Giustizia: così il governo contraddice se stesso e acconsente al peggior populismo penale di Patrizio Gonnella (Presidente di Antigone) Il Manifesto, 18 settembre 2015 Legge delega sulla giustizia. Dopo una serie di misure ragionevoli e razionali in materia penitenziaria e penale, e dopo gli stati generali sulla giustizia, il governo si smentisce e cede alle pulsioni simboliche più repressive. Barack Obama annuncia una riforma della giustizia penale diretta a ridurre le asperità e le durezze del passato e per dimostrare discontinuità grazia alcuni detenuti. E mentre papa Francesco chiede l’amnistia in vista del Giubileo il nostro Parlamento, fuori tempo massimo e fuori luogo, in questi giorni è tornato a essere vittima di un’antica e pericolosa malattia infettiva che si chiama "populismo penale". Si sta discutendo un disegno di legge delega governativo che dovrebbe riformare molte parti del codice di procedura penale e dell’ordinamento penitenziario e se ne sentono di tutti i colori. I resoconti stenografici della Camera fanno rabbrividire. La legge penitenziaria italiana ha quarant’anni di vita. Nasce insieme a "Born to run" di Bruce Springsteen. Nati per fuggire. Come i detenuti nello slang penitenziario, che sono "camosci", dunque nati per fuggire. La sentenza Torreggiani della Corte europea dei diritti umani del 2013 ci ha messo con le spalle al muro: il nostro sistema penitenziario violava sistematicamente la dignità umana. Oggi i detenuti sono diminuiti di 15 mila unità grazie a una serie di misure ragionevoli e razionali messe in campo. Alcune delle proposte presenti nella legge delega, in combinazione con il lavoro degli Stati generali voluti dal ministero della Giustizia, sfruttando la circostanza del minore affollamento, intenderebbero da un lato modernizzare il sistema penitenziario (si pensi alle norme specifiche per i bisogni educativi dei minori, al diritto alla sessualità, al riconoscimento dei bisogni linguistici, sociali, culturali dei detenuti stranieri) e dall’altro estendere l’applicazione delle misure alternative alla detenzione. In questo senso si spiega la norma diretta a togliere qualche paletto alla concessione dei benefici per quella gran massa di detenuti a cui i benefici stessi sarebbero concessi solo nel caso in cui decidano di collaborare con la giustizia. In tal modo verrebbe finalmente superato quell’obbrobrio giuridico che è l’ergastolo ostativo, ovvero l’ergastolo senza prospettiva di rilascio. La Corte di Strasburgo in un caso riguardante l’Inghilterra lo ha espressamente stigmatizzato. Invece si è riaperto il dibattito in modo feroce. Mafiosi in libertà, hanno titolato a destra e manca. In Italia oggi vi sono circa 1.600 ergastolani. Non è vero che l’ergastolo non esiste. Ora quella norma sacrosanta che avrebbe favorito il superamento "dell’ergastolo ostativo" - norma che faceva parte della proposta originaria del Governo - rischia di essere annacquata se non addirittura ritirata. Sarebbe un atto di debolezza, una sconfitta. Si guardi a Obama o a papa Francesco, non a Travaglio o a Salvini. Il disegno di legge delega è diventato un treno su cui salire. Sono stati presentati emendamenti e sub-emendamenti di tutti i tipi, anche da parte dello stesso governo che l’ha presentato. Così se da un lato si vuole giustamente modernizzare il sistema penitenziario, dall’altro lo stesso governo ha aperto la stura ai peggiori sentimenti proponendo un aumento di pena per taluni reati contro il patrimonio. Il disegno di legge delega di riforma dell’ordinamento penitenziario rischia dunque di trasformarsi in un disegno di legge helzapoppin con dentro norme rispondenti a filosofie opposte: da un lato più attenzione ai diritti delle persone sotto processo e detenute, dall’altro più carcere per tutti. Su molti temi (durata delle indagini, intercettazioni, diritti processuali) il dibattito purtroppo non è libero ma è stretto dentro i soliti e prevedibili manicheismi. Mentre gli americani abbandonano la "war on drug", nominano un consumatore di sostanze a capo del servizio anti-droga, annunciano una riforma della giustizia criminale, da noi i cultori del populismo penale - tra le fila del parlamento e nei media - hanno rialzato il tiro. A Ferragosto il ministro dell’Interno Angelino Alfano aveva sottolineato come i delitti nel nostro Paese fossero in diminuzione del 13%. In particolare i furti e le rapine segnavano un’ampia contrazione scendendo, nei primi sette mesi dell’anno rispetto allo stesso periodo del 2014, rispettivamente del 10% e del 14%. Dunque, in questo caso, l’aumento di pene per questi due reati non trova riscontro neanche nei dati. È diritto penale simbolico. Giustizia: no ai codici identificativi per gli agenti, carcere ai manifestanti col volto travisato di Eleonora Martini Il Manifesto, 18 settembre 2015 Sicurezza. Il ddl del ministro che scarica sui sindaci: carcere ai manifestanti col volto travisato. 5 anni a chi usa caschi nei cortei, anche senza reato. Identificabili solo i reparti di ordine pubblico. Ma a protestare è la polizia. Arresto differito e fino a cinque anni di carcere per chi partecipa a cortei e manifestazioni facendo "uso di caschi protettivi ovvero di ogni altro mezzo atto a rendere impossibile o difficoltoso il suo riconoscimento". Anche senza aver partecipato ad alcuna violenza di piazza. E nessun identificativo per polizia e carabinieri, solo un "codice" per identificare i reparti in servizio di ordine pubblico. E ancora: da 2 a 5 anni di pena e una multa da mille a 5 mila euro per chi lancia o utilizza tra l’altro "razzi, bengala, fuochi artificiali, petardi, bastoni, mazze, scudi, materiale imbrattante o inquinante, oggetti contundenti"; Daspo agli spacciatori, anche minorenni, con il divieto di accedere a discoteche e locali pubblici; aumento di pena per furti, scippi e rapine; rafforzamento delle misure di contrasto a quelle condotte considerate lesive del decoro urbano, come "l’accattonaggio invasivo nei luoghi pubblici". Il ministro degli Interni Angelino Alfano ha trovata la soluzione ai problemi "più scottanti" della sicurezza urbana, passando alcune delle patate più bollenti del suo paniere direttamente nelle mani dei sindaci delle città metropolitane che, riuniti ieri nella sede dell’Anci di Roma, chiedevano strumenti e risorse per poter dare risposte alle paure dei cittadini. Così le proposte sono finite in una bozza di disegno di legge messo a punto dal titolare del Viminale che "prevede - come spiega il primo cittadino di Milano, Giuliano Pisapia - un’estensione dei poteri dei sindaci per la tutela della sicurezza dei cittadini e nel contrasto al degrado, fermo restando la competenza esclusiva dello Stato in materia di ordine e sicurezza pubblica". La proposta è stata presentata ieri al vertice - Alfano assente, il relatore del testo è stato il coordinatore delle Città metropolitane e sindaco di Firenze, Dario Nardella - a cui hanno partecipato, oltre ai su citati, il presidente dell’Anci e sindaco di Torino, Fassino, e i sindaci metropolitani Bianco (Catania), Brugnaro (Venezia), Decaro (Bari), De Magistris (Napoli), Marino (Roma), Orlando (Palermo), Zedda (Cagliari), Falcomatà (R. Calabria) e Accorinti (Messina). Subito dopo, la riunione è proseguita al Viminale, dove Alfano ha presieduto il tavolo con Nardella, Fassino, una delegazione dei sindaci metropolitani, il sottosegretario dell’Interno Bocci, il capo Gabinetto Lamorgese e il capo della Polizia Pansa. I sindaci ora hanno una settimana di tempo per presentare le loro osservazioni al testo e le loro proposte di modifica, anche se c’è già qualcuno che inizia a sentire puzza di bruciato, motivo per il quale oltre a responsabilità e poteri, i partecipanti al vertice hanno chiesto "un tavolo permanente per quanto riguarda le risorse necessarie in questo settore". Pisapia invece non mostra molti dubbi e giudica "positivamente" la proposta di Alfano. Malgrado all’articolo 21 del ddl governativo sia prevista l’introduzione non di un codice alfanumerico identificativo del singolo agente o militare, ma di uno che identifichi il "reparto degli operatori in servizio di ordine pubblico" che "gli operatori devono esporre" durante le operazioni di piazza. Per l’obbligo però bisognerà in ogni caso attendere ancora, al contrario di tutte le altre disposizioni contenute nel testo ministeriale e in barba alle richieste del Parlamento europeo. Entro sei mesi dall’entrata in vigore della legge, infatti, un decreto del presidente della Repubblica, previa deliberazione del Cdm, determinerà "i criteri generali concernenti l’obbligo di utilizzo e le modalità d’uso del codice, prevedendo specificatamente che l’attribuzione del suddetto codice identificativo di reparto avvenga secondo criteri di rotazione per ciascun servizio". Altre disposizioni contenute nel ddl, suddiviso in tre parti e 22 articoli, prevedono anche il divieto per il personale in servizio di ordine pubblico di indossare "caschi e uniformi assegnati ad operatori al altro reparto", pena una "sanzione amministrativa pecuniaria di 5 mila euro nonché la sanzione disciplinare prevista dall’ordinamento di appartenenza". I sindacati di polizia di questo Paese, ancora una volta, plaudono a tutte le proposte tranne all’introduzione del codice identificativo, anche se potrebbe al massimo servire per capire a quale contingente appartengano i tutori dell’ordine pubblico. Giustizia: Carbone (Anm); nel ddl sul processo penale norme che non incidono su sistema Adnkronos, 18 settembre 2015 Il ddl sul processo penale, all’esame della Camera, contiene una serie di interventi che "hanno scarsa capacità di incidere sulle questioni reali del sistema giustizia". A sottolinearlo, intervistato da Voci del Mattino, su Radio1 Rai, è Maurizio Carbone, segretario dell’Associazione nazionale magistrati, che si è soffermato su alcuni punti del ddl, tra cui la delega sulle intercettazioni: "temiamo che ancora una volta si confondano due piani distinti: quello dell’inchiesta e quello della divulgazione. Ecco perché siamo perplessi di fronte alla delega". "Le intercettazioni, come abbiamo visto anche nel caso dell’inchiesta su Mafia Capitale, sono uno strumento indispensabile per l’accertamento dei reati - spiega. Esiste, è vero, un problema di diritto alla riservatezza, alla segretezza di conversazioni non rilevanti, ma non vorremmo che per risolvere questo problema si andasse a depotenziare uno strumento come le intercettazioni, un fondamentale supporto per le indagini. Noi stessi abbiamo fatto proposte per impedire la pubblicazione di conversazioni private che non attengono all’inchiesta ma temiamo che questo argomento possa divenire prevalente". Quanto all’emendamento secondo cui il ministro dovrebbe relazionare annualmente in Parlamento sui casi di ingiusta detenzione, Carbone vede il rischio di "reiterare la tendenza a vedere nei magistrati i responsabili unici di presunte disfunzioni del sistema. Respingiamo l’idea di fondo che ogni ingiusta detenzione nasconda un errore di noi magistrati. Abbiamo la sensazione che, nell’incapacità di realizzare riforme concrete, che eliminino alcune disfunzioni e limitino le possibilità di errore, si voglia trovare una scorciatoia - denuncia - indicando i magistrati come unici responsabili. È un’impostazione che respingiamo fermamente". Ai magistrati non piace neanche il meccanismo che fissa un termine di tre mesi, dopo il completamento delle indagini, per esercitare l’azione penale o chiedere l’archiviazione, termine che si raddoppia per alcuni tipi di reato ma non per quelli legati alla corruzione. "È un altro aspetto molto critico - ha detto Carbone - ma noi siamo fermamente contrari all’introduzione di questi termini a prescindere dall’ipotesi di reato. Non ha senso imporre un ulteriore termine di 3 mesi per tutte le attività di indagine, considerando che ci sono già tantissimi termini che i pubblici ministeri devono rispettare nella fase delle indagini preliminari. "Costringere il pm a fare una valutazione dell’attività di indagine con un termine capestro, che nella maggioranza dei casi non può essere rispettato, non risolve il problema annoso della lunghezza dei processi. È un’altra scorciatoia per dare l’impressione, ma solo l’impressione, di accorciare i tempi dei processi - conclude il segretario Anm - soffocando in realtà l’attività di indagine e incidendo sulla completezza stessa dell’indagine". Giustizia: il Sottosegretario Ferri "a fine anno quota zero sovraffollamento nelle carceri" Adnkronos, 18 settembre 2015 "Entro la fine di quest’anno raggiungeremo l’importante risultato della quota zero del sovraffollamento delle carceri, con l’assoluta parità tra i posti regolamentati e il numero dei detenuti. L’obiettivo principale era quello di riportare alla normalità una situazione per la quale anche l’Europa ci aveva condannati e grazie ai nostri sforzi il risultato è davvero molto vicino". Lo afferma il sottosegretario alla Giustizia, Cosimo Maria Ferri, a margine del convegno "L’opera di carità di Bartolo Longo anticipatrice dei valori espressi nell’art.27 della Costituzione italiana", organizzato, oggi alla Camera, da ‘Il Pontificio Istituto Bartolo Longò, in collaborazione con l’Associazione Sandro Pertini Presidente, con la Comunità Borgo Amigò e l’Associazione Lux in Midia. "Siamo intervenuti sulla custodia cautelare in carcere, per far sì che questo strumento venga utilizzato solo per i casi nei quali c’è la reale esigenza - spiega Ferri - sulla possibilità di ampliare il ricorso a misure alternative alla detenzione e sulla velocizzazione dei procedimenti in corso. Abbiamo puntato sulla valorizzazione del volontariato, l’affettività, le misure alternative, il lavoro in carcere e il processo di reinserimento sociale per ridurre la recidiva. Abbiamo insistito su un esercizio dell’azione penale effettivo e riservato a fatti più gravi e di allarme sociale". "Stiamo puntando - riferisce il sottosegretario - su procedimenti che consentano il riavvicinamento tra l’imputato e la persona offesa, ad esempio la legge sulla messa alla prova e quella sulla tenuità del fatto. Nei giorni scorsi - ricorda - sono stati convocati al ministero della Giustizia i provveditori regionali e i direttori degli Istituti di pena per promuovere il necessario cambiamento dei modelli di detenzione e trattamento. Per la prima volta si cerca il massimo coinvolgimento per garantire che gli Istituti siano gestiti con parametri innovativi e si raggiunga una vera e propria autogestione. Oltre all’ingente risparmio che ne deriverebbe, vi sarebbe anche una coerenza con le finalità richiamate dall’articolo 27 della Costituzione". E sull’opera di Bartolo Longo, Ferri sottolinea che essa "costituisce un punto di riferimento per il nostro sistema penitenziario e ha il merito di aver anticipato i valori dell’articolo 27 della Costituzione, che stabiliscono la funzione rieducativa e di reinserimento sui quali si deve basare la detenzione. Le idee di Longo, rivoluzionarie all’epoca - aggiunge - sono oggi fonte di ispirazione per l’azione del Governo che ha messo in campo una serie di provvedimenti finalizzati ad una maggiore umanizzazione della pena e ad un miglioramento delle condizioni per i detenuti". "Longo - prosegue Ferri - ha posto l’attenzione in particolare sulla situazione dei figli dei detenuti, che non sono solo meritevoli di tutela e protezione, ma possono giocare un ruolo di primo piano nell’opera di riscatto sociale, di recupero, di riabilitazione, di contatto con il mondo esterno e per questo dobbiamo sviluppare progetti di affettività e creare spazi e ambienti accoglienti e adatti agli incontri con il genitore detenuto". "Oggi il nostro sistema penitenziario è ispirato all’idea che ogni persona sia titolare di diritti inalienabili, tra i quali rientra a pieno titolo anche il diritto alla manifestazione della personalità nella sfera affettiva, ed una negazione di questi rischia di esporre il soggetto a gravi ricadute nel percorso educativo". "In quest’ottica si innesta perfettamente l’idea di un ciclo virtuoso, tra detenuto e famiglia, fatto di scambio, di reciprocità, di vicinanza, di affettività e di contatto. Il mio auspicio è quello di poter proseguire nel processo di umanizzazione dei nostri penitenziari e che l’esempio di Bartolo Longo possa costituire davvero una via maestra da seguire in futuro, affinché si persegua un vero e proprio processo di risocializzazione". Giustizia: l’Unione della Camere Penali "la magistratura non può riformare se stessa" camerepenali.it, 18 settembre 2015 Dopo anni di prese di posizione e di interventi da parte dell’Unione delle Camere Penali Italiane sulla questione dei magistrati in politica e sulla quella più generale dei "fuori ruolo", finalmente registriamo prese di posizioni anche da parte di autorevoli esponenti della politica, della magistratura e di qualche settore della stessa magistratura associata. Dopo anni di prese di posizione e di interventi da parte dell’Unione delle Camere Penali Italiane sulla questione dei magistrati in politica e sulla più generale questione dei c.d. "fuori ruolo", ovvero della assegnazione di magistrati a funzioni diverse da quelle giudiziarie, finalmente registriamo prese di posizioni anche da parte di autorevoli esponenti della politica, della magistratura e di qualche settore della stessa magistratura associata, e registriamo da ultimo un intervento dello stesso Vice Presidente del CSM Legnini, che ribadisce la necessità di regolamentare per via legislativa la partecipazione dei magistrati alla politica ed, in particolare, il ritorno di questi ultimi alle ordinarie funzioni giudiziarie. Dopo tanti segnali di assoluta ed ostinata chiusura su questo fronte, ora la parola deve passare alla politica, Governo e Parlamento, perché si giunga, nel più breve tempo possibile, ad un intervento legislativo da adottarsi nell’ambito della non più procrastinabile riforma del Csm. Già da tempo l’Unione delle Camere Penali Italiane ha messo in campo una proposta di regolamentazione dei c.d. "fuori ruolo" e di disciplinare la partecipazione dei magistrati ordinari alla vita politica, a tutela dell’autonomia, dell’indipendenza e dell’imparzialità della funzione giudiziaria. La proposta contiene disposizioni in ordine all’eleggibilità dei magistrati ordinari in servizio in tutte le cariche elettive dello Stato, delle Regioni e della autonomie locali, nonché la partecipazione alle rispettive istituzioni di governo, prevedendo che tra la cessazione dal servizio del magistrato e la sua candidatura ad una delle cariche indicate (salvo il caso, per le sole cariche elettive, di elezioni suppletive o di anticipata fine della legislatura o consiliatura), debba intercorrere un ragionevole lasso di tempo (di almeno sei mesi). Occorre, infatti, contrastare forme di uso strumentale della funzione posto che, con la candidatura, con l’elezione o con l’assunzione di una carica di governo, il magistrato compie una pubblica scelta di campo inevitabilmente incompatibile con l’autonomia, l’indipendenza e l’imparzialità del ruolo. La proposta prevede, pertanto, che il magistrato che intende partecipare ad una competizione elettorale o assumere cariche di governo anche locale, debba cessare di essere in servizio, senza alcuna possibilità di ritorno. È su questo concreto tema che vogliamo aprire da subito un confronto serio e concreto con le forze politiche, con il Governo e con la magistratura, perché le petizioni di principio formulate dalla politica e dalla magistratura restino prive di una concreta traduzione in un testo normativo conseguente e coerente. La crisi della giustizia italiana è anche e soprattutto crisi di efficienza del sistema giudiziario e di credibilità. Parte della crisi della giustizia (di quella penale in particolare), senza dubbio centrale, è la "questione magistratura". Questione che si dipana sotto molteplici aspetti. Sul piano ordinamentale ed istituzionale la questione andrebbe affrontata in sede di riforma costituzionale al fine di rendere effettiva la necessaria separazione dei due ordini giudiziari: l’ordine dei magistrati della decisione - i giudici - e l’ordine del magistrati dell’accusa - i pubblici ministeri. Sul punto la nostra iniziativa dovrebbe anche produrre un non irrilevante mutamento lessicale cominciando piuttosto a parlare di separazione dei magistrati in due ordini. Va superata la disposizione dell’art. 107 comma 3 Cost. che prevede che i magistrati si distinguono tra loro soltanto per diversità di funzioni. Invero è la stessa Costituzione vigente a prevedere ed a declinare in modo diverso tra giudici e pubblici ministeri le prerogative e le categorie dell’indipendenza e dell’autonomia. Se il giudice è soggetto solo alla legge (art. 101 comma 2) analoga norma non si rinviene per i pubblici ministeri anzi lo statuto delle garanzie e dell’indipendenza del pubblico ministero è demandato alla legge ordinaria (art. 107 comma 4). La separazione degli ordini giudiziari dovrebbe essere resa effettiva anche con riguardo alla composizione ed alle funzioni del Csm superando l’anomalia (prevalentemente italiana rispetto al resto dei Paesi di democrazia liberale) di un unico Consiglio. Ma ci sono questioni che possono essere affrontate a Costituzione vigente in linea con l’esigenza di ammodernamento del sistema giudiziario e della magistratura che possono inserirsi virtuosamente in un processo più complesso volto alla efficienza ed alla credibilità del sistema giudiziario ed al superamento di distorsioni e patologie oramai insopportabili. Si tratta di interventi normativi che, dopo anni di inascoltate sollecitazioni da parte dell’UCPI, oggi sono avvertiti come urgenti, necessari e non più procrastinabili da settori importanti della politica e della stessa magistratura. 1) Il sistema elettorale del Csm. Una delle questioni che mina, da una parte la credibilità della magistratura (e del sistema) dall’altro l’indipendenza dei singoli magistrati è certamente l’ipertrofica influenza delle correnti della magistratura associata sulle carriera dei magistrati (dalle valutazioni di professionalità, alle nomine dei capi degli uffici giudiziari, e non solo quelli importanti, ed in genere alla attribuzione delle funzioni direttive e semi-direttive, alla materia disciplinare etc.) e su tutte le questioni che attengono alle funzioni che la Costituzione e le leggi (da quella istitutiva alla legge dell’ordinamento giudiziario) attribuiscono al Csm. È anche sotto gli occhi di tutti come le correnti influenzano l’attività del Csm per esempio nella gestione delle c.d. pratiche a tutela o nell’attività, spesso impropria e invasiva, di esprimere pareri sulle leggi di interesse che si risolve troppo spesso in una sorta di intervento politico a contenuto molte volte interdittivo al di fuori delle prerogative che la Costituzione e le leggi attribuiscono all’organo di governo autonomo della magistratura. Non si è rilevata efficace la riforma introdotta nel 2002 (Ministro Castelli) che nelle intenzioni avrebbe dovuto comprimere il peso delle correnti (si passò da un sistema elettorale di tipo proporzionale per liste alle candidature individuali su collegi unici nazionali per ciascuna categoria di magistrati) ma che nella pratica, grazie proprio al collegio unico nazionale, non ha affatto scalfito l’influenza delle correnti nella elezione dei componenti togati. Si sono registrate infatti ottime affermazioni di magistrati "indipendenti" nelle sezioni elettorali del territorio in cui operavano ma che venivano vanificate dal conteggio nazionale. In tutte le tre tornate elettorali in cui si è votato col sistema elettorale del 2002 soltanto in una sola occasione ed in un unico caso è stato eletto un magistrato che non fosse espressione delle correnti organizziate dell’Anm ( 2010 dott. Corder). La riforma del sistema elettorale del Csm è una delle urgenze della riforma del sistema giudiziario e dovrebbe orientarsi verso un modello a collegi uninominali territoriali (distrettuali o inter-distrettuali) che favoriscano la candidatura individuale e la territorialità della rappresentanza. Si segnala in proposito la dichiarata ostilità delle storiche correnti della magistratura associata a soluzioni di questo tipo (ma anche il tentativo fatto al tempo della riforma Mastella - sottosegretario dott. Scotti - di reintrodurre il sistema proporzionale tout court). 2) Magistrati in politica e fuori ruolo. Una delle gravi distorsioni del sistema giudiziario italiano con diretta refluenza sulla indipendenza dei singoli magistrati e della magistratura dal potere politico (ma anche della politica nelle sue espressioni di potere esecutivo e legislativo dalla magistratura) e sulla stessa immagine e "apparenza" di imparzialità di chi giudica o indaga. Per quanto riguarda la questione dei fuori ruolo, gli interventi normativi degli ultimi anni (e quelli para-normativi del Csm), anche sotto la spinta delle forti iniziative dell’Ucpi sul punto, che hanno avuto il pregio, quantomeno, di fare emergere in tutta la sua dimensione (anche per le evidenti distorsioni) il fenomeno e le conseguenze di esso, si sono orientati esclusivamente sullo stabilire limiti numerici e temporali al collocamento fuori ruolo senza mai occuparsi dei "limiti funzionali". L’Ucpi su tale questione propone un intervento normativo che muova dall’affermazione della esclusività delle funzioni giudiziarie, dalla eccezionalità del collocamento fuori ruolo per l’espletamento di funzioni diverse da quelle giudiziarie, in presenza di particolari condizioni (il necessario collegamento funzionale tra la natura dell’incarico e la qualificazione propria del magistrato) e nella espressa previsione di legge che il collocamento fuori ruolo per l’assolvimento di funzioni diverse da quelle giudiziarie sia possibile solo nel caso in cui sia la legge a stabilire che quelle funzioni siano assolte da magistrati in servizio. Più cogente, anche per le implicazioni politiche e la sua attualità, è la questione dei magistrati in politica. Sul punto l’Unione delle Camere Penale Italiane rivendica di avere da anni sollecitato la "politica" ad occuparsi della questione anche con proposte concrete. Si è sempre registrato sul punto un dissenso forte da parte della magistratura associata, da sempre contraria a interventi normativi che potessero regolare la partecipazione dei magistrati alla vita politica attraverso la assunzione di cariche elettive e di governo. Si sono negli ultimi anni, anche a seguito del manifestarsi in tutta la sua virulenza delle distorsioni di un sistema privo di regole, registrati importanti ed autorevoli interventi da parte di importanti giuristi e di alte istituzioni dello Stato. A partire dell’ex Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano (significativo è il suo intervento all’adunanza pubblica del Plenum del Csm il 15.2.2012 con l’invito a risolvere la questione mediante un intervento legislativo) e più di recente anche singoli autorevoli magistrati e persino settori della stessa magistratura associata e importanti rappresentanti della politica, dei diversi schieramenti presenti in parlamento, hanno espresso opinione circa la necessità di un intervento legislativo volto a regolamentare l’acceso dei magistrati alle cariche elettive e politiche e soprattutto il ritorno alle funzioni giudiziarie con l’introduzione anche di divieti. Da ultimo lo stesso Vice Presidente del Csm, dott. Legnini, ha ribadito la necessità di un intervento legislativo volto a disciplinare la partecipazione dei magistrati alla vita politica del Paese rivendicando al Csm, peraltro, di avere affrontato la questione con riguardo al conferimento delle funzioni direttive e semi direttive con particolari limitazioni per quei magistrati che avevano scelto di entrare in politica. L’Ucpi vede finalmente riconosciuta una sua storica e fondamentale battaglia per l’affermazione dei valori dell’indipendenza e dell’imparzialità della magistratura e dei singoli magistrati anche sotto il profilo della "apparenza". La questione è di primaria importanza soprattutto di fronte alla "aggressiva" opera di invasione da parte di "importanti" magistrati di posti chiave della politica e delle istituzioni di governo (anche nelle autonomie locali). Ma tale aggressiva occupazione è sostenuta dal sistema mediatico giudiziario che ruota attorno a molte procure ed è una delle questioni politiche di maggior rilevanza sul tappeto rispetto ad una politica che giorno dopo giorno perde terreno sul piano dell’autorevolezza. Di fronte alla avvertita necessità di intervenire sulla materia per via legislativa l’Ucpi intende aprire da subito il confronto su basi concrete, con le forze politiche, col Governo e con la magistratura. Non si può continuare a enunciare o meglio a sentire enunciare da parte di rappresentanti della politica e della magistratura petizioni di principio senza una conseguente traduzione in atti normativi conseguenti, coerenti e urgenti. L’occasione potrebbe essere rappresentata dalla annunciata, da parte del Ministro, riforma del Csm. In quella sede si dovrebbero introdurre le disposizioni che disciplinano la partecipazione dei magistrati alla politica. L’Ucpi sull’argomento propone e mette a disposizione un articolato, di più ampio respiro perché riguarda anche il tema dei c.d. fuori ruolo ed in genere il tema della destinazione dei magistrati a funzioni diverse da quelle giudiziarie, come punto di partenza per un confronto concreto sul tema. La parola ora passa alla politica, al Governo ed al Parlamento, per tradurre in atti normativi coerenti quelle enunciazioni sulle quali oggi, finalmente sembrano essere tutti d’accordo. Giustizia: riforma delle intercettazioni, prime aperture del Pd di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 18 settembre 2015 Potrebbe ampliarsi l’area delle intercettazioni "rilevanti", come tali pubblicabili e dunque non punibili. Anche se se ne discuterà soltanto martedì, l’apertura è arrivata ieri dalla presidente della commissione Giustizia della Camera Donatella Ferranti (Pd), nonché relatrice del ddl sul processo penale, che, durante il Comitato dei 9 in vista dell’esame dell’Aula, ha dato parere favorevole a un emendamento dei 5 Stelle che non àncora più la rilevanza (e quindi la pubblicabilità) "ai fini di giustizia penale", e che quindi amplia la pubblicabilità degli ascolti in generale "rilevanti". Pertanto, quando eserciterà la delega, il governo dovrebbe calibrare la tutela della privacy (e le sanzioni per chi la viola) in funzione della rilevanza delle comunicazioni, tenendo conto che non tutto ciò che è irrilevante in un processo penale lo è anche in altri ambiti (per esempio, contabile o disciplinare). In sostanza, un’intercettazione da cui emergono, ad esempio, profili di rilevanza contabile, sarebbe comunque pubblicabile perché verrebbe meno l’esigenza di riservatezza. Il condizionale però è d’obbligo poiché ieri il governo - rappresentato dal viceministro della Giustizia Enrico Costa (Ncd) - si è riservato di valutare la modifica, senza peraltro fare mistero di un orientamento contrario e della preferenza per il testo del governo, che considera irrilevanti (e quindi impubblicabili) tutte le intercettazioni non strettamente attinenti al processo. Dalla Ferranti è arrivata anche un’altra proposta di modifica all’articolo 29 del ddl sul processo penale (che ieri, in Aula, si è fermato al 26 e riprenderà martedì). La relatrice propone di eliminare dai criteri di delega quello che fa espressamente riferimento "all’udienza di selezione" del materiale intercettato (la cosiddetta udienza filtro davanti al Gip): meglio lasciare al governo la scelta di come scandire "la selezione" del materiale intercettato, prevedendo o meno una specifica udienza, che potrebbe rivelarsi un appesantimento ed essere quindi sostituita con un’altra procedura. Quanto alla norma sulle "registrazioni fraudolente" (fotocopia della norma D’Addario del 2010, mai approvata), si è concordato di precisare, nell’emendamento Verini (Pd), che la punibilità è esclusa soltanto se la captazione "è utilizzata" (e non: "è utilizzabile") nell’esercizio del diritto di cronaca. Il che amplierebbe l’area della punibilità, cioè il carcere "da 6 mesi a 4 anni" o, secondo l’emendamento di David Ermini, "fino a 4 anni". Proprio Ermini ha presentato ieri, in Aula, un emendamento all’articolo 11 per attenuare la stretta sui tempi (1 anno per le inchieste di mafia e terrorismo; 3 mesi, prorogabili a 6, in tutti gli altri casi, compresa la corruzione, su richiesta al Pg della Corte d’appello)entro cui i Pm dovranno chiedere il rinvio a giudizio o l’archiviazione. La modifica prevede che il termine decorra dalla conclusione delle indagini "e comunque dalla scadenza dei termini di cui all’articolo 415 bis del Cpp". Pertanto, la durata complessiva delle indagini preliminari non viene compressa, ma alla scadenza si aggancia un nuovo termine per chiedere rinvio a giudizio o archiviazione, pena l’avocazione del procedimento. Nuovo termine che - nelle indagini in cui viene emesso l’avviso di conclusione - decorre sempre dall’ultima notifica o dalla scadenza dell’ulteriore eventuale indagine suppletiva. Per il Pd non è una norma "per cestinare i processi" ma per renderli "più certi" nella fase delle indagini e, quindi "a tutela dei cittadini" (imputati e parti offese), anche se Ermini ha ammesso la necessità di accompagnarla con un impegno di governo e maggioranza sul fronte delle risorse, umane e materiali, notoriamente scarse nelle Procure. I magistrati, però, continuano ad essere critici e preoccupati. Tra le norme che li riguardano (e preoccupano) ieri è stata approvata all’unanimità (con grande soddisfazione di Costa) quella sulla relazione annuale al Parlamento relativa alle condanne per "ingiusta detenzione" e ai procedimenti disciplinari iniziati contro i Pm "responsabili" nonché quella sulla responsabilità disciplinare dei Pm in caso di ritardo nell’iscrizione delle notizie di reato. Approvata poi, tra le altre, la norma in base alla quale il compimento degli 80 anni o la morte non determineranno più la cancellazione delle condanne dal Casellario giudiziale. Giustizia: delega fiscale, sconti e meno carcere per gli evasori di Liana Milella La Repubblica, 18 settembre 2015 Evasori "graziati" anche se presentano una dichiarazione infedele. Prossima stretta sulle intercettazioni, senza neppure la famosa "udienza stralcio" che pure aveva il consenso di molti autorevoli giornalisti. Tutto grazie al potente strumento della delega, un mandato legislativo al governo che poi non è sottoposto al voto delle Camere. Due provvedimenti diversi - la delega fiscale e il ddl sul processo penale - e due questioni diverse, entrambe sotto i riflettori da tempo, per una singolare coincidenza discusse nelle stesse ore a Montecitorio. Accomunate dallo strumento della delega. Su cui il governo recita due parti in commedia. Per quella sulle intercettazioni, che martedì sarà votata in aula, la maggioranza promette di attenersi ai paletti che in futuro saranno opposti dalla commissione parlamentare. Ma nel caso della delega fiscale, in cui i paletti già erano stati messi, lo stesso governo ignora, nei punti più delicati, le indicazioni che le commissioni Finanze e Giustizia avevano rassegnato a palazzo Chigi il 27 luglio. Ecco le richieste ed ecco le risposte fornite ieri. Scrive il governo: "Non si è ritenuta l’opportunità di innalzare le pene previste dagli articoli 3 (dichiarazione fraudolenta) e 4 (dichiarazione infedele) in quanto le stesse sono state considerate adeguate alla gravità dei rispettivi reati". Le commissioni avevano chiesto, tra molte altre cose, di alzare le pene "nel minimo e/o nel massimo in maniera adeguata alla previsione di nuove soglie di punibilità". Un modo per attenuare il regalo agli evasori, visto che aumenta da 50 a 150mila euro e da 2 a 3 milioni la soglia per la dichiarazione infedele. E viene mantenuta pure quella del 10% per le valutazioni che si discostano dal valore reale solo in presenza di una motivazione. Ieri, nelle commissioni Finanze e Giustizia, è esplosa la collera dei grillini. Ha gridato Alfonso Bonf ade: "n Parlamento è diventato lo zerbino del governo... Renzi se n’è infischiato del parere delle commissioni e ha fatto il suo vergognoso regalo agli evasori". A Repubblica, che ad agosto aveva anticipato il caso, aveva detto il pm di Roma Giuseppe Cascini: "E un passo indietro nella lotta all’evasione". Che rischia di avere effetti anche sui processi in corso. M5S userà il caso martedì per contestare la delega sulle intercettazioni. Dove la maggioranza propone di eliminare la famosa udienza stralcio per lasciare due punti, ridurre gli ascolti nelle ordinanze di custodia e ridurre le intercettazioni pubblicabili. Il clima dell’aula lascia pensare che, grillini a parte, saranno tutti d’accordo. Basta riflettere sull’ampio consenso - 415 sì, 3 contro, 6 astenuti - sulla proposta del vice Guardasigilli Enrico Costa di una relazione annuale del ministro sui casi di ingiusta detenzione. Un "processo pubblico contro la magistratura", chiosa l’Anm, che però piace a tutta la politica. Grillini compresi. Giustizia: ma come si fa a dire che la battuta di Calderoli sulla Kyenge era un’opinione? di Lanfranco Caminiti Il Garantista, 18 settembre 2015 E così, la sua era davvero "una battuta simpatica". "Inserita in un ben più articolato e politico intervento di critica al ministro e alla sua politica", come spiegò appena iniziò la bufera. Era l’estate di due anni fa, e in un comizio leghista a Treviglio, Roberto Calderoli si lasciò prendere la mano e si lanciò contro l’allora ministro Kyenge: "Quando la vedo non posso non pensare a un orango". Vennero le scuse al ministro, anche di persona, che lei accettò, anche perché disse non c’era alcuna questione personale, ma considerava solo l’offesa al ruolo istituzionale che ricopriva. Difatti, non fu lei a far partire la querela, ma una parte terza. E così si arrivò a un procedimento giudiziario, dove la diffamazione era sostenuta dall’accusa d’istigazione all’odio razziale. Secondo la legge attualmente in vigore, infatti, non essendoci stata una querela diretta, il procedimento penale si reggeva grazie all’aggravante dell’istigazione all’odio razziale. E il Tribunale di Bergamo aveva portato avanti la cosa. Ed era partita l’autorizzazione a procedere. Il Senato l’ha negata. E l’ha pure autorizzata. Cioè, il Senato ha spacchettato l’accusa, in due parti separate - una cosa mai successa prima. E così ha votato una volta per la diffamazione e una volta per l’istigazione all’odio razziale. Ha autorizzato la prima (126 voti a favore e 116 contro) ma ha negato la seconda (196 i no e 46 i sì). Negando la seconda, cade pure la prima. Magari il procedimento a Bergamo prosegue, ma è come svuotato, essendoci state anche le scuse, ufficiali e accettate. Geniale. La Kyenge, attualmente europarlamentare a Bruxelles, non ci sta. Pensa di rivolgersi al proprio avvocato per portare il caso davanti alla Corte europea. "Ora è una questione di principio - ha detto - perché il messaggio che arriva dalle istituzioni ai nostri ragazzi e giovani è devastante". Si sente tradita. Senza il voto del Pd, la cosa non si sarebbe sistemata così. Manovre al Senato, in vista della riforma? È quello che sospettano in tanti. Calderoli - che dei procedimenti e degli iter del Senato è diventato una specie di mammasantissima - aveva presentato una cosa come cinquecentomila emendamenti al decreto legge Boschi. Avete letto bene, cinquecentomila. Ma forse sono di più, o potrebbero esserlo. Calderoli si avvale di un programmino, di un software, di un algoritmo che produce parole a partire da parole. Perciò, se tu inserisci un testo, ti fa migliaia di variabili su ciascuna parola, su ciascuna punteggiatura, e così all’infinito, perché ogni variabile interferisce con le altre. Parole che non hanno senso se non di assonanza, sinonimi e contrari, occorrenze e ricorrenze, svuotate di qualunque intento legislativo. Un vero filibustering, cioè un ingranaggio per tentare di bloccare un percorso nelle aule parlamentari. Ammodernato al digitale. L’avesse usata a Treviglio, Calderoli, la sua macchinetta "spara-parole" chissà cosa gli sarebbe venuto fuori contro la Kyenge. In qualunque paese, un episodio così avrebbe portato alle dimissioni di Calderoli, che allora era vicepresidente del Senato. Figurarsi. Qui da noi, la condotta di Calderoli è stata ritenuta "insindacabile" in quanto coperta dal primo comma dell’articolo 68 della Costituzione. Che recita così: "I membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni". Era un’opinione, quell’insulto alla Kyenge, espressa nell’esercizio della funzione? Le prove nuove nel processo di revisione Il Sole 24 Ore, 18 settembre 2015 Impugnazioni - Revisione - Casi - Prova scientifica - Idoneità a determinare una diversa decisione - Valutazione del giudice - Parametri. Nella valutazione della richiesta di revisione spetta al giudice stabilire se il nuovo metodo scientifico posto a base della richiesta, scoperto e sperimentato successivamente a quello applicato nel processo ormai definito, sia in concreto produttivo di effetti diversi rispetto a quelli già ottenuti e se i risultati così conseguiti, da soli o insieme con le prove già valutate, possano determinare una diversa decisione rispetto a quella, già intervenuta, di condanna. • Corte di cassazione, sezione IV, sentenza 26 gennaio 2015 n. 3446. Revisione della sentenza - Istanza - Prove dedotte a fondamento - Carattere di novità - Valutazione preliminare circa l’ammissibilità della richiesta di revisione. La valutazione preliminare circa l’ammissibilità della richiesta di revisione proposta sulla base di prove nuove non può prescindere da una comparazione tra le prove nuove e quelle già acquisite e deve ancorarsi alla realtà del caso concreto e, quindi, dal rilievo di evidenti segni di inconferenza o inaffidabilità della prova nuova, a condizione che siano riscontrabili "ictu oculi". • Corte di Cassazione, sezione VI, sentenza 30 dicembre 2014 n. 53849. Revisione - Istanza - Criteri da seguire per determinare la ricorrenza di un caso di revisione - Prove nuove - Elementi estranei rispetto a quelli del processo - Inammissibilità di una richiesta di revisione fondata su elementi già esistenti. A proposito dei criteri da seguire per determinare la ricorrenza di un caso di revisione è giurisprudenza consolidata che debbano intendersi per prove nuove quelle costituite da elementi estranei e diversi rispetto a quelli del processo definito con la sentenza irrevocabile, non essendo ammissibile la richiesta di revisione fondata su elementi già esistenti negli atti processuali, ancorché non valutati dal giudice. • Corte di Cassazione, sezione III, Sentenza 3 novembre 2014, n. 45243. Impugnazioni - Revisione - Casi - Prova nuova - Perizia - Condizioni. In tema di revisione, agli effetti dell’articolo 630 lett. c) cod. proc. pen., una perizia può costituire prova nuova se basata su nuove acquisizioni scientifiche idonee di per sé a superare i criteri adottati in precedenza e, quindi, suscettibili di fornire sicuramente risultati più adeguati. • Corte di cassazione, sezione VI, sentenza 8 agosto 2013 n. 34531. Impugnazioni - Revisione - Casi Prove fondate su tecniche diverse e innovative - Sussumibilità nell’ambito delle prove nuove, ex articolo 630, comma primo, lett. c), cod. proc. pen. Ai fini dell’ammissibilità della richiesta di revisione, possono costituire prove nuove, ex articolo 630, comma primo, lett. c), cod. proc. pen., le prove che, pur incidendo su un tema già divenuto oggetto di indagine nel corso della cognizione ordinaria, siano fondate su tecniche diverse e innovative, tali da fornire risultati non raggiungibili con le metodiche in precedenza disponibili. • Corte di cassazione, sezione V, sentenza 22 gennaio 2010 n. 2982. Impugnazioni - Revisione - Casi - Nuove prove - Ammissibilità della richiesta - Valutazione ai fini dell’articolo 631 e dell’articolo 634 c.p.p. - Criteri distintivi. In tema di ammissibilità della richiesta di revisione basata sulla prospettazione di "nuove prove", mentre l’articolo 631 c.p.p. richiede la formulazione di un giudizio prognostico astratto in ordine alla idoneità dei nuovi elementi di prova, se accertati, a determinare la sostituzione della decisione irrevocabile di condanna con una di proscioglimento l’articolo 634 c.p.p., nella parte in cui prevede l’inammissibilità della richiesta quando questa risulti "manifestamente infondata", postula un diverso tipo di valutazione, non più astratto ma concreto, in diretta ed immediata correlazione col tema d’indagine proposto, ai fini del riscontro in ordine alla persuasività e alla congruenza dei risultati probatori posti a base dell’impugnazione straordinaria. Tale valutazione non può mai consistere in una penetrante anticipazione dell’apprezzamento di merito riservato al vero e proprio giudizio di revisione, da svolgersi nel contraddittorio delle parti, ma implica soltanto una sommaria delibazione degli elementi di prova addotti, finalizzata alla verifica dell’eventuale sussistenza di un’infondatezza che, in quanto definita come manifesta, deve essere rilevabile "ictu oculi", senza necessità di approfonditi esami. Entrambe le valutazioni postulano la comparazione delle nuove prove con quelle sulle quali si fonda la condanna irrevocabile, di cui occorre quindi identificare il tessuto logico giuridico, comparazione che non richiede soltanto il confronto di ogni singola prova nuova occorrendo invece che la pluralità di prove riconosciute nuove sia valutata anche unitariamente, vagliandosi, in una prospettiva globale, l’attitudine dimostrativa di esse, da sole o congiunte a quelle del precedente giudizio, rispetto al risultato finale del proscioglimento. • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 28 ottobre 1998 n. 4837. No alla condizionale con un precedente rinvio a giudizio per uno stesso reato di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 18 settembre 2015 Corte di cassazione - Sezione II penale - Sentenza 17 settembre 2015 n. 37670. Un rinvio a giudizio per uno stesso reato anche se disposto prima dei fatti che hanno portato alla condanna basta per negare la sospensione condizionale della pena. La Cassazione esclude, a differenza da quanto affermato in altre sentenze, che il giudice nel decidere sia tenuto a valutare tutti gli elementi previsti dall’articolo 133 del codice penale, ma si può limitare a quelli prevalenti. La possibilità che in futuro vengano commessi altri reati può essere dedotta anche da un solo parametro ostativo, come un precedente rinvio a giudizio per lo stesso reato: anche se l’imputato è incensurato. La tracciabilità non evita la pena per impiego di beni di provenienza illecita di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 18 settembre 2015 Corte di cassazione - Seconda sezione penale, sentenza 17 settembre 2015 n. 37678. Non serve una finalità dissimulatoria per il reato di impiego di denaro di provenienza illecita. La piena tracciabilità delle somme contestate non impedisce da sola la sanzione inflitta sulla base dell’articolo 648 ter del Codice penale. Lo chiarisce la Corte di cassazione con la sentenza n. 37678 della seconda sezione penale depositata ieri. Respinto così il ricorso presentato dalle difese di un pool di imputati contro il sequestro di quasi un milione di euro. L’impugnazione metteva in evidenza la necessità che la condotta punita dal reato deve essere idonea a ostacolare l’identificazione della provenienza illecita dei beni reimpiegati. Una conferma in questo senso, sostenevano gli avvocati, arriva dal reato di auto-riciclaggio da poco inserito nel Codice penale, che espressamente richiede una concreta azione dissimulatoria. La Corte ammette che sul punto, all’interno della Cassazione, esiste un contrasto di giurisprudenza. Tuttavia la linea preferibile, anche alla luce delle indicazioni arrivate dalle Sezioni unite con la sentenza n. 25191 del 2014, è quella più severa. Con questa pronuncia si ricordava come la norma in discussione rappresenta una misura di chiusura del sistema per sanzionare anche la fase terminale delle operazioni di riciclaggio, non lasciando vuoti a valle dei reati di riciclaggio e e ricettazione. La disposizione punta così a evitare il successivo impiego del denaro ripulito in investimenti legittimi. In sostanza, a essere colpite sono tutte quelle "operazioni insidiose in cui il denaro di provenienza illecita, immesso nel circuito lecito degli scambi commerciali, tende a far perdere le proprie tracce, camuffandosi nel tessuto economico imprenditoriale". Determinante nella lettura della Cassazione è allora il giudizio sulla natura pluri-offensiva del reato che, se anche è collocata nella categoria dei delitti contro, il patrimonio, è più orientata alla tutela dalle aggressioni al mercato e all’ordine economico e a evitare l’inquinamento delle operazioni finanziarie. In questa prospettiva allora la idoneità dissimulatoria della condotta criminale non costituisce un requisito necessario. La sua assenza cioè non impedisce di inquadrare il comportamento all’interno del fattispecie prevista dall’articolo 648 ter. È sufficiente invece "l’idoneità dell’azione all’inquinamento del mercato attraverso la consapevole immissione nel circuito economico di beni di provenienza illecita, a prescindere dalla concreta idoneità dissimulatoria dell’operazione". No alla "truffa sentimentale", si può fingere l’amore per soldi di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 18 settembre 2015 Tribunale di Milano - Terza Sezione - Sentenza 8 settembre 2015. In amore la menzogna interessata è lecita. Non rientra, infatti, nel perimetro della truffa, e non è dunque penalmente perseguibile, chi promettendo al partner una vita in comune si faccia consegnare del denaro troncando poi la relazione senza restituirglielo come aveva promesso. Con questa motivazione la Terza Sezione del tribunale di Milano, sentenza 14 luglio 2015, ha assolto un uomo accusato di aver sfruttato il sentimento provato da una donna nei suoi confronti per farsi dare oltre 16mila euro. Il caso - La vicenda risale al 2009, quando tra due infermieri del San Raffaele scoppia una storia d’amore. Da subito, secondo l’accusa, l’uomo comincia a chiedere soldi alla compagna, promettendone sempre la restituzione, prima per pagare le tasse e poi per intraprendere una attività in Perù. La donna, evidentemente innamorata, contrae un mutuo di 10mila euro per venire incontro alla richiesta del partner che effettivamente di lì a poco parte per il Sud America, dove lei lo raggiunge consegnandogli altro denaro (3mila euro). Una volta tornati a Milano però lui cambia atteggiamento e la lascia con queste parole: "Ti ringrazio per i soldi ma non posso più rimanere con te". Da qui, dopo varie richieste di restituzione delle somme prestate, l’azione penale per truffa ed appropriazione indebita. La motivazione - La disputa approda in tribunale dove il giudice Mannucci Pacini si domanda "se è concepibile il reato di truffa quando una persona inganni il proprio compagno (o la propria compagna) circa i propri sentimenti, al solo scopo di ottenere un vantaggio patrimoniale con altrui danno". La risposta, in linea teorica, è che si è concepibile, tuttavia in concreto essa è "difficilmente ravvisabile". Infatti, anche per "evitare una spropositata estensione dell’area penale", si dovrebbero rigorosamente accertarne tutti gli elementi tipici, vale a dire: la condotta fraudolenta, il dolo ed anche la relazione consequenziale tra l’errore sul sentimento e l’atto dispositivo. Sotto il primo profilo osserva la sentenza, in assenza di raggiri "il semplice mentire sui propri sentimenti - la nuda menzogna - non integra una condotta tipica di truffa". Con riferimento al dolo, poi, esso dovrebbe sussistere fin dall’inizio, cioè essere alla base stessa della relazione. Infine, per quanto riguarda il terzo aspetto bisognerebbe poter affermare che il raggirato sia stato effettivamente determinato nella sua generosità soltanto dalla errata convinzione circa l’altrui sentimento. Ma ciò è molto difficile da provare perché, osserva il giudice, vi potrebbero essere altre cause alla base della dazione. Ed il tribunale fa l’esempio di un "ricco erede" che fosse stato ingannato da una "giovane e bellissima donna" e l’avesse ricoperta di "doni" e "ingenti capitali": anche in questo caso non ci sarebbe reato, poiché esiste il "ragionevole dubbio" che la "presunta vittima" non si sarebbe comportata in modo diverso pur "sapendo della reale intenzione" della donna, magari perché "ben lieto di accompagnarsi all’avvenente ragazza". Insomma, per ritenere integrata una truffa, occorrerebbe provare che l’imputato "intraprese la relazione con la donna con lo specifico intento di creare in capo a quest’ultima la falsa apparenza di un rapporto sentimentale all’interno del quale la stessa avrebbe facilmente accolto la richiesta di un prestito di denaro". Inoltre, ai fini della prova del dolo, "occorrerebbe altresì dimostrare che l’imputato, una volta creato artificiosamente tale contesto di intimità, indusse la donna ad effettuare gli atti patrimoniali con l’originaria e perdurante intenzione di disattendere la promessa di restituzione delle somme prestate". Tutte prove assenti. Anzi, prosegue il tribunale, l’evidenza è che l’imputato iniziò senza "alcuna malizia" la relazione per poi cambiare idea. Neppure sussiste il reato di "appropriazione indebita" in quanto, tecnicamente, l’accordo delle parti sulla restituzione della somma qualifica il rapporto come un "contratto di mutuo", dove con la consegna si trasferisce anche la proprietà del denaro, che così perde la qualità di cosa "altrui". E questo, come è noto, è proprio il presupposto del secondo reato contestato. Dunque la mancata restituzione della somma potrà tutto al più dar luogo ad una violazione civile. Il danno dell’amministratore non va parcellizzato per il numero dei condomini di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 18 settembre 2015 Corte di cassazione - Sezione II penale - Sentenza 17 settembre 2015 n. 37666. Non c’è rischio di essere smentiti. L’amministratore che sposti sul proprio conto personale (e su quello della moglie) denaro di spettanza dei condomini lo fa con "dolo" e commette dunque il reato di "appropriazione indebita". Né può contestare l’"aggravante" per il "danno ingente" sostenendo che esso va parcellizzato per il numero dei condomini e non valutato nella sua interezza. Sulla base di questi principi la Corte di cassazione, sentenza 37666/2015, ha respinto perché manifestamente infondato il ricorso di un professionista. La vicenda - L’amministratore, che gestiva diversi immobili, era stato infatti condannato dalla Corte di appello di Bologna ad un anno e quattro mesi di reclusione ed 800 euro di multa, con sospensione condizionale della pena subordinata al pagamento della provvisionale a favore delle parti civili. Nel ricorso in Cassazione, il professionista aveva invece sostenuto che la sua condotta, in assenza di una prova del dolo, avrebbe dovuto essere inquadrata come semplice mala gestio. E che il trasferimento di soldi sui propri conti correnti si inseriva in una sorta di partita di giro avendo egli utilizzato quegli stessi depositi anche per saldare alcuni debiti del condominio. Infine, l’aggravante era "irragionevole" dal momento che il danno non superava i 400-500 euro per singolo condomino. La motivazione - Una ricostruzione bocciata dalla Suprema corte secondo cui vi sono delle condotte "la cui potenzialità dimostrativa" travalica la "consumazione del fatto sotto il profilo oggettivo" per abbracciare anche la "dimensione soggettiva del reato". In altre parole, nell’atto di spostare denaro di terzi sul proprio conto l’elemento soggettivo del dolo "è connotato da una tale evidenza da essere incompatibile con ogni riconduzione a condotte alternative". In questi casi, dunque, la motivazione può limitarsi alla rilevazione della inconciliabilità delle condotte contestate "con ipotesi alternative lecite". Per i giudici di Piazza Cavour, però, anche il secondo motivo, vale a dire la contestazione dell’aggravante, non ha pregio in quanto, come correttamente evidenziato dalla Corte territoriale, "il danno deve esser valutato nella sua interezza e non parcellizzato in relazione alla "quota-danno" incidente sui singoli condomini". Non giova alla tesi del ricorrente neppure il fatto che il condominio sia un ente di gestione privo di personalità giuridica distinta da quella dei singoli condomini, i quali sono appunto rappresentati dall’amministratore, in quanto, precisa la Cassazione, ciò "non comporta la parcellizzazione invocata dalla difesa, essendo, di contro, rilevante il danno complessivo che il rappresentante degli interessi dei condomini ha causato svolgendo la sua funzione di amministratore dell’ente-condominio". Lettere: dalla parte di Saviano, e di quelli che non negano. da Associazione Jonathan Ristretti Orizzonti, 18 settembre 2015 Quello che sta accadendo a seguito delle ultime vicende di Napoli ci riguarda. E ci spaventa. Anzi ci inquieta. Perché il dibattito che è scaturito dagli ultimi fatti di cronaca sembra essere il classico dibattito tra sordi, anzi peggio, ci pare di vedere che una parte consistente di chi a questo dibattito vi partecipa, non vuole sentire. Ci pare quasi che ormai parlare di camorra sia diventato un delitto di lesa maestà; ci sembra che parlare di camorra comporti la dismissione dell’identità partenopea, la rinuncia a considerarsi parte integrante di questa città per innalzarsi su un piedistallo di superiorità ideologica e morale. Noi, che da oltre vent’anni, lavoriamo sul territorio, che tentiamo strenuamente e tra vecchie e nuove emergenze modelli e strumenti per i minori e i giovani dell’area penale, quegli stessi ragazzi che oggi hanno "costretto" la Commissione Antimafia ad una due giorni di incontri e discussioni proprio a Napoli, noi a questo gioco al massacro proprio non ci stiamo. Non ci stiamo con quanti, il Sindaco di Napoli ed il Presidente della Regione Campania, attaccano il Presidente della Commissione Antimafia Rosy Bindi quando afferma che la "camorra è un dato costitutivo di Napoli", perché pensiamo che sia vero, non tanto su un piano antropologico quanto su un piano sociologico e che dirlo non voglia significare non amare Napoli o favorirne le pulsioni più retrive; non ci stiamo con il Sindaco di Giugliano quando nega la possibilità alla produzione di Gomorra La Serie di realizzare riprese nel territorio del comune sostenendo che "Giugliano non è Gomorra" quando proprio Giugliano esce da un commissariamento per infiltrazioni camorristiche. Siamo invece con Roberto Saviano quando dice che questi atteggiamenti favoriscano lo scaricamento delle responsabilità su soggetti altri, in questo caso l’industria culturale, lasciando passare, anche in questo caso colpevolmente, l’idea che "basti bloccarne il racconto perché la camorra smetta di esistere". Fa specie poi, che ad assumere queste posizioni "negazioniste" siano troppo spesso uomini delle istituzioni, segnalando quel fossato tra istituzioni stesse e società che rimanda agli anni settanta quando in parlamento in molti sostenevano che "la mafia non esiste" mentre sul territorio la si combatteva. È venuto il momento di chiuderlo l’album di famiglia delle bellezze di Napoli, che tutti apprezziamo e nessuno disconosce ma dentro il quale troppo spesso si finisce per specchiarsi operando una colpevole quanto dannosa riduzione della realtà a quello che ci piace per aprire, invece, un confronto chiaro, senza infingimenti sulla realtà, su come interi quartieri di Napoli e della sua periferia rispondano a logiche e poteri "non statali", per usare un eufemismo. Un confronto che dovrebbe consentire di mettere sul tappeto le analisi su quello che accade e le risposte che s’intende mettere in campo partendo dal presupposto che la realtà è quella ed è davanti agli occhi di tutti. Per quanto ci riguarda, continuiamo a pensare che nell’ambito della devianza minorile che, come detto, è stata il detonatore di queste discussioni, occorra uno sforzo maggiore nel senso di una specializzazione dell’intervento (ed in questo il Presidente della Regione può contribuire ad aprire una fase nuova di contrasto e di recupero reale dei minori vittime e carnefici), ed una presa di coscienza del fatto che tanto gli operatori sociali quanto le istituzioni devono deporre le armi di dispute arcaiche ed ideologiche per affrontare nel concreto l’evidenza di come sia cambiato strutturalmente, rispetto a qualche anno fa, lo scenario della criminalità minorile e che occorra organizzare gli "stati generali" dei minori e dei giovani adulti dell’area penale. Ed è in quest’ottica che sosteniamo che va bene la prevenzione, i tentativi di affrontare a monte la condizione materiale dei minori a rischio, ma occorra rimettere al centro della discussione anche il come agire dopo, quando il minore è ormai già entrato nel circuito penale partendo dal recupero e dalla messa a valore della dimensione educativa della sanzione e del disciplinamento. Dobbiamo guardarci allo specchio e tenere bene a mente quello che lo specchio ci restituisce. Anche se quello che ci restituisce non ci piace. Noi siamo abituati così. Associazione Jonathan Silvia Ricciardi Giovanni Salomone Vincenzo Morgera Toscana: progetto "In Green and Repair", così i minori detenuti diventano giardinieri Redattore Sociale, 18 settembre 2015 Grazie a un progetto coordinato da Apab e finanziato dalla Regione, alcuni giovani reclusi hanno messo a nuovo spazi verdi alle Cascine e al piazzale Michelangiolo. L’assessore Saccardi: "Un percorso importante per l’inserimento lavorativo". Sette detenuti del carcere minorile fiorentino sono diventati giardinieri e hanno rimesso a nuovo due spazi verdi di Firenze, il Giardino dell’Iris al piazzale Michelangiolo e il giardino della Catena all’interno del parco delle Cascine. Giovani reclusi che, grazie al progetto In.g.re (In Green and Repair) hanno scelto di rimettersi sulla strada giusta attraverso un percorso formativo di 132 ore. Il progetto, finanziato dalla Regione Toscana e dal Centro Giustizia Minorile della Toscana e dell’Umbria (Cgm), è stato gestito dall’Istituto Apab, Istituto di formazione a Firenze che spazia dal settore dell’agricoltura biodinamica fino all’estetica naturale, dalla fotografia al turismo evoluto. Lo steso Apab, nei mesi scorsi, aveva coordinato esperienze analoghe, dove i giovani detenuti avevano messo a nuovo le aiuole di piazza Beccaria, il bugs hotel alle Cascine, la parete verticale alla stazione Leopolda. "Non è stato soltanto un corso pratico - ha detto l’assessore alle politiche sociali della Regione Toscana Stefania Saccardi - ma anche un percorso di inserimento lavorativo per gli allievi che si sono distinti per impegno e capacità. Un progetto innovativo che ha insegnato loro anche il rispetto per l’ambiente. Inclusione sociale e merito sono le due parole chiave per non lasciare indietro nessuno e per far sì che questi ragazzi diventino un giorno degli adulti in grado di vivere nella società secondo le regole e dandosi da fare". Importante per il progetto anche il contributo del Comune di Firenze che ha indicato le aree da recuperare. Il progetto è stato assunto come modello dal Dipartimento Nazionale della Giustizia Minorile proprio perché al percorso formativo è stato affiancato un percorso di inserimento lavorativo. Ai ragazzi meritevoli infatti è stata data la possibilità di avere una borsa lavoro da spendere nelle aziende che si sono rese disponibili e che hanno deciso di dare loro un’opportunità. Le borse lavoro sono in tutto 4 e avranno una durata di circa 3 mesi. Venezia: sciopero della fame, i detenuti si ribellano di Giorgio Cecchetti La Nuova Venezia, 18 settembre 2015 Nel carcere di Santa Maria Maggiore sale la tensione. Due giorni senza mangiare, barricate alle cancellate interne. Le richieste: indulto, più lavoro all’interno, colloqui facilitati. Continua la protesta dei detenuti nel carcere di Santa Maria Maggiore: per due giorni più di cento carcerati, quelli del braccio destro, hanno aderito ad uno sciopero della fame, una protesta del tutto pacifica, in solidarietà con il leader radicale Marco Pannella, che da un mese è in sciopero della fame anche per le questioni legate alla situazione penitenziaria in Italia. Tra le altre richieste c’è anche quella dell’indulto, così come aveva ipotizzato anche il Papa nel suo ultimo intervento. Ben diversa la protesta dei detenuti del braccio sinistro, che martedì nel pomeriggio hanno inscenato una contestazione più rumorosa e meno tranquilla. Intorno alle 17 di ogni giorno gli agenti di custodia intervengono nei bracci per riportare nelle celle i detenuti che per l’intera giornata hanno potuto godere di maggior libertà, essendo rimaste aperte le celle. Due giorni fa, i carcerati hanno impedito agli agenti di entrare chiudendo le cancellate e barricandole con materassi ed altro materiale appoggiato alle inferriate. La protesta è durata per più di un’ora, finché il comandante della polizia penitenziaria è intervenuto e ha trattato con i detenuti il loro rientro nelle celle. Nei giorni precedenti, gli stessi detenuti avevamo protestato incendiato alcune lenzuola e ancor prima avevano, tutti alla stessa ora, battuto sulle inferriate e sulle porte per alcuni minuti oggetti in metallo per produrre rumore. Più concrete le richieste dei detenuti del braccio destro, che contestano la direzione di Santa Maria Maggiore: chiedono di poter eleggere i loro rappresentanti nella Commissione cultura, l’unica struttura nel carcere in cui sia possibile discutere e avanzare richieste sulle loro condizioni di vita interne; lo sblocco dei permessi per il lavoro, visto che sempre meno detenuti riescono a lavorare; il permesso anche per gli stranieri di poter telefonare ai parenti nel loro paese, che ora per motivi burocratici sono bloccati, tanto che c’è più di qualcuno che è in carcere da tre anni non è ancora riuscito a parlare con la moglie o la madre; una maggiore facilità di ottenere i colloqui nel parlatorio del carcere. Richieste che riguardano le condizioni carcerarie: i detenuti sono puniti per i loro reati con la misura coercitiva della libertà, in Italia, invece, spesso, subiscono altre punizioni, il sovraffollamento, l’umiliazione, ed altro. Ma non sono solo i detenuti a contestare la direzione di Santa Maria Maggiore, anche gli agenti della polizia penitenziaria da tempo stanno protestando. Sono costretti a lavorare sotto organico, con turni spesso massacranti in una situazione di grande tensione, tanto che negli ultimi mesi d’estate sono stati numerosi gli agenti finiti in ospedale per scontri violenti con i detenuti. Due giorni fa, infine, anche il magistrato del Tribunale di sorveglianza che si occupa delle carceri veneziane, il giudice Barbara Dalla Longa, ha avuto numerosi colloqui con detenuti a Santa Maria Maggiore. Per ora, non ha messo in cantiere alcun provvedimento, ma non è escluso che nei prossimi giorni intervenga. Infine, il mese scorso tre parlamentari veneziani del Pd hanno visitato il carcere lagunare e si preparano a presentare un’interrogazione al ministro della Giustizia. Vibo Valentia: carcere senz’acqua, i detenuti protestano e il Sappe denuncia la situazione di Francesco Ridolfi Quotidiano Calabria, 18 settembre 2015 Il carcere di Vibo è senz’acqua e i detenuti hanno inscenato una protesta per denunciare la situazione. Lo stato di emergenza è stato reso dal Sappe che chiede maggiore attenzione per il penitenziario. Che il sistema penitenziario italiano da qualche tempo sia in sofferenza è noto ma adesso alle tradizionali emergenze si aggiunge anche quella idrica. Secondo quanto riferito dai responsabili regionali del Sappe, uno dei sindacati di polizia penitenziaria, dalle ore 15 di ieri pomeriggio nella casa circondariale di Vibo Valentia manca l’acqua, sia per i detenuti, sia per il personale di polizia penitenziaria. Nello specifico a rendere nota l’emergenza sono Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del Sappe, e Damiano Bellucci, segretario nazionale, che in una nota aggiungono che "non è la prima volta che si verificano situazioni di questo tipo, ma sono ormai tanti anni che, periodicamente, soprattutto nel periodo estivo, manca l’acqua. I detenuti hanno inscenato una protesta attraverso la battitura delle inferriate, per cui il personale ha dovuto gestire una situazione imprevista che ha creato notevoli disagi. Lo stesso disagio è stato vissuto dal personale di polizia penitenziaria, soprattutto quello che vive in caserma e che deve anche pagare l’uso delle stanze". All’emergenza idrica si aggiunge anche il dato che "la pulizia delle camere non è adeguata e viene fatta saltuariamente. Inoltre, molte lamentele ci sono giunte dal personale di polizia penitenziaria, per quanto riguarda il servizio mensa. Sembra che non venga rispettato il menù previsto dalla tabella settimanale. Gravi problemi riguardano anche gli automezzi, ormai vecchi e fatiscenti. Ricordiamo che nel carcere di Vibo Valentia ci sono oltre 300 detenuti e circa 140 poliziotti penitenziari in servizio. Stiamo valutando l’opportunità - concludono Durante e Bellucci - di effettuare una protesta, con astensione dalla mensa di servizio da parte del personale di polizia penitenziaria, a partire da lunedì prossimo". Modena: Legnini (Csm) "a breve il magistrato di sorveglianza". Rita Bernardini ringrazia Ansa, 18 settembre 2015 "Il Consiglio si è subito attivato e in pochissimi giorni assicureremo la presenza di un magistrato al Tribunale di Sorveglianza di Modena". Lo annuncia il vice presidente del Csm Giovanni Legnini che assicura: (sono al vaglio tutte le ipotesi possibili rispettose delle norme ordinamentali per garantire al più presto la piena funzionalità dell’ufficio di Sorveglianza di Modena e in pochissimi giorni assicureremo la presenza di un magistrato per far fronte all’emergenza che si era creata". La risposta del Vice Presidente Legnini, arriva a tre giorni dall’inizio dello sciopero della fame annunciato dalla Segretaria dei Radicali italiani, Rita Bernardini, dopo il tentato suicidio di un detenuto nel carcere di Modena. Legnini, aveva ricevuto lo scorso 4 settembre la Segretaria dei Radicali italiani Rita Bernardini, insieme a Marco Pannella e al dott. Massimo Brandimarte, in merito agli organici dei Tribunali di Sorveglianza, ed in particolare a quello di Modena e si era impegnato ad intervenire immediatamente per risolvere la situazione. "L’attenzione del Consiglio sulla situazione dei Tribunali di Sorveglianza - ha ricordato Legnini - è costante, tanto che nei giorni scorsi il plenum ha deliberato l’aumento dell’organico di 15 unità disposto recentemente dal Ministero della Giustizia, decisione cui dovranno seguire ulteriori è più incisive misure". Bernardini ringrazia Legnini (radicali.it) Dichiarazione di Rita Bernardini, Segretaria Nazionale di Radicali italiani: "Ringrazio il vicepresidente del Csm per aver mantenuto la parola data nel corso dell’incontro avuto all’inizio di settembre alla presenza di Marco Pannella e di Massimo Brandimarte". "Il fatto che nei miei tre giorni di sciopero della fame Giovanni Legnini abbia affrontato e risolto il grave problema dell’Ufficio di Sorveglianza di Modena che da due anni è senza magistrato, sta anche a significare - e gliene do atto volentieri - che egli, a differenza di altri rappresentanti delle istituzioni, prende in considerazione la forza del dialogo nonviolento quando è finalizzato a chiedere il giusto che occorre subito realizzare quando sono in gioco diritti umani fondamentali". "Rimane certo la grande tristezza per Antonio C., oggi in coma all’ospedale di Modena a seguito di un tentato suicidio messo in atto in carcere per la disperazione di non trovare ascolto". "Il funzionamento della Magistratura di sorveglianza, concepita dal legislatore anche a tutela dei diritti dei detenuti in un percorso individualizzato di recupero, è ancora tutto da assicurare, ma questo primo concreto passo mi fa ben sperare anche perché oggi i radicali possono contare sull’impegno del dottor Massimo Brandimarte, fino a pochi mesi fa presidente del Tribunale di Sorveglianza di Taranto, oggi iscritto al Partito Radicale e a Radicali italiani". Csm, vice presidente Legnini: "Il Consiglio si è subito attivato e in pochissimi giorni assicureremo la presenza di un magistrato al Tribunale di Sorveglianza di Modena". "Il presidente della Settima Commissione consiliare, Antonio Ardituro ha interloquito con il presidente facente funzioni della Corte d’Appello di Bologna e con il presidente del Tribunale di Sorveglianza di Modena chiedendo loro di individuare la soluzione più tempestiva. Sono al vaglio tutte le ipotesi possibili rispettose delle norme ordinamentali, ha sottolineato il vicepresidente del Csm, Giovanni Legnini, per garantire al più presto la piena funzionalità dell’ufficio di Sorveglianza di Modena e in pochissimi giorni assicureremo la presenza di un magistrato per far fronte all’emergenza che si era creata". "L’attenzione del Consiglio sulla situazione dei Tribunali di Sorveglianza, ha ricordato Legnini, è costante, tanto che nei giorni scorsi il plenum ha deliberato l’aumento dell’organico di 15 unità disposto recentemente dal ministero della Giustizia, decisione cui dovranno seguire ulteriori e più incisive misure". La risposta del vicepresidente Legnini, arriva a tre giorni dall’inizio dello sciopero della fame annunciato dalla segretaria di Radicali italiani, Rita Bernardini, dopo il tentato suicidio di un detenuto nel carcere di Modena. Il vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura, Giovanni Legnini, aveva ricevuto lo scorso 4 settembre la segretaria dei Radicali italiani Rita Bernardini, insieme a Marco Pannella e al dott. Massimo Brandimarte, in merito agli organici dei Tribunali di Sorveglianza, ed in particolare a quello di Modena e si era impegnato ad intervenire immediatamente per risolvere la situazione. Ferrara: Alan Fabbri (Ln) "le guardie carcerarie in condizioni peggiori dei detenuti" estense.com, 18 settembre 2015 La Lega Nord contro il blocco del turn-over e i tagli denunciati anche dal sindacato Sappe. Solidarietà agli agenti di Polizia carceraria, "senza se e senza ma". Non ha dubbi il capogruppo regionale della Lega Nord, Alan Fabbri, che raccoglie la protesta del Sappe (Sindacato autonomo di Polizia penitenziaria), che ha motivato le ragioni del proprio malessere nella gestione degli istituti di pena. "Non ci sorprende - è la reazione di Alan Fabbri - visto che il Governo Renzi non pare avere in cima all’agenda la questione della sicurezza e della certezza della pena per chi delinque. In ogni caso, gli agenti hanno denunciato coraggiosamente le condizioni disumane in cui sono costretti ad operare, senza indennità per anzianità, di promozione, cambi di mansione e con il blocco continuo del proprio contratto di lavoro". Ad essere messe a rischio, secondo la Lega Nord, che ha sposato la causa degli agenti carcerari, è la stessa "sicurezza sul piano igienico-sanitario delle carceri, anche per il cronico sovraffollamento (in realtà ormai risolto secondo il Sappe, ndr). Mentre, la carenza di personale e investimenti, mette a rischio le stesse finalità rieducative delle Case circondariali e delle istituzioni detentive, poiché, a detta degli stessi agenti, i carcerati passano molte ore in ozio, durante la giornata, e questo compromette l’intero progetto di recupero. La sinistra al governo che cosa fa? Pensa a nuovi sconti di pena? Chiediamo alla Regione di farsi portavoce nei confronti del Ministero dell’Interno, per far sì che il taglio indiscriminato delle risorse nell’ambito della sicurezza finisca, e per poter mettere gli agenti della Polizia carceraria nelle condizioni di poter lavorare meglio e in sicurezza". Mantova: 23enne fugge dall’Opg di Castiglione. La mamma "aiutatemi a trovarlo" di Giancarlo Oliani Gazzetta di Mantova, 18 settembre 2015 Tre testimoni lo segnalano ancora nella zona dell’Alto Mantovano. Mercoledì sarebbe stato visto vicino alla Ghisiola. Martedì ad Asola e Acquanegra. È fuggito dall’ospedale psichiatrico giudiziario una settimana fa e di lui si sono perse le tracce. La madre e gli amici disperati lanciano un appello: se lo vedete chiamateci. Mattia Perrone ha 23 anni e abita a Ventimiglia. Nell’aprile scorso era stato arrestato per detenzione di cocaina e hashish e, in attesa del processo, il giudice lo aveva messo ai domiciliari. Ma è fuggito. Lo ritroviamo ospite qualche settimana dopo dell’Opg di Castiglione, dal quale scompare il 9 settembre. La madre, Laura Zorzato, dopo aver segnalato la scomparsa del figlio alla trasmissione "Chi l’ha visto", si è rivolta anche al nostro giornale. Pare infatti che le uniche segnalazioni pervenute su Mattia, provengano dall’Alto Mantovano. Nel corso del programma televisivo infatti tre persone si sono collegate per segnalare la presenza del ventitreenne. L’ultima è di mercoledì pomeriggio. Un testimone l’avrebbe visto, attorno alle 18.30 nei pressi della Ghisiola, con jeans e maglietta bianca. Due invece le segnalazioni pervenute in trasmissione per la giornata di martedì. La prima alle quindici ad Asola: il testimone lo descrive vestito con un paio di jeans, una maglietta blu e uno zaino di colore scuro. Con gli stessi abiti viene avvistato da un secondo testimone ad Acquanegra sul Chiese. Ovviamente tutto dev’essere verificato. I carabinieri della compagnia di Castiglione delle Stiviere lo stanno cercando dal giorno stesso in cui è scomparso, informando i comandi limitrofi. Non è possibile determinare per quale motivo il giovane si trovasse all’Opg. Evidentemente avrà avuto problemi di tipo psichiatrico, che la madre non ha voluto approfondire. "Se qualcuno lo vede mi chiami. Questo è il mio numero di telefono: 349.6984864". Anche i suoi amici hanno creato un gruppo che si è dato l’obbiettivo di cercarlo. Alessandria: il "Gusto della Solidarietà", in Cittadella una cena due volte buona alessandrianews.it, 18 settembre 2015 Giovedì 24 settembre la Cittadella ospiterà una cena speciale, aperta a tutta la cittadinanza, nata da un’idea di alcuni detenuti nel carcere di San Michele, desiderosi di aiutare i compagni in difficoltà economica attraverso una raccolta fondi. Ai fornelli ci sarà una vera e propria brigata di cucina d’eccellenza, guidata da uno chef professionista anch’esso ospite della Casa di Reclusione. Cosa c’è di meglio che gustare un’ottima cena, in un contesto come quello della Cittadella, e aiutare al contempo persone in difficoltà con la propria partecipazione? Sono infatti queste le ottime premesse dell’iniziativa nata dalla volontà di alcuni detenuti del carcere di San Michele, felici di aiutare i compagni meno abbienti ospiti della Casa di Reclusione dando vita a un’iniziativa che ha, fra i suoi obiettivi, anche quello di promuovere una raccolta fondi. Non si tratta però di un evento improvvisato, o dettato solamente dalla buona volontà: per i cittadini che vorranno raccogliere l’invito, c’è anche la certezza di trovare una cena che nulla ha da inviare a quella di ristoranti di qualità. A prepararla la brigata messa in piedi da un detenuto, cuoco di professione e specializzato in pasticceria, che dal suo arrivo a San Michele, grazie all’impegno, alla cura e all’accompagnamento equilibrato degli Educatori e della Polizia penitenziaria, ha riorganizzato il personale dedicato alla cucina, facendo felici prima di tutto i detenuti, che da allora hanno visto aumentare sensibilmente la qualità delle proprie colazioni, dei pranzi e delle cene. I fortunati partecipanti alla cena, che si terrà alle 19 presso la Cittadella di Alessandria, potranno così assaggiare un menu davvero intrigante, composto da Carpacci misti di bresaole con insalata di funghi su tacos, fettuccine ai finferli, sorbetto classico alla mela verde, cosciotto di maiale al battù con patate al cartoccio, mousse di gorgonzola - bocconcini di parmigiano - brutti e buoni di capra e per finire un parfait alle mandorle. L’offerta richiesta è di 20 euro, che sarà devoluta, come detto, ai tanti detenuti che si trovano in stato d’indigenza, perché privi di famiglia o molto lontani da casa. La cena sarà resa possibile dai tanti partner che stanno appoggiando l’invito della Casa di Reclusione a dare una mano, e che già da tempo collaborano con l’istituto: in particolare si sono attivati finora i volontari dell’Associazione Betel di Alessandria, la Cooperativa Sociale Company&, la Delegazione di Alessandria del Fai (che in occasione della cena festeggerà anche il suo compleanno, e che non manca occasione di ringraziare i detenuti per il grande lavoro che stanno svolgendo nella lotta all’ailanto che infesta la fortezza - e un gruppo di persone generose, d’intesa con la Direzione della Casa di Reclusione di San Michele (Alessandria). L’iniziativa ha ricevuto il pieno sostegno anche da parte del Comune di Alessandria e della Prefettura, e sarà resa possibile anche dal sostegno del Csvaa-Centro Servizi Volontariato Asti-Alessandria. Sono gli stessi promotori che rivolgono un accorato appello agli alessandrini: "Ai cittadini di Alessandria che parteciperanno e ci offriranno il proprio generoso contributo vorremmo trasmettere un messaggio di fiducia nel nostro complicato lavoro e di speranza per un mondo più sicuro, grazie alla apertura di nuovi percorsi per quelli che decidano di dare una svolta alla propria vita. Siamo fermamente convinti che per coloro che, seriamente, vogliono recuperare il danno prodotto alla società impegnandosi per una vita libera responsabile, la percezione di ricevere una possibilità dalla collettività sia non solo uno stimolo ma anche un ulteriore richiamo alla propria responsabilità. Ricevendo, al momento giusto, aiuto e fiducia si è posti nelle condizioni di poter abbandonare i sentimenti di rifiuto e di fallimento che, naturalmente, accompagnano il percorso di chi sconta in carcere la pena per i reati commessi e percepisce l’impossibilità di un futuro diverso in cui mettere in gioco le proprie qualità e capacità onestamente. Sentimenti che, anziché responsabilizzare in modo costruttivo e propositivo, portano ad un dannoso e passivo vittimismo che, oltre a vanificare l’investimento dello Stato per la sicurezza, è la via maestra per la recidiva". "Contrariamente a quanto accade di solito - sottolinea la direttrice del carcere, Elena Lombardi Vallauri (nella foto) - il progetto è nato per sviluppare e valorizzare risorse interne già presenti: non un’idea che, dall’alto o da fuori, indica ciò che viene ritenuto utile per le persone detenute, ma proprio le persone detenute dimostrano di avere grandi potenzialità sulle quali investire per un progetto che produca "lavoro vero". Alcuni passi, piccoli e giustamente prudenti, in occasione di manifestazioni svoltesi, sia in Istituto che nella Città di Alessandria, sono stati fatti fino ad oggi e l’evento del 24 settembre rappresenta il ‘collaudò definitivo. Non nascondiamo una certa emozione per un evento così importante e ricco di valore per tutti noi. L’obiettivo di lungo termine - conclude la direttrice - è solidificare e rendere trasparente il legame che di fatto esiste tra il carcere e la comunità alessandrina e che troppo spesso si tende a negare. Il carcere, infatti, con i suoi aspetti negativi e positivi è comunque una collettività vitale che, per il bene di tutti, deve essere realmente un luogo dove si costruiscono percorsi di potenziamento delle risorse positive di ciascuno per restituire il coraggio e la fiducia necessari al cambiamento e al riscatto del proprio percorso di vita". "Anche tutti i Poliziotti, gli Educatori e gli Operatori della Casa di Reclusione - concludono gli organizzatori - sono a loro volta grati per quanti vorranno essere presenti e dimostrare di riconoscere l’utilità del loro lavoro che si svolge quotidianamente in silenzio e, grazie all’aiuto della comunità locale attraverso le Associazioni, le Cooperative e le Istituzioni, contribuisce ad offrire maggiore sicurezza a tutti i cittadini". L’ingresso alla cena è a offerta (euro 20,00) previa prenotazione, da effettuare entro il 22 settembre al numero tel. 0131362421, nei seguenti giorni e orari: lunedì, giovedì, venerdì 09.00/14.00 - martedì, mercoledì 12.30/18.00). Cassino: teatro-carcere "Non c’è quarto senza quinto", in scena i detenuti guidati dal Cut contattonews.it, 18 settembre 2015 Si è concluso con una commedia ispirata al grande Totò dal titolo "Non c’è quarto senza quinto" il laboratorio di recitazione e scrittura creativa partito nel mese di febbraio all’interno della Casa Circondariale di Cassino e rivolto ai detenuti della sezione sex-offender. Un percorso interessante ed estremamente produttivo, sia per i docenti che per gli allievi, realizzato dal Centro Universitario Teatrale di Cassino all’interno del progetto promosso dalla Diocesi Sora-Cassino-Aquino-Pontecorvo, a seguito di un protocollo d’intesa con la direzione del Carcere affidata alla dottoressa Irma Civitareale. La performance andata in scena ieri pomeriggio nella Casa Circondariale ha ricevuto applausi e grandi riconoscimenti di merito alla presenza del Vicario del Vescovo della Diocesi, della direttrice Civitareale e degli altri detenuti, degli operatori culturali del Cut, dei rappresentanti della Caritas, di Maurizio Esposito, Professore dell’Università degli Studi di Cassino, degli assistenti sociali operanti nel carcere e delle autorità giudiziarie. Lo spettacolo è nato sull’idea della storica Livella di Totò ed è stato scritto e poi tradotto in una farsa napoletana dagli stessi detenuti seguendo i toni ironici e spassosi che la tradizione teatrale della commedia partenopea impone. Al lavoro di scrittura iniziale si è, quindi, aggiunto quello dell’interpretazione e della tecnica recitativa e comunicativa che ha, così, dato spazio non solo alla creatività artistica personale di ogni partecipante ma soprattutto all’attività di gruppo vissuta nelle settimane di preparazione in piena sintonia. Da questo progetto verrà realizzato un volume dal titolo "Ricominciare" dove saranno inseriti tutti i lavori di scrittura creativa, poetica e drammaturgica realizzati dai detenuti. Il ciclo di incontri tenuti nei mesi passati da Giorgio Mennoia, Massimo Nese e Paola Spallino, all’interno del laboratorio intitolato "Per-Corso teatrale", è partito con una prima fase di lezioni sull’educazione alla lettura e all’analisi di testi poetici, passando successivamente al lavoro di scrittura creativa, per giungere alla fine all’acquisizione degli strumenti espressivi alla base delle dinamiche della rappresentazione teatrale e della corretta comunicazione, ossia l’arte della parola, l’ascolto e la coscienza del ritmo respiratorio, in grado di consentire l’allestimento e la messa in scena di una performance autoprodotta. "L’attività artistico-educativa che il laboratorio ha proposto va intesa non semplicemente come una distrazione nel patimento della pena, quanto piuttosto come stimolo all’elaborazione collettiva di espressioni artistiche e creative, sana alternativa all’autodistruttivo isolamento" ha spiegato il direttore artistico del Cut Mennoia, sottolineando, inoltre, gli obbiettivi previsti di arricchimento del bagaglio culturale, di miglioramento della conoscenza di sé anche in rapporto agli altri, di beneficio nella socializzazione nel rispetto reciproco. Già il 27 marzo, in occasione della Giornata Mondiale del Teatro, alcuni detenuti, alla presenza delle autorità e dei funzionari della Regione Lazio, si erano cimentati in uno spettacolo teatrale di improvvisazione su diverse tematiche che spaziavano dal concetto di bene e male alla coscienza civile, dal vivere comune alla tolleranza e al rispetto. Anche in quell’occasione gli attori, in scena non solo con parti recitate ma anche cantate ed eseguite con strumenti musicali, hanno riscosso un enorme successo non solo tra i compagni detenuti ma anche nelle autorità presenti. "Tra le varie attività trattamentali programmate per il 2015 dalla Direzione della Casa Circondariale di Cassino - ha spiegato il responsabile dell’area educativa del carcere, Filippo Arcese - grande attenzione hanno avuto quelle dedicate alle progettazioni teatrali, sul presupposto che esse costituiscono un elemento fondamentale per una reale crescita del percorso rieducativo del detenuto". L’intenzione Cut resta quella di ripetere i laboratori teatrali all’interno dell’ambiente carcerario di Cassino cercando di incentivare le attività artistiche legate alla recitazione e alla scrittura, alla luce dei notevoli risultati ottenuti nel corso di quest’anno e nelle precedenti esperienze iniziate nel 2010 e proseguite, fino ad oggi, in maniera continuativa. È importante soprattutto considerando che il leitmotiv del lavoro proposto può essere sintetizzato nella leggerezza e nel divertimento in grado, forse, di rendere un po’ meno faticoso il percorso di detenzione e lo stato di isolamento, ma anche in un impulso forte a trovare motivazione, determinazione e voglia di riscatto in un’esperienza creativa e di lavoro su se stessi. Rifugiati: vertici, voti e frontiere militarizzate, la Ue nel panico di Anna Maria Merlo Il Manifesto, 18 settembre 2015 Crisi europea. Vertice straordinario il 23, il 22 c’è la riunione dei ministri degli Interni. L’Europarlamento approva il progetto di redistribuzione di 120mila profughi. L’Ungheria diventa modello, la Bulgaria militarizza il confine con la Turchia. Convocazione di Consigli e voti con procedura d’urgenza alla Ue, nell’affanno di cercare una soluzione alla crisi dei rifugiati, mentre sul terreno prosegue a grandi passi la chiusura delle frontiere. Donald Tusk, presidente del Consiglio Ue, ha convocato per il 23 settembre un vertice straordinario dei capi di stato e di governo. La vigilia, ci sarà la riunione, già prevista, dei ministri degli Interni, che dovranno sminare il terreno e trovare un’intesa sulla redistribuzione di 120mila profughi, dopo aver fallito all’incontro del 14 settembre. Ieri, il parlamento europeo, con un voto fast track ha approvato la proposta della Commissione, senza emendamenti, con 370 voti a favore, 134 contrari e 52 astensioni. La Commissione si è rallegrata per la "reattività" dell’Europarlamento: "la via è ormai aperta perché il Consiglio Interni adotti la nostra proposta". Ma resta il fatto che Ungheria, Repubblica ceca e Slovacchia rifiutano di partecipare alla ripartizione e la Polonia resta reticente. La Danimarca è disposta ad accogliere mille profughi, ma senza partecipare alle quote. Poi ci sarà un altro voto dell’Europarlamento, una volta che i ministri degli Interni avranno approvato il "meccanismo" di ripartizione (con un sistema di ponderazione: la grandezza de paese vale per il 40% nel calcolo come il pil, pesano invece il 10% la presenza di richiedenti asilo precedenti e il tasso di disoccupazione). Il progetto della Commissione prevede un finanziamento di 6mila euro per profugo accolto e 500 euro a testa per i paesi - Italia, Grecia e Ungheria - "beneficiari" della redistribuzione. L’Ungheria, però, continua a rifiutare e l’Alto commissario Onu ai diritti uman, Zeid Ràad al Hussein, l’accusa di violare "il diritto internazionale" con "posizioni xenofobe e anti-musulmane". Jean Asselborn, ministro dell’Immigrazione del Lussemburgo, che ha presidenza del Consiglio Ue, ha spiegato all’Europarlamento che "ci sarà un cambiamento importante alla proposta iniziale della Commissione: l’Ungheria non si considera come un paese in prima linea e non vuole beneficiare del regime di ricollocazione". Il ministro degli esteri ungherese, Peter Szijjarto, ha però affermato ieri: "abbiamo proposto di creare una forza Ue che protegga le frontiere, se ci sarà siamo pronti a sostenere il sistema di redistribuzione per quote". Nei fatti, la forza militare e di polizia è già alle frontiere, ma a livello nazionale. La Bulgaria segue l’Ungheria e militarizza il confine con la Turchia. Intanto, la tensione è sempre forte in Croazia e la Slovenia, paese di transito verso l’Austria, ha istituito controlli alle frontiere per almeno una decina di giorni. Di fronte a questa situazione caotica di reazioni nazionali, Asselborn ha messo in guardia: "il Consiglio del 22 settembre non sarà facile". La Commissione mantiene anche la minaccia di "multe" ai reticenti: se un paese è temporaneamente impedito ad accogliere la sua quota, per ragioni "fondate e oggettive" (come una catastrofe naturale, sarà Bruxelles a giudicare), dovrà comunque versare un contributo pari allo 0,002% del pil e l’esenzione potrà durare al massimo 12 mesi. Il presidente dell’Europarlamento, Martin Schultz, ha scritto una lettera al primo ministro lussemburghese, Xavier Bettel, che ieri ha visto Matteo Renzi, per chiedere uno sblocco immediato di finanziamenti per gli stati "tampone", Libano, Turchia, Giordania. Bruxelles è pronta a stanziare fino a un miliardo per la Turchia, ha affermato il commissario alle politiche di vicinato Johannes Hahn, per ottenere "un miglioramento su registrazioni e rimpatri", sollecitando Ankara di essere "più dura con i trafficanti". Intanto, un inglese propone un app per smartphone ai camionisti che transitano per Calais, per denunciare in velocità la presenza di migranti clandestini sul camion. Ieri sera undici migranti siriani, sono stati scoperti nel nord della Francia chiusi in un camion frigorifero proveniente dall’Italia. Il desiderio di muri di Orbán non finisce mai di Massimo Congiu Il Manifesto, 18 settembre 2015 Ungheria. Il premier a Le Figaro: "Nuove barriere con Romania e Croazia". Nella notte tra mercoledì e giovedì al valico di frontiera di Horgos gli agenti hanno sparato ancora gas lacrimogeni per disperdere un gruppo di giovani migranti che continuava a protestare davanti alla barriera. Per evitare i pesanti scontri verificatisi ore prima la polizia serba si è schierata davanti alla struttura che è stata rafforzata con nuovo filo spinato. Il confine ungaro-serbo è ormai sigillato e controllato da un ampio dispiegamento di forze e diversi gruppi di migranti cercano una via alternativa per evitare la barriera ungherese. Si dirigono verso la Croazia che ha fatto sapere - in serata - di essere "satura". Fedele al principio della difesa efficace delle frontiere, Budapest ha deciso di estendere la recinzione protettiva alla Romania. In un’intervista uscita ieri su Le Figaro, il primo ministro ungherese Viktor Orbán ha dichiarato che il paese erigerà un’altra barriera al confine con la Croazia. Per il premier si tratta di seguire la pista dei migranti e comportarsi di conseguenza tenendo conto del fatto che non sono i migranti ma i trafficanti di esseri umani a stabilire i percorsi. Il discorso delle autorità ungheresi è che non si può lasciare andare in giro per l’Europa un flusso incontrollato di migranti non tutti individuabili come persone in fuga dalla guerra e da persecuzioni in atto in stati totalitari repressivi. "Una volta che arrivano nel nostro paese devono farsi registrare - aveva detto settimane fa il ministro degli Esteri Péter Szijjártó - e aspettare di ottenere lo status di rifugiati". Status che non spetta a tutti, non ai migranti per ragioni puramente economiche che, secondo quanto sottolineato dal capo della diplomazia di Budapest, vanno rimandati indietro. A parere di Orbán i pachistani non lasciano il loro paese per disperazione ma per trovare un tenore di vita migliore. Nella giornata di ieri diversi organi di stampa hanno riportato la frase con la quale il premier ha precisato che se il sistema delle quote verrà votato dalla maggioranza diventerà una legge che andrà rispettata. Questa considerazione, però, non è necessariamente un’apertura all’orientamento dell’Unione europea in fatto di politiche sull’immigrazione. Nell’intervista uscita ieri sul quotidiano francese, infatti, Orbán afferma che parlare oggi di quote significa incoraggiare l’immigrazione. Le preoccupazioni del primo ministro ungherese si riferiscono chiaramente alla difficoltà di gestire flussi di tali proporzioni e alle sorti di un’Europa che rischia di essere invasa da decine e decine di milioni di migranti provenienti da culture lontane. Il premier sottolinea il fatto che l’integrazione dei musulmani in Europa è un processo incompiuto che vede in diversi paesi del continente l’esistenza di società parallele e che l’Ungheria non intende seguire questo tipo di percorso. Se le quote diventano legge vanno rispettate e l’Ungheria dovrà accettarle, ha detto quindi Orbán citato dal giornale ungherese di politica ed economia Világgazdaság, il giudizio su questo sistema però non cambia: per l’esecutivo è un incentivo all’immigrazione e all’attività dei trafficanti di esseri umani, un approccio che si potrebbe prendere in considerazione solo se i paesi europei fossero realmente in grado di difendere in modo efficace i loro confini, cosa che, secondo le autorità di Budapest, non è risultata vera. Per Orbán l’unico paese ad avere preso veramente sul serio le regole di Schengen è proprio l’Ungheria che, criticata ingiustamente a livello internazionale, non ha fatto altro che applicare normative ben precise per garantire la sicurezza nazionale ed europea. Le nuove regole entrate in vigore nel paese martedì scorso considerano il superamento illegale della frontiera un crimine da punire con l’espulsione o il carcere. Fino ad oggi, secondo le autorità ungheresi, solo una ventina di persone è stata oggetto di procedimenti giudiziari per il reato in questione. Per il governo è una questione di difesa dei confini nazionali. Cara di Mineo? Basta, per i migranti serve l’accoglienza "diffusa" di Peppe De Cristofaro (Senatore di Sel) Il Garantista, 18 settembre 2015 Forse è stata la foto del bimbo di Kobane, la vergogna prima della pena che reclama per tutti noi. Certamente ha influito la parola decisa e priva di appelli del Pontefice, l’eco e l’impegno che ha prodotto nelle parrocchie e fra la gente. O ancora ha influito l’intervento comunque dirompente della cancelliere Merkel, che si dimostra nuovamente unico leader di un’Europa inconsistente, non importa qui se per interesse prima che per convinzione, certamente con la capacità di guardare alla storia che ci circonda con una visione lunga e non semplicemente rispondendo a un presente di paure e ciniche quanto inutili chiusure. Quale che sia la ragione, un primo cambiamento si è registrato nella considerazione dell’emergenza migranti e l’opinione pubblica anche italiana sembra finalmente cogliere la valenza epocale di quanto sta accadendo. Non semplice emergenza, niente che si possa arginare, risolvere con muri e slogan razzisti. Tutto inutile, al di là del giudizio etico nei confronti di prese di posizione indifferenti fino alla disumanità. In quest’ottica perde valore il concetto stesso di rifugiato, emerge l’inutilità prima che l’immoralità di distinzioni fra chi viene dalla Siria piuttosto che dalla Somalia, dalla Nigeria, dal Sudan. Come se l’Africa non offrisse miserie, povertà, guerre, crudeltà sufficienti per cercare una vita migliore; come se il diritto di asilo valesse solo in relazione alla guerra all’Is. Queste migrazioni, dall’Asia come dall’Africa, non si fermeranno, sono già un fenomeno strutturale destinato certamente a crescere nei prossimi anni. Non si fermeranno, soprattutto, quegli uomini e quelle donne che sono disposti a tutto - attraversare un deserto a piedi e un mare senza saper nuotare, subire violenze, sopportare morti - pur di arrivare nella loro nuova terra, la nostra Europa. Fino a oggi le nostre risposte, come politici con responsabilità decisionali o semplici cittadini, hanno riguardato sempre l’immediato, guardando alla tasca e sentendo la pancia, pensando solo in termini di polizia se non militari, ragionando sempre come singoli (si tratti di singoli uomini, Regioni, Stati) e mai assumendoci le nostre responsabilità, che pure sono decisive in termini storici quanto di stretta attualità. È il nostro governo che ha deciso di archiviare Mare Nostrum, abbandonando al proprio destino chi doveva affondare. È l’attuale governatore leghista Maroni, allora ministro dell’Interno, che ha istituito il Cara di Mineo, luogo tanto inefficiente quanto disumano, simbolo di una strategia di accoglienza crudele quanto non risolutiva. Ed è ancora un esponente del Governo, una figura di rilievo dell’Ncd, a essere al centro di un filone dell’indagine Mafia Capitale, accusato di turbativa d’asta nella gara per la gestione dello stesso Centro di Mineo. E il nostro Paese è stato protagonista della guerra in Libia, un intervento militare che ha lasciato nell’assoluto caos il nostro dirimpettaio sul Mediterraneo, senza un’idea di gestione, senza una scelta, senza alleanze, senza niente. Oggi inizia a essere chiaro a tanti che tutto questo, oltre a definire il livello di civiltà di un popolo, è semplicemente inutile, condanna alla sconfitta, non porta soluzioni, soprattutto per noi che in questa emergenza siamo prima frontiera, la Nazione confinante. Per questo è necessario innanzitutto ragionare in termini extra-nazionali, agendo nel perimetro dell’Unione, prendendo decisioni coraggiose, che guardino realmente alla complessità, alla forza e alla durevolezza di questo fenomeno. Personalmente ritengo che il programma Triton debba essere immediatamente superato, riattivando in chiave pienamente europea Mare Nostrum. Allo stesso tempo l’Unione, invece di prendere in considerazione nella singolarità dei propri Stati nuove opzioni militari, deve farsi portatrice di una politica comune di pacificazione nelle diverse aree di conflitto africane e presentare una proposta all’Orni per la definizione di un imponente programma unitario di interventi per il continente, come fu per la nostra stessa Europa all’indomani della seconda guerra mondiale. La pacificazione e uno strutturato sviluppo economico e sociale delle Nazioni africane sono presupposti imprescindibili per fermare la necessità della migrazione. L’Italia può e deve avere un ruolo centrale nel definire la strategia di gestione di questo fenomeno storico, nel trovare soluzioni che siano sostenibili, senza perdere quel senso di umanità e dignità che prima di ogni altra cosa definisce la civiltà di uno Stato. Per questo non bisogna avere paura di osare, di scegliere strade che nell’immediato possano apparire ad alcuni impopolari, ma che sole possono permettere di affrontare fenomeni così complessi e di vedere in quella che è sempre vissuta solo come un’emergenza anche occasioni di sviluppo. L’Italia, al fianco di una necessaria e ben più efficace azione di aiuto e di salvaguardia della vita, potrebbe candidarsi a diventare in ambito europeo la "porta" umanitaria per la gestione dei flussi migratori, che, come mostrato dai principali indicatori, rappresentano per le Nazioni europee uno straordinario e imprescindibile elemento di sviluppo economico e sociale. Bisogna capovolgere i presupposti attuali, basati su accoglienza/ contrasto all’immigrazione, superando una situazione ingestibile e invivibile basata su grandi centri e sviluppando una politica dell’accoglienza diffusa, attraverso un inserimento in case e piccole realtà abitative. Allo stesso tempo - oltre alle attività legate all’accoglienza - con risorse e secondo un piano concordato in ambito europeo, bisognerebbe avviare sul nostro territorio politiche di formazione e qualificazione professionale. Creare dei percorsi per i migranti che partano dall’apprendimento delle lingue, dalla conoscenza, valutazione e approfondimento delle competenze e che siano propedeutici a un reale inserimento sociale e lavorativo nei diversi Paesi, secondo quote concordate in ambito comunitario e in base a esigenze e specifiche richieste degli Stati anche extra Uè. Può sembrare una proposta lontana dalla nostra attuale situazione, ma è quanto nel corso del Novecento hanno sperimentato Nazioni come Canada, Australia e Stati Uniti, facendo dei percorsi di integrazione, di trasformazione e arricchimento del tessuto sociale l’elemento identitario del proprio stesso successo. Vittime di tratta: rimpatriate di Serena Chiodo Il Manifesto, 18 settembre 2015 Rifugiati. Decollato da Fiumicino l’aereo con venti donne nigeriane violentate. Ancora all’esame del tribunale le richieste di sospensiva. Erano rinchiuse nel Cie di Ponte Galeria. L’aereo è decollato. Con le persone dentro. La frase, lapidaria, arriva da un poliziotto di guardia all’ingresso del Terminal 5, aeroporto di Fiumicino. L’aereo è un velivolo della compagnia Meridiana. Le persone dovrebbero essere circa venti donne nigeriane. Il condizionale è d’obbligo, perché le informazioni che arrivano - quando arrivano - non hanno alcuna forma ufficiale. Sembra che non sia lecito per nessuno sapere cosa stia succedendo all’interno del Centro di Identificazione ed Espulsione di Ponte Galeria (Roma). Ma l’allarme che è stato lanciato ieri mattina parla chiaro: stanno deportando le ragazze. "Le ragazze" sono 20 delle 66 donne nigeriane che lo scorso 26 luglio sono state rinchiuse nel Cie. Arrivate in due gruppi, alcune in Sicilia e altre a Lampedusa, sono state identificate tramite foto-segnalamento. Nessuno ha comunicato loro la possibilità di chiedere protezione né fatto domande sul viaggio. E dire che sarebbe bastato chiedere quanto hanno pagato il trasporto in mare, per capire che c’era qualcosa di strano: nessuna di loro ha pagato nulla, un chiaro segnale che le ragazze sono vittime di tratta. Nessuno deve averle nemmeno guardate, visto che portano sulla pelle i segni più che visibili delle percosse e delle violenze subite. Al contrario, le donne sono state trasferite senza alcun tipo di comunicazione nel Cie, dove hanno trovato subito il console nigeriano ad attenderle per l’identificazione e il conseguente rimpatrio immediato. Solo grazie all’allarme lanciato dalla cooperativa Be Free, che ha uno sportello di consulenza all’interno della struttura detentiva di Ponte Galeria, una delegazione della campagna LasciateCIEntrare è entrata a fine agosto all’interno del Cie, incontrando le ragazze. Le quali hanno chiesto il motivo della detenzione, hanno parlato del lungo e drammatico viaggio che hanno fatto, hanno mostrato i segni delle violenze. È tutto testimoniato anche in un servizio video andato in onda al Tg2. Le donne hanno finalmente potuto presentare domanda di asilo. Quattro sono state accolte in un percorso di protezione, 40 invece hanno ricevuto il diniego dalla Commissione per il riconoscimento della protezione, e conseguentemente l’ordine di rimpatrio. Contro i provvedimenti sono stati presentati ricorsi e sospensive del mandato di espulsione verso la Nigeria. Un Paese, va sottolineato, dove la Farnesina sconsiglia di recarsi. Un Paese da cui provengono le immagini terrificanti dei sequestri e delle violenze perpetrate da Boko Haram. #bringbackourgirls, recitava tempo fa un hashtag diventato virale, proprio per sollevare l’attenzione sulla sorte di molte donne rapite dal gruppo terroristico nigeriano. Mentre l’Italia le sta deportando proprio in quell’inferno. Mettendo a serio rischio la loro vita, come denuncia anche l’europarlamentare Barbara Spinelli, sottolineando che durante i colloqui con la Commissione gli avvocati non sono stati ammessi. Era già criminalmente assurda la reclusione di queste ragazze in un posto del genere: avrebbero bisogno di accoglienza, avrebbero diritto per legge alla protezione, invece sono state chiuse in una struttura deumanizzante, le cui condizioni sono da tempo denunciate da LasciateCIEntrare, e il cui solo scopo è l’espulsione, non certo l’accoglienza. Anche il sindaco di Roma Ignazio Marino ha parlato loro, incredibilmente, di protezione, durante una visita effettuata la settimana scorsa. Di fronte a questa terribile situazione, si è riusciti addirittura a fare di peggio. Intorno alle alte sbarre di ferro e ai muri che circondano il Cie non c’è nulla: un vuoto desolante fa sì che nessuno senta le grida che provengono da dentro. E oggi le grida sono alte, perché le persone provano a resistere alla deportazione. Alcune persone, solidali con i migranti, hanno raggiunto il Cie, e provano a mettersi in contatto telefonico con i reclusi e le recluse. Una donna nigeriana spiega che questa mattina i poliziotti, insieme agli operatori di Gepsa, ente francese gestore del Cie, sono venuti a prelevare alcune delle sue compagne. E afferma che con loro c’era un funzionario del consolato nigeriano. Dopo qualche ora, due blindati arrivano davanti al Cie: scendono i poliziotti in assetto antisommossa che spintonano le persone accorse in solidarietà con le recluse. Nel frattempo esce un pullman con sopra le ragazze che gridano contro i finestrini. Si muove verso l’aeroporto di Fiumicino. Sembra che 5 ragazze, quelle con la sospensiva confermata dal Tribunale di Roma, siano state fatte scendere dall’aereo. Sembra, perché nessuno fornisce informazioni ufficiali. Ma il gruppo era di 20: per tutte era stata richiesta la sospensiva del provvedimento di espulsione, il Tribunale stava analizzando le richieste. Il volo intanto è decollato. Il Viminale, contattato da Gabriella Guido, portavoce di LasciateCIEntrare, non risponde. Guinea equatoriale: in carcere o tenuti in ostaggio, inferno per 5 italiani di Francesca Musacchio Il Tempo, 18 settembre 2015 "Rivolgiamo un appello a tutte le istituzioni perché si occupino dei nostri familiari detenuti in Guinea. Sono in carcere da mesi senza un capo di imputazione. È dal 21 marzo che un uomo di 61 anni si trova in un carcere della Guinea equatoriale. La nostra è una vita lacerata". La voce di Carla Strippoli e Patrizia Galassi, madre e sorella rispettivamente di Filippo e Fabio Galassi, è rotta dal pianto mentre raccontano di un fratello e un figlio "ostaggi della giustizia guineana, ormai da mesi, senza che nel frattempo sia stata formulata alcuna imputazione formale nei loro confronti". La Farnesina assicura che sta seguendo il caso con la massima attenzione e mantiene costantemente informati i familiari. Al momento, oltre a padre e figlio, in Guinea sono bloccati anche altri tre italiani coinvolti nella stessa storia: Daniel Candio, amico di Filippo e anche lui detenuto in carcere, Fausto Candio (padre di Daniel) a cui è stato ritirato il passaporto, e un quinto dipendente dell’azienda che ha chiesto l’anonimato. Cinque connazionali in tutto quindi, finiti in una vicenda complicata e ancora poco chiara, ambientata in un paese dove l’Italia non ha un’Ambasciata, solo un Consolato, (mentre nel nostro Paese esiste la sede diplomatica della Guinea), e che ha già "ospitato" altri connazionali nelle sue carceri lager. È il caso di Roberto Berardi, l’imprenditore di Latina arrestato a gennaio 2013 e rilasciato a luglio, quasi in concomitanza con i cinque fermi, per accuse analoghe. Le similitudini tra i due casi, inoltre, non finisco qui. In comune hanno anche un personaggio: Teodorìn Nguema Obiang Mangue, il figlio del presidente della Guinea. L’incubo di Fabio e Filippo è iniziato il 21 marzo scorso, quando la polizia guineana li ha arrestati sostenendo che stavano tentando la fuga dal paese con valigie cariche di soldi, il frutto di una truffa, di una frode o forse un furto, ancora non è chiaro, ma sicuramente qualcosa legato all’azienda General Work di cui erano dipendenti. Nei bagagli, però, gli agenti hanno ritrovato solo effetti personali. L’esito negativo della perquisizione non ha comunque impedito l’arresto e i due sono stati condotti in carcere. Il 25 marzo Filippo viene rilasciato, ma privato del passaporto, mentre il padre continua a restare in carcere. Il 24 giugno, però, accade altro. Mentre Fabio è in Tribunale, Filippo viene arrestato nuovamente insieme a Daniel, mentre a Fausto viene tolto il passaporto, così come ad un quinto dipendente della stessa azienda. Da questo momento in poi inizia una vera e propria odissea. Nonostante siano passati mesi le autorità guineane non hanno ancora formulata alcuna accusa. "Noi come Riva Destra abbiamo subito sposato la causa - ha dichiarato il segretario nazionale, Fabio Sabbatani Schiuma - che è una causa di giustizia. Siamo terrorizzati dall’immobilismo e dalle chiacchiere del governo, le stesse di cui hanno fatto le spese i Marò. Non vorremmo accadesse ad altri connazionali, visto che anche in Guinea ci sono notevoli interessi economici". Dalle informazioni raccolte dalla famiglia e dal legale sembra che l’arresto sia legato alle vicende finanziare dell’azienda per cui lavoravano dove però, nessuno di loro aveva alcun potere di firma, essendo tutti consulenti. "Abbiamo appena mandato una lettera di messa in mora alla proprietaria dell’azienda, per avere la documentazione relativa ai suoi dipendenti - ha spiegato il legale delle famiglie, Renato Boccafresca - perché, anche se non formalmente, l’accusa è legata all’azienda o a chi ne era responsabile". L’azienda, a quanto risulterebbe, versava in gravi condizioni economiche e da mesi non versava gli stipendi ai dipendenti a causa del mancato pagamento delle commesse da parte dello Stato. Un giallo nel giallo se si considera che la General Work era partecipata proprio da Teodorìn Nguema, destinatario di un mandato di cattura internazionale emesso dalla Francia con l’accusa di riciclaggio di denaro e appropriazione indebita di soldi pubblici e processato in America per riciclaggio di proventi di attività corruttive. Il rampollo guineano era in affari anche con Roberto Berardi, rilasciato a luglio scorso, sempre per vicende legate a presunti ammanchi di soldi nell’azienda di cui era socio sempre insieme a Teodirin Nguema. Camerun: Sant’Egidio libera 9 giovani, rimasti incarcerati per anni per un ramo spezzato di Stefano Pasta La Repubblica, 18 settembre 2015 Nelle prigioni africane, al termine della pena non si è liberi: occorre ripagare lo Stato per ciò che ha speso durante la detenzione. Il furto di un panino o un ramo tagliato costano anni di carcere. A Tcholliré, la Comunità di Sant’Egidio (santegidio.org) distribuisce sapone e cibo, libera i prigionieri progettando il loro reinserimento. In carcere finiscono i più poveri: ragazzi di strada, profughi centrafricani, immigrati ciadiani. La particolare situazione dei giovanissimi detenuti ex combattenti con Boko Haram. A Tcholliré, nel nord del Camerun, sono oltre 800 i detenuti delle due prigioni cittadine. Le loro condizioni, tra scabbia, fame, sete e sovraffollamento, sono quelle comuni a molte carceri africane. Le immagini mostrano ragazzini con pesanti catene di metallo ai piedi, come quelle d’altri tempi. Giovanissimi, a volte anche dodicenni, pagano con anni di reclusione il furto di una gallina o di un frutto. Non ci sono limiti alla custodia cautelare, si può rimanere dietro le sbarre per lunghi periodi prima del processo, quando l’accusato non può pagare un avvocato, oppure perché il dossier resta "dimenticato" nel commissariato dove è avvenuto l’arresto. Ma la reclusione viene allungata anche al termine della pena. In Camerun, infatti, per tornare in libertà è necessario pagare una somma per ripagare lo Stato del denaro speso durante la detenzione. Ibrahim e gli altri ragazzi non più dietro le sbarre. Ibrahim aveva già scontato vari mesi. La colpa? Aver tagliato un ramo di un albero per scaldarsi. Lui è uno dei nove giovani liberati questo mese dalla Comunità di Sant’Egidio. Ogni settimana i membri dell’associazione distribuiscono sapone e cibo a Tcholliré e in altri dieci carceri del Camerun; tutti operano a titolo gratuito, un fatto che colpisce molto in una società in cui, invece, qualsiasi cosa ha un prezzo. Racconta Luc De Bolle: "Durante una di queste visite abbiamo conosciuto Ibrahim e gli altri ragazzi. Sono di famiglie povere, se non avessimo pagato la spesa accumulata (dai 25 ai 100 euro), sarebbero rimasti in carcere ancora per chissà quanto tempo. Ora li aiuteremo a trovare un lavoro e a reinserirsi nella società". Tra l’altro, proprio in questa occasione, la Comunità ha avviato un dialogo con il nuovo direttore del Tribunale regionale. L’obiettivo è considerare pene più miti per i reati legati all’estrema povertà. Dietro le sbarre immigrati illegali ciadiani e profughi centrafricani. I nove ragazzi liberati erano tre camerunensi, due del Ciad e quattro del Centrafrica. Queste proporzioni fotografano bene la popolazione carceraria di Tcholliré. Ragazzi di strada i primi, immigrati senza documenti i ciadiani ("Si finisce in carcere per immigrazione clandestina" conferma De Bolle), profughi i centrafricani. La situazione di questi ultimi è la peggiore: vivono affamati in campi, da cui possono difficilmente uscire, spesso circondati dall’ostilità della popolazione locale. "Ibrahim e gli altri tre - continua il volontario di Sant’Egidio - volevano scaldarsi e vendere una parte dei legni per comprare da mangiare. Purtroppo sono stati fermati dalla gente inferocita e portati dal giudice". Secondo l’Ocha, l’ufficio umanitario delle Nazioni Unite, per la guerra scoppiata a fine 2013 tra milizie Seleka e Antibalaka, oggi sono 460mila i profughi centrafricani all’estero, aumentati di 100mila nell’ultimo anno. Anche all’interno del paese, metà della popolazione (2,7 milioni di centrafricani) vive in situazione di grave necessità. Ragazzini di strada arrestati in via preventiva. Se i profughi centrafricani a Tcholliré sono in aumento, i detenuti più piccoli, ancora adolescenti, sono camerunensi. Ragazzi di strada, arrestati a scopo preventivo in un clima di repressione e paura per gli attentati di Boko Haram nel nord del paese. A fine luglio, una bambina di nove anni, imbottita di esplosivo, si è fatta saltare in aria in un affollato locale notturno a Maroua, provocando decine di morti e feriti. Anche ad agosto gli attentati sono continuati, con nuovi morti. "La gente deve sviluppare una cultura di vigilanza perché Boko Haram ha cambiato strategia", ha detto il ministro della Difesa Edgar Alain Mebe Ngòo chiedendo di segnalare qualunque attività o persona sospetta. Nelle città sono scattate misure di sicurezza, dal coprifuoco al divieto per i mendicanti di entrare nei luoghi pubblici e di stare nelle strade a chiedere l’elemosina. Tutti gli autori degli ultimi attentati erano minorenni, la stessa bimba di nove anni era stata vestita da mendicante. A Tcholliré gli adolescenti reclutati da Boko Haram. "A Tcholliré e nelle altre carceri - racconta De Bolle - incontriamo anche ragazzini arrestati per aver fatto parte di Boko Haram. Sono stati reclutati perché poveri: ragazzi di strada, oppure venduti dalle loro famiglie per pochi soldi". Gli adolescenti sono usati come spie, oppure vengono mandati nei campi di addestramento al confine con la Nigeria e dopo poche settimane sono pronti a combattere. Per giovani senza speranze, l’arruolamento con gli alleati africani dell’Isis appare un modo per costruirsi un futuro, spinti dal fascino per la violenza e per l’appartenenza a un gruppo. Quando sono arrestati, spesso solo perché potenzialmente arruolabili, la Comunità di Sant’Egidio li visita in carcere, ascolta le loro storie e ragiona con loro del reinserimento nella società al termine della detenzione. "Questo - conclude De Bolle - è il nostro modo di costruire la pace e di combattere il terrorismo".