Giustizia: pene più severe per furti, scippi e voto di scambio di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 17 settembre 2015 Si avvicina l’approvazione alla Camera del ddl di riforma del processo penale. Governo, maggioranza e opposizione si compattano sugli inasprimenti di pena: nel mirino furti, scippi, rapine nonché il reato di scambio elettorale politico mafioso introdotto un anno fa (articolo 416 ter del Codice penale). Le modifiche superano la prova dell’Aula, che ieri è arrivata fino all’articolo 14 dei 34 del ddl sul processo penale, anche se ne ha accantonati quattro, tra cui quello contestato dai magistrati (l’11) sul termine di 3 mesi entro cui il Pm, concluse le indagini, dovrebbe chiedere il rinvio a giudizio oppure l’archiviazione. Martedì, governo e maggioranza avevano deciso, con un emendamento, di aumentarlo a 6 mesi, ma solo per i reati più gravi, tra cui mafia e terrorismo (non anche per la corruzione). L’alzata di scudi delle toghe, però, ha portato ieri a un’ulteriore mediazione, proposta dalla presidente della Commissione Giustizia Donatella Ferranti (Pd), che fissa il termine in un anno secco, per i reati di mafia e terrorismo, e in 3 mesi per tutti gli altri, prorogabili fino a 6 se si tratta di inchieste di particolare complessità e su richiesta al Procuratore generale della Corte d’appello che decide con decreto motivato. I 5 Stelle hanno chiesto tempo per presentare subemendamenti all’emendamento della maggioranza e perciò l’articolo è stato accantonato. Se ne riparlerà oggi, insieme agli altri nodi del provvedimento, primo fra tutti quello sulle intercettazioni. Sembra però difficile che, malgrado i tempi contingentati e il clima tutto sommato buono, l’Aula riesca a chiudere le votazioni in giornata. Più probabile uno slittamento a lunedì o martedì, magari solo per il voto finale. Il clou del dibattito di ieri è stato sugli aumenti di pena dispensati già dalla commissione Giustizia della Camera per i reati contro il patrimonio e per il 416 ter (che va da 6 a 12 anni), il voto di scambio politico mafioso introdotto appena un anno fa. La stretta su furti in abitazione, scippi e rapine riguarda i minimi delle pene previste, che salgono, rispettivamente, da 1 a 3 anni e da 3 a 4 (anche per la rapina). Viene inoltre escluso il giudizio di equivalenza o di prevalenza delle circostanze attenuanti rispetto alle aggravanti e, per effetto di un emendamento dei 5 Stelle, sono state aumentate anche le pene pecuniarie. Il giro di vite non c’era nel ddl del governo ma è stato proposto in commissione dalla Lega che ieri, non senza malizia, ha "lodato" il governo "che quando ci segue, fa cose giuste" ma ha protestato per la bocciatura di un emendamento diretto a punire con il carcere l’accattonaggio molesto. Contraria agli inasprimenti sui "reati di strada" soltanto Sel, mentre Fi li ha votati, opponendosi invece a quello sul voto di scambio politico mafioso, proposto in commissione dal Pd. A votarlo anche i 5 Stelle, non senza una dura polemica con il Pd, accusato di non aver fatto altrettanto quando a chiederlo furono loro, durante l’esame del ddl anticorruzione. "Andò così perché non potevamo permetterci di rimandare il testo al Senato" ha replicato Davide Mattiello, "padre" dell’emendamento, liquidando come "infondata" la polemica dei grillini. I quali hanno cercato di ottenere una riformulazione del testo del 416 ter, ritenuta ambigua tant’è che in Cassazione si è formato già un contrasto tra sezioni semplici, ma non l’hanno ottenuta. Oggi dovrebbe arrivare al voto anche la parte del ddl sulle intercettazioni, su cui ieri è scesa in campo l’Fnsi ribadendo che il diritto di cronaca "è in pericolo". Dal Pd, però, arrivano rassicurazioni, anche sulla norma che introduce il reato di "registrazioni fraudolente" punito da sei mesi a 4 anni di carcere, riproducendo il testo presentato nel 2010 dai berlusconiani (passato alla storia come "norma D’Addario") e duramente osteggiato all’epoca dai democratici. Butta acqua sul fuoco David Ermini, responsabile giustizia del Pd, autore, con Walter Verini, di un emendamento che esclude la punibilità se le registrazioni vengono diffuse a fini di giustizia o nell’esercizio del diritto di cronaca e che modifica la sanzione prevedendo il carcere "fino a 4 anni" (per cui sarà il governo, in sede di delega, a fissare l’entità della pena, che potrebbe anche essere più bassa). Ermini spiega anche che l’intenzione del Pd è di dare al governo una delega rafforzata, come nel caso della delega fiscale, per cui il decreto legislativo di attuazione, acquisiti i pareri, tornerà in Consiglio dei ministri e di nuovo in Parlamento (ma solo per 10 giorni) qualora l’Esecutivo decida di continuare ad andare per la propria strada, disattendendo le indicazioni delle Camere. Giustizia: più carcere per tutti, sull’onda della concorrenza populista di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 17 settembre 2015 Il trionfo del populismo, senza distinzioni politiche. E della schizofrenia della maggioranza. Che ieri si è schierata compatta per un sovrappiù di carcere sia per il reato di voto di scambio politico mafioso sia per furti, scippi, rapine. E che si avvia a votare il carcere anche per il nuovo reato di "registrazioni fraudolente". In controtendenza rispetto alla politica seguita negli ultimi due anni - con la riforma della custodia cautelare, la messa alla prova, la tenuità del fatto e le numerose aperture alle misure alternative alla detenzione (o "svuota-carceri") - e annunciata per il futuro - con gli Stati generali sul carcere e con lo stesso ddl sul processo penale. Che, almeno nel titolo, parla di "effettività rieducativa della pena", ovvero di una "pena certa" quanto a qualità, più che a quantità. Ebbene, proprio quel ddl è diventato il carrozzone su cui far salire dosi ulteriori di galera, sempre utili per guadagnare consensi. A proporle, il Pd per lo scambio elettorale politico mafioso; la Lega, per i cosiddetti "reati di strada". E approvate quasi all’unanimità (con l’eccezione, nel primo caso, di Forza Italia, e nel secondo, di Sel). Non è ovviamente in discussione la gravità, reale e percepita, di quei reati né la necessità di un contrasto efficace. Ma piuttosto l’idea che la galera - e più galera - sia sempre l’unica risposta efficace, malgrado - come va ripetendo il ministro della Giustizia Andrea Orlando - l’Italia sia il Paese che spende di più per il carcere e che però ha la più alta recidiva d’Europa. Ma tant’è: il ddl prevede il carcere (fino a 4 anni) anche per il nuovo reato di "registrazioni fraudolente" voluto dall’Ncd con una norma che è il clone della famosa "norma D’Addario" di berlusconiana memoria, giustamente osteggiata dal Pd di allora (era il 2010) ma ora difesa a spada tratta. Questa sterzata carcerocentrica non c’era nel testo originario del ddl presentato dal governo. Che ora, però, la cavalca, malgrado l’evidente contraddizione rispetto alle politiche degli ultimi due anni e all’accanimento verso i magistrati "rei" di fare un uso eccessivo delle manette. Se sul voto di scambio elettorale politico mafioso oggi il Pd propugna l’aumento di pena (da 6 a 12 anni) bocciato invece durante l’esame dell’anticorruzione, quando a proporlo furono i 5 Stelle (e già era stata aumentata la pena del 416 bis), su furti, scippi e rapine a dettare la linea è la Lega e stavolta governo e maggioranza le vanno dietro. L’inasprimento dei minimi confermato ieri non sarà simbolico e senza effetti perché accompagnato anche dal prevalere delle aggravanti sulle attenuanti: un mix che produrrà più carcere, sia preventivo che definitivo, e meno accesso alle misure alternative. L’esatto contrario, insomma, della strada faticosamente intrapresa dal governo dopo le condanne dell’Italia da parte della Corte di Strasburgo a causa del sovraffollamento nonché della annunciata volontà politica di voltare pagina, anche attraverso gli Stati generali. Una schizofrenia difficile da spiegare all’opinione pubblica, che rende la strada della decarcerizzazione ancora più in salita e difficile. E che legittima anche un sospetto: che, cioè, le misure "svuota carceri" finora adottate non siano frutto di una genuina volontà politica e del rispetto dei principi costituzionali quanto, piuttosto, dello spauracchio di dover pagare ingenti risarcimenti per le condanne di Strasburgo. Che, insomma, siano state dettate da uno "stato di necessità" e per "ragioni di cassa". E che quindi, finita l’emergenza sovraffollamento, possano anche essere archiviate. In nome del populismo. Giustizia: riforma dell’ergastolo, il governo ci ripensa di Giuseppe Lo Bianco Il Fatto Quotidiano, 17 settembre 2015 Davanti ai commissari dell’Antimafia il procuratore nazionale Franco Roberti attenua la sua "assoluta contrarietà" nei confronti della revisione dell’art. 4 bis Op e, dopo gli articoli pubblicati dal nostro giornale, sembra attenuarsi anche l’allarme legato alla trasformazione dell’ergastolo in una finta pena, grazie all’abolizione del principio del "doppio binario" penitenziario: "Mi sembra un problema in via di superamento - ha detto ieri il procuratore nazionale antimafia in commissione -grazie a un emendamento che potrebbe risolvere una materia che si presenta magmatica". Se il pm della trattativa Nino Di Matteo lo ha giudicato un "passo pericoloso" che potrebbe tradursi nel "realizzare ciò che da sempre ha costituito uno scopo politico essenziale delle mafie", e cioè l’abolizione di fatto del carcere a vita per i mafiosi stragisti, Roberti appende la sua fiducia all’emendamento presentato da Donatella Ferranti, Presidente della commissione giustizia della Camera che dalla prevista eliminazione di "automatismi e di preclusioni che impediscono o rendono molto difficile il trattamento rieducativo" e soprattutto dalla "revisione della disciplina di preclusione dei benefìci penitenziari per i condannati alla pena dell’ergastolo", tira fuori i condannati di mafia e terrorismo internazionale, ai quali, nelle intenzioni della legge delega al governo, le future revisioni non dovrebbero applicarsi. Nell’emendamento, infatti, è scritto che le norme si applicano agli ergastolani "salvo i casi di eccezionale gravità e pericolosità e in particolare per le condanne per i delitti di mafia e terrorismo anche internazionale". Nella sua audizione Roberti ha ribadito la "contrarietà" a indebolire una normativa nata oltre vent’anni fa per incentivare le collaborazioni con la giustizia in carcere, visto che legava la concessione di quei benefici (detenzione domiciliare, permessi premio, permessi di lavoro esterno) a chi aveva deciso di abbandonare l’organizzazione criminale di appartenenza (o dimostrando di averne interrotto i contatti) e decidendo di collaborare con la giustizia. Ma Roberti si è detto contrario anche per un secondo motivo, e cioè il rischio di creare disprità di trattamento tra detenuti affidando la valutazione della pericolosità dei carcerati a tribunali di sorveglianza che, in presenza di condizioni oggettive uguali, potrebbero adottare decisioni diverse: "Lascerei il 4 bis cosi com’è - avrebbe detto il procuratore nazionale - mantenendo l’automatismo della preclusione". All’emendamento restano contrari i deputati del Movimento cinque stelle, che, nel dubbio di un contorcimento logico dell’emendamento (oggi l’ergastolo vero esiste solo per i mafiosi e terroristi assassini, gli altri accedono già ai benefici di legge) che potrebbe scaricare il peso della decisione sui magistrati, esponendoli alle minacce mafiose o alle lusinghe della corruzione, hanno annunciato il voto contrario. D’accordo con Roberti e contrario a un intervento di revisione è anche Sebastiano Ardita, procuratore aggiunto a Messina, che fu dirigente del Dap: "Rilevo che il problema del sacrificio del diritto alla rieducazione dei condannati mafiosi trovi un contemperamento con i diritti di chi è stato o potrebbe essere in futuro vittima di reati. Quel sacrificio di libertà segnala prevalenza degli interessi delle vittime, in conformità al sistema costituzionale. Un intervento nel sistema della prevenzione penitenziaria rappresenterebbe la rinuncia alla efficienza nell’azione dello Stato, e sarebbe inteso come un segnale di cedimento alle forti pressioni che da sempre le organizzazioni criminali esercitano sul sistema penitenziario". Giustizia: Antigone "avanti senza paure nel riformare il sistema penale e penitenziario" Ristretti Orizzonti, 17 settembre 2015 Dichiarazione di Patrizio Gonnella, presidente di Antigone. "Non bisogna aver paura dell’abolizione dell’ergastolo. L’ergastolo in Italia esiste: sono oltre 1.600 gli ergastolani". "In questi giorni la Camera dei Deputati sta discutendo un disegno di legge delega di riforma del codice penale, di procedura penale e dell’ordinamento penitenziario. In quel disegno di legge governativo ci sono tante cose importanti che noi sosteniamo e altre che vedono invece la nostra contrarietà. Dobbiamo cogliere l’occasione che ci è stata data dalla sentenza Torreggiani per riformare in meglio e in modo più avanzato il nostro ordinamento penitenziario. Per questo riteniamo positivo eliminare l’ergastolo ostativo, prevedere che tutti possano accedere alle misure alternative alla detenzione, prevedere un nuovo ordinamento penitenziario che tenga conto dei bisogni educativi dei minori, assicurare l’effettività dei diritti agli stranieri detenuti, prevedere che chi è in stato di detenzione non sia privato anche della propria vita sessuale, far sì che il carcere diventi un luogo di responsabilizzazione. Abbiamo invece sin dal primo momento criticato gli aumenti di pena previsti per i reati contro il patrimonio, che si muovono in una direzione sbagliata e pericolosa. Non è vero che il disegno di legge prevedrebbe l’abolizione dell’ergastolo, come qualcuno ha sostenuto. A chi in questi giorni ha polemizzato in questo senso, ribadiamo che per quanto ci riguarda questo sarebbe invece un obiettivo di civiltà giuridica da perseguire. Non è vero che in Italia l’ergastolo non esiste di fatto, come alcuni sostengono. Sono più di 1.600 le persone che lo stanno scontando nelle nostre patrie galere. Molti Paesi democratici lo hanno invece abolito. Abbiamo un codice penale che risale al 1930 e che risponde alla filosofia dell’allora regime fascista, tanto nella previsione delle pene quanto nella tipologia dei reati. Quel codice va riformato. Obama ha annunciato una riforma della giustizia penale che le renda un volto meno truce. Dobbiamo seguirlo su questa strada. Chiediamo al Parlamento italiano che in questa discussione non si faccia condizionare dalle urla dei populisti, ma abbia invece rispetto per le parole di Papa Francesco sulla giustizia". Giustizia: riforma del processo penale, più tempo per le indagini antimafia di Liana Milella La Repubblica, 17 settembre 2015 Dopo l’intervento del Quirinale raddoppiato il termine per chiudere le inchieste. Proroga per il casellario giudiziario oltre gli 80 anni di età: oggi Riina e Provenzano risultano incensurati. Aumentate le pene per furti, scippi e rapine. Tempi delle indagini, i magistrati "guadagnano" un’altra manciata di mesi, grazie anche alla moral suasion del Quirinale. Un intervento, definito negli ambienti della maggioranza molto pacato e molto rispettoso, che ha fatto spostare ancora in avanti, almeno per i reati più gravi, il termine capestro di 6 mesi per poter chiudere i dossier e decidere le sorti degli indagati. Le toghe avranno 3 mesi di tempo per i reati ordinari, prorogabili di altri 3 con una richiesta al procuratore generale, e un anno per mafia e terrorismo. Ma il presidente dell’Anm Rodolfo Maria Sabelli non è ancora soddisfatto: "È una modifica insufficiente. Con un meccanismo ridicolo perché una richiesta di proroga al procuratore generale è fuori dal sistema. È una via barocca e inefficace perché alla complessità della richiesta corrispondono degli effetti minimi". Cioè i 3 mesi in più per chiudere le indagini. Non solo. Sabelli batte di nuovo sul tasto della corruzione: "Questa norma colpisce soprattutto queste indagini e dimostra come la politica percepisca come un problema più le indagini in sé che i fatti di corruzione". Un giudizio destinato a pesare oggi a Montecitorio. Rinviato a martedì prossimo lo scontro tra governo e M5S sulle intercettazioni, già da stamattina la tensione si concentrerà proprio sull’articolo 11 del ddl che riforma il processo penale. Accantonato ieri dall’aula, è stato però oggetto di un confronto serrato nella maggioranza che ha prodotto il nuovo testo con la scansione dei 3, 6, 12 mesi, di certo un passo avanti visto che si era partiti con soli 3 mesi. M5S darà battaglia, ma è assai difficile che la maggioranza possa concedere di più alle toghe. Molto improbabile anche che passi la proposta di includere la corruzione tra i reati che hanno bisogno di più tempo per le conclusioni dei magistrati. Un controsenso, perché proprio in questi processi il materiale da esaminare, le intercettazioni, la documentazione bancaria, richiedono un maggiore approfondimento. Tant’è. A Montecitorio, su questi temi, si sta registrando una nuova sintonia tra il governo, Forza Italia e la Lega. Prova ne è che l’aumento di pena di furti, scippi e rapine ieri è stato votato da tutti. E le misure che contengono l’azione dei giudici e ampliano i diritti delle difese, in molti casi proposte dagli alfaniani come il vice ministro della Giustizia Enrico Costa, sono ovviamente ben visti da Fi. Sulle barricate restano i grillini. Che stanno risparmiando il poco tempo concesso, per via del contingentamento, alla discussione sulle intercettazioni. Ieri hanno contestato, con Alfonso Bonafede, il nuovo sistema di estinzione del reato se l’imputato ripara il danno. Vale per i delitti perseguibili a querela, tra cui però si può annoverare il falso in bilancio delle piccole società o un furto semplice. Il giudice, in apertura del processo di primo grado sentirà la persona offesa, ma pure senza l’assenso può estinguere il reato. Per di più il governo, sempre per delega, si appresta ad allargare il range dei reati perseguibili a querela, tra cui la violenza privata (non quella aggravata). Un emendamento grillino che la escludeva è stato bocciato. Novità sulla mafia. Aumenta la pena del reato di scambio politico mafioso (da 4-10 anni a 6-12 anni). Si risolve, con un emendamento Ferranti, lo scontro con M5S su ergastolo e benefici penitenziari perché saranno esclusi "i casi di eccezionale gravità e pericolosità specificatamente individuati e comunque per i delitti di mafia e terrorismo anche internazionale". Dopo una segnalazione del procuratore antimafia Franco Roberti passerà anche una proposta della grillina Giulia Sarti che proroga il casellario giudiziario oltre gli 80 anni. Sembrerà incredibile ma nell’attuale casellario, per via di una legge del 2002, non risulta nulla su Riina e Provenzano, appunto perché ultraottantenni. Giustizia: ddl sul processo penale alla Camera, torna la rissa sulle intercettazioni di Luca Rocca Il Tempo, 17 settembre 2015 Passano i decenni ma il tema delle intercettazioni rimane incandescente anche in epoca renziana. Il ddl sul processo penale, che contiene la delega sulle conversazioni captate, è approdato ieri pomeriggio alla Camera insieme alle immancabili polemiche. Le forze politiche, infatti, sono come al solito divise, con il Partito democratico che tenta di porre un freno allo sputtanamento continuo, il M5S che grida al "bavaglio", l’Ncd di Angelino Alfano che cerca compromessi ancora più "stringenti" rischiando, però, di colpire il diritto di cronaca, e infine Forza Italia, favorevole da sempre a una regolamentazione della materia. Una delle critiche alla delega sulle intercettazioni riguarda la sua genericità, tanto da far dire a qualche forza politica e ad alcuni magistrati che si tratta di una vera e proprio "delega in bianco" al governo, che potrà riempirla di contenuto a suo piacimento. L’articolo 29 del ddl penale, quello dedicato, appunto, alle intercettazioni, contiene, infatti, solo poche righe con cui si chiede di garantire la riservatezza delle comunicazioni e delle conversazioni telefoniche e telematiche; tutelare la riservatezza delle comunicazioni e delle persone occasionalmente intercettate (in particolare degli avvocati difensori nei colloqui con l’assistito); prevedere prescrizioni che incidano sull’utilizzo delle intercettazioni e che diano una precisa scansione all’udienza di selezione (la famosa udienza-filtro); punire con il carcere da 6 mesi a 4 anni coloro che diffondono il contenuto di conversazioni registrate fraudolentemente. Quest’ultima, voluta e strenuamente difesa da Alessandro Pagano, dell’Ncd, verrà emendata a garanzia del diritto di cronaca e di difesa, "salvando" trasmissioni come Le Iene o Striscia la notizia e forse prevedendo, alla fine, solo una multa e non più il carcere. Fin qui il merito della delega al governo che in un anno dovrebbe scrivere il testo finale. Se regna l’incertezza è anche perché è difficile comprendere il fine ultimo che ha in mente il ministro della Giustizia, Andrea Orlando. Di certo c’è che, dopo l’approvazione della delega, il Guardasigilli istituirà una commissione ministeriale, probabilmente formata anche da noti magistrati con il compito di suggerire il testo. Ovviamente non è ancora dato sapere se di fronte a un problema gigantesco si sia consapevoli che il punto non è impedire la pubblicazione di atti divenuti pubblici o rendere impossibile ai magistrati di intercettare, ma fare in modo, guardando a monte là dove il problema si genera e cioè nelle procure, che nei fascicoli non finiscano chiacchierate private o penalmente irrilevanti. Sta di fatto che il presidente dell’Anm, Rodolfo Sabelli, dopo aver accusato i politici di temere "più la diffusione delle intercettazioni che lo scandalo della corruzione", ha parlato di "delega generica e in bianco", di "pregiudizio di fondo contro le intercettazioni" e di riforma che "fa danno alla giustizia". Nelle settimane scorse, al contrario, Giovanni Legnini, vicepresidente del Csm, si è detto favorevole "a una disciplina più rigorosa sull’obbligo di stralcio e distruzione degli ascolti irrilevanti". Chiare le posizioni dei partiti. Walter Verini, capogruppo Pd in commissione Giustizia, ha negato in modo risoluto che si tratti di una legge-bavaglio, sottolineando che "l’orientamento è quello della cosiddetta udienza filtro", nel corso della quale avvocati, pm e giudici "valutino quali siano le intercettazioni di rilevanza processuale" e quali quelle da escludere e "mettere in una "cassaforte" sotto la responsabilità del giudice". Anche per David Ermini, responsabile Giustizia del Pd, il problema è quello di "non far entrare nelle ordinanze testi di intercettazioni irrilevanti", senza per questo voler intaccare il diritto di cronaca. E pure Pierluigi Bersani, della minoranza Pd, è convinto della necessità di stabilire delle regole affinché "ciò che è irrilevante non venga pubblicato". Sul piede di guerra il M5S. Vittorio Ferraresi, capogruppo in Commissione giustizia, parla di "mostruosità giuridica" e "riforma vergognosa", spiegando che "neanche Berlusconi era arrivato a tanto". Per Ferraresi la "delega in bianco" dice "tutto e nulla" e sono possibili "sanzioni pecuniarie forti" per i giornalisti che pubblicano le intercettazioni. Vicino alle posizioni del Pd è invece Forza Italia. Più volte Mara Carfagna, portavoce del partito alla Camera, si è detta "contraria all’abuso delle intercettazioni e al loro uso ai fini di lotta politica", dunque "favorevole a una regolamentazione della loro diffusione e della loro pubblicazione". Anche per Renato Brunetta, presidente dei deputati azzurri, "il problema non sono le intercettazioni, strumento d’indagine straordinario, ma il loro uso e abuso" e la loro "fuoriuscita dagli ambienti giudiziari a fini di mala giustizia o di lotta politica". Lo stesso Brunetta, però, nelle scorse settimane si è detto poco fiducioso nelle capacità del Pd di "regolare le intercettazioni". Presa di posizione netta anche da parte del presidente dell’Ordine dei giornalisti, Enzo Iacopino, per il quale occorre stare attenti a che "la nuova normativa non colpisca solo i giornalisti risparmiando gli editori". Iacopino è anche convinto che le norme necessarie ci siano già e che "volerne creare altre è qualcosa che inquieta". Nei mesi scorsi sono stati ascoltati in commissione Giustizia della Camera Edmondo Bruti Liberati e Giuseppe Pignatone, rispettivamente capi delle procure di Milano e Roma. Entrambi hanno proposto di rendere pubblicabili solo le ordinanze di custodia cautelare, escludendo, dunque, il materiale delle indagini preliminari. Carlo Nordio, procuratore aggiunto di Venezia, ha invece consigliato di limitare le intercettazioni alla fase preventiva delle indagini, mentre per Nicola Gratteri, procuratore aggiunto di Reggio Calabria, sarebbe utile non inserire più le intercettazioni integrali nei provvedimenti giudiziari e prevedere il reato di "pubblicazione arbitraria". Giustizia: riforma delle intercettazioni, l’obiettivo è solo tutelare i diritti dei cittadini di Cosimo Maria Ferri (Sottosegretario alla Giustizia) Il Tempo, 17 settembre 2015 Le intercettazioni sono e rimarranno uno strumento indispensabile per lo svolgimento delle indagini al fine di accertare la verità. Va detto con chiarezza che qui non si gioca al ribasso e che il testo licenziato dalla Commissione Giustizia della Camera non riduce l’ambito di applicazione delle intercettazioni, ma detta principi e criteri direttivi per semplificarne le condizioni di impiego per i più gravi reati dei pubblici ufficiali contro la Pa e cercare un punto di equilibrio tra la legittima acquisizione e l’utilizzazione dei dati captati, il diritto all’informazione e il rispetto del principio costituzionale della libertà e segretezza delle comunicazioni. L’idea di punire la diffusione di riprese o registrazioni effettuate fraudolentemente allo scopo di danneggiare la reputazione o l’immagine altrui è rivolta ai casi di uso distorto dello strumento. Non a caso resta ferma l’esclusione della punibilità laddove il materiale acquisito costituisca prova dinanzi all’autorità giudiziaria o sia utile per l’esercizio del diritto di difesa. Il dibattito in corso ha offerto ed offrirà comunque l’occasione per individuare una soluzione equilibrata che garantisca una effettiva selezione del materiale pubblicabile, a tutela della riservatezza dei cittadini senza snaturare la finalità dell’istituto delle intercettazioni. La giusta sede per il bilanciamento di questi interessi è e deve restare quella del procedimento, dove si depositano registrazioni e verbali; quindi attraverso l’udienza filtro (a cui possano partecipare tutti i soggetti interessati, anche estranei all’indagine), si valutano l’acquisizione dei risultati rilevanti e lo stralcio di quelli inutilizzabili. Credo che quella operata sia una scelta di civiltà prima ancora che una decisione di natura politica. Mi auguro che il dibattito in corso in Parlamento possa costituire un momento di riflessione serio e responsabile. Il diritto all’informazione da una parte e quello alla privacy dall’altra devono costituire due lati della stessa medaglia. Ecco perché è necessario uno sforzo politico comune: la priorità deve essere quella di tutelare i diritti di tutti i cittadini, senza distinzioni. Giustizia: intercettazioni e termini per i pm, l’accordo-scambio alla Camera di Eleonora Martini Il Manifesto, 17 settembre 2015 Processo penale. L’Aula discute la "legge bavaglio". Imposti tre mesi di tempo ai magistrati per chiedere il rinvio a giudizio, un anno solo per terrorismo e mafia. Le norme per punire gli abusi sulla pubblicazione delle intercettazioni "ci sono già" e il rischio invece è di "prendere spunto da alcuni abusi per modificare un sistema che permette di scoprire i reati. Bisogna stare attenti a non creare ulteriori ostacoli, o il sistema giustizia rischia di trovarsi in ginocchio". La preoccupazione del procuratore aggiunto di Messina, Sebastiano Ardita, è la stessa espressa ancora ieri dalla Federazione nazionale della stampa. Ossia che la delega per riformare le norme sulle intercettazioni, che dà carta bianca al governo di limitare l’uso di uno strumento importante per magistrati e giornalisti, contenuta nel ddl di riforma del processo penale e dell’ordinamento penitenziario da ieri all’esame della Camera, "nasconda un pericolo per il diritto di cronaca". Un testo sul quale il Pd ha trovato l’accordo con l’Ncd in cambio della norma che impone ai pm un limite di 3 mesi per chiedere il rinvio a giudizio dopo la conclusione delle indagini, prorogabile di altri 3 mesi per inchieste di particolare complessità, e che sale - correzione aggiunta ieri dal Comitato dei nove - fino a un anno per i reati di terrorismo e mafia, ma non per quelli di corruzione e concussione. Su quella che il M5S ha ribattezzato la "legge bavaglio", è duro il giudizio del segretario dell’Fnsi: "A nessun giornale e a nessun giornalista potrà mai essere impedito di pubblicare una notizia che abbia rilevanza per l’opinione pubblica, anche se coperta da segreto. Si tratta di un principio basilare di tutte le democrazie, peraltro più volte ribadito dalla Corte europea dei diritti dell’uomo", afferma Raffaele Lorusso riferendosi all’emendamento presentato a fine luglio dal capogruppo Pd in commissione Giustizia, Walter Verini, e dal responsabile Giustizia del partito, David Ermini. Una correzione alla delega, questa, apportata per tentare di smorzare le proteste sollevate già allora dall’Ordine dei giornalisti, che però non cancella del tutto l’emendamento dell’Ncd Alessandro Pagano dove si prevede il carcere da 6 mesi a 4 anni per chi registra conversazioni in modo fraudolento e le pubblica, e si limita invece solo ad escludere la punibilità "quando le registrazioni o le riprese sono utilizzabili nell’ambito di un procedimento amministrativo o giudiziario o per l’esercizio del diritto di difesa o del diritto di cronaca". Ora comunque il Pd, dopo le proteste reiterate e la promessa del M5S - che ha presentato 700 emendamenti al testo, anche se i tempi del dibattito sono contingentati - di alzare le barricate contro la "mordacchia" imposta "a giornalisti e magistrati", sta ragionando sull’ipotesi di commutare la reclusione in sanzione pecuniaria. Ermini e Verini, però, rispondono all’Fnsi giudicando l’interpretazione di Lorusso "sbagliata": ogni preoccupazione, dicono, "in questo caso è infondata". "Chiediamo - spiegano i due firmatari dell’emendamento - di prevenire il problema della pubblicazione di intercettazioni non rilevanti per le indagini per tutelare insieme al diritto alla informazione quello di cronaca. Pene sono previste nei casi di registrazioni fraudolente ma fuori dai casi di esercizio del diritto di cronaca e di difesa". L’analisi del ddl riprenderà oggi in Aula ma il dibattito, che ieri ha soddisfatto "pienamente" il vice Guardasigilli Enrico Costa, di sicuro non riguarderà, come si augura l’associazione Antigone, l’abolizione dell’ergastolo ostativo che, al contrario di quanto paventato dalla stampa più giustizialista, non è contenuta nel testo in esame. Giustizia: insulti di Calderoli alla Kyenge, per il Senato non c’è stato "odio razziale" Il Garantista, 17 settembre 2015 Palazzo Madama vota l’insindacabilità delle dichiarazioni di Roberto Calderoli nei confronti dell’allora ministro Cecile Kyenge in ordine all’ipotesi di istigazione all’odio razziale (196 voti a favore, 45 contrari e 12 astenuti), mentre ha votato contro le deliberazioni della giunta per le immunità del Senato. Ha però respinto l’insindacabilità sulle dichiarazione dell’esponente della Lega Nord nel corso di un comizio a Treviglio nel luglio del 2013, in ordine all’ipotesi di reato di diffamazione. È questo l’esito della votazione per parti separate della delibera della giunta per le immunità, richiesta dal relatore, Lucio Malan. La giunta per le immunità aveva votato a favore dell’insindacabilità delle dichiarazioni di Calderoli, in quanto opinioni espresse da un membro del parlamento nell’esercizio delle sue funzioni. L’assemblea del Senato ha respinto la proposta di rinviare l’esame della richiesta di autorizzazione di Calderoli, accusato di ingiuria e istigazione all’odio razziale nei confronti dell’ex ministro Cécile Kyenge che era stata avanzata dal capogruppo del Pd Luigi Zanda. Zanda, pur stigmatizzando duramente le dichiarazioni del senatore leghista, ha spiegato: "oggi dobbiamo esprimerci su un procedimento penale avviato, che riguarda il senatore Calderoli (che ricordo è anche Vice Presidente del Senato). Noi riteniamo - parlo del Gruppo del Partito Democratico - che vi sia la necessità di un ulteriore approfondimento. Queste ultime settimane - come tutti i colleghi sanno - sono state molto dense di attività, il tempo a disposizione è stato veramente poco e la delicatezza della questione impone viceversa che ciascun senatore possa essere debitamente informato, possa valutare e possa riflettere". La richiesta del Pd ha suscitato la dura reazione del Movimento 5 Stelle: "La richiesta del presidente Zanda, fatta nello specifico solo per il caso che riguarda il collega Calderoli -ha affermato Vito Crimi - in considerazione della situazione in cui ci troviamo in questo momento, in pieno clima di riforme costituzionali, in cui un Presidente del Consiglio quasi esautora il Presidente del Senato dal suo ruolo, annunciando anticipatamente le decisioni che avrebbe dovuto prendere il Presidente del Senato, quasi a voler anticipare quell’abolizione del Senato che au- spica, ci sa più di ricatto". Il senatore Manconi, di sentimenti garantisti, spiega così il suo voto contro l’insindacabilità dei giudizi espressi da Calderoli contro Kyenge. "Ho votato sempre a favore della insindacabilità delle dichiarazioni dei parlamentari, spesso in dissenso rispetto alle decisioni adottate dalla Giunta per le autorizzazioni e dal mio gruppo senatoriale. L’ho fatto perché ritengo che si debba interpretare nella maniera più ampia e incondizionata la libertà di pensiero e di parola; che una società democratica abbia la forza, debba avere la forza, di accettare le critiche dei suoi contestatori, anche i più radicali; e che la lotta politica non debba essere sottoposta a censure preventive e a interdizioni morali, se non quando volontariamente scelte dall’interessato. E tuttavia, ho votato a favore della sindacabilità delle parole pronunciate dal senatore Calderoli contro Cecile Kyenge. Qui l’offesa è indirizzata contro l’elemento costitutivo della persona. Ovvero la sua dignità e l’immagine pubblica di essa. Ecco, la dignità è il limite - a mio avviso l’unico - che deve essere posto alla più piena e illimitata libertà di parola". Privazione della libertà personale del soggetto passivo del reato di rapina aggravata Il Sole 24 Ore, 17 settembre 2015 Reati contro il patrimonio - Rapina - Privazione della libertà personale del soggetto passivo del reato di rapina aggravata - Assorbimento del reato di sequestro di persona - Condizioni. Il reato di sequestro di persona è assorbito in quello di rapina aggravata previsto dall’articolo 628, comma terzo, n. 2, cod. pen. soltanto quando la violenza usata per il sequestro si identifica e si esaurisce col mezzo immediato di esecuzione della rapina stessa, non quando invece ne preceda l’attuazione con carattere di reato assolutamente autonomo anche se finalisticamente collegato alla rapina ancora da porre in esecuzione o ne segua l’attuazione per un tempo non strettamente necessario alla consumazione. • Corte di cassazione, sezione II, sentenza 27 maggio 2015 n. 22096. Reati contro il patrimonio - Rapina - Circostanze aggravanti - Procurata incapacità di volere o di agire - Privazione della libertà personale - Assorbimento dell’aggravante nel concorrente reato di sequestro di persona - Sussistenza. In tema di rapina, quando la privazione della capacità di agire non abbia una durata limitata al tempo strettamente necessario alla consumazione del delitto, ma ne preceda o ne segua l’attuazione, in ogni caso protraendosi oltre il suddetto limite temporale, è preclusa, in ragione del principio di specialità, la possibilità della applicazione dell’aggravante prevista dall’articolo 628 comma terzo n. 2 cod. pen., che rimane assorbita dal concorrente reato di sequestro di persona. • Corte di cassazione, sezione II, sentenza 24 gennaio 2014 n. 3604. Reati contro il patrimonio - Rapina - Privazione della libertà personale del soggetto passivo - Assorbimento del reato di sequestro di persona - Condizioni. Il reato di sequestro di persona è assorbito in quello di rapina aggravata previsto dall’articolo 628, comma terzo, n. 2 cod. pen. solo quando la privazione della libertà personale abbia una durata limitata al tempo strettamente necessario all’esecuzione della rapina, ma non quando si protragga anche dopo la consumazione della stessa. • Corte di cassazione, sezione II, sentenza 16 giugno 2009 n. 24837. Reati contro il patrimonio - Rapina Privazione della libertà personale del soggetto passivo del reato di rapina - Concorso tra il reato di rapina e quello di sequestro di persona - Configurabilità - Condizioni. La privazione della libertà personale costituisce ipotesi aggravata del delitto di rapina (e rimane in essa assorbita) solo quando la stessa si trovi in rapporto funzionale con la esecuzione della rapina medesima, mentre, nell’ipotesi in cui la privazione della libertà non abbia una durata limitata al tempo strettamente necessario alla consumazione della rapina, ma ne preceda o ne segua l’attuazione, in ogni caso protraendosi oltre il suddetto limite temporale, il reato di sequestro di persona concorre con quello di rapina. • Corte di cassazione, sezione II2, sentenza 14 luglio 2003 n. 29445. Sul nuovo falso in bilancio il nodo dei "fatti materiali rilevanti" di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 17 settembre 2015 Corte di Cassazione, Quinta sezione penale, sentenza 16 settembre 2015 n. 37570. Dopo quello delle valutazioni, il nodo della rilevanza. La Corte di cassazione sottolinea, con una nuova sentenza, gli aspetti problematici del nuovo falso in bilancio. La sentenza n. 37570 depositata ieri, la seconda in materia, dopo quella che poche settimane fa ha messo nel mirino l’assenza nella nuova fattispecie delle valutazioni, ripercorre i principali contenuti della riforma approvata con la legge n. 69 di quest’anno. Il giudizio complessivo, analogo a quello espresso nell’unico precedente, è di un’estensione dell’ambito di operatività del nuovo reato, soprattutto per effetto della cancellazione delle soglie e del venire meno della necessità (in alcuni casi) dell’evento dannoso. Un passaggio che sposta, riconosce la Cassazione, il baricentro dell’intervento in direzione opposta a quello del 2002, nel segno di un maggiore rigore. Tuttavia non ci sono dubbi che esiste un rapporto di continuità normativa tra vecchia e nuova fattispecie. Gli aspetti problematici però non mancano. A quello delle valutazioni, già segnalato dalla Corte, si aggiunge ora quello della sostituzione del vecchio termine "informazioni" con quello di "fatti materiali", che devono essere omessi per potere dare luogo alla risposta penale. "Scelte - osserva la sentenza - che se dovessero essere interpretate nel senso di escludere la rilevanza del falso cosiddetto "qualitativo" indubbiamente determinerebbero, al contrario, un ridimensionamento dell’elemento oggettivo delle false comunicazioni sociali". Si tratterebbe allora di un effetto di parziale abrogazione, circoscritto a quei fatti che non troverebbero più corrispondenza nel nuovo falso in bilancio. Sul punto, la sentenza non procede oltre, né poteva farlo, visto il perimetro fissato dal ricorso. Oggetto della contestazione all’imputato, infatti, è la mancata esposizione nel bilancio di poste attive effettivamente presenti nel patrimonio della società. Un fatto, precisa la Corte, che deve essere comunque ricompreso nella nuova fisionomia del reato anche quando di dovesse propendere per una versione restrittiva della nozione di "fatti materiali". Altro elemento critico che emerge nella lettura della riforma, è poi quello della rilevanza dei fatti materiali nel nuovo articolo 2621 del Codice civile, che sanziona il falso in bilancio commesso in una società non quotata. "Si tratta - scrive il collegio della Quinta sezione penale - di qualificazione che certamente restringe l’area di tipicità, escludendo dal fuoco dell’incriminazione alcune condotte a seguito di una valutazione sulla rilevanza dell’oggetto del falso". Dalla sentenza arriva poi una sottolineatura sull’oggetto materiale del reato, chiarendo che, sia pure con collocazione diversa rispetto alla precedente versione del Codice civile (ponendola cioè in coda all’elenco, a titolo di chiusura), devono essere considerate al di fuori anche del nuovo falso in bilancio tutte quelle comunicazioni "atipiche", tra organi societari e quelle dirette a un unico destinatario, sia esso privato pubblico. Comunicazioni che, peraltro, possono invece assumere una diversa qualificazione penale a titolo, per esempio, di aggiotaggio oppure ostacolo all’esercizio dell’attività di vigilanza. Su due elementi ancora si sofferma la pronuncia. Da una parte, infatti, è stato rafforzato il requisito dell’idoneità ingannatoria della condotta attraverso l’avverbio "concretamente", qualificando in questo modo il reato, sia sul versante quotate sia sul versante non quotate, come reato di pericolo concreto. Dall’altro, si mette in evidenza come, nella descrizione della condotta, è stato introdotto un altro avverbio, quel "consapevolmente" che porta a escludere la rilevanza del dolo eventuale. Il dolo eventuale è possibile anche nei sinistri stradali di Maurizio Caprino Il Sole 24 Ore, 17 settembre 2015 Il dolo eventuale può essere applicato anche in caso di incidente stradale. Così la Cassazione ribalta i suoi precedenti indirizzi, il cui "garantismo" è alla base della campagna di opinione che sta facendo andare avanti dopo cinque anni di incertezze l’iter parlamentare del disegno di legge che istituisce il reato di omicidio stradale (si vedano la scheda sotto e Il Sole 24 Ore dell’11 giugno scorso). La sentenza che segna il cambio di orientamento è la 37606/2015, depositata dalla Prima sezione penale. Questa è la stessa sezione che non più tardi dello scorso marzo si era pronunciata in senso contrario (sentenza 18220/2015) su un caso che aveva avuto molta risonanza sui media (si veda Il Sole 24 Ore del 1° maggio). Ma nel frattempo è cambiata la composizione della sezione. Inoltre, vige sempre il principio secondo cui ogni sentenza vale per un caso specifico, per cui l’esito può cambiare secondo i fatti e come sono stati "trattati" nei due gradi di giudizio. Nel caso degli incidenti stradali mortali, il punto sta nel dimostrare che il conducente che li ha causati abbia consapevolmente accettato il rischio di uccidere qualcuno in conseguenza della sua guida sconsiderata. Nella vicenda decisa con la sentenza depositata ieri - l’omicidio di un pedone da parte di un guidatore sotto effetto di alcol e droga che stava fuggendo per sottrarsi a un controllo della Polizia locale di Bolzano - decisivo in sede di merito è stato il fatto che il responsabile non ha cambiato traiettoria rispetto a quella necessaria per la fuga, nemmeno quando si è accorto che proseguendo su di essa avrebbe investito il pedone. Per giustificare la fondatezza dell’imputazione per omicidio volontario per dolo eventuale, la Cassazione usa un precedente importante come la sentenza delle Sezioni unite sul caso Thyssen Krupp (la n. 33343/2014), di natura ben diversa da un incidente stradale. Il principio affermato da questa sentenza è che, per esserci dolo eventuale, "occorre la rigorosa dimostrazione che l’agente (il responsabile, ndr) si sia confrontato con la specifica categoria di evento (la possibilità di causare la morte di qualcuno, ndr)...aderendo psicologicamente ad essa". Questa dimostrazione si raggiunge anche indirettamente, valutando la lontananza della condotta tenuta da quella doverosa, la personalità e la storia dell’imputato, la durata e la ripetizione dell’azione, la sua finalità, il comportamento successivo, la probabilità che l’evento si verifichi in base alla condotta tenuta, le conseguenze dell’evento anche sull’imputato e il contesto dell’azione. Se si pensa che l’imputato stava - tra l’altro - sfuggendo a un controllo, non poteva aver paura di ferirsi investendo un pedone con una suv e dopo l’incidente ha continuato la fuga a piedi, se ne deduce che ci sono i requisiti per il dolo eventuale "disegnato" dalla sentenza 33343/2014. Nella sentenza 18220 della scorsa primavera, invece, il giudizio di merito non ha dimostrato ciò. Tra le altre cose, non aveva chiarito se lo stato di ebbrezza del colpevole avesse offuscato la sua capacità di prevedere la possibilità di uccidere qualcuno. Lettere: il carcere non sia solo sofferenza di Pier Ernesto Irmici Il Tempo, 17 settembre 2015 Nella grave situazione di persistente inadeguatezza delle carceri italiane, che costringe i detenuti in condizioni di insopportabile disagio, a volte fino a raggiungere in alcuni casi livelli disumani, è significativo il convegno (oggi alle 17,30 alla Camera dei Deputati) che invita a riflettere sull’articolo 27 della Costituzione alla luce dell’opera di carità di Bartolo Longo, che certamente anticipa quanto sancisce il terzo comma ("Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato"). Bartolo Longo si oppose alla scuola antropologica criminale di Lombroso, che dall’osservazione della scatola cranica e dei tratti somatici aveva la pretesa di individuare l’origine innata della delinquenza, e raccolse i figli dei condannati: "Nel ricevere i fanciulli - scrisse Bartolo Longo - non li guardo in faccia né sul cranio; ma solamente mi accerto se sono reietti ed innocenti abbandonati: e questo mi basta: li stringo al cuore e questo mi basta". E attraverso quest’opera egli arrivò a considerare il condannato non esclusivamente per la sua condizione all’interno del carcere, ma anche in rapporto al mondo esterno, che, una volta scontata la pena, dovrebbe nuovamente accoglierlo, in primo luogo la famiglia. E proprio il reinserimento sociale del condannato è il tema principale che oggi viene affrontato nel convegno organizzato dal Pontificio Istituto Bartolo Longo e dall’Associazione Sandro Pertini Presidente, che vede, tra gli altri, la presenza dell’onorevole Gianfranco Rotondi e del sottosegretario al Ministero della Giustizia Cosimo Ferri. Lettere: riforma delle intercettazioni, serve più prudenza di Luigi Labruna (giurista) Il Mattino, 17 settembre 2015 "Ci si preoccupa più delle intercettazioni che dello scandalo dei fatti di corruzione", ha dichiarato il presidente dell’Anm riferendosi a coloro che esprimono dubbi e critiche sulla deriva che anche in questo campo sta prendendo la nostra democrazia. Ho troppa stima del dottor Sabelli per ritenere che nel pronunciare frasi così avventate egli annoveri davvero tra i simpatizzati del malaffare, o almeno tra gli indifferenti di fronte alla gravità delle attività criminali che devastano la nostra società, i tanti (compresi non pochi suoi colleghi) che denunciano le ricorrenti storture della normativa e della prassi. Si tratta invece di persone - giuristi, giornalisti, tantissimi cittadini - che chiedono che almeno le garanzie costituzionali non vadano a ramengo nel nostro Paese. E che, se limiti debbono esser posti a diritti inviolabili per preservare altri valori anch’essi meritevoli di tutela, lo si faccia per lo stretto necessario e se ne discuta senza ricorrere ad argomenti propagandistici scontati che vellicano, al più, gli umori viscerali della gente e ne strumentalizzano apprensioni o paure. Lo stesso vale, naturalmente (limitandoci al tema odierno) per quanti, sul fronte opposto, esagerando altrettanto irresponsabilmente, evocano per il nostro Paese le atmosfere scioccanti, le angosce, la temperie politica e culturale opprimente della Ddr denunciate da Florian Henkel von Donnersmarckin "Le vite degli altri" (film che tutti, a prescindere, dovrebbero vedere). Occorre rigore, correttezza, cautela e prudenza in tutti. Soprattutto in coloro che rivestono cariche pubbliche e che, per l’ufficio che ricoprono o l’attività che svolgono (ministri, parlamentari, magistrati, politici, opinionisti ecc.), hanno particolari competenze, doveri o responsabilità. È la moderatio rei publicae, il bilanciamento tra i poteri nella comunità politica organizzata -con ciò che significa, tra l’altro, sul piano delle garanzie di libertà del cittadino, che mai va abbandonato all’arbitrio di chicchessia - che costituisce la stella polare seguita da coloro che redassero la nostra Costituzione. Ed è, per converso, il turbamento non infrequente nella prassi, anche giudiziaria, di tale fondamentale equilibrio, per non dire della sua rottura, che preoccupa e che deve in ogni occasione e ad ogni costo essere evitato. Su ciò - e il discorso vale non solo per le intercettazioni ma si estende ad altre altrettanto delicate questioni e innovazioni all’ordine del giorno del Parlamento - dovranno vigilare con particolare attenzione gli organi costituzionali di garanzia che esistono proprio a questo scopo anche in Italia. Nell’agire di tutti - insegnavano i Romani, non quelli di oggi - esistono (debbono esistere) confini certi e invalicabili (fines) al di qua e al di là dei quali non può esistere rettitudine: nequit consistere rectum. Le intercettazioni sono uno strumento investigativo certamente utile per la repressione di gravi reati ma eccezionale perché invasivo della libertà e della segretezza "di ogni forma di comunicazione" dichiarate inviolabili dalla Costituzione, che ne ammette solo eccezionalmente limitazioni per atto motivato dell’autorità giudiziaria e "con le garanzie stabilite dalla legge". Questo non va mai dimenticato. Occorre consentirne una utilizzazione "misurata" e finalizzarne rigorosamente l’uso e la divulgazione al disvelamento dei reati su cui si investiga e non, genericamente, alla conoscenza o alla diffusione pruriginosa di gossip sugli stili di vita o i comportamenti etici o sociali di coloro sui quali si indaga o (peggio) di non indagati che incappano nelle famigerate frequenti intercettazioni "a strascico" di cui si fa disinvoltamente uso. "Le inchieste servono a scoprire i reati e non a sapere chi va a letto con chi; e questo deve valere per il rapinatore, il politico e il funzionario" ha giustamente detto qualche mese fa un altro esponente dell’Anni, il pm Cascini, a quel tempo segretario proprio di quell’Associazione. Il tema è tornato di grande attualità giacché ieri è ripresa in aula alla Camera la discussione sul Ddl sulla riforma del processo penale che, tra l’altro prevede (all’art. 29) la delega al governo per "garantire la riservatezza delle conversazioni intercettate" attraverso prescrizioni che incidano anche sulle modalità di utilizzazione cautelare, "con particolare riguardo" alla tutela della riservatezza delle persone occasionalmente coinvolte e delle "intercettazioni non rilevanti ai fini penali". E prevede, altresì, la reclusione (sulla cui entità si sta litigando) per chiunque diffonda intercettazioni "carpite in modo fraudolento con registrazioni o riprese al fine di danneggiare la reputazione o l’immagine dell’intercettato", a meno che non costituiscano prova da utilizzare in un processo o servano all’esercizio del diritto di difesa. Argomenti, in verità, la cui regolamentazione non so quanto opportunamente sia stata delegata al potere esecutivo ma disposizioni che tuttavia, per ora, affermano sacrosanti principii di civiltà giuridica. Ma la bagarre parlamentare (e non solo) è pienamente in svolgimento su tali misure e, in particolare, sulle sanzioni previste per chi vi contravviene e sul rischio, non so quanto reale, che tali norme comportino "un bavaglio" per la libertà d’informazione. Vi sono inoltre accese proteste, soprattutto da parte di alcuni magistrati, per un’ altra norma (art. 11) che impone al pm "di esercitare l’azione penale o richiedere l’archiviazione entro tre mesi dalla scadenza del termine massimo di durata delle indagini preliminari" che, come si sa, non è proprio breve. Se non lo fa, deve darne "tempestiva comunicazione" al procuratore generale presso la Corte d’appello (che, si badi, non è un tizio qualsiasi ma un magistrato come il pm e normalmente di grande esperienza: a Napoli, per dire, Luigi Riello) che "con decreto motivato" dispone l’avocazione delle indagini preliminari non concluse. Anche su questo è iniziato il consueto e non proprio decoroso tira-e-molla con Orlando. Staremo a vedere. Lettere: che ipocrisia attaccare la Bindi, la camorra fa parte di Napoli di Paolo Borrometi Il Tempo, 17 settembre 2015 Una parte d’Italia, quel Meridione pur caratterizzato da bellezze paesaggistiche e intelligenze spiccate, che sta per dichiarare fallimento. E non si tratta di piagnistei, ma di cercare di cambiare il corso della storia. Cercare di raccontare ciò che non va, proprio per non cedere a una strisciante e pericolosissima rassegnazione. Constatare che c’è una parte del Paese con infrastrutture da terzo mondo, non vuol dire "piangersi addosso". Basti vedere quanto tempo si impiega per recarsi, ad esempio, da Catania a Palermo con Trenitalia. Nella migliore delle ipotesi, con il cosiddetto regionale veloce, si percorrono pressappoco 200 chilometri in tre ore. Lo stesso tempo occorrente per sportarsi fra Roma e Milano percorrendo oltre 580 chilometri, quasi tre volte la distanza che divide le due maggiori città siciliane, con un comodissimo "Frecciarossa 1000". Per non parlare delle strade. Ponti che crollano, autostrade inesistenti, caselli posti al centro della carreggiata e continue frane (per chi non lo sapesse le frane accertate in Sicilia sono 40 mila e 40 mila erano i pochi euro che, poco prima dell’estate, aveva in cassa la Protezione Civile siciliana). Un’economia non sostenuta, se non con manciate di spiccioli, dai Governi centrali che si sono succeduti e spesso neppure sorretta dalle classi dirigenti del Mezzogiorno. Per troppo tempo il Sud è stato terra di conquista elettorale, di voti dati clientelarmente, di cricche e di piccoli (ma grandi) potentati politici. Le mafie, chiamatele come volete (Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra, Sacra Corona Unita), hanno fatto il bello ed il cattivo tempo, mostrando i muscoli con i più deboli (la cosiddetta società civile) e andando a braccetto con intere flotte di politici corrotti, governanti accusati - e condannati - per mafia (alcuni ancora oggi nelle Patrie Galere). Così trovo risibile criticare le affermazioni della Presidente Rosy Bindi. Indignarsi nel sentire che "la camorra è un elemento costitutivo della società di questa città", riferendosi a Napoli e non al Dna dei partenopei, certamente fa conquistare consenso nei confronti di quella parte di cittadinanza, virtuosa ed onesta, che però non è mai riuscita a ribellarsi e convive (con eccessiva rassegnazione) con la Napoli camorristica. D’altronde lo stesso Franco Roberti, uomo del Sud ed oggi Procuratore Nazionale Antimafia, ieri ha chiaramente affermato: "Alcuni anni fa, dissi che la camorra era un elemento costitutivo della società napoletana. Intendevo dire, e la realtà da allora non è cambiata, che la camorra è parte integrante della società napoletana, è un problema economico e politico oltre che criminale". Basta con i negazionismi ipocriti, subdoli e paralizzanti. Esiste una Napoli, così come una Palermo o una Reggio Calabria virtuosa e onesta ma anche - come afferma ancora Roberti - "una Napoli camorrista e plebea che convive con l’altra, si alimenta delle diseguaglianze economiche, fa affari con i ricchi senza scrupoli e recluta nelle aree della povertà, dell’emarginazione e della disperazione". Le mafie crescono nel negazionismo e godono dell’arretratezza della società, proprio perché strutturalmente la sfruttano, cercando di soggiogare un intero popolo che - troppo spesso - scambia il diritto con il favore. Negare che le mafie siano una componente organica della società, soprattutto nel Meridione, significa negarne l’evidenza. Occorre, al contrario, prenderne atto ma anche prevedere tutta una serie di interventi per favorire, sul piano economico e sociale, il recupero di questi territori. In ciò si inserisce la richiesta, più che simbolica, di un evento dell’Expo da fare nel Mezzogiorno, formulata da tempo da Andrea Guccione, presidente dell’associazione culturale "Assud". La proposta, sostenuta con oltre un milione di tweet sul famoso social network, è motivata da Guccione: "Da un lato, ne gioverebbe l’immagine del Mezzogiorno che tanto necessita di location mediatiche d’eccellenza. Dall’altro, però, a trarne giovamento sarebbe l’intero sistema del made in Italy che proprio nel made in Sud trova il suo principale motore propulsore". Rivitalizzare ed investire sul Sud, non continuare ad assisterlo. Altrimenti se ne andranno tutti, ma proprio tutti. Ed avremo perso clamorosamente, molto al di là dei voti da conquistare! Liguria: la Vicepresidente Viale "lavoriamo per garantire diritto alla salute ai detenuti" regione.liguria.it, 17 settembre 2015 Un incontro per analizzare e affrontare le problematiche dal punto di vista sociosanitario e avviare soluzioni condivise tra Regione Liguria, Asl 3 e direzione dell’Istituto carcerario di Marassi. Questo lo scopo della visita di questa mattina della vicepresidente della Regione Liguria e assessore alla Salute Sonia Viale al carcere genovese, accompagnata dal direttore Salvatore Mazzeo e dal provveditore dell’amministrazione penitenziaria ligure Carmelo Cantone. "La criticità maggiore emersa - ha spiegato al termine della visita la vicepresidente Viale - è quella legata alla presenza, purtroppo in crescita costante, di detenuti con problemi psichiatrici che va trattata con molta sensibilità sotto un duplice aspetto: quello delle problematiche degli agenti di polizia penitenziaria che si trovano a dover affrontare situazioni complesse e, per quello che riguarda le competenze del nostro assessorato, la garanzia del diritto alla salute dei detenuti. Abbiamo individuato una priorità: dare un supporto, attraverso personale esperto e formato, agli agenti nell’assistenza ai detenuti con problemi psichiatrici nel periodo di osservazione. Nei prossimi giorni pensiamo si possa arrivare a un’intesa importante su questo tema". La vicepresidente Viale ha visitato il centro clinico di Marassi e incontrato gli operatori. "Sono emerse problematiche inerenti ai trasferimenti dal carcere agli ospedali che potrebbero trovare una soluzione con l’avvio della telemedicina all’interno del carcere. Un obbiettivo che ci poniamo a medio termine e che potrebbe consentire un beneficio di spesa, sia per il sistema sanitario, sia per l’amministrazione" ha spiegato la vicepresidente Viale. Durante l’incontro è stato affrontato il tema del superamento degli Opg, gli ospedali psichiatrici giudiziari. A oggi i detenuti liguri sono ospitati, attraverso una convenzione, nella struttura di Castiglione delle Stiviere, in provincia di Mantova. "Tra gli autori di reati riscontriamo una crescita dei casi di problemi psichiatrici, a livello nazionale, e pertanto i posti disponibili risultano a oggi non sufficienti ad accogliere la domanda. È un problema di questi ultimi mesi che va affrontato anche per la sicurezza dei cittadini". Marche: il Terzo Settore chiede nomina di un Difensore Civico che non sia "decorativo" superando.it, 17 settembre 2015 In vista dell’imminente nomina del nuovo Difensore Civico Regionale delle Marche, ben ventisette organizzazioni del Terzo Settore - tra le quali molte impegnate specificamente sul fronte della disabilità - chiedono in una lettera-appello ai Consiglieri Regionali che tale organo non sia "meramente "decorativo", ma rappresenti realmente un argine alla fatale erosione dei diritti che in questa congiuntura sociale ed economica finisce per colpire soprattutto i soggetti deboli". Nella scelta del Difensore Civico la Regione manifesta l’attenzione per la promozione della trasparenza e della correttezza dei rapporti tra la Pubblica Amministrazione e la cittadinanza, come singoli e nelle associazioni. Non deve essere organo dalle funzioni meramente "decorative"; deve pertanto essere anche espressione della società civile, oltre che ovviamente avere comprovata competenza in campo giuridico ed esperienza nelle funzioni specifiche che sarà chiamato a svolgere". A scriverlo in una lettera-appello inviata a tutti i componenti del Consiglio Regionale delle Marche sono state ben ventisette organizzazioni del Terzo Settore, tra cui varie federazioni locali e regionali in rappresentanza di altre decine di associazioni, molte delle quali impegnate specificamente sul fronte della disabilità, in vista della prossima nomina del nuovo Difensore Civico Regionale, d’ora in poi anche Garante per l’Infanzia e per i Detenuti. Come rende noto in un comunicato la Campagna Regionale Trasparenza e diritti - la nota iniziativa nata per vigilare sui servizi sociosanitari e per ottenere l’applicazione dei Livelli Essenziali di Assistenza nelle Marche - "nella lettera si auspica che il Difensore Civico sia un tramite, un "canale di comunicazione" tra società civile e amministrazione, complementare rispetto alla politica e ai partiti. Con i poteri assegnati di segnalazione, indagine e verifica, egli deve infatti contribuire a responsabilizzare l’amministrazione nei confronti dei cittadini e i cittadini nei confronti di quest’ultima. Rappresenta pertanto un argine alla fatale erosione dei diritti che in questa congiuntura sociale ed economica finisce per colpire soprattutto i soggetti deboli". La lettera inviata ai Consiglieri Regionali si conclude con la richiesta di "individuare per l’importante funzione una persona il cui profilo corrisponda alle caratteristiche indicate, ovvero competenza, autonomia e legame con la società civile, senza mai cedere alla tentazione di operare la nomina secondo spartitorie logiche politiche". Viterbo: detenuto morto in cella al Mammagialla, al via il processo a carico di due medici viterbonews24.it, 17 settembre 2015 Sono imputati di omicidio colposo, disposta una nuova perizia dal tribunale. È iniziato ieri mattina, davanti dal tribunale di Viterbo, il processo a carico di due medici in servizio nel carcere di Mammagialla, Agostino Mecarini e Pier Paolo Marghiriti, imputati di omicidio colposo per la morte in cella del brigadista rosso Luigi Falico, trovato morto nella sua cella il 23 maggio 2011. L’autopsia disposta dalla Procura della Repubblica di Viterbo stabilì che era stato stroncato da un infarto. Ma la sorella del brigatista presentò un esposto sostenendo che il detenuto non avrebbe ricevuto un’assistenza adeguata al suo stato di salute (era iperteso e un accanito fumatore) e, soprattutto, che non sarebbe dovuto restare in carcere ma essere ricoverato in ospedale. Da qui l’iscrizione dei due medici che lo visitarono e gli prescrissero i medicinali nel registro degli indagati per omicidio colposo. Il giudice Eugenio Turco, su richiesta dei difensori degli imputati, ha disposto una nuova perizia sulle cause della morte, analizzando la cartella clinica di Fallico e tutta la documentazione sanitaria disponibile. Il dibattimento è stato aggiornato al marzo 2016. Cinquantanove anni, Fallico era stato arrestato l’11 giungo 2009 con l’accusa di costituzione di banda armata. Era considerato uno dei fondatori delle nuove brigate rosse che stavano organizzando un attentato a La Maddalena, dove avrebbe dovuto svolgersi il G8 poi traferito a L’Aquila. Fu trasferito da Catanzaro a Viterbo nel 2010 poiché era sotto processo davanti alla Corte d’Assise di Roma. Porto Azzurro: il Garante dei detenuti Franco Corleone "si intravedono spiragli di luce" di Marco Ceccarini parlamento.toscana.it, 17 settembre 2015 Soddisfazione per la nomina del nuovo direttore della casa penale elbana; ad accompagnare il garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà è stato il garante dei detenuti di Livorno. "Quella di oggi è la terza visita che facciamo in un anno e mezzo a Porto Azzurro. Finalmente intravediamo uno spiraglio di luce rispetto al buio profondo del passato. La nota positiva è la presenza in via definitiva di un direttore, Francesco D’Anselmo, arrivato due mesi fa anche per merito delle nostre denunce. Porto Azzurro deve tornare ad essere un carcere in cui si sperimentano azioni pilota nel solco della sua stessa tradizione". Ad affermarlo è il garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà, Franco Corleone, che nel commentare la visita svolta oggi, mercoledì 16 settembre, alla casa penale di Porto Azzurro all’isola d’Elba, ha evidenziato: "Si è fatto anche la conoscenza del nuovo garante dei detenuti locale, Nunzio Marotti. La sua nomina è un segno di grande attenzione per i reclusi di Porto Azzurro". In tale carcere, ha aggiunto Corleone, "vi è da poco anche una nuova comandante della Polizia penitenziaria ed anche questo è un segnale estremamente importante". "Tra gli aspetti positivi vi è il fatto che entro breve saranno ristrutturati i bagni e quindi verranno eliminati quelli a vista, che rappresentano un’offesa alla dignità umana, e al contempo verranno aumentati gli spazi per la socializzazione e la cultura", ha continuato Corleone. Che ha annunciato l’intenzione di "migliorare l’accesso al sopravvitto sia in termini di riduzione dei prezzi che di aumento della qualità". Il sopravvitto è una sorta di negozio interno alle carceri, gestito in genere dalla stessa ditta che fornisce i pasti, dove i carcerati, che non hanno alternative, sono costretti a rivolgersi per poter acquistare ogni tipo di prodotto di cui hanno bisogno. "Tra gli aspetti negativi", ha aggiunto Corleone, "vi è invece la composizione dei detenuti, che non è adatta e va mutata, perché una casa penale come questa, pensata per detenzioni di medio o lungo periodo, non può essere utilizzata, oltretutto in un ambiente ristretto come quello isolano, come se fosse una casa circondariale, ossia per accogliere persone con detenzioni di breve periodo". Corleone ha inoltre auspicato un "sostanziale miglioramento della copertura sanitaria all’interno del carcere" evidenziando che "esso attualmente ospita 248 detenuti mentre ha una capienza per 363 ospiti". Ad accompagnare Corleone è stato il garante dei detenuti di Livorno, Marco Solimano, il quale ha evidenziato che "grazie alle novità, abbiamo trovato un clima più sereno" precisando tuttavia che "adesso è il momento di dare concretezza alle cose dette e alle enunciazioni di intenti". Tra gli auspici espressi da Corleone e da Solimano vi è la possibilità di raddoppiare la presenza di detenuti all’isola di Pianosa - sono una trentina, ndr - dove esiste un piccolo distaccamento carcerario dipendente da Porto Azzurro. Corleone ha affermato che "bisogna iniziare a ragionare su come Pianosa possa diventare un esperimento per la valorizzazione ambientale e il turismo sostenibile nel quadro del sistema carcerario". Infine, sia il garante regionale che quello di Livorno hanno auspicato che a Porto Azzurro possano riprendere le pubblicazioni del giornale La Grande Promessa, che per quasi mezzo secolo è stato una voce di libera espressione dei detenuti del carcere di Porto Azzurro. Parma: presentazione del libro "Diritti e castighi" in un incontro con Lucia Castellano di Carla Giazzi Gazzetta di Parma, 17 settembre 2015 Incontro con Lucia Castellano, ex direttrice di Bollate, invitata dall’associazione Marino Salvini. Costruire il "carcere dei diritti": questo il suo sforzo nei vent’anni nei cui è stata direttrice di istituti penitenziari. Soprattutto a Milano Bollate, dal 2002 al 2011 Lucia Castellano ha raccontato la sua esperienza, partendo dal libro. , nel primo dei tre incontri dedicati al "pianeta carcere", organizzati dall’associazione "Marino Salvini" con il patrocinio della Provincia. Con lei, a: Palazzo Giordani, Rocco Caccavari, presidente dell’associazione, e Anna Maria Ferrari, giornalista della Gazzetta di Parma. Un momento per ragionare sulla possibilità di benessere anche delle persone escluse, nelle parole di Caccavari, in una città, per anni, molto attenta al problema. Tra il pubblico, molto numeroso e attento, i parlamentari Patrizia Maestri e Giuseppe Romanini. Elena Saccenti, direttrice generale dell’Ausl, Giuseppina Gotti, direttrice del distretto di Parma, Paolo Volta, direttore delle attività socio-sanitarie, Francesco Ciusa, direttore dell’unità operativa salute nelle carceri, oltre a medici, educatori ed ex carcerati. Lucia Castellano inizia nel 1991 nel carcere di Marassi a Genova, passa per Eboli, Napoli Secondigliano, Alghero. Definisce la maggioranza delle carceri italiane un "mondo dell’insensatezza", guidato da regole ossessive e autoreferenziali. Lei guarda, invece, alla persona detenuta per costruirle attorno il massimo dei diritti possibili, sulla scia della riforma del 75 che punta alla rieducazione. Giornate autogestite, stanze aperte, liberta di movimenti, "pur consapevoli che da quelle mura non si può uscire", assistenza sanitaria come agli altri cittadini, niente sovraffollamento. Va controcorrente "l’aspetto vendicativo prevale an-cora sullo sforzo di produrre libertà e abbassare la recidiva". Che, a Bollate, è del 12 per cento rispetto alla media nazionale del 76 per cento.. Un risultato ottenuto con un forte lavoro di squadra assieme alla polizia penitenziaria: "Professionisti che fanno un lavoro ingrato, spesso vengono dal Sud e vivono nelle caserme. La loro vita assomiglia a quella dei detenuti, talvolta cadono nella tossicodipendenza e nell’alcolismo". Castellano li ha coinvolti nella vita del penitenziario e ha aperto alla società civile: "Se volontari, insegnanti, medici entrano in carcere, la vita acquista una sua normalità". Poi, ha fatto leva sul lavoro all’esterno, "che fa intravedere ai detenuti una porta che si apre". A Bollate, nel 2008, sono arrivate le detenute. Da questo tema è dall’esperienza femminile in un mondo maschile come il carcere, ha preso avvio l’intervista di Anna Maria; Ferrari, che ha ricordato, partendo da parole-cardine sul tema trattato, come le donne in carcere siano portatrici di una ulteriore fragilità. Sono solo 6 gli istituti femminili in Italia e 62 le sezioni femminili in strutture pensate per gli uomini, molto più numerosi. Il Garante: il problema più sentito? la salute "Roberto Cavalieri è, dal 2014, il garante per i diritti dei detenuti per il Comune di Parma, figura prevista dall’ordinamento penitenziario. A lui si rivolgono gli ospiti dei carcere quando ritengono di essere vittime della violazione di ‘un loro diritto, che sia di natura amministrativa, sanitaria, di trattamento. Intervenendo al convegno, Cavalieri ha sottolineato come le lamentele più ricorrenti e più sofferte sono quelle di carattere sanitario. In un carcere, quello di Parma, in cui ci sono tante persone con condanne motto lunghe, oltre 50 detenuti hanno più di 65 anni, 160 sono cardiopatici, 100 seguiti dall’unità psichiatrica. "Una struttura, dunque, in cui il bisogno sanitario è molto elevato e l’assistenza deve essere all’altezza. Non si possono accettare certificazioni sanitarie in cui le prescrizioni prevedono la clausola "fatti salvi i motivi di sicurezza". Se un detenuto ha bisogno di una carrozzina, di una stampella, dì medicinali, gli devono essere forniti. Sarà cura dell’amministrazione penitenziaria fare in modo che ciò avvenga in sicurezza. Agli operatori sanitari deve essere garantita la possibilità di pensare solo alla salute degli ospiti". Modena: la Garante regionale "magistrato di sorveglianza, soluzione non più differibile" Ristretti Orizzonti, 17 settembre 2015 Come riferisce Desi Bruno, il detenuto in coma dopo il tentato suicidio presentava "un evidente disagio psichico" e "il provvedimento di concessione dei domiciliari è arrivato il giorno dopo il gesto estremo". La carenza di organico nell’Ufficio di sorveglianza di Modena è un problema che la Garante regionale delle persone private della libertà personale, Desi Bruno, ha già segnalato, a partire da agosto 2014, contattando il ministro della Giustizia e il Consiglio superiore della magistratura, da quando cioè l’Ufficio "non riesce a garantire la piena operatività, mancando, nei fatti, il magistrato di sorveglianza con la titolarità della funzione". Come spiega Bruno, "al momento, a turnazione, un magistrato di sorveglianza svolge funzioni di supplenza con riferimento alle questioni dei detenuti condannati in via definitiva e degli internati degli istituti penitenziari di Modena e Castelfranco Emilia, oltre a mantenere la competenza territoriale sulle strutture rispetto alle quali ha la titolarità della funzione": di conseguenze, avverte la figura di garanzia dell’Assemblea legislativa regionale, "le funzioni di supplenza sono espletate, per lo più, con riferimento alle questioni urgenti, verificandosi gravi disagi, ripetutamente segnalati, per la popolazione detenuta e internata, in ragione del blocco dell’attività ordinaria di esame delle istanze, con conseguente interruzione dei percorsi trattamentali esterni". E "anche il detenuto con un evidente disagio psichico, ora in coma, che aveva posto in essere un tentativo suicidario presso il carcere di Modena- sottolinea Bruno- attendeva il provvedimento di concessione dell’esecuzione della pena presso il domicilio, che è arrivato il giorno dopo il gesto estremo". Per questo motivo, conclude la Garante, "ora l’individuazione di una soluzione non è più differibile"; per questo, le istituzioni competenti "dovrebbero procedervi con urgenza affinché venga rispettato il diritto delle persone condannate in via definitiva e di quelle internate a ricevere una risposta alle istanze presentate secondo quanto previsto dall’ordinamento penitenziario". Rovigo: Sbriglia (Prap) "entro 6 mesi ministero Infrastrutture consegnerà nuovo carcere" di Anita Cezza Rovigo Oggi, 17 settembre 2015 "Strategico per l’amministrazione penitenziaria" dichiara il Provveditore regionale per il Triveneto Enrico Sbriglia, che aggiunge "entro la prossima estate sarà operativo". Il carcere di Rovigo si deve fare. Lo vuole il ministero della Giustizia, che tramite il provveditore per il Triveneto, Enrico Sbriglia, fa sapere che "è una struttura strategia per l’Amministrazione penitenziaria". Sbriglia ha anche ricordato che il carcere è di competenza del ministero delle Infrastrutture, almeno fino a che non verranno effettuati i lavori di completamento dello stesso. Solo dopo sarà di competenza del Guardasigilli Andrea Orlando da cui il Provveditorato dipende. Una domanda sorge spontanea: ma i parlamentari Diego Crivellari e Bartolomeo Amidei perché hanno presentato interrogazioni al ministro Orlando quando forse la richiesta a Delrio sarebbe stata più pertinente? Fiumi di inchiostro spesi per nulla e tante parole gettate al vento. Il carcere di Rovigo, aprirà presumibilmente entro la prossima estate perché è "strategico per l’Amministrazione penitenziaria". L’annuncio arriva direttamente dal Enrico Sbriglia, provveditore regionale per il Triveneto, ossia l’ufficio periferico del ministero della Giustizia, dipendente dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap). Ma c’è di più. Secondo Sbriglia la struttura, i cui lavori sono fermi dal 2013, è di competenza del ministero delle Infrastrutture. "L’Amministrazione penitenziaria è destinataria dell’edificio ed è interessata affinché quest’opera le venga consegnata. Credo che entro sei mesi il ministero delle Infrastrutture ci farà entrare in possesso del carcere" sostiene Sbriglia. Il dicastero di Graziano Delrio nel frattempo dovrà occuparsi di una serie di lavori di completamento. "Il 24 luglio scorso ho effettuato un sopralluogo per una ricognizione tecnica. Erano presenti anche il responsabile del centro sanitario del carcere, alcuni dirigenti, ingegneri e tecnici del Provveditorato per prendere atto della situazione perché la nostra intenzione è quella di aprire" afferma Sbriglia. Solo una volta che gli interventi saranno eseguiti la struttura passerà di competenza al ministero della Giustizia, che necessiterà di alcuni mesi per occuparsi "gli arredi, le attrezzature e ciò che non era contemplato negli appalti" come precisa Sbriglia. A riprova di ciò il Provveditore afferma: "Abbiamo già le piantine dell’istituto, stiamo capendo quante brande, comodini, tavoli servono, al fine si stimare già da ora l’ammontare dei beni strumentali da acquisire e renderlo fruibile al più presto". "A breve effettuerò un’altra ricognizione e ho fissato già un incontro per domani pomeriggio, giovedì 17 settembre, con il Magistrato della acque per discutere della questione e di eventuali difficoltà" continua Sbriglia. Stando alle parole del Provveditore dunque, il carcere sarebbe sempre stato una priorità del Governo, mentre il prefetto Francesco Provolo si era detto pessimista ad una apertura imminente. Un importante segnale di vicinanza da parte del Governo centrale la cui presenza, dopo l’annuncio della chiusura della Prefettura e della Questura, si stava lentamente affievolendo, creando malumori e scontento tra i polesani. Niente spreco di denaro pubblico dunque, ma una struttura presto funzionante che potrebbe diventare un "polmone economico per la città" come sottolinea il Provveditore. Non dimentichiamo infatti che nell’attuale Casa circondariale di Rovigo i detenuti non vengono impiegati in alcun tipo di mansione, che potrebbe riqualificarli per il reinserimento nella società. Se, invece, il nuovo carcere entrasse in funzione si potrebbe contare su un reparto, o meglio su un capannone, dedicato ai lavori per i detenuti, con un beneficio per le cooperative o gli imprenditori chiamati ad assisterle. Si registrerebbe inoltre una ricaduta positiva sull’indotto che si creerebbe intorno alla struttura. Più che un carcere un piccolo nuovo quartiere (dovrebbe ospitare circa 400 detenuti) da mantenere e che potrebbe foraggiare alcune imprese della zona, con sbocchi occupazionali notevoli. "L’intenzione del ministero della Giustizia è quella di avere subito l’opera" ribadisce Sbriglia che ricorda anche che il Provveditorato non si è occupato dei bandi di gara, indetti invece dal ministero delle Infrastrutture, ma che quando sono stati chiesti soldi al Dap "per ulteriori esigenze, questi sono stati assicurati". La somma in questione ammonterebbe a 233.750 euro. E il problema legato alla mancanza del personale? A sentire Sbriglia non sussisterebbe. "Sicuramente il Ministero provvederà a fare arrivare il personale necessario" afferma. Ora tutto torna. Quale giovamento avrebbe avuto l’Italia a lasciare abbandonata una struttura così imponente, che ha già dragato 29 milioni di euro, dopo la condanna europea per il sovraffollamento delle carceri? Vero che l’incostituzionalità della Fini-Giovanardi e il decreto Svuota carceri hanno diminuito il numero dei detenuti, ma non dimentichiamo che a fronte di una capienza massima di 49.552 posti quelli ospitati ammontano a 52.754. Rovigo: Pegoraro (Cgil) "ristrettezza risorse colpisce sia polizia penitenziaria sia detenuti" Rovigo Oggi, 17 settembre 2015 La denuncia di Gianpietro Pegoraro, sindacalista di Fp-Cgil. La vecchia casa circondariale di Rovigo versa in condizioni fatiscenti ma i detenuti non sono gli unici ad avvertire problemi. La situazione non è rosea neppure per gli agenti della polizia penitenziaria, pochi e con un’età media sempre più avanzata causa la riduzione delle assunzioni. E così diventa sempre più difficile occuparsi dei detenuti. "Di respirare la stessa aria di un secondino non mi va, perciò ho deciso di rinunciare alla mia ora di libertà" recita una famosa canzone del cantautore Fabrizio De Andrè, ma forse i detenuti del carcere di Rovigo all’ora di libertà non hanno proprio voglia di rinunciare. L’alternativa sarebbe infatti quella di rimanere in una struttura fatiscente in cui i lavori più imponenti che vengono effettuati sono… le pulizie degli ambienti. Ogni intervento atto a rendere la struttura più sicura e abitabile fino ad oggi è stato rimandato in attesa dell’apertura del nuovo penitenziario, segnala chi la situazione di via Verdi la conosce bene. Per non parlare poi delle occupazioni alle quali i detenuti potrebbero essere destinati, o dei corsi che potrebbero frequentare, per imparare un mestiere e reinserirsi nella società una volta scontata la pena ed acquisita la libertà. Opportunità che nella Casa circondariale di Rovigo a oggi non esistono. I carcerati non sarebbero i soli poi ad avvertire difficoltà. "Ci sono due problemi per gli agenti di polizia penitenziaria - sostiene Gianpietro Pegoraro poliziotto della penitenziaria e referente del sindacato Fp-Cgil - Innanzitutto non c’è turnover. Poi spesso viene ordinato il distaccamento del personale che viene temporaneamente mandato in altre sedi e questo influisce molto sul funzionamento del carcere". I numeri dei poliziotti sono insufficienti, mentre il ricambio ridotto all’osso fa crescere l’età media. A ciò si aggiunge l’imminente pensionamento di 6 dei 56 agenti in forza alla Casa circondariale di Rovigo. "A metà ottobre vi sarà un concorso per l’assunzione di 400 persone a livello nazionale, a riprova dell’anzianità del personale e di quanto sia necessario far qualcosa" conclude Pegoraro. Caltanissetta: Osapp; insetti ed escrementi di topi in mensa agenti nel carcere di Gela ilfattonisseno.it, 17 settembre 2015 Nella "mensa obbligatoria di servizio" della casa circondariale di Gela sono stati trovati "insetti ed escrementi di topo, sul piano-cottura e nei locali". A denunciarlo è Rosario Di Prima, segretario regionale del sindacato di polizia penitenziaria Osapp, che ha richiesto "l’intervento immediato dei Nas di Ragusa, competenti per territorio, all’ufficio di igiene degli alimenti dell’Asp di Caltanissetta, alla procura della Repubblica presso il Tribunale di Gela e ai vertici regionali e nazionali del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, per le carenti condizioni igieniche sanitarie" riscontrate nelle carceri gelesi. L’attività di cottura e di distribuzione del cibo è stata temporaneamente sospesa da parte della ditta che gestisce il servizio di ristorazione, per essere ripresa dopo una sommaria pulizia, malgrado le proteste dei commensali. Il segretario regionale dell’Osapp "ha espresso preoccupazione per la salute del personale che quotidianamente fruisce del servizio mensa". Alessandria: Sappe; aggressione in carcere, le precisazioni dalla Casa circondariale radiogold.it, 17 settembre 2015 Dopo la dichiarazione del direttore della Casa Circondariale di Alessandria in merito all’aggressione di un agente da parte di un detenuto, il segretario generale del Sappe - Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Donato Capece è nuovamente intervenuto a mezzo stampa. "Sorprende invece leggere che per la Direzione della Casa Circondariale di Alessandria l’aggressione violenta di un detenuto ai danni di un poliziotto penitenziario è da considerarsi "fatto non rivestente gravità ed urgenza". Un fatto evidentemente ritenuto normale per chi ha predisposto il comunicato stampa della Direzione del carcere, che è invece per noi assolutamente grave. Una valutazione che mi sembra assolutamente in controtendenza rispetto all’impegno chiesto dal Capo dell’Amministrazione Penitenziaria, il magistrato Santi Consolo, ai Provveditori regionali penitenziari ed ai direttori delle carceri in una sua recente nota ministeriale: ossia, "la necessità di salvaguardare, innanzitutto, l’incolumità del personale" di Polizia Penitenziaria… Lascio ai lettori ogni ulteriore giudizio, commento e riflessione". Il 9 settembre scorso il sindacato Sappe aveva segnalato un caso di aggressione all’interno dell’istituto. Donato Capece, segretario generale del sindacato aveva riferito che un detenuto straniero, appena giunto in carcere, durante le procedure di ingresso aveva improvvisamente colpito al volto con un pugno un assistente Capo del Corpo di Polizia Penitenziaria. Il Sappe aveva inoltre lamentato le difficoltà nel rintracciare il Direttore dell’Istituto per informarlo dell’accaduto. Dalla Casa Circondariale di Alessandria oggi è arrivata la replica della Direzione che ha fornito la seguente versione dei fatti: "in riferimento ai fatti occorsi il 9 settembre presso l’istituto penitenziario circondariale della città di Alessandria circa l’aggressione di un agente ad opera di detenuto, si precisa che l’aggressore è soggetto straniero arrestato per il reato di resistenza a pubblico ufficiale dai Carabinieri della Stazione di Incisa Scapaccino. Risultato non collaborativo, alla prima esperienza detentiva, ha mostrato aggressività e violenza nei confronti del personale di Polizia penitenziaria e riluttanza anche alle visite mediche. Il fatto, inoltre, non rivestente gravità ed urgenza, ha fatto sì che la notizia alla direzione dell’ istituto fosse rimandata al giorno seguente e non piuttosto nella stessa serata dell’accaduto, come avviene in altri casi, fermandosi a solo due tentativi, distanti tra loro due minuti, di chiamata ad una utenza telefonica risultata irraggiungibile e alla cui segreteria non veniva lasciato alcun messaggio. Pleonastico aggiungere che i centralini, per la loro natura di utenza anonima, non lasciano traccia di chiamata sulle utenze cellulari che avrebbe indotto alla direzione di richiamare il numero registrato. L’assenza di urgenza, si ribadisce per l’appunto, ha fatto sì che la notizia pervenisse nella tarda mattinata del giorno seguente, ancora telefonicamente, in quanto la direzione, come anche tutti gli altri dirigenti della Repubblica, si trovava per servizio a Roma su convocazione dell’On. Ministro della Giustizia". Perché la Ue non ha voluto decidere di Giuseppe Chiellino Il Sole 24 Ore, 17 settembre 2015 Per capire l’immobilismo e l’incapacità di decidere dell’Unione europea (e degli Stati membri) sull’emergenza migranti occorre entrare nelle bizantine architetture che governano le istituzioni comunitarie. Lunedì scorso il Consiglio Affari interni avrebbe potuto agevolmente adottare le proposte della Commissione, presentate dal Jean Claude Juncker pochi giorni prima in Parlamento. Come ha scritto anche questo giornale, i cinque paesi contrari (Polonia, Ungheria, Slovacchia, Repubblica Ceca e Romania, tutti entrati con il big bang del 2004) non disponevano dei voti sufficienti per fare "minoranza di blocco". In base alle regole di voto del Consiglio, dunque, la decisione sarebbe passata con la maggioranza qualificata richiesta. È successo però che il Consiglio, anziché adottare la decisione, ha approvato "conclusioni" della presidenza che, in base ai trattati, non hanno alcun valore legale e dunque non obbligano nessuno. L’artefice principale di questo esito è stato il presidente, Donald Tusk, ex premier della Polonia, dove si vota a ottobre e uno dei cinque Paesi contrari. Questa decisione ha sterilizzato, in pratica, la regola del voto a maggioranza, conquista importante degli ultimi anni. Non è la prima volta che accade. Ma Tusk non ha fatto tutto da solo. Questa volta ha agito con alcune "complicità". La prima è stata quella del servizio giuridico del Consiglio, guidato dal direttore generale Hubert Legal (francese ma sponsorizzato anche dalla Germania) il quale, come spiegano fonti autorevoli, "ha inventato una regola inesistente: le "conclusioni" del Consiglio sono diverse dalle sue "decisioni" e dunque passano all’unanimità invece che a maggioranza qualificata". In realtà, il trattato Ue dice semplicemente che "il consiglio delibera a maggioranza qualificata, salvo i casi in cui è trattati dispongano diversamente". Ma non era questo il caso. L’altra "complicità" di cui Tusk ha potuto beneficiare lunedì scorso è stata quella di Frans Timmermans, primo vicepresidente della Commissione che, anziché svolgere il ruolo di "guardiano dei trattati", vigilando sulla loro applicazione (articolo 17), ha assistito passivamente a quanto stava accadendo nella riunione, senza chiedere il voto come avrebbe potuto fare. In buona sostanza, non ha fatto nulla per tutelare "l’interesse generale dell’Unione", lasciando spazio alla deriva intergovernativa che sta soffocando l’idea comunitaria. E non si tratta solo di un danno d’immagine per "l’Europa" che sempre più viene percepita dai cittadini come un pachiderma imbolsito dalla burocrazia e incapace di decidere. C’è, evidentemente, anche un danno concreto e molto più grave: non decidere significa aggravare l’emergenza dei profughi alle frontiere. Se, come sembra, il dossier passerà dai ministri degli Interni al vertice dei premier, l’impasse sarà completa: il Consiglio europeo, composto dai capi di Stato e di governo, decide "per consenso", dunque all’unanimità, e chiunque potrà bloccare le proposte di Juncker. Salvo aprire il solito suq che accontenta tutti ma lascia i problemi irrisolti. Confini da morire di Marco Bascetta Il Manifesto, 17 settembre 2015 Il trattato di Schengen è a un passo dalla fine. Non nel senso di una sospensione temporanea, ma in quello di una sua definitiva sepoltura più o meno mascherata. E, venuto meno il diritto alla libera circolazione delle persone all’interno dell’Unione europea, il passo verso il suo completo disfacimento è con tutta evidenza assai breve. I trattati europei, come sappiamo, prevedono sospensioni e deroghe in caso di emergenza, principio a prima vista ragionevole. Ma l’emergenza è un’espressione tutt’altro che univoca. A volte, pur reale, come l’allarme lanciato dalle coste mediterranee italiane e greche, trova ascolto tardivo e reticente, altre volte discende dall’arbitrio di questo o quell’interesse nazionale, o dall’enfatizzazione strumentale di minacce immaginarie. Nel caso della grande ondata migratoria, poi, trattandosi di un processo storico di lunga durata (negli Usa c’è chi lo stima a un paio di decenni) tra sospensione e abolizione passa ormai poca differenza. Il ritorno dei confini è un processo a catena al quale sarà impossibile imporre una qualche regola comune. E se pure tutti dovessero accettare la loro quota di rifugiati come si costringerà questi ultimi ad accettare il posto assegnato e rimanervi imprigionati? Dopo il nulla di fatto del vertice Ue di lunedì, l’appuntamento è fissato al 22 di settembre. Il tempo stringe, nel giro di pochi giorni può accadere letteralmente di tutto. Compresa l’eventualità che i soldati di Orban comincino a sparare sui profughi che tentano di sottrarsi alla cattura. Già siamo oltre l’immaginabile quando un paese dell’Unione schiera tribunali da campo e giudici da battaglia lungo la frontiera per esercitare "giustizia" sommaria sui migranti. Se un nazionalismo sempre più incarognito regna incontrastato in buona parte delle discutibili "democrazie postcomuniste", anche a occidente priorità e interessi nazionali si fanno pericolosamente strada. La "generosità" del governo di Berlino, subito celebrata come un ritrovato primato morale della Germania, lascia rapidamente il passo a un "ordinato" processo di assorbimento secondo i ritmi e le necessità della macchina economica tedesca. Questo significa frontiere sotto stretto controllo e un capillare sistema di filtraggio nei paesi di confine tra l’Europa e le terre del caos. Sistema cui è stato conferito il nome civettuolo di hotspot. Mentre l’Unione regredisce verso un mercato comune, peraltro fortemente squilibrato, le sovranità nazionali si dedicano, una dopo l’altra, certo con strumenti e retoriche diverse, a edificare i propri muri legislativi e fisici. E le barriere non si situano esclusivamente ai confini dell’Unione. Prima l’euroscettica Gran Bretagna manifesta l’intenzione di sfoltire i cittadini comunitari che la popolano e vi lavorano, poi la Corte di giustizia europea autorizza la Germania a negare prestazioni e sussidi ai cosiddetti "turisti del welfare" e cioè a quei precari che si spostano nell’area Schengen verso i paesi in cui l’intermittenza del lavoro non equivale a indigenza assoluta. Ma Berlino non si accontenta della sentenza favorevole e vorrebbe rimuovere anche le poche limitazioni che la Corte pone all’estromissione dal sistema previdenziale. Infine c’è chi vorrebbe escludere i profughi dal salario minimo per favorire l’impiego dei meno qualificati. Per fortuna tanto la Spd, quanto la centrale sindacale Dgb si oppongono non tanto per il dichiarato intento egualitario, quanto nel timore di una competizione al ribasso sul mercato del lavoro. Ma è noto che il governo federale si pone da tempo l’obiettivo di rendere "meno attraente" il sistema di welfare tedesco per smorzare gli appetiti dei migranti comunitari o extracomunitari che siano. Ciò può essere fatto in due modi. O escludendo i nuovi arrivati da una serie di diritti e tutele, istituendo di fatto una popolazione di serie B, alla faccia di ogni principio e al prezzo di future tensioni, oppure limitando gli ammortizzatori sociali per tutti attraverso una ulteriore torsione liberista della cosiddetta "economia sociale di mercato". Soluzione che incontrerebbe però non poche resistenze interne. Sono tutti scricchiolii che annunciano il cedimento strutturale del progetto europeo. La crisi greca aveva già assestato un duro colpo non solo all’Europa politica, ma anche alla stessa tenuta economica e sociale dell’eurozona. Tuttavia le modeste schermaglie tra falchi e colombe più inclini all’opportunismo che ai buoni sentimenti, non aveva intaccato il quadro di una Europa complessivamente accodata all’egemonia di Berlino contro le rivendicazioni strenuamente "europeiste" del governo di Atene condannato all’isolamento. Ma non era ancora entrata in scena quella guerra di tutti contro tutti, quella diffidenza reciproca, quel riflesso protezionista, quella chiusura identitaria che la grande ondata dei profughi sembra avere innescato, cancellando in un batter d’occhio le parole edificanti di Angela Merkel. Il nazionalismo, come la chiusura delle frontiere, è un fenomeno altamente contagioso. C’è da dubitare che Berlino o Bruxelles condurranno l’Europa ad imporre ai regimi semi democratici dell’Est, presso i quali la Germania coltiva importanti interessi economico-finanziari, un memorandum politico altrettanto stringente di quello economico imposto alla Grecia. Se non possono essere cacciati dall’euro, altri strumenti di pressione sono comunque disponibili. Ma la Cancelliera si è affrettata a precisare che in questo caso le minacce non sono indicate. I sostenitori delle sovranità nazionali, che da destra e da sinistra strizzano l’occhio a Victor Orbán, certamente si indigneranno di fronte all’eventualità di un ennesimo "diktat" europeo sul diritto di asilo. Sia chiaro però con quali torvi personaggi, con quali contenuti politici, con quali infami ideologie si accompagnano sotto la bandiera della nazione e contro l’integrazione europea. Quanti concordano implicitamente con l’affermazione di Marine Le Pen secondo cui il discrimine "non è tra destra e sinistra, ma tra nazionalisti e mondialisti" si esprimano infine con altrettanta chiarezza. Sapremo così con chi abbiamo a che fare. Cariche e gas contro i profughi di Massimo Congiu Il Manifesto, 17 settembre 2015 Ungheria. Polizia ungherese scatenata contro migliaia di profughi esasperati che hanno cercato di abbattere il muro al confine con la Serbia chiedendo di entrare: 300 i feriti. Arrestate 316 persone. Tutto è cominciato così: martedì un centinaio di migranti ha cominciato uno sciopero della fame in segno di protesta contro la chiusura della frontiera e accompagnato con urla, slogan e fischi il passaggio degli elicotteri che pattugliano la zona dall’alto. È Horgos, adesso, il principale teatro della tensione al confine ungaro-serbo. È lì, in territorio serbo che alcune migliaia di migranti e profughi sono rimasti bloccati e in poco tempo la tensione è cresciuta ed è sfociata nei pesanti scontri che si sono registrati ieri. Si sono verificati dei disordini sul posto quando gruppi di migranti hanno lanciato delle coperte sul filo spinato per poi tirarle cercando di abbattere la protezione. Hanno tirato pietre contro gli agenti di polizia che hanno reagito facendo ricorso all’equipaggiamento antisommossa. Il livello della tensione è cresciuto al valico di Horgos 2, i migranti che si sono accalcati di fronte al reticolato reclamavano l’apertura del confine: "Open this door! Open this door!" urlavano. Sono arrivati fin lì dopo un lungo viaggio intrapreso per proseguire verso i paesi dell’Europa occidentale più forti dal punto di vista economico. L’attesa però è risultata snervante e le manifestazioni di protesta con conseguente tentativo di buttar giù l’odiata barriera sono state il segno dell’esasperazione che regna in quel punto del territorio serbo. Ma non è finita lì: la pressione contro la barriera è continuata, la polizia ha cercato di contenerla e la folla, dall’altra parte del reticolato ha risposto lanciando bottigliette d’acqua. Le forze dell’ordine sono intervenute con i lacrimogeni e i cannoni ad acqua per disperdere i numerosi manifestanti che hanno cercato con ogni mezzo di superare la linea di confine sorvegliata dalle forze dell’ordine che bloccano qualsiasi accesso. Si parla di centinaia di agenti impegnati nell’operazione sostenuti da unità speciali anti-terrorismo con mezzi blindati. In più Budapest ha chiesto alle autorità serbe di intervenire nei confronti dei migranti che lanciano pietre, bottigliette e altri oggetti contro la polizia ungherese. Un bilancio degli scontri diffuso a sera dalle autorità ungheresi parla di 300 migranti feriti. Secondo un funzionario dell’Onu presente sul posto i manifestanti non hanno comunque sfondato la recinzione. La polizia ungherese ha annunciato di aver arrestato 316 migranti che cercavano di entrare nel paese illegalmente. Ormai, con le nuove norme entrate in vigore alla mezzanotte del 15 settembre, questi tentativi vengono puniti con l’espulsione o il carcere. I profughi che hanno fatto domanda di asilo sono al momento 70, 40 domande sono già state respinte. Il governo ungherese aveva già chiarito che la distinzione tra coloro i quali fuggono da guerre e persecuzioni e i migranti per motivi economici è fondamentale. Questi ultimi vanno rimandati indietro. Diversi organi di stampa riferiscono della prima condanna emessa dalle autorità ungheresi nei confronti di un migrante iracheno per aver tentato di entrare nel paese illegalmente. Martedì sera diversi migranti, soprattutto donne e bambini, hanno accettato ospitalità nel centro di prima accoglienza di Kanjia dove passare la notte. Si parla al momento di circa 250 persone. Gli altri hanno preferito restare fuori, di fronte alla barriera di metallo e filo spinato, e hanno dormito sull’asfalto o nelle tende che hanno montato al loro arrivo. Intanto ci sono gruppi di migranti che cercano vie alternative per aggirare la barriera al confine ungaro-serbo e continuare il loro viaggio. Alcuni di essi hanno raggiunto il confine serbo-croato di Sid e nella notte tra martedì e mercoledì i primi 150 migranti provenienti dalla Serbia sono arrivati in Croazia; ieri il loro numero è salito a 277. Nel paese balcanico sembra ci sia una maggiore propensione a consentire il passaggio di questa gente in cammino verso le destinazioni prescelte. Il primo ministro croato Zoran Milanovi ha infatti affermato che Zagabria lascerà passare i migranti e i profughi giunti nel paese per evitare la barriera ungherese sorvegliata da un ampio dispiegamento di forze. Il vicepremier Ranko Ostoji ha precisato che il paese attende per i prossimi giorni l’arrivo di 4 mila migranti. Martedì sera, in conferenza stampa, il ministro degli Esteri ungherese Péter Szijjártó ha annunciato la decisione del governo di dar luogo ai preparativi per estendere la barriera protettiva al confine con la Romania e secondo diverse fonti le autorità di Budapest hanno iniziato le operazioni di misurazione malgrado gli appelli contro iniziative di questo genere da parte dell’Unione europea e della Chiesa. "I migranti che non riescono più a entrare in Ungheria dalla Serbia potrebbero provare a farlo dalla Romania" ha precisato. Ma gli intendimenti di Budapest hanno provocato la reazione del primo ministro romeno Victor Ponta il quale, secondo una nota diffusa dal ministero degli Esteri ungherese, avrebbe definito i vertici ungheresi peggiori di quelli siriani e libici che hanno causato l’esodo avvenuto nei loro paesi. Il premier ha aggiunto che, in quanto leader europeo, il suo compito è criticare determinate manifestazioni dei governanti ungheresi. Esse, secondo Ponta "offendono i valori europei". La reazione di Budapest non si è fatta attendere: "Victor Ponta ha perso l’autocontrollo - ha affermato Szijjártó citato dalla nota del ministero - e ha offeso tutta l’Ungheria con esternazioni insensate". Esternazioni che secondo il capo della diplomazia ungherese meritano una vibrante protesta e sono la prova che il primo ministro di Bucarest ha perso il controllo della situazione interna romena. Intanto però si è saputo che Budapest intende procedere in questo stesso modo anche al confine con la Croazia che la Slovenia ha reso noto che introdurrà a titolo provvisorio i controlli alla frontiera con l’Ungheria. Si ha anche notizia di una recinzione metallica costituita da diversi elementi e posta dalle autorità slovacche al confine con il paese governato da Viktor Orbán. Lo ha riferito l’agenzia di stampa ungherese Mti che parla di un provvedimento preso da Bratislava a protezione dei valichi di frontiera con l’Ungheria e l’Austria a titolo provvisorio dopo l’annuncio della Germania di voler ripristinare temporaneamente i controlli alle sue frontiere. Droghe: la svolta dell’Onu "depenalizzare l’uso personale di tutte le sostanze" farmacistaonline.it, 17 settembre 2015 Senza distinzione tra "pesanti" e "leggere". La Raccomandazione. Il documento verrà discusso il prossimo 28 settembre a Ginevra. Si chiede la totale depenalizzazione dell’uso e del consumo personale delle sostanze; misure alternative a qualsiasi tipo di restrizione della libertà personale per i tossicomani ; la promozione delle politiche di "riduzione del danno" e un ampio accesso alle medicine essenziali a base di oppio. In apertura della 30esima sessione del Consiglio dei Diritti umani delle Nazioni unite, l’Alto Commissario ONU per i diritti umani, il principe giordano Zeid Ràad Zeid Al-Hussein, ha reso note una serie di raccomandazioni per limitare gli impatti negativi che l’attuale sistema internazionale del "controllo delle droghe" ha sui diritti umani. Il documento è il frutto di una consultazione con altre agenzie del sistema delle Nazioni unite e una trentina di paesi. Il documento, che verrà discusso il 28 settembre prossimo a Ginevra in tre ore di dibattito pubblico, chiede la totale depenalizzazione dell’uso e del consumo personale delle sostanze, senza far distinzione tra "leggere" e "pesante"; misure alternative a qualsiasi tipo di restrizione della libertà personale per i tossicomani con problemi penali; la promozione delle politiche di "riduzione del danno" a partire dalle terapie sostitutive (senza auspicare dosaggi a scalare); una piena informazione per i minori sull’uso delle sostanze; politiche che non discriminino gruppi etnici o le donne, nonché ampio accesso alle medicine essenziali a base di oppio (quindi fortemente ristrette nella produzione e la circolazione) specie per i paesi in via di sviluppo. Altro passaggio rilevante è il riconoscimento che le droghe possano esser "usate" e non se ne faccia, sempre solo e comunque, "abuso". Queste le raccomandazioni. 1) Il diritto alla salute deve essere protetto per assicurare che tutte le persone che usano le droghe abbiano accesso all’informazione relativa alla salute e perché le cure e non subiscano alcun tipo di discriminazione. I programmi di riduzione del danno, in particolare le terapie sostitutive con oppiacei devono esser disponibili e offerte alla persone con problemi di dipendenza, specialmente per coloro che sono in prigione o in altri regimi di custodia. Considerazione deve esser data a rimuovere ostacoli per il diritto alla salute includendo la decriminalizzazione dell’uso e del possesso personale di droghe; inoltre i programmi pubblici relativi alla salute devono esser aumentati. Il diritto alla salute richiede un miglior accesso alle medicine essenziali specialmente nei paesi in via di sviluppo. 2) La proibizione degli arresti e della detenzione arbitraria, la tortura e tutte le altre forme di maltrattamenti nonché il diritto a un giusto processo devono esser protette in accordo con le norme internazionali, incluso il rispetto delle persone che sono arrestate, detenute o incriminate per reati connessi alle droghe. Alle persone con problemi di dipendenza in regime di custodia non possono essere negate le terapie sostitutive anche come mezzo per estorcere confessioni o altre informazioni. Le terapie a base di oppiacei devono esser offerte, in ogni circostanza, poiché fanno parte del suo diritto alla salute. I centri di detenzione obbligatoria per persone con dipendenze devono esser chiusi. 3) Il diritto alla vita delle persone arrestate per crimini legati alle droghe deve esser protetto nel rispetto dell’articolo 6 del Patto internazionale sui diritti civili e politici e della giurisprudenza del Comitato Onu sui diritti civili e politici. Queste persone non devono esser soggette alla pena di morte. Il diritto alla vita deve esser sempre protetto dalle forze dell’ordine nei loro sforzi relativi al perseguimento dei crimini relativi alle droghe e tenuto di conto nell’eventuale uso della forza in modo proporzionale. Le esecuzioni extra-giudiziarie devono esser immediatamente soggette a indagini efficaci e indipendenti per assicurare alla giustizia i responsabili. 4) Le minoranze etniche e le donne, che hanno droghe in loro possesso, o che sono dei "micro-distributori" devono esser protetti dalla discriminazione. Considerazione deve esser data alla riforma di leggi e politiche per affrontare gli impatti più disparati di tali politiche sulle minoranze e le donne. Occorre fornire una preparazione specifica per gli operatori delle forze dell’ordine e dei servizi sociali che entrano in contatto con chi usa le droghe al fine di eliminare le discriminazioni. 5) Prendere in seria considerazione il grave impatto che un arresto per motivi di droga può avere sulla vita di una persona; occorre immaginare alternative all’incriminazione e all’incarcerazione di chi è responsabili di condotte minori e "non-violente" collegate agli stupefacenti. Conseguentemente, riforme miranti al ridurre l’eccessiva carcerizzazione dovrebbero esser prese in considerazione. 6) I diritti dei fanciulli devono esser protetti focalizzandosi sulla prevenzione e comunicando, in un modo che possa esser appropriato ai bambini e a persone in tenera età, le informazione relative ai rischi di trasmissione dell’Hiv e altri virus trasmessi per via ematiche e per l’assunzione di sostanze per endovena. I bambini non devono esser soggetti a procedimenti giudiziari, le risposte a tali problemi devono esser trovate nell’educazione sanitaria, nelle cure, inclusi i programmi di riduzione del danno e reintegrazione sociale. 7) I popoli indigeni hanno il diritto di seguire le loro pratiche tradizionali, culturali e religiose. Là dove le droghe sono parte di queste pratiche, il diritto all’uso per questi specifici scopi deve esser protetto nel rispetto delle limitazioni previde dalle norme relative ai diritti umani. Emirati Arabi: firmati accordi con l’Italia per estradizioni e cooperazione giurdiziaria Agi, 17 settembre 2015 Il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha firmato ieri mattina con il suo omologo emiratino Sultan bin Saeed Al Badi un Trattato di estradizione e un Accordo di cooperazione giudiziaria in materia penale fra i due Paesi. Le due intese, spiega via Arenula, puntano a migliorare e intensificare la collaborazione fra Italia ed Emirati Arabi Uniti in materia di giustizia, alla luce, da un lato, della crescita dei rapporti economici, finanziari e commerciali e dell’aumento esponenziale del numero di connazionali residenti negli Eau e, dall’altro, dell’aumento delle richieste di estradizione e di assistenza giudiziaria formulate da parte italiana. In particolare, con il Trattato di estradizione i due Paesi si impegnano reciprocamente a consegnare persone ricercate che si trovano sul proprio territorio, per dare corso ad un procedimento penale o consentire l’esecuzione di una condanna definitiva. L’Accordo di mutua assistenza giudiziaria impegna invece Italia ed Emirati Arabi Uniti a collaborare in materia di ricerca e identificazione di persone, notificazione di atti e documenti, citazione di soggetti coinvolti a vario titolo in procedimenti penali, acquisizione e trasmissione di atti, documenti ed elementi di prova, informazioni relative a conti presso istituti bancari e finanziari, assunzione di testimonianze o di dichiarazioni (inclusi gli interrogatori di indagati ed imputati), espletamento e trasmissione di perizie, esecuzione di attività di indagine, effettuazione di perquisizioni e sequestri, nonché sequestro, pignoramento e confisca dei proventi del reato e delle cose pertinenti al reato. L’accordo prevede inoltre che l’assistenza possa essere accordata anche in relazione a reati tributari e fiscali. Alla luce delle "eccellenti relazioni fra i due Paesi che il Governo Renzi ha saputo consolidare", sottolinea il ministero della Giustizia, Orlando "ha espresso l’auspicio che i due accordi possano avere immediata operatività anche prima della loro entrata in vigore, prevista a seguito di ratifica parlamentare per l’Italia e del Consiglio Supremo Federale per gli Emirati Arabi. Con il ministro emiratino, il guardasigilli ha infine affrontato i temi della lotta al terrorismo e al crimine organizzato transnazionale, nonché la possibilità di favorire lo scambio di esperienze formative fra magistrati e di avviare futuri negoziati per regolare il trasferimento dei detenuti e la cooperazione in materia civile e commerciale. Cuba: per Amnesty International ancora molto da fare sui diritti umani Adnkronos, 17 settembre 2015 "Cuba vive un momento di grande apertura nelle relazioni internazionali. Tuttavia, nel campo dei diritti umani, nonostante evidenti progressi (quali il rilascio dei prigionieri politici e la riforma della legislazione in materia di emigrazione, attraverso l’abolizione del visto obbligatorio di uscita), i diritti alla libertà d’espressione, di associazione, riunione e movimento non sono ancora garantiti". È quanto afferma Amnesty International esprimendo una valutazione sull’attuale situazione dei diritti umani a Cuba, in occasione della visita di papa Francesco, dal 19 al 22 settembre. La Cuba di oggi "è un paese nel quale non vi sono più prigionieri di coscienza condannati a scontare lunghi periodi di detenzione sotto un duro regime carcerario. La strategia delle autorità è ora quella di promuovere campagne diffamatorie nei confronti dei dissidenti e vessarli con brevi ma ripetuti periodi di carcere", sottolinea la Ong. "Secondo la Commissione cubana per i diritti umani e la riconciliazione nazionale - continua Amnesty -, ad agosto vi sono state 768 brevi incarcerazioni per motivi politici, in aumento rispetto alle 674 del mese precedente". "A entrare e uscire dalle prigioni cubane sono attivisti per i diritti umani, giornalisti indipendenti e promotori di manifestazioni pacifiche o di incontri privati. A volte, gli arresti sono eseguiti alla vigilia di annunciate manifestazioni, per impedirvi la partecipazione", denuncia Amnesty. "Se in passato per condannare i prigionieri di coscienza si ricorreva soprattutto all’articolo 91 (atti dannosi per l’indipendenza e l’integrità territoriale commessi nell’interesse di uno stato estero) e all’articolo 88 (possesso di materiale sovversivo) del codice penale, oggi si usano per lo più le norme relative a disordini pubblici, oltraggio, vilipendio, aggressione e pericolosità: concetti generici, resi ancora più vaghi dalla loro descrizione", rivela la Ong. "L’articolo 72 ne è un esempio evidente: il testo stabilisce la pericolosità di una persona qualora manifesti inclinazione a compiere crimini: un’inclinazione dimostrata da una condotta in palese contraddizione con le norme della morale socialista. L’articolo 75 prevede poi che la pericolosità possa essere sanzionata anche da un agente di polizia". "Lo Stato ha il completo monopolio su tutti i mezzi d’informazione, compresi i fornitori di servizi Internet - sottolinea ancora Amnesty. L’articolo 53 della Costituzione riconosce e limita al tempo stesso la libertà di stampa, proibendo espressamente la proprietà privata dei mass media". "Tutte le associazioni civili e professionali nonché i sindacati che non siano sottomessi al controllo dello stato e alle organizzazioni di massa governative non ottengono il riconoscimento ufficiale. L’articolo 208 del codice penale prevede da uno a tre mesi di carcere per l’appartenenza a organizzazioni non ufficiali e da tre a nove mesi per chi le dirige". "Il potere giudiziario è fortemente controllato dallo stato. Presidente, vicepresidente, gli altri giudici della Corte suprema, il procuratore generale e il suo vice sono eletti dall’Assemblea nazionale e gli stessi avvocati difensori sono impiegati statali che raramente osano contestare la pubblica accusa o le prove presentate nei processi dai servizi segreti". "L’abolizione del visto obbligatorio di uscita dal paese - aggiunge la Ong - ha consentito a molti cubani di recarsi all’estero, con l’eccezione di 15 ex prigionieri di coscienza rilasciati nel 2011 e che a differenza di altri hanno preferito rimanere in patria piuttosto che andare in esilio in Spagna. A nessuno di loro è consentito di lasciare il paese". "Persistono poi - prosegue Amnesty - i cosiddetti ‘atti di ripudiò: manifestazioni organizzate dalle autorità, di solito sotto l’abitazione di dissidenti e attivisti, cui prendono parte sostenitori del governo e pubblici ufficiali. La polizia osserva senza intervenire". "All’apertura nelle relazioni internazionali coi governi, non ha fatto ancora seguito quella con gli organismi indipendenti sui diritti umani: l’ultima occasione in cui ad Amnesty International è stato permesso di visitare Cuba risale al 1988". La ripresa delle relazioni diplomatiche tra Cuba e Stati Uniti d’America "non ha comportato la fine delle sanzioni finanziarie ed economiche da parte di Washington", afferma Amnesty International. "L’Organizzazione mondiale della sanità, l’Unicef e Amnesty International hanno più volte denunciato, nel corso di questi decenni, l’impatto dell’embargo sui diritti economici e sociali della popolazione cubana, tra cui i diritti al cibo, alla salute e all’igiene. Queste sanzioni ormai anacronistiche vanno annullate al più presto". Filippine: il carcere senza sbarre di Iwahig, sull’isola più bella del mondo di Maria Cristina Fraddosio La Repubblica, 17 settembre 2015 Delinquenti, assassini, stupratori scontano la pena tra lavoro e autogestione. Iwahig, sull’isola di Palawan, è un carcere atipico: privo di recinzioni e di celle, ospita 3.186 detenuti assieme alle loro famiglie. Meta prediletta dai turisti, l’isola di Palawan - nominata nel 2014 la più bella del mondo dai lettori di Condé Nast - si caratterizza per un’ulteriore peculiarità. Accoglie, infatti, una realtà penitenziaria sui generis. In una condizione di semilibertà, i detenuti che hanno il privilegio di risiedere a Iwahig trascorrono la giornata sull’isola a contatto con i turisti. La Prigione e Fattoria Penale sorge tra i siti naturalistici più apprezzati al mondo, due dei quali patrimonio dell’Unesco. Dal sistema punitivo al programma riabilitativo. "L’importante è che i detenuti si sentano integrati nella comunità, perché partirebbero da zero se i cittadini non li accettassero. La nostra missione principale è di ristabilire la giustizia, non abbiamo più un obiettivo punitivo" - ha dichiarato a El País il sovrintendente Antonio C. Cruz, direttore del carcere. A Iwahig, i reclusi - a seconda degli incarichi ricevuti - indossano magliette di differenti colori. E, dal lunedì al sabato, a partire dall’alba fino a mezzogiorno, svolgono differenti mansioni: dalla pesca al lavoro nei campi, dall’allevamento all’artigianato, per finire alla danza; un vero e proprio corpo di ballo, infatti, intrattiene i turisti su ricompensa. Un modello di autogestione. I 26.000 ettari appartenenti alla struttura penitenziaria sono accessibili al pubblico: una sola guardia all’ingresso - a pochi chilometri dalla capitale, Puerto Princesa - accoglie i visitatori. Alcuni si dirigono in piscina. Qui, Edwin, di 46 anni, sconta la sua pena per furto vendendo dolci ai bagnanti. La Fattoria Penale di Iwahig produce più di tutte le altre del paese. Solo il 30% dei guadagni viene utilizzato per il mantenimento del carcere e il sostentamento dei detenuti. Il resto dei proventi viene amministrato secondo la Legge Penitenziaria del 2013. Alcuni reclusi hanno anche diritto a uno stipendio, che varia a seconda dell’impiego svolto: un agricoltore guadagna 1 euro e 90 centesimi al mese, un impiegato il doppio. Il 50% dei compensi confluisce in un "salvadanaio", a cui ciascuno ha accesso una volta in libertà. Regole più dure: i cambiamenti in atto. A quanto lamentano i veterani di Iwahig, prima le condizioni di vita sull’isola erano migliori. Era possibile trascorrere anche la notte con i familiari. Ora, invece, soltanto il giorno. L’inasprimento delle regole è dovuto all’evasione di sette detenuti nel giugno del 2014, anche se si stimano solo una ventina di casi di tentata fuga nell’ultimo decennio. In alcuni rapporti, si denuncia anche la mancata trasparenza nella gestione dei guadagni ed un elevato tasso di corruzione, che vincolerebbe l’accesso al carcere al pagamento di una somma in denaro da parte dei reclusi. Comunque, resta indiscussa l’unicità di questa struttura penitenziaria: qui, addirittura, c’è chi decide di restarvi anche a pena finita.