle antiracket sono le uniche associazioni a essere regolate per legge: dal 1994, per iniziativa dell’allora ministro dell’Interno Maroni, una legge poi modificata nel 2007” In cosa consiste il controllo? “C’è una legge che mi obbliga, se intendo creare un’associazione antiracket, a comunicare alla prefettura del territorio interessato statuto e nomi dei soci: sarà compito suo verificare eventuali precedenti penali. È un filtro importante a cui ne sarà aggiunto un altro tra poche settimane”. Quale? “Nel regolamento di iscrizione all’albo delle prefetture bisognerà documentare che l’associazione abbia accompagnato i commercianti a denunciare. Niente denunce, niente riconoscimento. Non bastano in convegni nelle scuole o le iniziative con gli studenti, occorrono atti concreti”. Ma non ci sono solo le associazioni antiracket... “Per le altre io penso a una carta delle associazioni”. Sembra una cosa burocratica. “No, immagino un documento capace di definire princìpi e modalità vincolanti per ogni associazione che voglia definirsi antimafia. Insomma, uno strumento di autoregolamentazione. Una sorta di ‘bollinò da parte delle principali associazioni. Non basta il nome: occorre la sostanza”. Giustizia: Ncd “sulla prescrizione non votiamo”… e sulle intercettazioni è lite dem-grillini di Silvia Barocci Il Messaggero, 1 settembre 2015 La maggioranza rischia di andare in cortocircuito su due importanti dossier della riforma della giustizia. Se da un lato Andrea Orlando è fiducioso che in settembre il ddl sul processo penale, contenente la delega al governo sulle intercettazioni, otterrà il primo via libera alla Camera e quello definivo entro la fine dell’anno, dall’altro il Guardasigilli dovrà fare presto i conti con il “no grazie” di Ncd sul raddoppio dei termini di prescrizione per i reati di corruzione. Gli alfaniani non hanno trovato un accordo col Pd e si apprestano a chiedere lo stralcio dell’articolo in questione, altrimenti voteranno contro. Bisogna riavvolgere il nastro per comprendere il perché della presa di posizione di Ncd. In aprile, per blindare il varo definitivo del ddl anticorruzione, la maggioranza si accordò per affrontare separatamente il capitolo prescrizione e sulla base di quella dichiarazione d’intenti gli alfaniani ritirarono gli emendamenti. Più volte il viceministro alla Giustizia Enrico Costa (Ncd) aveva fatto notare che, alla luce dell’aumento delle pene per i reati contro la pubblica amministrazione, un contemporaneo raddoppio dei termini per questi reati avrebbe portato alla perseguibilità anche dopo più di 20 anni dalla commissione del fatto. Il tentativo di un accordo - portato avanti da Nico D’Ascola per Ncd e David Ermini per il Pd - sembrerebbe al momento naufragato, salvo ripensamenti o nuove proposte dell’ultima ora. In Commissione Giustizia al Senato, d’altronde, l’esame della prescrizione sarà successivo a un altro provvedimento che il governo Renzi ritiene prioritario - il ddl sulle unioni civili - rispetto al quale Ncd ha già deciso di smarcarsi. La seconda partita, sulla riforma del processo penale, riprenderà alla Camera, non prima di metà settembre. Il Movimento Cinque Stelle continuerà sulla linea dell’ostruzionismo che in luglio aveva fatto slittare il primo via libera dell’aula. Ma i tempi saranno contingentati: i circa 350 emendamenti saranno votati entro il mese, al massimo i primi di ottobre. Stavolta Ncd, da sempre in pressing sulle intercettazioni, concorda con il Guardasigilli sul fatto che l’attuazione della delega, contenuta nella riforma del processo penale, possa avvenire “a strettissimo giro”. Il timing è il seguente: subito dopo il primo via libera alla riforma del processo penale sarà nominata la Commissione che inizierà a stendere l’articolato di attuazione della delega. I cui punti fermi - ha garantito Orlando nella sua intervista al Messaggero di ieri - restano tre: “nessuna modifica alle intercettazioni come strumento investigativo; sì a tutte le modifiche possibili e necessarie ad impedire la diffusione di quelle che non hanno alcuna rilevazione penale; garanzia del diritto di cronaca”. Per il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Rodolfo Sa belli, si tratta “di principi giusti in teoria ma la delega al governo è troppo vaga, bisognerà vedere come questi principi potranno essere trasformati in norme utili ed efficaci”. M5S si prepara a dare battaglia: “la riforma del processo penale che stanno varando è una mostruosità giuridica e non avranno mai la delega in bianco sulle intercettazioni. Si vuole mettere il bavaglio al giornalismo d’inchiesta”. Walter Verini (Pd) replica con durezza: “la polemica M5S sulle intercettazioni va del tutto contro la realtà dei fatti”. Verini ricorda infatti di aver presentato, assieme ad Ermini, un emendamento che supera il contenuto di quello a firma di Pagano (Ncd) sulle intercettazioni “rubate”. Il correttivo Pd mette al riparo il giornalismo d’inchiesta in quanto esclude dalla punibilità coloro che di nascosto compiono registrazioni o riprese “per l’esercizio del diritto di difesa o del diritto di cronaca”. L’emendamento deve essere ancora votato dall’aula. Giustizia: l’ex Guardasigilli Flick “le intercettazioni irrilevanti restino in cassaforte” di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 1 settembre 2015 “Ora tutti dicono che sulle intercettazioni irrilevanti va trovato un equilibrio tra diritti. Ma quale? Io 18 anni fa ne avevo suggerito uno: il diritto più importante è la segretezza e l’inviolabilità delle comunicazioni”. Giovanni Maria Flick, da ex ministro della Giustizia ed ex presidente della Corte Costituzionale, perché bisogna cambiare la legge? “I problemi grandi tornano sempre. Leggo, sul Corriere, che il vicepresidente Csm Legnini auspica una norma da tempo, e sento il ministro Orlando parlare di un’approvazione in 4 mesi. Lo prendo come buon augurio. Io tentai nel 1996 con una norma che affrontava il problema vero”. Quale? “Tra diritto di cronaca, tutela della privacy e segretezza delle comunicazioni cosa sacrifico e quanto? C’è il principio superiore della tutela delle indagini, ma sacrificare la segretezza delle comunicazioni sarebbe come introdurre la tortura. La privacy va tutelata ma un po’ meno”. Quale modifica auspica? “Prevedere l’udienza per il deposito dove giudice, pm e difesa decidono cosa non serve per il processo. Che non va eliminato (domani potrebbe diventare rilevante), ma chiuso in cassaforte e la chiave la deve avere il pm”. Uno di loro potrebbe riferire. “Ma non avranno i brogliacci che ora girano come coriandoli”. Perché le modifiche ora? “La conversazione Renzi-Adinolfi sul presidente Napolitano ha fatto tornare di attualità un problema mal sopito, riportando a galla a pettegolezzi e affermazioni che nulla hanno a che fare con vicende giudiziarie”. C’è chi obietta: sono personaggi pubblici. “Sì. La sfera di privacy si comprime perché altri hanno diritto a sapere. Il politico ne ha un tasso inferiore. Ma il diritto al segreto delle comunicazioni ce l’hanno tutti, anche i politici. Lo dice la Costituzione all’articolo 15”. È quello invocato dai potenti nei guai? “La Costituzione dice che la legge lo può limitare quando è in gioco un interesse importante; scoprire i reati, non sapere gli affari degli altri. E infatti il codice prevede le intercettazioni solo quando sono “assolutamente indispensabili per proseguire le indagini”: il che vuol dire niente intercettazioni a strascico”. E il controllo sociale? “Va tutelato. Ma non si può fare con ciò che è stato acquisito ai fini dell’indagine e poi si è rivelato inutile per il processo”. E il diritto di cronaca? “Deve restare quando il giornalista pubblica un’intercettazione abusivamente diffusa da altri facendola uscire dalla cassaforte. Se invece il giornalista concorre alla fuga, ovviamente ne risponde anche lui come gli altri”. Giustizia: al via la “Rete” contro il caporalato di Gianmario Leone Il Manifesto, 1 settembre 2015 Da oggi si potranno iscrivere le imprese “virtuose”: dovranno essere in regola con i contratti e i contributi. Il governo, con l’Inps, i sindacati e le imprese, annuncia un piano entro dieci giorni. Controlli a tappeto nel tarantino: i braccianti in nero “concentrati” nei pullman di notte Partirà da oggi per le aziende agricole italiane, la possibilità di aderire alla “Rete del lavoro agricolo di qualità”, l’organismo autonomo nato per rafforzare le iniziative di contrasto dei fenomeni di irregolarità e delle criticità che caratterizzano le condizioni di lavoro nel settore agricolo. Per iscriversi basterà collegarsi al sito Internet dell’Inps e presentare apposita domanda che una cabina di regia esaminerà per poi emettere la delibera di accettazione nell’arco di 30 giorni. Le aziende che passeranno la selezione riceveranno un certificato che ne attesterà la qualità ed entreranno a far parte della “Rete” ideata dal ministero della Politiche agricole. La richiesta potrà essere presentata dalle imprese agricole che non hanno riportato condanne penali e non hanno procedimenti penali in corso per violazioni della normativa in materia di Irpef e Iva; e che non sono state destinatarie, negli ultimi 3 anni, di sanzioni amministrative definitive e che sono in regola con il versamento dei contributi previdenziali e dei premi assicurativi. Questa è soltanto una delle iniziative messe in campo dal governo per provare a contrastare il fenomeno del caporalato e del lavoro nero in agricoltura. Alla quale seguirà uno specifico piano operativo, che la cabina di regia della Rete, presieduta da Fabio Vitale, capo della vigilanza sul sommerso dell’Inps, dovrà mettere a punto entro il 10 settembre, secondo quanto stabilito dal recente vertice al ministero delle Politiche agricole e forestali con il ministro titolare, Maurizio Martina, e il suo collega al Lavoro, Giuliano Poletti. Sull’argomento è intervenuto ieri anche la sottosegretaria al Lavoro, Teresa Bellanova, che in un’intervista a Tv2000 ha dichiarato come “in questo momento è fondamentale far partire la cabina di regia con l’elenco delle aziende che si impegnano effettivamente a non fare ricorso al caporalato. Oltre a estendere il reato di riduzione in schiavitù non solo ai caporali ma anche agli imprenditori che ne fanno ricorso”. Bellanova è un’esperta del campo visto che da oltre quarant’anni combatte contro i caporali. Nel lontano 1975, quando era ancora una giovane bracciante agricola, denunciò lo sfruttamento nelle campagne del brindisino. Mentre nel 1979, divenuta sindacalista della Cgil, venne minacciata da alcuni caporali entrati nella sede del sindacato. La linea del governo, e le misure annunciate, ricevono un primo apprezzamento dalla segretaria generale della Cgil, Susanna Camusso, che ieri ha dichiarato come “bisogna comparare l’attività mafiosa a quella dei caporali” e chiede “che vengano applicati i contratti dei lavoratori e si costituisca un meccanismo di controllo pubblico verificato”. Intanto in Puglia proseguono i controlli a tappeto delle forze dell’ordine. Sono 53 i lavoratori irregolari scoperti dai Carabinieri di Taranto, nel corso di servizi straordinari di controllo nell’ultimo weekend. Ben 24 le aziende agricole controllate, che hanno subito sanzioni amministrative pari a 47 mila euro per lavoro irregolare. Sotto la lente sia le aziende che i mezzi di trasporto (soprattutto gli autobus) che conducono i braccianti sui luoghi di lavoro, partendo da Comuni come San Giorgio Jonico, cittadina dove viveva Paola Clemente, la lavoratrice morta durante le fasi dell’acinellatura dell’uva in un tendone di Andria il 13 luglio scorso. Dallo stesso paese era partito il bracciante tarantino di 42 anni, Arcangelo De Marco, ancora ricoverato in coma nell’ospedale San Carlo di Potenza, dopo aver avuto un malore nella zona del Metapontino (sono in corso indagini delle Procure di Trani e Matera). Le verifiche hanno riguardato tutto l’arco della provincia di Taranto, dal fronte orientale da dove partono i braccianti, a quello occidentale dove insistono numerose aziende agricole. La maggior parte dei lavoratori privi di contratti di assunzione è stata rilevata proprio sui pullman in partenza nella notte. Infine, si attendono novità dalla Procura di Foggia sulla presunta morte di un bracciante maliano nel ghetto di Rignano Garganico, dove la tensione negli ultimi giorni si taglia a fette. La Flai Cgil attende, come dichiarato dal segretario Giuseppe Deleonardis, di sapere “se si è trattato solo di una voce, o se dietro questa voce c’è qualcosa di concreto”. La riforma della custodia cautelare boccia le motivazioni fotocopia di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 1 settembre 2015 Va scarcerato l’imputato se il Gip si è appiattito sulle motivazioni del pubblico ministero. È questa una delle conseguenze della legge di riforma della custodia cautelare, entrata in vigore da pochi mesi (lo scorso 8 maggio). Lo sottolinea il tribunale di Napoli, nella veste di giudice del riesame, con ordinanza del 19 maggio. Il tribunale, dando per scontata un’applicazione retroattiva della nuova legge n. 47 del 2015 (l’ordinanza che disponeva la carcerazione preventiva nei confronti di due imputati era del 18 marzo), ritiene di dovere verificare la “tenuta” della misura alla luce delle novità della riforma. E una delle principali riguarda proprio l’arricchimento dei motivi che stanno alla base della decisione del giudice: si prevede infatti che l’ordinanza cautelare deve contenere non solo “l’esposizione”, ma anche “l’autonoma valutazione” degli elementi chiave (esigenze cautelari, indizi, irrilevanza delle argomentazioni difensive). In aggiunta, la riforma, che muove da una realtà carceraria che vede ancora un gran numero di persone detenute in attesa di giudizio, stringe le maglie anche sul potere integrativo che non può essere esercitato in tutti i casi in cui “la motivazione manca”. In questo senso, avverte il tribunale di Napoli, “trova, quindi, oggi, un’esplicita conferma, nel codice, l’indirizzo giurisprudenziale secondo cui il Tribunale del riesame deve annullare il provvedimento cautelare nell’ipotesi di motivazione mancante (in senso grafico), alla quale sembra doversi continuare a equiparare quella in cui la motivazione è meramente apparente”. Una situazione quest’ultima in cui che si può riscontrare quando le argomentazioni sono in realtà solo apparenti e si risolvono in semplici clausole di stile o proposizioni ad alto tasso assertivo e basse motivazioni. Il dovere di annullare l’ordinanza presa scatta poi, senza potere procedere a integrazioni, quando è assente una valutazione puntuale dei punti chiave, come nel caso di motivazioni del tutto allineate quelle del pubblico ministero, senza il minimo sforzo critico. Insomma, no al “copia e incolla”, quando il Gip recepisce in maniera del tutto acritica quanto sostenuto dalla pubblica accusa sulla gravità degli indizi a carico. E, nel caso esaminato, l’ordinanza si limita a ripetere “pedissequamente” il contenuto della richiesta del Pm, riproducendone anche la stessa struttura grafica e la ripartizione in capitoli e paragrafi, utilizzando le medesime parole senza nessuna ulteriore aggiunta, commento, osservazione da parte del giudice delle indagini preliminari. Nessuna rielaborazione quindi. A partire proprio dalle esigenze cautelari, punto questo su cui a lungo avevano invece insistito le difese. Così il tribunale del riesame non può che prendere atto della preclusione normativa che è stata introdotta dalla legge di riforma che, nel ridisegnare i poteri dello stesso tribunale nei casi di carenza di motivazioni, impedisce di procedere a “rimettere in piedi” con una nuova e inedita valutazione gli elementi alla base della carcerazione preventiva. Inevitabile allora l’annullamento dell’ordinanza. Tanto più se si tiene presente quanto sostenuto dalla relazione dell’Ufficio del massimario della Cassazione, che ritiene vada annullata l’ordinanza emessa dal tribunale del riesame a integrazione di un’ordinanza carente di autonoma valutazione sulla gravità degli indizi o sulle esigenze cautelari. Il sostituto dell’avvocato non può chiedere il rito abbreviato Il Sole 24 Ore, 1 settembre 2015 Corte di cassazione, Seconda sezione penale, sentenza n. 35786 del 31 agosto 2015. La semplice sostruzione del difensore di fiducia non è, da sola, sufficiente ad autorizzare il sostituto a richiedere il giudizio abbreviato. In caso contrario si determina la nullità del procedimento che è di ordine generale e deve essere rilevata d’ufficio oppure eccepita nei motivi di appello. La sostituzione secondo l’articolo 102 del Codice di procedura penale, infatti, riguarda il mandato alle liti e la rappresentanza processuale, ma non comporta l’esercizio di poteri atipici come quelli sulla domanda di riti alternativi. Nessuno deve sapere il nome del Comune sciolto per mafia di Guglielmo Saporito Il Sole 24 Ore, 1 settembre 2015 Tar Lazio - Sezione I - Sentenza 20 agosto 2015 n. 10899. Privacy e giustizia amministrativa in cerca d’intesa sulla pubblicazione dei nomi delle parti litiganti. Un recente episodio è quello espresso dalla sentenza Tar Lazio 22 agosto 2015 n. 10899, sullo scioglimento per condizionamento mafioso di un consiglio comunale calabro. Gli argomenti trattati sono delicati, perché individuano i rapporti tra potere politico e consorterie locali; il verdetto finale è sfavorevole agli amministratori pubblici, che in gruppo (sindaco e consiglieri comunali), si erano rivolti al Tar contestando il decreto del Capo dello Stato e la relazione ministeriale densa di riferimenti ad appalti e opacità. I nomi degli amministratori sono in chiaro, ma la privacy ha risparmiato il nome del Comune legittimamente commissariato. Ci si domanda ora quale interesse vi possa essere a mantenere riservato il nome del Comune mentre sono chiaramente individuati gli amministratori che con il loro comportamento poco trasparente hanno generato lo scioglimento. Oltretutto, a suo tempo la Gazzetta Ufficiale riportava in chiaro la località interessata, sia nel decreto di scioglimento sia nell’ampia relazione prefettizia giustificativa dello scioglimento. E inoltre, la sentenza ritiene infondato il ricorso degli amministratori avverso lo scioglimento e quindi conferma la legittimità della misura governativa. Peraltro i cittadini amministrati e tutti i soggetti che intrattenevano rapporti con l’ente locale (fornitori, altri soggetti pubblici) da più di un anno erano a conoscenza dello scioglimento, non essendovi più né un sindaco in carica né giunta né altri componenti di organi elettivi: quindi la privacy sembra stata applicata per evitare un generico disonore a largo raggio, sul territorio nazionale. Potrebbe a questo punto pensarsi a un errore della segreteria del Tar, che ha cancellato il nome della Comune invece del nome degli amministratori ricorrenti: ma in questi termini il problema sposta su un piano ancor più delicato. Se infatti esistono provvedimenti di portata generale, che interessano la collettività qualificandola come male amministrata, la privacy dei singoli (gli amministratori) deve retrocedere rispetto all’interesse generale a conoscere la sentenza che chiarisce cosa sia avvenuto nell’ente locale (Africo, Rc, nel caso specifico). E ciò deve valere sia per i provvedimenti di scioglimento (che infatti sono integralmente pubblicati in Gazzetta Ufficiale, e quindi su internet) sia per le sentenze che confermano la legittimità di tali provvedimenti. Il ragionamento si presta a significative estensioni, poiché la giustizia amministrativa di frequente affronta problemi di ampio interesse, quali quelli antitrust, tutela consumatori, appalti, privatizzazioni, infrastrutture strategiche, incentivi, investimenti pubblici (swap), per i quali, giunti alla sentenza, è importante conoscere tutti gli aspetti esaminati nell’interesse della giustizia. Un settore critico riguarda la gestione delle liti su infiltrazioni mafiose negli appalti pubblici: spesso le sentenze su queste liti sono oscurate e rendono anonime (e sostanzialmente meno utili) pronunce molto ben argomentate in diritto su situazioni giudicate compromesse (per tutte, Consiglio di Stato n. 3653/2015 sulla gara per la vigilanza alle sedi della Banca d’Italia). Sarebbe utile, oltre che logico, che almeno le sentenze dalle quali può desumersi l’esistenza delle infiltrazioni (cioè le sentenze di rigetto dei ricorsi delle imprese) siano gestite assicurando spazio alla privacy dei litiganti, ma tutelando anche l’interesse generale che non solo è presente in ogni pronuncia del giudice, ma e lo è maggiormente quando le pronunce tentano di arginare operazioni poco trasparenti che danneggiano la comunità. Lettere: intercettazioni e clausola dell’omertà di Claudio Cerasa Il Foglio, 1 settembre 2015 Non c’è riforma possibile se non si combatte il diritto dei pm di sputtanare. Nella buona intervista rilasciata ieri al Messaggero da Andrea Orlando, ministro della Giustizia del governo Renzi e (maligniamo noi) possibile candidato per la segreteria del Pd in vista del prossimo Congresso democratico, ci sono molti passaggi condivisibili sul futuro della riforma della giustizia e alla fine della chiacchierata compare anche una condivisibile affermazione sull’urgenza di mettere giù e approvare entro la fine dell’anno una legge che possa regolamentare l’utilizzo delle intercettazioni telefoniche. La direzione è sacrosanta ma all’interno della sua disamina il ministro della Giustizia punta a ricordare che al centro della riforma ci sarà anche “la garanzia del diritto di cronaca”. Nessuno, neanche noi pericolosi reazionari convinti che l’Italia viva sotto una costante e inquietante dittatura del regime delle intercettazioni, pensa che sia necessario limitare il diritto di cronaca - ognuno, ovviamente, è libero di pubblicare ii letame che vuole. C’è però, e il ministro Orlando tradisce questo tic politicamente corretto, un equivoco grande così che si annusa ogni volta che si parla di riforma delle intercettazioni. Ci si preoccupa molto di chi bisogna tutelare - ah, la sinistra dei diritti - ma ci si dimentica spesso di ricordare che il vero problema della diffusione pazza delle intercettazioni non riguarda i giornalisti (ognuno pubblica il letame che vuole) ma riguarda le fonti originarie da cui i giornalisti attingono le intercettazioni: le procure. Sappiamo bene che un atto pubblico è un atto pubblico e che ciò che è pubblico e inserito in un fascicolo giudiziario può essere pubblicato. Ok. Ma quando diciamo che per capire il problema delle intercettazioni bisogna andare a monte vogliamo dire, anche al ministro Orlando, che oggi un magistrato che sceglie di inserire in un fascicolo giudiziario delle intercettazioni che riguardano persone estranee a un’indagine, magari solo per il gusto di sputtanare qualcuno e inserire un bignè in quei noiosi faldoni, è un magistrato che tecnicamente sta facendo bene il suo lavoro; e nel caso in cui abbia commesso un errore sa che comunque la passerà liscia perché sarà un altro magistrato a giudicare se ha sbagliato oppure no. Fino a che vigerà la clausola dell’omertà, ci permettiamo di definirla così, e fino a che non vi sarà una responsabilità civile allargata anche ai furfanti delle intercettazioni, non vi sarà purtroppo alcuna legge sulle intercettazioni che potrà funzionare - e alla fine spiace dirlo ma legge o non legge rischia di cambiare davvero poco rispetto al sistema attuale. Caro ministro Orlando, siamo sicuri che ne valga la pena? Lettere: caro Orlando, se riformi le intercettazioni... di Piero Sansonetti Il Garantista, 1 settembre 2015 Il ministro Orlando, in un’intervista al Messaggero, ha promesso che la riforma delle intercettazioni sarà conclusa entro l’anno. Non è facile credergli, per la semplice ragione che questa riforma non è gradita a due categorie professionali che - alleate e quasi fuse tra loro - sono diventate la più robusta potenza politica, in Italia: i magistrati e i giornalisti. Molto più potente di qualunque partito politico, più potente dei sindacati e di ogni possibile aggregazione sociale o intellettuale. Quantomeno in materia di giustizia, magistrati e giornalisti, negli ultimi 25 ann,i hanno dettato legge. E ancora un mese fa si sono opposti, indignati, a un passaggio breve breve della legge sulle intercettazioni che - esplicitamente - proibisce intercettazioni private, prese a tradimento, e usate non a scopo di indagine ma per danneggiare una persona e rovinargli la reputazione al di fuori delle normali vie giudiziarie. Di fronte alla contestazione mosse da Pm e giornalisti, ai primi di agosto, il governo e i partiti di maggioranza si ritirarono subito in buon ordine. Possiamo credere che ci abbiamo ripensato e abbiano deciso di affrontare la battaglia e di infischiarsene dei veto dell’Anni e della Fnsi? Sarebbe bello che fosse così. Oggi l’uso selvaggio delle intercettazioni, e addirittura la loro trasformazione in materiale di spettacolo (il festival del “Fatto” del quale parla qui sotto Fulvio Abbate) sono uno degli aspetti più incivili della nostra macchina della giustizia. Ma sono il sistema più semplice, sia per i Pm sia per i giornalisti, per manganellare chi vogliono senza bisogno di prove, di indizi, e spesso persino senza ipotesi di reato. Riuscirà il ministro Orlando a prevalere su di loro? Se riuscirà merita una medaglia. Io, però, ne dubito. Sicilia: minori e detenuti senza Garanti da due anni, silenzio assordante della Regione di Rossella Fallico Quotidiano di Sicilia, 1 settembre 2015 L’ufficio del Garante dei carcerati è vacante dall’agosto 2013, violando di conseguenza la Legge Regionale 5/2005. Rimaste inapplicate le leggi regionali che hanno istituito le figure a tutela dei loro diritti Qualche settimana fa sulle pagine del QdS abbiamo raccontato la storia della piccola Desirè, una neonata che pur non godendo di ottima salute è costretta a vivere all’interno del carcere Pagliarelli di Palermo insieme alla madre Mirella. La nascitura, di neanche un mese di vita, si trova così a scontare la pena inflitta alla madre, che ha evaso gli arresti domiciliari per ben tre volte: rimasta incinta non è più uscita dal carcere, se non per dare alla luce la piccola che non ha mai vissuto la vera vita al di fuori di quelle sbarre. La ragione è tanto semplice quanto paradossale: nella nostra Isola non esistono Icam, ovvero strutture adeguate ad accogliere madri detenute con i figli e il Garante dei detenuti appare come una figura “fantasma”. La Sicilia è stata tra le prime regioni del Belpaese ad aver introdotto la figura del Garante dei detenuti, con la legge regionale n.5 del 2005, ma dall’agosto del 2013, l’ufficio è vacante. Per la serie non è mai troppo tardi, qualcosa sembrerebbe smuoversi per la creazione di un Istituto a custodia attenuata per detenute madri: secondo il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria è stato avviato un progetto per la creazione di un Icam a Barcellona Pozzo di Gotto, in provincia di Messina, al fine di migliorare le condizioni dei figli di genitori detenuti. Ma intanto, chi si occupa di risolvere situazioni allarmanti come queste? La situazione delle carceri è sempre attuale e delicata, soprattutto se si tratta di minori che devono scontare una pena o, ancor più, di detenute madri che si trovano ad affrontare delle gravidanze all’interno degli istituti penitenziari. Stando agli ultimi dati, aggiornati al 31 luglio 2015 dal ministero della Giustizia, il totale nazionale è di 198 istituti penitenziari con una capienza regolamentare di 49.655, che tuttavia ospitano ben 52.144 detenuti, di cui 2.122 donne e 17.035 stranieri. Per la Sicilia i detenuti presenti in 23 istituti penitenziari (che hanno una capienza regolamentare di 5.839) sono 5.691, di cui 116 donne e 1.185 stranieri. Per quanto riguarda le fasce di età (dati aggiornati il 30 giugno 2015) riscontrate all’interno degli istituti penitenziari, per la nostra Regione il numero più basso si riscontra nei detenuti che hanno un’età di 70 anni (75 detenuti) ed invece la fascia d’età con il maggior numero di detenuti è quella compresa tra i 35 e 39 anni (si tratta di 912 detenuti). Come se non bastasse, oltre alla grande mancanza del Garante dei detenuti, è possibile evidenziarne un’altra: la legge istitutiva del Garante dell’Infanzia e dell’Adolescenza per la Sicilia, ovvero L.R. 47/2012, è rimasta senza alcuna reale attuazione: in Sicilia non è stato mai nominato. Inevitabile chiedersi chi possa, anzi debba, essere d’aiuto in situazioni come quella di Desirè, o ancor più in generale in difesa dei più deboli e di chi, bambini ed adolescenti, andrebbero tutelati ad ogni costo ed in ogni situazione di disagio. Nello specifico, l’Autorità Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza è stata istituita al fine di garantire e promuovere la piena attuazione dei diritti riconosciuti alle persone minori di età dalla Convenzione sui diritti del fanciullo, adottata a New York il 20 novembre 1989, ratificata dalla legge 27 maggio 1991, n. 176. Per la nostra Isola con la legge regionale n.47 del 10 agosto 2012 è stata istituita tale figura, ma paradossalmente nessuno ha ricevuto la nomina: il Garante è nominato, o meglio dire in questo caso dovrebbe essere nominato con decreto dell’assessore regionale per la Famiglia, le politiche sociali e il lavoro e può restare in carica cinque anni. La Legge Regionale 47/2012 non è stata mai attuata Vincenzo Spadafora è il primo Presidente dell’Autorità Garante dell’Infanzia e dell’Adolescenza in Italia, acquisendo tale carica a novembre del 2011. Il QdS lo ha intervistato in merito alla vicenda della piccola Desirè e per cercare di capire perché nella nostra Isola si registrino, continuamente, mancanze del genere, a scapito della tutela dei più deboli. Desirè è una neonata che, dopo l’evasione dei domiciliari da parte della madre, vive insieme a lei all’interno del carcere Pagliarelli di Palermo, pur non godendo di ottima salute. In Sicilia manca il garante dei detenuti e mancano le strutture adeguate, come l’Icam, che possano essere d’aiuto in casi come questi. Perché, ad oggi, c’è una mancanza così grave nell’Isola? “La realizzazione degli istituti a custodia attenuata per detenute madri (Icam) e, ancora di più, delle case famiglia protette, soluzioni alternative alla deprecabile detenzione in carcere con le loro madri dei figli fino ai sei anni di vita, previste dalla legge 62 del 2011, prosegue molto a rilento in tutta Italia. Ma il ministro Orlando ha recentemente dichiarato che sono in progetto nuove strutture, una anche qui in Sicilia, perché, entro la fine di questo anno, nessun bambino sia più costretto a condividere con la propria madre la sua pena in un istituto penitenziario. è da tempo che, unitamente alle associazioni del settore, sollecitiamo l’attenzione alla condizione di questi bambini, come anche a quella, ancora più dimenticata, di tutti i figli minorenni dei detenuti presenti nelle carceri italiane, la cui vita è segnata dagli errori commessi dal proprio padre o dalla propria madre. In particolare nel marzo dello scorso anno, con l’associazione “Bambinisenzasbarre”, abbiamo siglato un protocollo d’intesa con il ministro della Giustizia, a tutela dei diritti dei figli dei genitori detenuti a mantenere i rapporti fra loro, se nell’interesse dei più piccoli, ad avere per i colloqui spazi più colorati e ospitali e tempi più rispettosi degli obblighi scolastici, ad incontrare nelle strutture penitenziarie personale formato e accogliente, e così via. Gli ultimi dati diffusi dall’Amministrazione penitenziaria danno un segnale di speranza rispetto al riconoscimento di questi diritti a tutti quei bambini e adolescenti. Mi auguro che anche per la piccola accolta al Pagliarelli assicurandole così le possibilità di cura e un ambiente, per quanto possibile, confortevole, possa esserci presto una svolta, con la collaborazione responsabile della madre”. Come se non bastasse, la legge istitutiva del Garante dell’Infanzia per la Sicilia (l.r. 47/2012) è rimasta lettera morta. Chi tutela i diritti dei più deboli? “Stiamo interloquendo da tempo con la Regione Sicilia per un miglioramento di quella legge e la nomina del Garante. I bambini e gli adolescenti che vivono nella vostra regione, italiani e non, ne hanno bisogno. In assenza del Garante regionale, alcune città siciliane hanno provveduto a istituire una figura di garanzia dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza. Ci sono tante organizzazioni e associazioni serie sul vostro territorio, ma devo dire che nei miei viaggi in Sicilia ho incontrato, anche all’interno delle istituzioni, persone che lavorano con passione, dedizione e professionalità e questa è, intanto, la prima e più importante tutela per un minorenne”. Liguria: Sappe; allarme per aumento di detenuti e diminuzione della Polizia penitenziaria savonanews.it, 1 settembre 2015 Nei soli primi sette mesi dell’anno si sono già verificati circa 700 eventi critici, in aumento rispetto al 2014, che ne contava in tutto 745. La segreteria regionale del Sappe non presagisce un futuro roseo per le carceri liguri, ed in modo particolare, per la sempre più impegnativa attività della Polizia Penitenziaria, se nessun intervento verrà posto a freno dell’andamento numerico che contraddistingue la Liguria penitenziaria. “Stiamo inviando una nota al Ministro della Giustizia Andrea Orlando - annuncia il segretario regionale del Sappe Michele Lorenzo - dove abbiamo raccolto i dati emersi dall’andamento penitenziario ligure, aggiornati al 31 Agosto 2015. “Ciò che si rileva, per quanto riguarda i detenuti presenti, è in controtendenza con l’andamento nazionale, afferma la segreteria regionale del Sappe - in Liguria, infatti, dalla capienza di 1166 detenuti attualmente siamo passati ad ospitarne 1451. Alla stessa data del 2014 erano 1367. La popolazione straniera è di 801 unità (737 nel 2014) ed occupa il 55,21% dell’intera popolazione detenuta ligure. È l’istituto di La Spezia con 132 stranieri (114 nel 2014) ad essere l’istituto con la maggiore percentuale di presenza, con il suo 64%. Il carcere di Marassi, invece, continua ad essere costantemente in sovraffollamento con 709 detenuti (663 nel 2014) dei quali 414 stranieri (374 nel 2014) pari al 57%, che fa sì che Marassi si collochi al terzo posto tra gli istituti più critici d’Italia, dopo Napoli Poggioreale e Bologna. Questi dati si proiettano solo su 6 istituti, in quanto quello di Chiavari è tutt’ora chiuso e dovrebbe riaprire il prossimo 1° ottobre, il che significa che a livello regionale si registrerebbe un ulteriore aumento di almeno 50 detenuti”. “Sono del Marocco i detenuti stranieri a maggiore presenza nelle celle liguri, con 171 presenze, seguiti dall’Albania con 139 e dalla Tunisia con 106 presenze. Dei 163 detenuti ecuadoregni ospitati nelle celle italiane, la Liguria, ponendosi alle spalle della Lombardia (77), ne ospita 52 unità. Dati che dovrebbero fornire l’idea di ciò che avviene sul territorio, ovvero l’indice di criminalità”. “A maggior ragione - continua il segretario Lorenzo - bisogna chiedere l’applicazione, di pari passo ad una minore burocrazia, degli accordi bilaterali che prevedono, per i detenuti con condanna definitiva, la possibilità di poter scontare la pena nei loro paesi d’origine. Questo significa che, solo in Liguria, si potrebbe ottenere una riduzione della popolazione detenuta di quasi 370 detenuti che rappresentano il 25% del totale. Ciò gioverebbe a tutto il sistema detentivo e si otterrebbe un riverbero positivo in termini di sicurezza e di gestione, anche sul territorio” “In ultima valutazione vi è l’aspetto economico, considerato che un detenuto mediamente costa alla comunità circa 134 € giornalieri. Denaro che potrebbe essere destinato alla costruzione di nuove strutture, ad ammodernamenti di quelle esistenti, ad incentivare e sviluppare forme di rieducazione e reinserimento”. Parallelamente bisogna comprendere ciò che aggrava l’attività della Polizia Penitenziaria ligure - conclude il Sappe. Nei soli primi sette mesi dell’anno si sono già verificati circa 700 eventi critici, in aumento rispetto al 2014, che ne contava in tutto 745. È l’elemento dell’aggressività a spiccare con 26 casi al 31 luglio, erano 25 nel 2014, gli atti di autolesionismo nel 2014 si erano fermati a 300 mentre al 31 luglio di quest’anno sono già avvenuti 280 casi. Questi eventi comportano anche il trasporto del detenuto al pronto soccorso con il conseguente aggravio di lavoro per la Polizia Penitenziaria, che assicura scorta e sicurezza” La preoccupazione maggiore la si vive con i tentati suicidi che, ad oggi, sono già pari a 28 casi mentre nel 2014 si erano fermati a 32. “Ricordo - sottolinea il Sappe - che solo grazie alla prontezza della Polizia Penitenziaria si è evitato l’estremo epilogo. L’istituto di Sanremo è a maggior concentrazione di autolesionismo, con 83 casi sui 280 regionali e di danneggiamento a celle, con 17 casi sui 30 verificatosi in Liguria, nel 2014 si verificarono 10 casi”. Il dato a “bollino rosso” è purtroppo relativo all’organico della Polizia Penitenziaria, che è in carenza di 232 poliziotti. Secondo il Sappe, è questo l’elemento che segna la vera negatività del sistema sicurezza, in quanto meno personale equivale a decremento della sicurezza, che in Liguria non si deve consentire. Il Sappe ligure, visti tutti questi elementi, auspica che il Ministro della Giustizia Orlando ponga una maggiore attenzione al caso “Liguria” garantendo, prioritariamente, una maggiore presenza di Polizia Penitenziaria ed impedendo l’uscita “agevolata” di personale, che dalla Liguria viene dirottato verso altri istituti, magari con minori esigenze di quelli liguri. Lazio: Fns-Cisl; sale a 539 il dato del sovraffollamento dei detenuti nelle carceri regionali 9Colonne, 1 settembre 2015 La Fns-Cisl segnala che “risultano attualmente reclusi e presenti nei 14 Istituti Penitenziari del Lazio n. 5.811 detenuti (379 donne, 5.432 uomini), mentre la capienza regolamentare dovrebbe essere di n. 5.272, un dato in crescita rispetto ai mesi precedenti. Sovraffollamento molto ad di sotto comunque al dato dell’ottobre 2013 che risultava pari a 7.517 detenuti. Gli istituti che soffrono maggiormente di sovraffollamento sono: CC Frosinone ( + 352 rispetto ai previsti 310), CC Cassino ( + 28 rispetto ai previsti 202), NC Civitavecchia ( + 105 rispetto ai previsti 344), CC Latina (+ 70 rispetto ai previsti 344), CCF Rebibbia ( + 51 rispetto ai previsti 263), NC Rebibbia (+ 210 rispetto ai previsti 1.235), CC Regina Coeli (+ 195 rispetto ai previsti 836), CC Velletri (+122 rispetto ai previsti 408).Il dato nazionale ad oggi è di 52.366 detenuti reclusi (2.132 donne e 50.234 uomini), infatti al 30 giugno 2015 erano presenti 52.754. Per la Fns Cisl occorrono “maggiori risorse, soprattutto economiche, per adeguare gli istituti penitenziari, le caserme agenti, e risolvere definitivamente le problematiche su alcuni Istituti dove sono state aperte sezioni per detenuti con infermità psichiche che necessitano di interventi intensificati sia di tipo sanitario che di vigilanza a tutela della loro salute mentale”. Santa Maria Capua Vetere (Ce): ex agente muore nel carcere militare stroncato da malore campanianotizie.com, 1 settembre 2015 È morto stroncato da un malore nel carcere militare di Santa Maria Capua Vetere Giovanni Arcaro, 56enne ex agente di polizia penitenziaria. L’uomo era detenuto perché accusato di portare fuori dal carcere messaggi dei boss del clan De Feo. Arcaro è morto domenica mattina, purtroppo i soccorsi sono stati vani. Rimini: Arlotti (Pd): detenuti a quota 121, interrogazione su ristrutturazione del carcere altarimini.it, 1 settembre 2015 Per il carcere dei “Casetti” di Rimini resta l’esigenza di organici adeguati e di risorse per la manutenzione delle strutture. Lo ribadisce il deputato Pd riminese Tiziano Arlotti, che nei giorni scorsi ha visitato la casa circondariale e che annuncia una nuova interrogazione sulla questione al ministro della Giustizia Andrea Orlando. “Dopo le interrogazioni presentate sin dal mio insediamento sto continuando a monitorare la situazione dei Casetti, dove quest’estate, così come negli anni precedenti, si è verificato un aumento di ingressi legato all’intensa attività di contrasto alla criminalità svolta dalle forze dell’ordine sul territorio - osserva Arlotti -. La seconda sezione del carcere è stata finalmente aperta. Nei giorni scorsi erano presenti 121 detenuti, a fronte dei quali permane una carenza di organico che si accentua naturalmente nel periodo estivo, visto l’alto numero di arresti operato dalle forze dell’ordine, con i necessari trasferimenti da e per il tribunale ed eventuali trasporti alle strutture sanitarie. La seconda sezione del carcere è stata finalmente aperta, ma sono comunque necessarie risorse per continuare gli interventi di manutenzione straordinaria della struttura”. Per questo, alla ripresa dell’attività parlamentare, il deputato depositerà un’ulteriore interrogazione sulla manutenzione della Casa circondariale”. Secondo i dati del ministero, ai Casetti su un organico di 144 agenti erano presenti a inizio 2015 116 unità. “Reitererò al ministro della Giustizia la richiesta di una dotazione di polizia penitenziaria che tenga conto dei flussi che si registrano nel nostro territorio durante l’estate, e che consenta di dare adeguato supporto agli operatori che oggi si trovano a gestire situazioni spesso difficili, anche per la presenza di soggetti detenuti con problemi di dipendenze da sostanze psicotrope, così come richiederò risorse appropriate per la manutenzione della casa circondariale in modo da migliorare ulteriormente le condizioni di vita di chi vi si trova recluso”. Massa Carrara: il carcere è diventato più grande, l’ala B vede la luce, Ferri la inaugura Il Tirreno, 1 settembre 2015 Il sottosegretario alla Giustizia in visita il 7 settembre Trasferiti i primi detenuti, ma ne arrivano nuovi da Prato. Alla fine l’ha spuntata il sottosegretario alla Giustizia Cosimo Maria Ferri: l’ala B del carcere di Massa verrà aperta questa settimana. Non è prevista un’inaugurazione ufficiale, ma il sottosegretario visiterà la casa circondariale il 7 settembre. Da domani invece alcuni detenuti verranno trasferiti nelle nuove celle: sono reclusi in regime di semilibertà e articolo 21 (lavoro all’esterno). I posti liberati nella vecchia ala saranno occupati invece da persone che attualmente stanno scontando la pena a Prato e Sollicciano. Il dipartimento in via Pellegrini invierà anche dieci agenti della penitenziaria in più, ma sarà un rinforzo temporaneo in attesa delle destinazioni dei “secondini” di prima nomina (previste per ottobre). Una toppa per calmare i sindacati, pronti a scendere sul piede di guerra per chiedere una pianta organica consona alla nuova capienza del carcere ristrutturato. Ferri è stato bravo a mettere d’accordo gli uffici tecnici, che a causa di una diversità di vedute bloccavano l’apertura dell’ala B. Il reparto darà centocinquanta posti in più alla casa circondariale, risolvendo il problema del sovraffollamento. La questione era meramente economica: per un ufficio servivano quasi cinquecentomila euro per dare il via libera, nonostante i lavori di ripristino effettuati cinque anni fa circa; per l’altro ufficio invece bastavano pochi lavoretti e pochi spiccioli per poter tagliare il nastro. Ed è la seconda tesi quella che ha prevalso. Praticamente il sottosegretario è riuscito a far aprire il reparto a costo zero. L’ala B era diventata un vero e proprio caso di difficile spiegazione. Nonostante sopralluoghi positivi e un indiscutibile beneficio alla vita ai detenuti. Perché si chiedevano un po’ tutti un’opera che è stata completata nel 2010 viene lasciata lì senza utilizzarla? Dalla fine dei lavori a oggi i muri si erano scrostati e anche le piastrelle di alcuni bagni si erano staccate. L’ala B ha superato il collaudo il 24 luglio del 2012, ma restava off limits per motivi che è difficile trovare. Soprattutto ora che tutto è finito. Una storia tutta italiana: la consegna dei lavori avveniva il giorno 4 luglio 2006 con riserva riguardante principalmente il rinvenimento di manufatti non previsti all’interno dell’area di sedime dello scavo (vecchia centrale termica obsoleta) per l’esecuzione delle fondazioni, nonché la mancanza di altri (idoneo impianto fognario atto a ricevere le acque reflue) non trascritta nel registro di contabilità e non confermata nello stato finale. Da lì un vero e proprio calvario per chi voleva la realizzazione di quel progetto. Adesso però ci siamo. Verbania: progetto “Compagnia verde”, reinserimento sociale con pulizia e taglio boschi di Filippo Rubertà La Stampa, 1 settembre 2015 Il progetto è semplice: ricavare reddito dalla pulizia dei boschi facendo lavorare persone che faticano a trovare un reinserimento sociale, come gli ex detenuti. È già all’opera la cooperativa sociale che vuole creare posti di lavoro, nell’ambito della filiera del legno, per persone svantaggiate. La scommessa era partita in primavera dalla parrocchia di San Leonardo a Pallanza, trovando subito un sostenitore nel Comune di Verbania. Un inizio in punta di piedi, quasi scaramantico, temendo gli ostacoli della burocrazia e qualche defaillance tra i soci fondatori. Invece durante l’estate il gruppo si è allargato fino a 34 soci ed è stata costituita la cooperativa che ha subito iniziato a operare nei boschi del Verbano. È stata battezzata “Compagnia Verde”: ha sede a Ungiasca, frazione di Cossogno, nella vecchia scuola messa a disposizione dall’amministrazione comunale. All’iniziativa hanno già aderito quattro comuni: oltre a Verbania e Cossogno, Gravellona Toce e Premeno. Stanno inoltre per dare l’adesione Baceno e Crodo. Compito degli enti locali sarà quello di mettere a disposizione i boschi. Dalla coltivazione sarà possibile avviare quella che viene chiamata “filiera del legno”: una serie di attività che prevede pulizia del bosco, taglio degli alberi e utilizzo energetico della legna e dei suoi derivati nell’ambito del teleriscaldamento e di altri processi produttivi. “È un settore - spiega Francesco Priolo, presidente della cooperativa - che ha grandi potenzialità, soprattutto se intorno a noi cresceranno aziende private orientate all’utilizzo di energia termica”. Per il momento la cooperativa ha a libro paga due lavoratori del settore, dotati del patentino di forestali, che si occuperanno anche della formazione, e due operai generici. Questi ultimi sono un detenuto e un ex detenuto del carcere di Pallanza. “Il primo fine della cooperativa - spiega Priolo - è quello di avviare al lavoro le persone svantaggiate. È per questo che nel progetto avranno un ruolo importante il Consorzio dei servizi sociali del Verbano e il “gruppo famiglia” della parrocchia di San Leonardo”. Per allargare il giro, dalla cooperativa lanciano un appello ai privati affinché diano in affidamento i loro boschi: “Sono una risorsa - specifica il presidente -. Se si abbandonano diventano un pericolo per l’equilibrio idrogeologico del territorio”. Tra i primi lavori, il taglio di due fichi, cresciuti sui campanili delle chiese di San Leonardo e di Santo Stefano: i frutti maturi cadevano sulle teste dei passanti. L’attività vera e propria inizierà a ottobre quando verrà dato il via all’intervento nei boschi del Monterosso sopra Verbania. La parte scientifica del progetto è curata dall’Università di Torino. Rovigo: nuovo carcere; i tempi si allungano, l’entrata in funzione rischia di slittare al 2016 Corriere Veneto, 1 settembre 2015 La speranza che il nuovo carcere dì viale Tre Martiri possa entrare in funzione con la fine dell’anno, pare destinata ad arenarsi. “Ho la sensazione che le priorità dell’amministrazione penitenziaria siano, al momento, altre - osserva il prefetto Francesco Provolo - e, dunque, l’avvio di nuove strutture penitenziarie potrebbe avere tempi più lunghi rispetto a quelli auspicati”. Un tema che, da tempo, tiene banco in città, dato che la casa circondariale, la cui prima pietra fu posata all’epoca del secondo Governo Prodi dall’allora Guardasigilli Clemente Mastella) e di fatto ultimata, ma non operativa per la mancanza di un numero di guardie congruo. Questione che è stata già posta nel recente passato ad Andrea Orlando, ministro competente in materia, e su cui il sindaco di Rovigo, Massimo Bergamin, ha annunciato nei giorni scorsi la volontà di intervenire in sinergia con tutti i parlamentari del territorio, ossia il deputato Crivellari (Pd) con i senatori Amidei (Fi), Endrizzi (M5S) Munerato (Fare con Flavio Tosi). Attualmente, secondo i dati della Cgil, ci sono 62 agenti in organico, di cui 33 non operativi a fronte di 60 detenuti, in via Verdi. Il nuovo penitenziario dovrà accogliere 250 ristretti. Mantova: la triste vicenda del carcere-modello di Revere, destinato a restare incompiuto di Tommaso Papa Il Giorno, 1 settembre 2015 Dentro le stanze del carcere: gli arredi esistenti sono stati rubati o vandalizzati negli anni Dentro le stanze del carcere: gli arredi esistenti sono stati rubati o vandalizzati negli anni. “Per recuperare quel carcere mai completato abbiamo mandato al ministero progetti preparati gratis, proprio per evitare che un’opera a buon punto finisse in abbandono. Ma è stato tutto inutile”. L’architetto mantovano Mario Berni, studio a Poggio Rusco, per la ditta costruttrice Acea di Mirandola, ha partecipato sin dai primi passi alla storia maledetta del carcere di Revere, estremo sud della provincia di Mantova, a 35 chilometri dal capoluogo: un istituto di pena che non è stato mai usato, ed è costato tanti soldi pubblici, tanta energia e anche qualche sogno di chi avrebbe dovuto rendere più umana la prigione. Il carcere oggi ha un che di spettrale: è circondato da fitti campi di mais alti tre metri, un muro bianco di cemento armato ricorda la sua originaria funzione, la strada è coperta di ailanto e di altri infestanti, arrivarci è quasi impossibile. A riuscirci sono gli animali, qualche barbone che si ferma a dormire e soprattutto i ladri che l’hanno spolpato dei sanitari e dei termosifoni ancora imballati, delle finestre di sicurezza da montare, delle suppellettili e alla fine del rame contenuto nei fili elettrici. Abbandonato dal 2000, era costato 5 miliardi, due milioni e mezzo di euro, dal momento della progettazione nel 1988. Voluto dall’allora ministro Giuliano Vassalli doveva essere un istituto mandamentale, destinato a detenuti per reati minori: 32 celle per 60 persone circa, più mensa, ambulatorio, parlatorio: “La parte comune per la direzione e le guardie era quasi finita - racconta l’architetto Berni - ma poi è arrivato un primo stop alla fine degli anni Novanta”. Le motivazioni dell’arresto dei lavori è legata alla mancanza di fondi ma anche all’attenuazione del regime penale e all’introduzione delle pene alternative. Mentre i lavori languono, la parte realizzata si deteriora e iniziano le prime incursioni di balordi e malintenzionati, gli amministratori di Revere chiedono conto a ministero: perché non si va avanti? Nessuna risposta, anzi la decisione del Guardasigilli di cancellare i progetti di alcune carceri mandamentali “non” riguarda Revere. Che però resta nel limbo delle opere incompiute. Allora il Comune lo chiede per sé, magari per realizzarci una casa di riposo o qualche altra opera utile, come un ostello per gli infermieri dell’ospedale di Pieve di Coriano, che si trova dall’altra parte della strada. Archiviato ufficialmente il progetto nel 2003, il ministero di via Arenula si decide a rinunciare alla disponibilità dell’opera nel 2011. Il carcere fantasma passa al Comune, che intanto, a causa della legge di stabilità non può più effettuare investimenti. Per riutilizzarlo servirebbero 2 milioni e mezzo di euro, per demolirlo altrettanto che nelle casse non ci sono. I privati che hanno provato a più riprese ad affrontare la scommessa ci hanno rinunciato. Lo Stato centrale, in questo bel borgo gongaghiano a ridosso del Po, se l’è data a gambe da 15 anni e nulla fa pensare che batta un colpo. “Riprendetevelo”. Sergio Faioni, sindaco di Revere per una lista civica legata al centrosinistra, con pazienza e dedizione accompagna i visitatori tra le rovine del carcere mai aperto, si sbraccia in Consiglio e fuori, partecipa a dibattiti e talk-show, e tutto per evitare che un’assurda vicenda di spreco del denaro pubblico si concluda nel peggiore dei modi. Ma ogni tanto perde le staffe e vorrebbe restituire quel “magone” a chi glielo ha dato. “Ero stato eletto da appena due mesi quando la disponibilità dell’edificio è passata al Comune” racconta l’ex tabaccaio divenuto primo cittadino. E da allora quel carcere è uno dei suoi incubi. Anche l’intervento dei privati si è rivelato senza sbocco. “Le ipotesi di recupero si sono susseguite. Una cordata di imprenditori di Treviso ha pensato di farne una residenza socio-assistenziale, ma i costi erano troppo elevati. Stessa musica per un altro progetto nato nel Modenese. Si è parlato della trasformazione in una residenza sanitaria per dimissioni protette, e anche di un condominio da destinare agli operatori dell’ospedale di Pieve di Coriano”. Il carcere fantasma, però, continua a costare. “Certo, siamo costretti a frequenti sopralluoghi per i furti a raffica che si verificano nella struttura” L’unica consolazione per i cittadini di Revere è che il loro non è l’unico carcere-beffa. In Italia ne sono stati contati 38 iniziati e mai finiti. Terni: detenuto magrebino tenta il suicidio, salvato da un agente Giornale dell’Umbria, 1 settembre 2015 Ha tentato di uccidersi, impiccandosi nella sua cella del carcere di Terni, dove pochi giorni un altro detenuto si era tolto la vita: stavolta, fortunatamente, l’uomo è stato salvato dal tempestivo intervento di un agente della penitenziaria in servizio. L’episodio viene reso noto da Donato Capece, segretario generale del sindacato autonomo di polizia penitenziaria Sappe, secondo il quale si tratta dell’ennesimo “evento critico accaduto in un carcere italiano, dove peraltro pochi giorni fa un altro ristretto si tolse la vita, è sintomatico di quali e quanti disagi caratterizzano la quotidianità penitenziaria”. Fabrizio Bonino, segretario regionale umbro del Sappe, rende noto che il fatto è avvenuto verso le 13.20 di lunedì nella sezione di media sicurezza. L’uomo, di nazionalità magrebina, era giunto da poco nell’istituto ternano e si trovava nel reparto isolamento. “Per altro - continua Bonino, sempre nel carcere di Terni venerdi in tarda mattina nella sezione media sicurezza si e verificata una rissa tra detenuti di origine straniera e italiani”. Secondo Capece “non si può e non si deve ritardare ulteriormente la necessità di adottare urgenti provvedimenti: non si può pensare che la gestione quotidiana delle costanti criticità delle carceri umbre e del Paese sia lasciata solamente al sacrificio e alla professionalità delle donne e degli uomini della polizia”. Bologna: detenuto psichiatrico di 39 anni scappa dalla Rems, è sfuggito a un operatore Corriere della Sera, 1 settembre 2015 L’uomo, 39 anni, stava scontando una pena per incendio e danneggiamento: si è diretto verso la stazione. Un 39enne marocchino, detenuto psichiatrico internato nella Rems di Bologna (struttura sanitaria che ha preso il posto degli ospedali psichiatrici giudiziari), si è allontanato oggi durante una passeggiata che stava facendo in un parco pubblico, sfuggendo all’operatore che lo accompagnava. A quanto si apprende si tratta di un piromane, che stava scontando una condanna per incendio e danneggiamento (reati commessi a Ravenna) nella residenza di via Terracini, aperta il 27 marzo scorso dopo la chiusura degli Opg. I detenuti internati in queste strutture sono ritenuti socialmente pericolosi, ma incapaci di intendere e volere al momento della commissione del reato. La legge prevede che scontino la pena in maniera riabilitativa, e nell’ambito di questo percorso oggi il marocchino, grazie a un’autorizzazione specifica della magistratura, era stato accompagnato a fare un giro nel parco di Villa Angeletti, in via Carracci, dove è riuscito a sfuggire all’operatore che era con lui. Si sarebbe allontanato in direzione della stazione, facendo per ora perdere le proprie tracce nonostante diverse ricerche in zona da parte delle forze dell’ordine. Lo scorso aprile, a poche settimane dall’apertura della Rems, un detenuto 60enne internato nella residenza di Bologna era fuggito e si era barricato in casa con la madre a Bellaria, minacciando di uccidersi col gas, ma l’intervento dei carabinieri lo aveva fatto desistere. A luglio, 41 psichiatri dell’Ausl avevano sottoscritto un documento per denunciare le insufficienti misure di sicurezza nella Rems di Bologna. Messina: Osapp; aggrediti due poliziotti penitenziari all’Opg di Barcellona Pozzo di Gotto Italpress, 1 settembre 2015 “Nuova aggressione ai danni della Polizia penitenziaria nelle carceri siciliane. Questa volta è stato il turno dell’Istituto di Barcellona Pozzo di Gotto, in provincia di Messina”. Lo rende noto il segretario generale aggiunto Osapp, Domenico Nicotra, sottolineando che due Ispettori di Polizia penitenziaria sono stati accompagnati per le necessarie cure al vicino Ospedale; uno dei due Ispettori, quello le cui condizioni sono più gravi, è stato morso in tre punti diversi del corpo”. “Il detenuto con seri problemi psichiatrici - spiega Nicotra - non voleva che gli venisse somministrata la terapia medica quotidiana e pertanto si è reso necessario che la Polizia Penitenziaria, tra cui appunto i due Ispettori, facessero ingresso nella cella per cercare di far ragionare l’uomo e rappresentargli l’importanza della terapia medica che doveva essere somministrata”. “Alla vista degli uomini in divisa del Corpo di Polizia Penitenziaria il detenuto in questione si è scagliato contro di essi e si è reso necessario l’intervento di altro personale per riportare l’ordine a la disciplina all’interno del reparto - aggiunge. La recente aggressione dovrebbe far riflettere la Direzione ed il Comando dell’Istituto Barcellonese sulla necessità che la sicurezza penitenziaria e del personale che vi opera dovrebbe essere sicuramente più importante dal dover, invece, a tutti costi ridurre il personale in servizio per risparmiare qualche ora di lavoro straordinario”. “Speriamo - conclude Nicotra - che in futuro non abbiano a ripetersi simili episodi”. Immigrazione: l’arcipelago dei ghetti di Lucio Caracciolo La Repubblica, 1 settembre 2015 Se la politica ha ancora un senso, se non vogliamo autodistruggerci in un regime di permanente emergenza, è il momento per l’Europa di battere un colpo. Il 2 maggio 1989 il governo comunista ungherese apriva per primo un varco nella cortina di ferro, dissigillando l’Europa oppressa dalle barriere della guerra fredda. Sei mesi dopo cadeva il Muro di Berlino. Quest’estate il democraticamente eletto governo ungherese ha alzato una barriera di filo spinato e cemento al confine con la Serbia - più precisamente con la regione della Vojvodina, che i nazionalisti magiari considerano provincia dell’agognata Grande Ungheria -per impedirne il valico da parte dei migranti. Ad annunciare la stagione dei nuovi muri che stanno ridividendo il continente “riunificato” nell’Ottantanove. Movente: la paura dei “nuovi barbari” che minaccerebbero la nostra pace e il nostro benessere. Versione corrente di quei “treni di paura” - esplosioni collettive e ingovernate di terrore - cui lo storico francese Jean Delumeau attribuiva la gran parte dei conflitti scoppiati in Europa fra Trecento e Seicento. Se non sapremo governare questa nuova onda di paura, l’Europa libera e unita che sognavamo alla fine dello scorso secolo si muterà in un grande ghetto. Peggio, un arcipelago di ghetti: quelli per i privilegiati, ovvero gli “europei di ceppo” che esistono solo nelle teste eccitate dei nuovi/vecchi appassionati di classificazioni razziali; e quelli per i dannati fuggiti dai cento Sud alla fame e/o in guerra, a loro volta ripartiti per categorie sociali e famiglie etniche. La posta in gioco è il nostro libero destino democratico. Perché la paura di massa è il peggior nemico della libertà. È il sentimento diffuso sul quale da sempre speculano gli intolleranti d’ogni risma e gli aspiranti dittatori. Sembra che non tutti i responsabili politici europei siano consapevoli dell’altezza di questa sfida. Di sicuro alcuni tra essi, specie sul fronte della destra non solo estrema, fanno del loro meglio per cavalcare o addirittura eccitare questo sentimento, illudendosi di poter controllare l’incendio che essi stessi hanno contribuito ad appiccare. Una cosa è rispondere al bisogno di sicurezza dei cittadini. Tutt’altra è fomentare il senso di insicurezza dipingendo un’apocalissi che non c’è. Così alimentando il fenomeno che si dice di voler scongiurare. La battaglia per la gestione comune della sfida migratoria è l’ultima frontiera della politica europea. Qui cade o risorge lo spirito d’Europa, nel senso originario del termine. Il bollettino dai fronti di questa guerra non è però confortante. Ciascun paese si muove rigorosamente per suo conto, cercando di scaricare l’emergenza, effettiva o mediatica, sul vicino meridionale. Da Calais al Nordafrica e alle frontiere balcaniche si gioca allo scarica-migrante. Vince chi respinge più migranti verso il territorio del socio comunitario alla sua frontiera meridionale, il quale a sua volta cerca di riallocarne quanti possibile nei (presunti) paesi d’origine. Tutto ciò in spregio delle più elementari norme d’umanità che dovrebbero governare i rapporti tra esseri della medesima specie. Ma a forza di gridare all’invasione finiamo per convincerci che, in fondo, chi bussa alla nostra porta non appartiene alla razza umana. È spazzatura, da tenere lontano dai fortificati cancelli di casa. In questo clima, a poco serve che il numero due della pallida Commissione europea, l’olandese Frans Timmermans, invochi un unico sistema d’asilo per l’Ue e ricordi che “se unita, una comunità di 500 milioni di persone è in grado di gestire la situazione”. Qualche maggiore eco si spera possano avere le parole della cancelliera tedesca, campionessa del rigore fiscale, che di fronte alle stragi nei barconi e nei camion piombati invoca maggiore “flessibilità”. Ma quando il leader della patria della democrazia occidentale, il premier britannico David Cameron, si lascia sfuggire frasi sullo “sciame” migratorio, neanche si trattasse di api, e il suo ministro dell’Interno pretende di chiudere le porte del Regno Unito financo ai cittadini comunitari in cerca di lavoro - provocando la reazione della Confindustria locale che sa quanto quelle braccia e quelle teste servano all’economia nazionale - significa che il livello di guardia è superato. La questione migratoria continuerà ad occuparci per decenni, forse per secoli, non fosse che per i dislivelli nei tassi di natalità e per il crescente, formidabile divario demografico fra Nord e Sud del mondo. Una tendenza epocale non si gestisce erigendo barriere che hanno il solo effetto di deviare i flussi da un paese all’altro, salvo tornare alla casella di (ri)partenza. Se consapevoli dell’indivisibilità del problema, noi europei abbiamo i mezzi per affrontare insieme una sfida da cui usciremo in ogni caso cambiati, in peggio o in meglio. Il primo passo è non farsi dirigere dalla paura, recuperare il senso delle proporzioni e delle responsabilità, raffreddare la comunicazione, razionalizzare e coordinare l’approccio delle istituzioni. Se la politica ha ancora un senso, se non vogliamo autodistruggerci in un regime di permanente emergenza, è il momento per l’Europa di battere un colpo. Immigrazione: l’Ue cerca una soluzione comune di Anna Maria Merlo Il Manifesto, 1 settembre 2015 Derive d’Europa. Divisa tra chi vuole le frontiere e chi cerca di distribuire equamente i profughi, Bruxelles indice un vertice straordinario sull’immigrazione. Con un nuovo giro di vite sui migranti economici. L’Europa cerca una risposta al dramma dei migranti, sempre cercando il difficile equilibrio tra “umanità” - il termine, finora assente, è di nuovo utilizzato in queste ore da diversi dirigenti politici, Merkel ma anche in Francia - e “fermezza”, cioè qualche soluzione per i rifugiati e chiusura decisa verso l’emigrazione economica. La paura dell’estrema destra continua a paralizzare. Su richiesta di Francia, Germania e Gran Bretagna, la presidenza lussemburghese del Consiglio europeo ha convocato per il 14 settembre un vertice straordinario sul dramma dei migranti. In Europa, come ha ammesso ieri Angela Merkel, non ci si può nascondere che “c’è un clima teso” su questo problema, con profonde divisioni, tra nord e sud, tra est e ovest, mentre nei fatti ognuno fa da sé, cercando di scaricare il “fardello” sul vicino. Ieri, a Calais, uno dei luoghi simbolici della paralisi europea, due membri della Commissione, il vice-presidente Frans Timmermans e il responsabile delle migrazioni, Dimitris Avramopoulos, si sono incontrati con il primo ministro francese, Manuel Valls (per la prima volta a Calais da quando è a Matignon), Bernard Cazeneuve (Interni) e Harlem Desir (Affari europei). Timmermans ha fatto qualche constatazione di buon senso: “i flussi migratori continueranno, nessuno può nascondersi, abbiamo bisogno di tutti”. E ha ricordato che “le cifre restano gestibili per un continente di 500 milioni di abitanti”. Gli ultimi dati di Frontex sono di 340mila arrivi quest’anno. Timmermans ha anticipato quello che verrà discusso al vertice del 14 settembre: prima di tutto, la Commissione presenterà una lista dei cosiddetti “paesi sicuri”, cioè la Ue ormai ha preso la strada di dividere i migranti in due grandi categorie, i rifugiati, a cui non si può negare ospitalità e tutti gli altri, che vengono spinti da ragioni economiche. Cazeneuve ha affermato che a Calais, dove sono accampate almeno 3mila persone, tra cui anche centinaia di minorenni, il 60% sono arrivati fin qui per “ragioni economiche”. La Commissione, spinta dalla crescita della xenofobia nell’Unione europea, presenterà così “altre proposte per garantire il ritorno effettivo e rapido” di questi migranti indesiderati, perché “i paesi europei non sono abbastanza efficaci”. Valls ha anche evocato la possibilità di un’apertura di un centro di “prevenzione delle partenze” in Niger e ha invitato a riflettere su un “dispiegamento di guardie alle frontiere” esterne della Ue. Per i rifugiati, la Ue dovrà arrivare a un “sistema unificato di asilo, di armonizzazione delle regole e dei livelli di prestazione”, ha precisato Manuel Valls, riprendendo la proposta fatta qualche giorno fa da François Hollande e Angela Merkel. Francia e Germania potrebbero iniziare ad armonizzare, dando l’esempio. Bruxelles “metterà a punto un meccanismo permanente di ripartizione dei richiedenti asilo”, ha annunciato Timmermans: si tratta di un capitolo estremamente delicato e controverso, perché molti paesi, soprattutto nell’est, non ne vogliono sapere. In Francia, in quest’estate tragica per le migrazioni, i partiti, a sinistra come a destra, hanno finora accuratamente evitato di affrontare apertamente la questione. Ieri, Valls ha evocato l’apertura di un nuovo centro “umanitario” di accoglienza a Calais, per 1500 persone (una tendopoli) e la Commissione ha promesso 5,2 milioni di finanziamento (sarà un hotspot di smistamento per altri centri in Franca). Ma destra e estrema destra sono subito partite all’attacco - a dicembre ci sono le elezioni regionali. Il candidato dei Repubblicani ha accusato Valls di mettere in opera un “richiamo irresponsabile” di nuovi migranti con l’apertura della nuova tendopoli. Marine Le Pen, che è candidata nella regione Nord, ha accusato il governo di “sacrificare Calais ai dogmi della Ue”. Merkel e Valls hanno cercato ieri di difendere Schengen, ormai sotto attacco, persino da paesi, come la Gran Bretagna, che non ne fanno parte. Per Merkel, che ha tenuto la conferenza stampa della ripresa dopo le vacanze, “non è giusto che solo 3-4 paesi assorbano quasi tutti i rifugiati”, ma “se non si arriva a una giusta suddivisione allora si metterà in questione Schengen e non lo vogliamo”. In questo contesto, Merkel ha affermato che “c’è grande accordo che l’Italia debba essere aiutata”, come la Grecia a far fronte alla concentrazione di arrivi (la Germania ha sospeso Dublino - cioè il rinvio sistematico nel paese di primo arrivo - per i siriani e persino al Bild ha titolato “welcome” per i rifugiati). Valls ha ricordato a Calais che “Schengen non è solo apertura delle frontiere interne, ma anche rafforzamento di quelle esterne”. In attesa di qualche decisione dell’Unione europea, intanto il dramma continua, con treni bloccati alla frontiera tra Ungheria e Austria, granate tirate al confine tra Macedonia e Grecia. Per aggiungere confusione, in Gran Bretagna, la ministra degli interni, Theresa May (rappresentante dell’ala destra dei Tories) propone limiti alla libera circolazione anche dei cittadini Ue, che nel suo progetto ultra potrebbero non poter più risiedere nel Regno unito se non avranno già trovato un lavoro prima di arrivare. David Cameron ha promesso un referendum sulla conferma dell’adesione della Gran Bretagna alla Ue, che dovrebbe aver luogo nel 2017. Medio Oriente: liberato su cauzione l’attivista italiano Vittorio Fera, sentenza 8 settembre di Michele Giorgio Il Manifesto, 1 settembre 2015 L’attivista italiano arrestato venerdì scorso durante una manifestazione contro il muro a Nabi Saleh è stato scarcerato su cauzione. Rischia l’espulsione. “Sono stato liberato da pochi minuti, dopo ore di attesa. Per ora preferisco non fare dichiarazioni, devo consultarmi con il mio avvocato per evitare che le mie parole possano essere usate contro di me”. Sono state queste le prime frasi che ci ha detto ieri sera Vittorio Fera, 31 anni, appena uscito dalla prigione israeliana in cui è rimasto recluso per tre giorni fino al processo che si è svolto ieri mattina a Gerusalemme. Accusato dagli israeliani di aver preso parte a “disordini violenti” e di “aver tirato sassi all’esercito”, durante la manifestazione settimanale contro il Muro che si tiene nel villaggio cisgiordano di Nabi Saleh, Fera ha seccamente smentito le accuse. L’attivista italiano ripete che stava soltanto documentando ciò che accadeva davanti ai suoi occhi, quando è stato fermato e ammanettato con brutalità da soldati israeliani, come mostrano le immagini circolate in rete e trasmesse anche da alcune televisioni italiane. Fera è stato liberato solo dopo il pagamento di una cauzione e non potrà lasciare Gerusalemme e Israele fino all’8 settembre quando è prevista la lettura della sentenza. “Siamo preoccupati, temiamo brutte sorprese” ci diceva ieri sera Neta Golan, tra i fondatori dell’International Solidarity Movement, l’associazione di attivisti di ogni parte del mondo a sostegno del popolo palestinese, alla quale Fera di solito si appoggia durante la permanenza in Cisgiordania. “Presto potrebbe intervenire il ministero degli interni per preparare la deportazione di Vittorio. Questi otto giorni che mancano alla sentenza sono decisivi per valutare le intenzioni delle autorità”, ha aggiunto Golan. È probabile che l’attivista italiano sia condannato alla deportazione, con l’aggiunta del divieto di ingresso in Israele e Territori palestinesi occupati per un certo numero di anni. Nei giorni scorsi a favore di Fera sono intervenuti Sel e M5S. Il sindaco di Napoli, Luigi De Magistris, ha detto che “la presenza di persone attente e sensibili impegnate in azioni di testimonianza non violenta nei Territori occupati della Palestina sono una risorsa necessaria per tutta la comunità internazionale”. “Vittorio Fera - ha aggiunto De Magistris - era impegnato in questo prezioso lavoro nei pressi del villaggio palestinese di Nabi Saleh”. Vittorio Fera non è il primo italiano a finire in manette durante le cariche dei soldati alle manifestazioni settimanali palestinesi contro il Muro, alle quali partecipano gli abitanti dei villaggi minacciati dalla barriera israeliana assieme ad attivisti internazionali e israeliani. Nei mesi scorsi una italiana, Samantha Comizzoli, da lungo tempo presente in Cisgiordania, è stata fermata e incarcerata per giorni - ha fatto anche uno sciopero della fame in segno di protesta e chiesto la liberazione dei minori palestinesi detenuti in Israele - ed infine deportata. Circa un anno fa un italiano, Patrick Corsi, venne colpito in pieno petto da un proiettile di piccolo calibro sparato dai militari durante una marcia palestinese a Kufr Qaddum (Nablus). Il proiettile si fermò tra cuore e polmone e i medici dell’ospedale di Ramallah riuscirono a rimuoverlo solo dopo una delicata operazione al torace. Venerdì scorso non è stato solo il “giorno nero” di Vittorio Fera. L’italiano infatti stava documentando il tentativo di “arresto” di un minore palestinese, un ragazzino con un braccio ingessato che avrebbe lanciato qualche sasso ai militari israeliani. Un filmato mostra un soldato che prova a tenere fermo in ogni modo il “sospettato” ma viene bloccato dalla madre del ragazzo e da altre donne che alla fine riescono a liberare il piccolo palestinese. In Israele non pochi hanno descritto l’azione delle donne palestinesi una “violenta aggressione” ai danni del militare non confermata però dalle immagini circolate in internet. Vietnam: amnistia per il 70° anniversario dell’indipendenza, liberati oltre 18.200 detenuti Askanews, 1 settembre 2015 Liberi tutti o quasi, il Vietnam ha deciso di concedere un’amnistia di massa in occasione del settantesimo anniversario dell’indipendenza dalla Francia. Le porte del carcere si sono aperte per oltre 18.200 detenuti che hanno ritrovato la libertà. Nessuno di questi però era in carcere per reati politici o legati alla sicurezza nazionale. “Spero che altri prigionieri possano godere degli stessi benefici che sono stati concessi a noi e che altre persone possano tornare a casa” racconta il detenuto. Le organizzazioni per i diritti umani occidentali hanno criticato la frequenza con cui il governo comunista concede l’amnistia per reati comuni mentre usa il pugno di ferro contro dissidenti e attivisti politici dell’opposizione. Venezuela: incendio nel carcere di Tocuyito, nel nord del paese, causa 17 morti e 16 feriti La Presse, 1 settembre 2015 Un incendio è scoppiato nelle prime ore del mattino nel carcere di Tocuyito, nel nord del Venezuela, e il bilancio è di 17 morti, fra cui nove detenuti, e 16 feriti. Le vittime sono otto donne e nove uomini. Lo riferisce l’ufficio del procuratore generale. Secondo quanto riportano alcuni media locali, la causa del rogo sarebbe stata un corto circuito. La prigione di Tocuyito rientrava in un programma del governo nel 2014 di recupero delle carceri e vi furono ricollocati oltre 2mila detenuti per evitare il sovraffollamento di altri penitenziari. Nel 2012 l’allora presidente venezuelano Hugo Chavez dichiarò lo stato d’emergenza sulle infrastrutture delle carceri e lanciò un ministero per i servizi penitenziari per costruire nuove prigioni e “umanizzare” le condizioni dei carcerati. Secondo i gruppi locali per la difesa dei diritti umani, nelle affollate prigioni del Venezuela c’è uno dei tassi più alti di morte dell’America Latina e nel 2014 sono morti 309 detenuti.