In sciopero della fame con Roverto, per una Giustizia che apra sempre alla speranza Ristretti Orizzonti, 16 settembre 2015 All’attenzione del Ministro della Giustizia, Andrea Orlando All’attenzione del Capo del Dap, dottor Santi Consolo All’attenzione degli Stati Generali dell’esecuzione della pena Roverto Cobertera è un ergastolano, e anche un redattore di Ristretti Orizzonti, e ha deciso di morire. Vuole morire perché ritiene di essere stato "massacrato" dalla Giustizia italiana, che lo ha condannato all’ergastolo per un omicidio, che lui sostiene di non aver commesso. E questo ora lo dice anche il suo coimputato, che si è assunto tutta la responsabilità per quel reato. Roverto non è un "innocente", no, lui non ha mai negato di aver commesso dei reati, ma non è un assassino. E noi gli abbiamo creduto non per un eccesso di fiducia verso un amico, ma per la forza della sua rabbia, per il dolore e il senso di desolazione che porta con sé, perché non si rassegna e preferisce morire per riaffermare la verità. Sappiamo benissimo che ci diranno che uno sciopero della fame della redazione di Ristretti Orizzonti non serve a nulla e forse non aiuta neppure Roverto a trovare la forza di combattere contro una Giustizia spesso poco umana, ma questo sciopero lo vogliamo fare ugualmente, proprio per aiutare tutti a provare a immaginare l’impotenza che si prova a venir condannati ingiustamente e non avere gli strumenti per difendersi. Il nostro sciopero della fame sarà anche simbolico, ma ha degli obiettivi chiari e concreti: - in carcere nessuno deve più morire di disperazione, ci vuole attenzione e capacità di dar voce a chi sta male o ritiene di aver subito un’ingiustizia. Vi ricordate la telefonata del Ministro Annamaria Cancellieri per "salvare dal rischio suicidio" una persona amica di famiglia? Allora il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria disse che la sofferenza dei detenuti e delle loro famiglie deve avere risposte immediate, parlò di una linea telefonica dedicata, un Centro di ascolto, una specie di Osservatorio a cui si potessero segnalare i casi critici e avere indicazioni e aiuto. Se ne è più fatto nulla? A noi sembra di no, ma non è mai troppo tardi, è ora di occuparsi della sofferenza in carcere, di monitorare le persone in sciopero della fame, di non abbandonarle; - Roverto Cobertera deve avere una revisione del processo, con tempi certi e non disumani, perché se poi risulta che una persona è davvero innocente, c’è urgenza di FARE IN FRETTA a salvarla; - questa lotta disperata di Roverto sia occasione per ricordare che l’ergastolo è una pena disumana SEMPRE, anche quando comminata a una persona sicuramente colpevole; se poi ci sono dei dubbi, se una persona si dichiara con forza innocente e lotta per dimostrarlo, se una persona davvero lo è, allora quella pena diventa un orrore che nemmeno riusciamo a immaginare. Quando Roverto ci dice "Voi non potete capire cosa vuol dire avere un "fine pena maì per un reato di cui non sono responsabile" noi gli rispondiamo che ha ragione, una mente umana non può neppure concepire una simile mostruosità; - se ci dicono che è difficile trovare alleati per uno che è "nero e cattivo", noi rispondiamo che non abbiamo paura di una società incattivita che per ogni fatto di cronaca sa urlare solo "in galera, in galera!". Siamo anzi sicuri che, se si va, come facciamo noi, nelle scuole e nei quartieri a parlare di reati e di pene in modo nuovo, le persone cominciano a capire che nessuno è "totalmente e sicuramente" buono, e nessuno può illudersi di non essere mai toccato dal male. Roverto ha una storia che va raccontata con coraggio: non è un "buono", non è "senza colpe", ma merita rispetto e una pena giusta; - ma la storia di Roverto è anche una storia di affetti negati dal carcere: lui ha retto per anni il peso di un ergastolo ingiusto proprio per la famiglia, per quelle sue figlie bambine che lo cercavano e lo aiutavano a stare al mondo. Ma ora le figlie sono lontane, vivono in Spagna, la famiglia arranca, e quel rapporto di affetto tra padre e figlie non si può salvare con una miserabile telefonata di dieci minuti a settimana, dove un padre dopo tre minuti deve dire alla figlia "Basta, passami tua sorella", e deve anche sentirsi addosso l’urlo di rabbia della bambina: "Papà ti odio, non puoi avere tanta fretta e non volermi parlare più!"; - per Roverto e per tutte le persone detenute allora chiediamo che la parola, ormai abusata, "umanizzare", riferita alle galere, si traduca in fatti. Ci sono a tal fine al lavoro già gli Stati Generali dell’esecuzione della pena, c’è in Commissione Giustizia una proposta di legge per gli affetti delle persone detenute, noi vogliamo ricordare anche a loro che il primo, fondamentale fatto è: che ogni detenuto deve poter chiamare al telefono la sua famiglia LIBERAMENTE. Forse, se questo fosse possibile, oggi Roverto, ma anche tanti altri che pensano a togliersi la vita in carcere, desidererebbero un po’ meno morire e avrebbero tra le mani un filo sottile per restare attaccati alla vita. Per tutti questi motivi, e primo fra tutti perché vogliamo che Roverto viva, il 30 settembre faremo uno sciopero della fame per ricordare che non ci deve più essere una Giustizia, non ci deve più essere un carcere che creino DISPERAZIONE. La redazione di Ristretti Orizzonti Giustizia: carcere ingiusto, l’ira delle toghe. L’Anm: "norma intimidatoria". di Dino Martirano Corriere della Sera, 16 settembre 2015 Intesa Ncd-Pd: il ministro farà una lista annuale degli indennizzi per errore giudiziario. Proteste anche sui tempi per la chiusura delle indagini. È partita alla Camera la maratona della delega al governo sul Codice penale che, salvo imprevisti, dovrebbe concludersi già domani grazie ai tempi contingentati per le opposizioni. Anche ricorrendo alla seduta notturna perché, poi, la prossima settimana l’Aula è occupata dal disegno di legge sul conflitto di interessi. Il testo della delega - che consente al governo di addolcire molti articoli del codice penale ma anche di inasprire le pene (da 6 mesi a 4 anni) per chi divulga registrazioni non autorizzate tra privati (nel 2010 ci provò, senza successo, il governo Berlusconi dopo il caso D’Addario) - è stato rimaneggiato dalla commissione ma i problemi non finiscono qui per la maggioranza. Molti gli interventi della presidente Donatella Ferranti (Pd) e dei Gruppi per meglio definire la cornice della delega. Ma dopo la polemica sollevata dai grillini sulle condanne per i reati da ergastolo (si intende abolire l’automatismo che oggi impedisce ai detenuti più pericolosi di usufruire dei benefici della legge Gozzini), ridimensionata dal ministro Orlando, ora scoppia il caso dell’ingiusta detenzione. L’Associazione nazionale magistrati (Anm) critica la proposta del Ncd, accolta dal governo, di far stilare a fine anno al Guardasigilli una relazione con l’elenco dei casi in cui è stato riconosciuto un indennizzo per ingiusta detenzione. Il ministro consegnerà al Parlamento l’elenco con i nomi dei magistrati che hanno contribuito a stringere le manette della custodia cautelare intorno ai polsi di indagati poi assolti: "Avremmo preferito l’automatismo dell’azione disciplinare ma è lo stesso una vittoria, così accendiamo un faro su un mondo sommerso", esulta il viceministro Enrico Costa (Ncd). Di parere opposto il segretario dell’Anm, Maurizio Carbone: "Ancora una volta ci vogliono additare all’opinione pubblica come unici responsabili di presunti errori. Mi chiedo ora se in questa lista ci saranno solo i pm o anche i gip, i giudici del Riesame e di Appello se ribaltano una sentenza di assoluzione. Ci ribelleremo a questa intimidazione". Le procure dove si sviluppano grandi inchieste sul crimine organizzato si oppongono al "tetto" della chiusura indagini (sei mesi) oltre il quale il procuratore generale può avocare il fascicolo se il pm non si affretta a scegliere tra richiesta di rinvio a giudizio o di archiviazione. Oggi non c’è termine, il governo aveva stabilito 3 mesi, la commissione ha raddoppiato a sei mesi: "La legge è uguale per tutti, sarebbe grave se alcuni indagati fossero condotti al rinvio a giudizio prima di altri", chiosa la presidente Ferranti. Farà discutere - oltre alla pubblicabilità delle intercettazioni telefoniche che verrà affrontato in coda - la norma con cui il governo chiede di addolcire le misure di sicurezza. Per intenderci, quelle applicate a Luigi Chiatti (condannato per gli omicidi di due bambini a Foligno) che a fine pena è stato spedito in Sardegna in una Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems). Alla delega, varata dopo la chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg), la commissione ha aggiunto: "Fatte salve le esigenze di prevenzione a tutela della collettività". Giustizia: mafia e terrorismo, tre mesi in più per il rinvio a giudizio di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 16 settembre 2015 Enrico Costa (Ncd), viceministro della Giustizia, la considera una "battaglia vinta" e diffida chiunque dal definire "un passo indietro" il ritiro dell’emendamento Pagano - che faceva scattare l’azione disciplinare contro i pm in caso di condanna per ingiusta detenzione - e la sua sostituzione con un emendamento di maggioranza che impone al governo, con l’annuale relazione al Parlamento sulle misure cautelari, di dar conto delle condanne pronunciate - specificando le motivazioni e l’ammontare dell’indennizzo - oltre che "dei procedimenti disciplinari iniziati nei riguardi dei magistrati" e del loro esito. Una formula che, se da un lato conferma che non c’era bisogno di una norma per eventuali azioni disciplinari (già oggi possibili e in alcuni casi esercitate), dall’altro lato "imporrà al titolare dell’azione disciplinare - sostiene però Costa - di vedersi una ad una le decisioni" e, quindi, di "verificare più attentamente se ci sono profili di responsabilità disciplinare". Ma non è solo sull’ingiusta detenzione che ieri sono arrivate modifiche dal Comitato dei 9 della commissione Giustizia, riunitosi prima che in Aula riprendesse l’esame del ddl sul processo penale (che riprende oggi dall’articolo 1). Cambia anche una delle norme più contestate dai magistrati, quella che fissava in tre mesi - dalla scadenza di tutti gli avvisi e le notifiche di conclusa indagine - il termine per l’esercizio dell’azione penale: per i reati più gravi previsti dall’articolo 407 del Codice di procedura penale (mafia, terrorismo, violenza sessuale e altri), per i quali la durata massima delle indagini preliminari è di due anni, il termine viene portato a 6 mesi (ma si applicherà solo alle notizie di reato iscritte dopo l’entrata in vigore della riforma). Per tutti gli altri reati (per i quali la durata massima delle indagini è di 18 mesi), resta invece il termine di 3 mesi per chiedere il rinvio a giudizio o l’archiviazione. Così sarà per i reati di corruzione, sebbene non siano meno gravi degli altri e spesso comportino complesse incombenze preliminari all’esercizio dell’azione penale. "I tre mesi decorrono dalla scadenza di tutti gli avvisi e notifiche e persino dopo la conclusione di un’indagine suppletiva - ribatte David Ermini, responsabile giustizia Pd - per cui restano davvero poche formalità da espletare". In caso di violazione di termini (che si applicano solo alle notizie di reato iscritte dopo l’entrata in vigore della legge), scatterà l’avocazione del Procuratore generale. La modifica però non soddisfa l’Anm secondo cui "tre mesi o sei mesi cambia poco. La fase delle indagini è già segnata da diversi termini. Introdurne uno ulteriore rischia di compromettere ulteriormente la completezza delle indagini, soprattutto su mafia e corruzione". Quanto all’ingiusta detenzione è "una sorta di intimidazione nei confronti dei magistrati" dice Maurizio Carbone, segretario dell’associazione dei magistrati. Il Comitato dei 9 si è fermato ai primi 15 dei 34 articoli del ddl, per cui solo oggi si arriverà alle intercettazioni e alla "norma D’Addario bis" sulle registrazioni fraudolente, proposta sempre da Ncd ma condivisa dal Pd, che non sembra intenzionato a passi indietro, salvo escludere la punibilità (carcere da 6 mesi a 4 anni) per chi esercita il diritto di cronaca. Né il governo sembra favorevole a sostituire il carcere con una pena pecuniaria. Il Comitato ha invece accolto due emendamenti pentastellati che attenuano, "a tutela della collettività", l’impostazione garantista delle norme di delega sulla revisione delle misure di sicurezza. Quanto all’accusa dei 5 Stelle di voler concedere benefici penitenziari anche ai condannati per mafia, terrorismo o "altri gravi reati", il ministro della Giustizia Andrea Orlando, da Abu Dhabi, ha escluso "qualunque intenzione del genere". Giustizia: Boato; Renzi ha rotto col giustizialismo, che dagli anni 70 è stata posizione del Pci di Goffredo Pistelli Italia Oggi, 16 settembre 2015 Conversazione con Marco Boato, 71enne, piccolo padre del 1968 all’Università di Trento, poi con una lungo passato parlamentare, dai Radicali ai Verdi e all’Ulivo, si interrompe quasi subito per una chiamata al cellulare. È monsignor Loris Capovilla, storico segretario di Giovanni XXIII, oggi cardinale, che lo chiama nell’imminenza dei suoi cento anni. "Mi scusi, ma quando ho visto che era lui, non potevo non rispondere". Un’amicizia che dice molto di questo sociologo veneziano: cattolico, sessantottino, radicale, ecologista e grande paladino dei diritti, tanto che nel 2008, i Verdi, alleati di Prc, non lo ricandidarono perché i neocomunisti, in piena antiberlusconismo, non tolleravano il suo garantismo. Domanda. Boato, lei, uomo di sinistra, come si trova nell’Italia di Matteo Renzi? Per qualcuno è l’anticamera dell’autoritarismo. Risposta. La sorprenderò ma non ho maturato idee, né ho quelle tranchant di chi è più giovane di me. Su Renzi, in pratica, ho sospeso il giudizio. D. Sorprende, in effetti, in un’Italia così visceralmente pro e contro il premier. Perché non giudica? R. Perché sono stato colpito, e molto negativamente, dal passaggio di Renzi al governo. Un colpo di mano molto partitocratico, con la conquista della maggioranza interna di un partito, il Pd. E c’erano state quelle ampie e pubbliche rassicurazioni a Enrico Letta... D....hashtag #enricostaisereno... R. Esatto e poi contraddette clamorosamente e la cosa, dico la verità, mi aveva disgustato. Sono un po’ all’antica e la lealtà, secondo me, viene prima di tutto. Questa era una tara così grossa che, per non avere pregiudizi ideologici, ho pensato di sospendere il giudizio. D. Lei è ancora in attesa di farsi un’idea, ma di questo esecutivo avrà visto cose che le sono piaciute e cose no. R. Sì, luci ed ombre. Partiamo dalle prime. D. Prego. R. Fra queste c’è il fatto che il governo Renzi ha segnato una svolta nel Paese. Siamo andati avanti con Silvio Berlusconi, con Mario Monti e anche con Letta a dire, anno dopo anno, che si intravedeva la luce in fondo al tunnel della crisi. Non era vero. Oggi, con Renzi, pur con tutta la cautela, lo si deve affermare. E non solo per merito solo suo, intendiamoci. D. Una congiuntura favorevole? R. Sì, il petrolio a prezzi bassi, un rapporto euro dollaro ridimensionato verso la parità, la Banca centrale europea col quantitative easing: tutti fattori che agevolano la possibilità di ripresa e che danno la sensazione della fi ne di una fase di recessione che pareva non avere limiti, una recessione anche morale ed etica. D. Ombre? Anche lei lo vede come un rischio per la democrazia? R. Avendo combattuto, negli anni 70, la strategia della tensione, fra Piazza Fontana e i colpi di Stato striscianti, non me la sento di condividere questa immagine che una parte della sinistra del Pd e Sel danno di Renzi. Per quanto anche Berlusconi, di recente, abbia parlato di "regime". D. Sì ha detto che Renzi è bulimico di potere. R. Ma io mi sono rifiutato di parlare di regime anche quando lo addebitavano al Cavaliere, figurarsi se lo accetto adesso. D. E poi ci sono i costituzionalisti alla Gustavo Zagrebelsky, quelli che Renzi chiama i "professoroni"... R. Sì, sì dicono che siamo sull’orlo di una democrazia autoritaria, qualcuno ha recuperato il termine di "democratura", ma mi pare davvero fuori luogo. D. Veniamo alle ombre... R. Le ravviso nella legge elettorale, che non mi convince per i capilista bloccati, incostituzionali come lo era il Porcellum che nominava tutti, ma più di tutto per il passaggio dell’attribuzione del premio di maggioranza, al partito anziché alla coalizione e l’impossibilità di fare apparentamenti sotto il 40%. D. Perché non vanno questi dettagli dell’Italicum? R. Perché violentano un pluralismo politico che oggi è irrinunciabile, come mostrano anche altri sistemi, una volta bipolari o tripolari, come la Germania o la Gran Bretagna, e dove si registra un moltiplicarsi di nuove sigle. Se l’eccesso di frammentazione è negativo, anche l’eccesso di semplificazione non va bene. E, mi faccia aggiungere, anche il ricorso alla fiducia, per una norma elettorale, fatto mai avvenuto in Italia, è stato abbastanza brutale. D. Dovrebbe tornare indietro, come sostengono alcuni? R. Sì, perché potrebbe finire per essere un gigantesco boomerang. Ha fatto questa forzatura, perché nella prima stesura il premio era alla coalizione, quando ha vinto alle europee, ma ora i sondaggi, l’ultimo quello di Repubblica sabato, dicono che il Pd è poco sopra il 30%. D. Vabbè non si può fare le leggi e modificarle a proprio uso e consumo. R. Sì, ma il rischio, per Renzi, è andare al ballottaggio con il M5s e perdere, perché magari al secondo turno si coalizzano tutti gli scontenti. E non è solo un rischio per Renzi, lo è anche per l’Italia. D. I grillini al governo sarebbero una jattura? R. Guardi non demonizzo, perché quando una forza ottiene i voti di un Italiano su quattro va rispettata, però sarebbe una sciagura se arrivassero al governo. Beppe Grillo è simpaticissimo, come comico, ma lui e i suoi uomini non sono all’altezza di governare un Paese, anche se si stanno facendo le ossa in alcune amministrazioni comunali. Ma mi faccia tornare a Renzi. D. Prego. R. Credo che sull’Italicum potrebbe avere l’intelligenza politica di tornare indietro su capi-lista e premio alla coalizione anziché al partito, con una leggina ordinaria, mediando sia con la sua sinistra interna, sia col centrodestra. D. E della riforma costituzionale del Senato sulla quale, secondo alcuni, il governo rischia grosso? R. Sono abbastanza critico. Quando Renzi e Maria Elena Boschi dicono che per 30 anni non si era fatto niente su Parlamento e Titolo V, dicono una gigantesca bugia: si è fatto il federalismo, nel 2001, il centrodestra ci ha provato nel 2005, si è fatta l’elezione diretta dei presidenti regionali. E quella del governo è una riforma che, a livello costituzionale, lascia intatte alcune parti, dalla presidenza della Repubblica, alla magistratura, alla Corte costituzionale. D. Ma sul Senato, nello specifico? R. Che ci possa essere una camera con una rappresentanza indiretta, come in Francia, può andare anche bene, si sbaglia quando ci si richiama al Bundesrat, il senato tedesco, che non c’entra nulla: quelli sono rappresentanti dei governi dei Länder, non dei consigli. Ma non è il Senato la vera questione. D. Vale a dire? R. Il Titolo V, di cui si parla pochissimo, e con cui si vogliono riportare in capo allo Stato quasi tutte le competenze concorrenti di materia regionale, non solo l’energia e le infrastrutture. D. E non va bene? R. Fatte 100 le competenze, almeno 80 si riaccentrano. Ora, per quanto i consigli regionali abbiano dato scandalo, credo che travolgere l’intero regionalismo italiano sia un grosso errore. Anche perché non è che lo Stato centrale funzioni benissimo. Eppure si parla solo dell’elettività dei senatori. D. Forse perché è un dissenso tutto politico della minoranza Pd, per bloccare la riforma e quindi disarcionare Renzi? R. Mi spiace riconoscerlo, perché ho buoni amici nella minoranza dem, ma è così: giocano questa partita delle riforme contro Renzi. Legittimamente, intendiamoci, ma non nel merito delle questioni. Aspettino due anni e, al congresso, trovino qualcuno che sconfigga il segretario attuale. D. Da vecchio ecologista, boccia Renzi sulle questioni ambientali, come fanno i suoi amici di Green Italia, Francesco Ferrante e Roberto Della Seta, che criticano lo Sblocca Italia? R. Sui temi ambientali, questo esecutivo va all’indietro, ma succede anche per come è composta la squadra di governo. D. Perché? R. Perché Gian Luca Galletti all’ambiente non è un capolavoro di ambientalismo, e Federica Guidi alle attività produttive, non è un campione di innovazione nella politica industriale. Ecco, quando si polemizza sull’uomo solo al comando, non concordo tanto sul tema della leadership, ma l’essere il primus inter pares, in una compagine di governo non certo di alto livello. D. Senta e sulla giustizia, qualche luce la vede? R. Sì, perché Andrea Orlando, viceversa dai colleghi, così com’era stato un decente ministro dell’ambiente, ora lo è della giustizia, ed esercita l’arte del dialogo e del buon compromesso. Quello della giustizia, è un capitolo di una complessità e pericolosità enorme, io c’ho ancora le abrasioni per essermene occupato. E la magistratura, quando decide di far fuori un ministro, lo fa. Come nel 2008, dimostrò la vicenda di Clemente Mastella. A me non potevamo farmi fuori, ma decine di magistrati, lo avrebbero fatto quando ero relatore della Bicamerale: le organizzazioni corporative si opponevano a ogni ipotesi di riforma. D. C’è chi dice che Renzi sia stato troppo morbido, alla fine, con la responsabilità civile dei giudici e abbia dato peso a magistrati come Raffaele Cantone e Nicola Gratteri per pararsi le spalle. R. Renzi ha rotto in qualche modo col giustizialismo. Ai miei tempi, negli anni 70, la sinistra era il garantismo, ho imparato tanto nei congressi di Magistratura democratica e anche del Pci a questo riguardo, poi... D. Poi? R. Poi sull’onda delle tre emergenze, terrorismo, antimafia e, successivamente, la corruzione, la sinistra ha cambiato di 180 gradi la sua attitudine alla giustizia. Una mutazione genetica: ricordo colleghi di grande valore, del Pds prima, dei Ds poi, ma anche della Margherita, epurati per essersi esposti per le garanzie e lo Stato di diritto. Renzi ha dato qualche forte segnale di discontinuità. Quanto a Cantone e Gratteri... D. Glielo stavo per chiedere... R. Vede, sono persone stimabili, ma anche il prodotto di una stagione in cui c’è stato un conflitto permanente fra politica e giustizia. Per cui oggi ci sono troppe toghe, in aspettativa o no, che svolgono ruoli politici. Persone stimabili, ripeto, come Michele Emiliano o Luigi de Magistris, anzi sulla stima al sindaco di Napoli mi faccia mettere un punto interrogativo, persone, dicevo, che segnano una sconfitta della politica. Che quando ha paura, ricorre a un pubblico ministero o a un poliziotto. D. Come a Roma dove, per fare l’assessorato alla legalità, hanno chiamato un ex pubblico ministero, Alfonso Sabella. R. Nel conflitto permanente, la politica si è indebolita e, in una logica emergenziale, arriva la supplenza dei magistrati. Giustizia: il pm di Palermo Di Matteo "sull’ergastolo così si coronano i sogni della mafia" di Giuseppe Lo Bianco Il Fatto Quotidiano, 16 settembre 2015 "I benefici per gli ergastolani erano l’obiettivo di Cosa Nostra". Il magistrato minacciato dai clan: tradiscono una regola voluta da Falcone. Quella per cui solo chi collabora può avere benefici penitenziari (e per questo testimonia). La revisione dell’articolo 4 bis? "Mi sembra un passo pericoloso nella direzione dell’ulteriore svilimento del principio della certezza e dell’efficacia della pena. Non vorrei che oggi nel silenzio, nel disinteresse o nella sottovalutazione generale si iniziasse a realizzare ciò che da sempre ha costituito uno scopo politico essenziale delle mafie". Dopo che il procuratore nazionale antimafia Franco Roberti ha manifestato la sua "assoluta contrarietà" alla revisione dell’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario, da ieri in discussione alla Camera, è assai perplesso anche il pm del processo della trattativa Stato-mafia, Nino Di Matteo: "Oggi - dice - potremmo assistere alla realizzazione di una delle aspirazioni fondamentali delle menti raffinatissime degli strateghi di Cosa Nostra". Che cosa non va nella norma e cosa la preoccupa di più, dottor Di Matteo? "Mi sembra che si vada verso lo svilimento della funzione di deterrenza della sanzione penale. Ma mi preoccupa ancora di più la previsione dell’abolizione di quelle preclusioni introdotte con una legge del 1991, l’art. 4 bis, fortemente voluta da Giovanni Falcone che a oggi impediscono la concessione di benefici penitenziari a esclusione della liberazione anticipata, ai detenuti di mafia a meno che non abbiano iniziato a collaborare con la giustizia. E potremmo assistere a un altro passo verso lo smantellamento di quella legislazione antimafia che si rivelò all’inizio degli anni 90 finalmente efficace. E cioè l’abolizione del "doppio binario", legislativo e penitenziario, voluto da Falcone per i detenuti mafiosi". Perché è così importante? "Intanto perché legava la concessione delle attenuanti alla collaborazione con la giustizia, che fu una delle intuizioni di Falcone. E poi perché è storicamente accertato che ai mafiosi non fa paura il carcere ma una detenzione che sia tale da impedire la loro speranza di poter continuare a comandare e ciò finora è avvenuto anche attraverso l’applicazione del 4 bis che si è rivelato efficace e ha costituito un’ossessione nelle menti più raffinate dell’organizzazione mafiosa. Oggi invece si introduce il principio di concedere benefici quali l’ammissione al lavoro esterno, la fruizione di permessi premio o altre misure alternative come la detenzione domiciliare o la semilibertà a tutti i detenuti per mafia". Ne godrebbero gli ergastolani mafiosi condannati per strage, c’è il rischio di una scarcerazione di Riina? "La revisione della norma vale anche per loro, ciò che prima era un automatismo nella nuova previsione diventa un atto discrezionale affidato ai tribunali di sorveglianza. Così facendo anche l’ergastolo finirebbe per essere svuotato del contenuto di irrevocabilità per diventare una finta pena perpetua". Condivide l’allarme del presidente dell’Associazione dei familiari delle vittime di via dei Georgofili, Giovanna Maggiani Chelli, che ritiene "probabile che stia per essere dato a Cosa Nostra ciò che con la strage di via dei Georgofili ha fortemente chiesto con un attacco allo Stato"? "Mi sembra paradossale, offensivo e beffardo per i parenti delle vittime che si trascuri un dato processualmente accertato: la campagna stragista del 1993 era finalizzata a costringere lo Stato ad abbandonare nei confronti dei mafiosi un sistema di detenzione più rigido, e perciò efficace, di quello dei detenuti comuni. Era uno degli obiettivi principali del ricatto allo Stato portato a suon di bombe e attentati". Che si aspetta dai parlamentari? "Mi auguro che la nostra classe politica si muova nelle sue decisioni tenendo conto che, nonostante molti non lo vogliano far credere, la questione mafiosa è più che mai attuale e costituisce il pericolo più grave per la tenuta della nostra democrazia". Sarti (M5S): l’articolo 4 bis non va modificato, sarebbe pericoloso La riforma del processo penale prevede di rivedere una norma antimafia fondamentale, l’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario: a lanciare l’allarme è il deputato Cinque Stelle Giulia Sarti, componente della Commissione Antimafia. "In Italia - spiega - un mafioso o un terrorista di norma non ha benefici penitenziari salvo casi eccezionali disciplinati dall’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario. Ma questo impianto rischia di essere scardinato". "Il disegno di legge presentato dal Governo - spiega Sarti - prevede di rivedere la disciplina di preclusione all’accesso dei benefici penitenziari: questo significa prevedere che anche il mafioso, anche se non collabora con la giustizia, può accedere ai benefici. È pericoloso. Noi vogliamo che il legislatore non modifichi l’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario che da 23 anni impedisce ai boss di ottenere benefici". Sarti ricorda che lo stesso Procuratore nazionale antimafia Franco Roberti, in una missiva del luglio scorso alla presidente della Commissione Giustizia della Camera, Donatella Ferranti, si dice "assolutamente contrario ad ogni futura modifica normativa che possa anche solo attenuare, per reati di criminalità organizzata di tipo mafioso e terrorismo, le previsioni di cautela oggi esistenti". "La presidente della Commissione Giustizia Ferranti (Pd) - spiega oggi Sarti - è corsa ai ripari, prevedendo la modifica "salvo i casi di eccezionale gravità e pericolosità e in particolare per le condanne per i delitti di mafia e terrorismo anche internazionale" ma in questo modo si espongono i magistrati alla discrezionalità e al rischio di minacce o di tentativi corruttivi". "L’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario non deve essere toccato. Spero che venga accolto un mio emendamento o che la Ferranti ne faccia uno nuovo come relatrice di maggioranza che accoglie le mie osservazioni per e chiarire meglio che l’impianto della revisione del 4bis non toccherà mafiosi e terroristi. Da parte di Governo e maggioranza sono arrivate dichiarazioni di disponibilità in tal senso", conclude Sarti. Molteni (Lega): in Aula nuova depenalizzazione, vergogna sinistra "Dopo cinque svuota carceri, la mancetta ai detenuti, le liberazioni anticipate speciali e il salvacondotto per "tenuità del fatto", oggi in aula arriva una nuova depenalizzazione. È la seconda di cui si macchia il governo Renzi. Questa sinistra complice dei criminali si deve solo vergognare". Così il deputato leghista Nicola Molteni questa sera in aula, rimarcando come l’ultimo ordine del giorno d’aula - il rafforzamento delle garanzie difensive e l’effettività rieducativa della pena - siano "l’ennesimo favore ai criminali e ai delinquenti" e l’ennesimo "tradimento per le vittime, rese vittime due volte". "La Lega - lo ha mostrato anche oggi con azioni eclatanti a favore degli esodati - sta e starà sempre dalla parte delle vittime e dei più deboli. Il Pd e questo governo hanno scelto di stare dalla parte dei delinquenti. Il grado di vergogna della politica Pd ha ormai raggiunto livelli apicali". "Non esiste che si possa estinguere il reato con condotte riparatorie senza il consenso delle vittime, in aula si sta consumando l’ennesimo sacrificio della sicurezza e della giustizia, immolate sull’altare del buonismo targato Pd". Giustizia: riforma delle intercettazioni al via, subito più morbida la norma anti-Iene di Silvia Barocci Il Messaggero, 16 settembre 2015 Da una parte il "rafforzamento" della delega sulle intercettazioni, per tentare di smorzare le polemiche su quella che l’Ordine dei giornalisti e l’Associazione nazionale hanno bollato come una "carta bianca" offerta all’esecutivo; dall’altra l’idea del Pd di limitare a una multa la pena fino a 4 anni prevista per chi diffonde il contenuto di registrazioni fraudolentemente carpite (il cosiddetto emendamento D’Addario o anti-Iene). Nel mezzo, un accordo con Ncd sui casi di condanna per ingiusta detenzione con norme che l’Anm definisce "intimidatorie", al pari del termine di tre mesi che il pubblico ministero avrà a disposizione per esercitare l’azione penale se non vuole rischiare di vedere avocata la sua inchiesta dal Pg della Corte di appello. Comincia in salita, con la ricerca di una difficile mediazione all’interno della stessa maggioranza e con il Movimento 5 Stelle sulle barricate, la discussione alla Camera del disegno di legge sul processo penale. L’accelerazione. Trentaquattro articoli che, grazie ai tempi contingentati, arriveranno al traguardo tra giovedì e venerdì prossimo, per essere poi trasmessi al Senato. Ottenuto il primo via libera dell’aula di Montecitorio, il Guardasigilli Andrea Orlando istituirà una commissione, composta da magistrati, avvocati e giornalisti, che getterà le basi dell’articolato di riforma delle intercettazioni. Insomma, il governo Renzi ha tutta l’intenzione di bruciare i tempi rispetto alla prevista delega di un anno calcolata dall’approvazione definitiva del disegno di legge. Ma di novità il corposo testo ne contiene molte altre ancora, talune peraltro immediatamente operative. La prima: l’estinzione dei reati procedibili a querela nel caso in cui abbia riparato interamente il danno prima dell’apertura del dibattimento. Per la Lega si tratta dell’"ennesimo sacrificio della sicurezza". L’esame dell’aula riprenderà oggi da questo punto, con tempi contingentati e 450 votazioni, alcune delle quali segrete. Ieri, nel corso dei un Comitato dei nove della Commissione Giustizia convocato per sciogliere i principali nodi, Pd e Ncd hanno trovato un’intesa su altri punti rispetto ai quali i magistrati sono già in allarme. Innanzitutto, l’obbligo per il pm di richiedere il rinvio a giudizio entro tre mesi dall’avviso di conclusione delle indagini. La Commissione ha innalzato il termine a sei mesi nei casi di reati gravi quali terrorismo, mafia, pedofilia etc. Restano esclusi i reati di corruzione. Il che fa insorgere l’Anm: "Tre mesi o sei mesi cambia poco. Introdurre un termine ulteriore - denuncia il segretario Maurizio Carbone - significa compromettere la completezza delle indagini, senza comportare alcun vantaggio sui tempi del processo". La riforma della responsabilità civile, il taglio delle ferie estive e quello dell’età pensionabile sono per i magistrati la prima eredità pesante del governo Renzi. Alla quale temono di dover aggiungere altre previsioni "infelici" del ddl sulla riforma del processo penale. Ncd punta i piedi sul "fenomeno grave" dell’ingiusta detenzione che fino ad oggi è costato allo Stato risarcimenti per 600milioni di euro. Il viceministro alla Giustizia Enrico Costa chiedeva il trasferimento degli atti ai titolari dell’azione disciplinare nei confronti dei magistrati. Il compromesso trovato non è certo al ribasso per gli alfaniani: la relazione sulle misure cautelari, che ogni anno il Governo presenta al Parlamento, dovrà contenere i dati relativi alle sentenze di riconoscimento del diritto alla riparazione per ingiusta detenzione con le ragioni di accoglimento delle domande e l’entità dei risarcimenti. "I magistrati dovranno rispondere del loro operato", chiosa Costa. "È una intimidazione nei confronti dei magistrati", ribatte Carbone dell’Anm La delega. All’accusa di aver concesso al governo una delega "in bianco" sulle intercettazioni, la Commissione Giustizia risponde con un emendamento che prevede il rafforzamento della norma, come è stato per la delega fiscale. In sostanza, se il governo non vorrà conformarsi ai pareri parlamentari, dovrà "trasmettere nuovamente i testi alle Camere con le sue osservazioni". Le Commissioni forniranno "entro dieci giorni" un ulteriore parere. Che, però, non potrà mai essere vincolante. Il pallino resterà sempre in mano all’esecutivo. Giustizia: riforma delle intercettazioni, giusto difendere il diritto alla privacy di Francesco Petrelli (Segretario dell’Unione Camere Penali) Il Garantista, 16 settembre 2015 Le intercettazioni delle comunicazioni private, si sa, dovrebbe essere un fatto eccezionale. Ciò che giustifica nel nostro ordinamento la violazione del precetto costituzionale secondo il quale tali comunicazioni sono "inviolabili", è la ricerca della prova nel processo penale. Si tratta di considerazioni piuttosto banali ed apparentemente inutili, se non fosse che il dibattito spesso si "incaglia" su alcuni luoghi comuni sui quali forse vale la pena di fare chiarezza. Tanto è inviolabile, per la nostra Costituzione, il diritto di ogni cittadino alla segretezza delle proprie comunicazioni, che non basta sia ricercata la prova di un qualsiasi illecito. E infatti, solo per l’accertamento di alcuni specifici reati la prova può essere cercata violando tale diritto alla segretezza. Ma non basta ancora. Prevede la legge che l’intercettazione per essere ammessa sia "assolutamente indispensabile alla prosecuzione" di un’indagine. Non basta, dunque, che sia utile o opportuna, ma deve essere in ogni caso assolutamente necessaria. Se, dunque, è solo la ricerca della prova a giustificare l’altrimenti insopportabile violazione della segretezza delle nostre comunicazioni e della nostra corrispondenza, tutto ciò che non risponde a tale nome e a tale qualifica sostanziale non potrà ritenersi "legittimamente" acquisito. È come se in una rete predisposta per pescare esclusivamente pesci di una certa taglia, finissero invece, per errore, dei pesciolini. Il pescatore solerte li ributta in mare. Questa semplice verità stenta tuttavia a sedimentare e a collocarsi al centro del nostro modo di intendere, di leggere, di diffondere, di fruire delle intercettazioni, come si trattasse del risultato di un sondaggio di costume, di una notizia acquisita in un’intervista. A ben vedere, infatti, l’intercettazione non è affatto una "sonda" indistintamente calata nella vita di un indagato, abilitata a captare ogni suo possibile segreto, il suo modo di esprimersi, i suoi costumi, le sue frequentazioni... ma è uno strumento tecnico-investigativo terribile e malizioso che deve essere utilizzato in maniera rigorosa, chirurgica, esattamente delimitata. Solo l’acquisizione della prova in quanto tale ne giustifica l’utilizzo processuale. È dunque improprio parlare di "bavaglio" allorché si intenda sottrarre alla diffusione mediatica quel materiale "collaterale" impropriamente acquisito, che devasta - violandone la privacy - non solo la vita dell’intercettato (indagato e non indagato), ma anche di tutti coloro che accidentalmente finiscono in quella "rete". Non si tratta, dunque, di "trovare" una regolazione equilibrata fra il "dovere del magistrato di indagare", quello del "giornalista di dare la notizia" ed il "diritto del cittadino alla privacy", perché quell’equilibrio sta già scritto nella Costituzione, nella legge e nella logica delle cose. Il resto è il frutto di una odiosa deriva, di una prassi distorsiva e di un evidente travisamento del buon senso, ai quali, con un po’ di ragionevolezza, occorre porre rimedio. Giustizia: Ferranti (Pd); niente più carcere per la diffamazione, con il mio ddl solo multa di Francesco Maesano La Stampa, 16 settembre 2015 Il suo Ddl che sostituisce il carcere cori una multa in caso di diffamazione langue nei cassetti del Senato in attesa di trovare lo spazio giusto per essere discusso da tra le unioni civili e la riforma costituzionale. "Anche questo "Godot" arriverà presto, ed è giusto che sia così, pur non soddisfacendo in pieno gli standard della legislazione europea in merito", ha dichiarato quest’estate il presidente del Senato Grasso. E lei, Donatella Ferranti, è ottimista. "È solo una questione di calendario". L’accordo politico regge? "Sì, alla Camera il testo è passato col voto della maggioranza di governo. C’è qualche divergenza sulla querela temeraria ma dovremmo esserci". Intanto c’è un condannato eccellente: Beppe Grillo ha preso un anno per diffamazione aggravata. "Quando il nostro testo sarà legge la diffamazione a mezzo stampa non sarà più punita in quel modo". È sufficiente o serviranno implementazioni successive? "Si va verso un assetto sempre meno carcero-centrico. Il punto di equilibrio dopo la nostra riforma sarà la pena pecuniaria". La pena pecuniaria non rischia di essere uno strumento dì pressione forte quasi quanto il carcere? "Abbiamo previsto tra le cause dì non punibilità la rettifica tempestiva e poi bisogna considerare che si tratta in ogni caso di un reato che ha una sua delicatezza". Che intende? "Sicuramente c’è la lesione dell’onore. Noi eliminiamo il carcere che non è adatto alle fattispecie di reato, anche con riferimento ai principi che ha stabilito la corte europea, ma l’onorabilità è un bene che dev’essere tutelato, specie quando vengono attribuiti fatti falsi. Quello è il caso più grave, dal quale è più difficile difendersi". Specie al tempo dei social network. Occorre una disciplina anche per quelli? "Nel testo non abbiamo affrontato i blog e gli altri mezzi informali. Lì ci ritroviamo nella diffamazione comune, ma è certamente vero che gli strumenti telematici rendono ancora più cogente una disciplina e un codice di norme che salvaguardino la reputazione". Giustizia: Mafia Capitale. Buzzi in isolamento a Nuoro "minacciato perché non parlassi" di Cristiana Mangani e Sara Menafra Il Messaggero, 16 settembre 2015 Tutta colpa di quel "pentimento" annunciato ai pm, e anche di quella lettera accorata che il detenuto Salvatore Buzzi ha scritto a Papa Bergoglio, e che gli ha fatto passare dei brutti quarti d’ora. Cambio immediato di reparto e cella, urla dei detenuti contro di lui, minacce pesanti, impossibilità di condividere l’ora d’aria, e chissà che altro. Tanto che il 2 luglio scorso l’ex ras delle cooperative ha deciso di recarsi dal Comandante di reparto dell’istituto per spiegargli che temeva per la sua incolumità. E che non poteva più restare all’interno della sezione AS3 del carcere di Badu e Carros, dove è rinchiuso da mesi. Dice Buzzi, e le sue dichiarazioni vengono inviate in una nota riservata al Ministero della giustizia, che le rappresaglie nei suoi confronti si erano scatenate subito dopo la diffusione della notizia della lettera al Papa. La missiva parla di pentimento religioso, di presa di coscienza. Ma in un istituto di pena la parola pentimento suona sempre male, e così si ritrova i detenuti contro, perché pensano - sottolinea l’indagato - "che si sia trattato di un pentimento giudiziario e l’intera sezione diventa ostile nei miei confronti". C’è anche chi lo avvicina e gli dice in malo modo: "Andiamo a fare i pentimenti religiosi, i pentimenti li facciamo all’aria". Facendo chiaramente riferimento all’ora d’aria durante la quale i detenuti stanno tutti insieme. "Per queste ragioni - aggiunge ancora l’ex ras delle coop - oggi non sono andato all’aria e ho deciso di chiedere l’isolamento e il divieto di incontro con tutta la popolazione detenuta. Chiedo, laddove possibile, di rimanere presso l’istituto di Nuoro dove mi sento al sicuro o di essere spostato nel distretto del Lazio, in un circuito protetto". Il Comandante prende atto delle dichiarazioni e fa le sue verifiche e nelle comunicazioni al Ministero conferma: "Da fonte confidenziale, di provata affidabilità, apprendo che i timori manifestati sono assolutamente fondati. Proprio al fine di tutelare l’incolumità del detenuto ho provveduto all’allontanamento dalla sezione, ho disposto divieto di incontro con i detenuti e lo ho allocato temporaneamente in una delle stanze dei "nuovi giunti". Suggerisco la semisezione già 41 bis Area riservata, attualmente priva di detenuti". L’ex ras delle coop viene quindi messo in isolamento. Una circolare agli atti dell’inchiesta specifica che persino i pasti debbano essergli portati in cella, per evitagli di andare a mensa con gli altri. Della sua decisione di aderire all’appello del Papa contro la corruzione, Buzzi aveva già scritto anche al suo avvocato, Alessandro Ditti: "Caro Alessandro - si legge - io all’interrogatorio del 31 marzo sono stato conservativo perché se non ho garanzie corro seri rischi. Ho parlato con Alessandra (Garrone, ndr) e siamo d’accordo nel voler chiarire tante cose. Ti dirò di più aderisco all’appello del Papa, cercherò, per quanto di mia competenza, di chiarire ed estirpare i fenomeni corruttivi a mia conoscenza, e mi difenderò ovviamente dell’accusa di mafia". Ai magistrati ha poi raccontato di Panzironi, dell’Ama, del Cara di Mineo, si è definito "un cazzaro, uno che straparlava", anche se i pm della dda di Roma sembrano credergli poco. Tanto che ancora al suo legale aggiunge: "Non vedo l’ora divedere la mia figlia grande, che ha scoperto di avere il padre Al Capone. Ma quale Al Capone, mi viene meglio Fantozzi". Giustizia: caso Stefano Cucchi, perché quei due carabinieri occultati? di Luigi Manconi e Valentina Calderone Il Manifesto, 16 settembre 2015 Lo strano caso dei pm, due processi e quattro omissioni. Questa che stiamo per raccontare rappresenta una novità tutt’altro che trascurabile - e forse qualcosa di più - relativamente alla morte di Stefano Cucchi. Non possiamo dire se sarà decisiva per le indagini, ma che si tratti di un elemento rilevante è indubbio. La storia è questa. Stefano Cucchi viene fermato davanti al parco di San Policarpo nell’atto di vendere dell’hashish a un conoscente. Mentre stanno effettuando lo scambio, vengono sorpresi da due carabinieri in divisa, Tedesco e Aristodemo, supportati da altri militari, Bazzicalupo, D’Alessandro e Di Bernardo, che stanno svolgendo servizio in borghese nelle vicinanze. Stefano Cucchi viene portato nella caserma Appia, e il verbale d’arresto, compilato dal superiore in grado maresciallo Mandolini (finora unico indagato per falsa testimonianza nell’inchiesta bis), viene firmato solo da Tedesco, Aristodemo e Bazzicalupo. Ecco la Prima Omissione. Già qui, due dei militari, D’Alessandro e Di Bernardo, cominciano a sparire. A evaporare, quasi: presenti ma non firmatari di un atto ufficiali, evocati ma, come vedremo, mai sentiti come testimoni. Ma torniamo a quella notte. Intorno all’1.30, Cucchi viene portato a casa dei genitori per effettuare la perquisizione domiciliare. Il trasporto dalla caserma all’abitazione di Tor Pignattara avviene come segue: Tedesco e Aristodemo (insieme a un altro carabiniere, che pare prendere il posto di Bazzicalupo) sono in macchina insieme a Stefano, dietro di loro, a bordo di un Defender, si trovano D’Alessandro e Di Bernardo. Tutti i militari appena citati (questa volta, proprio tutti) firmeranno il verbale di perquisizione domiciliare, che, com’è noto, darà esito negativo. Usciti da casa di Stefano, la composizione delle auto cambia: Aristodemo e l’altro collega andranno a Tor Vergata a prendere il narcotest; mentre Tedesco, D’Alessandro e Di Bernardo torneranno alla caserma Appia con Cucchi. Quest’ultimo vi rimarrà per oltre un’ora prima di essere trasferito alla caserma di Tor Sapienza (luogo in cui, solo un’ora e mezza dopo il suo arrivo, sarà chiamata un’ambulanza perché il fermato denunciava malori). Notiamo come, presumibilmente in questa fase, il giovane si rifiuterà di firmare tutti i verbali redatti dai militari a suo carico. Stefano Cucchi muore il 22 ottobre 2009. Il maresciallo Mandolini, responsabile dei carabinieri operanti quella notte, tra il 26 e il 27 ottobre riceve ordine dai suoi superiori di inviare delle annotazioni di servizio, per meglio chiarire lo svolgimento dei fatti. Il maresciallo chiede quelle annotazioni a Tedesco, Aristodemo e Bazzicalupo (che hanno firmato l’arresto), ai carabinieri piantoni della caserma di Tor Sapienza (dove Cucchi ha passato la notte), ai carabinieri che hanno effettuato il trasferimento dalla caserma Appia a quella di Tor Sapienza e, in un eccesso di zelo, richiede anche il verbale di intervento del 118. Manca qualcuno? Sì, mancano D’Alessandro e Di Bernardo (Seconda Omissione), che hanno effettuato la perquisizione domiciliare e che sono stati insieme a Stefano Cucchi per più di un’ora, da quando cioè sono usciti dalla casa di Tor Pignattara fino al momento in cui è stato trasferito a Tor Sapienza. Magari Mandolini, nella concitazione di quei giorni, si è dimenticato di chiedere ai due le loro informative circa i fatti di quella notte. Sarà. Ma siamo solo all’inizio di questa singolarissima vicenda di sparizione (meglio: semi sparizione) di due degli attori principali della tragedia di quella notte: o comunque di una sorta di loro dileguarsi, restare in disparte, finire nell’ombra. Così bene occultati, indistinti, quasi invisibili, che la Procura non si è mai accorta della loro presenza e dunque non li ha mai ascoltati durante la fase d’indagine (Terza Omissione). E ancora dopo, in un dibattimento in cui sono stati sentiti oltre centocinquanta testimoni, e pur se citati da molti di questi, due possibili testi brillano per la loro accecante assenza. Sì, avete indovinato, ancora loro: D’Alessandro e Di Bernardo (Quarta Omissione). Che cosa ricavare dalla considerazione di questa sequenza di assenze? Tirare le fila non tocca a noi, ma è certamente degna dell’interesse di chi conduce l’inchiesta bis questa affettuosa sollecitudine protettiva che ha circondato due carabinieri protagonisti delle diverse fasi di arresto di Cucchi. E che ha sfumato la loro fisionomia, ridimensionandone il ruolo fino a renderlo insignificante. Noi ci fermiamo qui: il nostro inossidabile e irriducibile garantismo ci impedisce di andare oltre. Secondo il Corriere della Sera, i due "rischiano l’iscrizione nel registro degli indagati per lesioni colpose". Noi non sappiamo. Ci auguriamo, tuttavia, che quanto abbiamo evidenziato non costituisca un ulteriore ed estremo mistero, bensì l’occasione per accertare infine che cosa ha portato alla morte di Stefano Cucchi. Droghe, sconto di pena per chi patteggia prima della Consulta di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 16 settembre 2015 Cassazione - Sezioni unite penali - Sentenza 15 settembre 2015 n. 37107. Anche chi ha patteggiato una pena per un reato relativo alle droghe leggere prima della sentenza della sentenza della Consulta (132/2014) ha diritto ad uno sconto. Le Sezioni unite della Cassazione (sentenza 37107) escludono il valore assoluto dell’immutabilità del giudicato quando si tratta di eliminare una pena incostituzionale e affermano il potere del giudice di intervenire seppur solo sulla quantificazione della pena. Un chiarimento che si imponeva dopo la bocciatura della legge Fini Giovardi da parte dei giudici delle leggi che ha fatto rivivere la Jervolino Vassalli, facendo tornare in auge la distinzione tra droghe leggere e pesanti. Sulla rideterminazione delle pene in caso di patteggiamento definitivo la Cassazione si era divisa e i l Supremo collegio prende le distanze dai precedenti orientamenti. Non va bene un primo indirizzo basato sull’applicazione del criterio matematico proporzionale, secondo il quale il giudice dovrebbe limitarsi ad aggiungere al nuovo minimo di pena la stessa percentuale applicata in sede di cognizione. Mentre per un diverso orientamento il giudice dell’esecuzione avrebbe mano libera nella determinazione. La Suprema corte li boccia entrambi. Il criterio dell’automatismo finisce, infatti, per non tenere conto della gravità dei fatti e della personalità del condannato rispetto alla nuova cornice. La scelta di affidare al giudice il potere di rivedere la pena ha la "controindicazione" di prescindere dall’accordo delle parti. Le Sezioni unite salvano invece l’intesa seppure con alcune condizioni. Lo strumento utile è l’articolo 188 delle disposizioni attuative del codice di rito, che consente di rimodellare la pena raggiunta con il patteggiamento irrevocabile. La norma è quella utilizzata per intervenire in fase esecutiva sulla pena patteggiata, quando è riconosciuta la continuazione tra più reati oggetto di distinte sentenze irrevocabili. Un’interpretazione estensiva dell’articolo 188 è giustificata perché anche nel caso esaminato si tratta di eliminare una pena illegale, in assenza di specifici rimedi. In base alla regole procedurali il condannato e il Pubblico ministero possono sottoporre al giudice dell’esecuzione un nuovo accordo sulla pena, tarata sui nuovi criteri. La rideterminazione presuppone una richiesta proposta, normalmente, dal condannato, alla quale il Pm può o meno aderire. Nel caso di accordo la nuova pena sarà sottoposta al giudice dell’esecuzione, mentre se l’intesa non c’è o la pena concordata non è ritenuta congrua, il giudice dell’esecuzione può provvedere autonomamente a rideterminarla in base agli articoli 132 e 133 del codice penale, secondo canoni di adeguatezza e proporzionalità. Il collegio non esclude neppure la possibilità che nel nuovo accordo la pena incostituzionale possa essere sostituita dalla sospensione condizionale esclusa in precedenza, perché ad esempio, fuori dai limiti previsti. Anche in questo caso si può smantellare l’intangibilità del giudicato per evidenti esigenze di logica. Stabilito che la legge demanda al giudice una determinata funzione, allo stesso giudice vanno riconosciuti tutti i poteri necessari per assolverla. Il giudice dell’esecuzione è responsabile della revoca di Enrico Bronzo Il Sole 24 Ore, 16 settembre 2015 Cassazione - Sezioni unite penali - Sentenza 15 settembre 2015 n. 37345. Il giudice dell’esecuzione "deve" revocare la sospensione condizionale dell’esecuzione della pena in presenza di cause ostative, come sentenze di condanna o decreti penali. In questo modo la Corte di cassazione - riunita a Sezioni unite - con la sentenza numero 37345 depositata ieri, ha dato ragione al procuratore della Repubblica del tribunale di Firenze che lamentava, nei confronti di un pluripregiudicato, la mancata applicazione dell’articolo 168, terzo comma, del Codice penale che prevede la revoca della sospensione condizionale della pena concessa in presenza delle menzionate cause ostative (violando l’articolo 164, quarto comma, del Codice stesso). In buona sostanza, il giudice delle esecuzioni continuava a concedere sospensioni condizionali dell’esecuzione della pena sulla mera, e a quanto pare fallace, presunzione che i precedenti penali dovessero essere noti ai giudici della cognizione al momento della concessione del beneficio. Senza alcun controllo. Invece, hanno chiarito le Sezioni unite della Corte di Cassazione, avrebbe dovuto controllare effettivamente il fascicolo per verificare se i precedenti ostativi fossero noti al giudice che aveva concesso il beneficio. La prima sezione penale della Corte di Cassazione si era rivolta alle Sezioni unite ponendo un quesito che, oltre a domandare lumi sulla revoca della sospensione condizionale illegittimamente concessa dal giudice di merito, chiedeva letteralmente se fossero individuali "ipotesi di conoscibilità degli elementi ostativi da parte non solo del giudice della cognizione ma anche, ex post, da parte di quello dell’esecuzione". Evasori fiscali: difficile metterli in manette Secolo Trentino, 16 settembre 2015 Corte di Cassazione - Sentenza n. 36918 del 14 settembre 2015. Dopo l’ultima disposizione legislativa legata allo svuota-carceri, l’evasore fiscale finisce dietro le sbarre solo se il giudice verifica la possibilità di una recidiva e se la pena può essere superiore ai tre anni. In caso contrario, niente custodia preventiva. Lo ha sancito la Corte di Cassazione che, con la sentenza n. 36918 del 14 settembre 2015, ha confermato i domiciliari a un presunto evasore fiscale. Una delle prime a interpretare la norma contenuta nell’Articolo 8 del DL 92 del 2014, la terza sezione penale chiarisce che la disposizione stabilisce, con alcune eccezioni, l’inapplicabilità della custodia in carcere laddove il giudice ritenga che, all’esito del giudizio, la pena detentiva irrogata non sarà superiore a tre anni. Perciò, secondo il Collegio di legittimità, dev’essere eseguita sia la valutazione circa la futura concessione della condizionale, per escludere nell’ipotesi di prognosi favorevole la custodia cautelare, sia la valutazione circa una prognosi di condanna a pena non superiore a tre anni di reclusione, per escludere, se del caso, la custodia in carcere; "e ciò inevitabilmente richiede la formulazione di un giudizio prognostico, affidato al giudice cautelare per espressa previsione normativa che attribuisce in proposito una competenza funzionale al fine di evitare che l’imputato venga sottoposto a forme intense di restrizione della libertà personale alle quali, all’esito del giudizio di merito, se anche di colpevolezza, non sarà mai sottoposto in tutto o, anche solo, in parte o con modalità diverse e meno afflittive". Riconosciuto il diritto al rito abbreviato quando il ritardo è dell’amministrazione di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 16 settembre 2015 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 15 settembre 2015 n. 37100. L’imputato ha il diritto di accedere al giudizio abbreviato quando chieda il rinvio per produrre documentazione a suo favore e l’Agenzia delle entrate ritardi la consegna della certificazione. Questo in estrema sintesi il contenuto della sentenza della Cassazione n. 37100/2015. I fatti - La vicenda ha visto protagonista un imputato che aveva chiesto di essere giudicato con rito abbreviato condizionato alla produzione di documenti con richiesta di rinvio per poterli procurare. Il gup del Tribunale di Orvieto aveva concesso il rinvio e aveva differito l’udienza diverse volte. All’udienza tenutasi il 10 dicembre 2013, tuttavia, il gup del Tribunale di Terni - dato atto che l’imputato non era stato ancora ammesso al rito alternativo - aveva rigettato la richiesta di rito abbreviato. Il cittadino a quel punto aveva sollecitato il proprio rinvio a giudizio non avendo inteso comunque definire il processo all’udienza preliminare in assenza della documentazione non ancora acquisita. Il difensore dell’imputato ha presentato così ricorso contro il rigetto a poter accedere al rito abbreviato condizionato. Questo perché la condizione per accedere al particolare rito non dipendeva certo dal suo assistito ma dai ritardi dell’amministrazione finanziaria. La Cassazione ha accolto pienamente la richiesta. La sentenza spiega come debba essere qualificata come abnorme la revoca dell’ordinanza di ammissione del giudizio abbreviato. Diniego - viene rimarcato dal collegio - che rimane confinato ai casi eccezionalmente previsti dall’articolo 441 del codice di procedura penal e. Né, sottolineano i giudici, poteva ritenersi acquiescente la decisione dell’imputato, in quanto posto dal giudice dinanzi all’alternativa tra accettare il giudizio abbreviato cosiddetto "secco" (ossia subito e senza documentazione) e il rinvio a giudizio. Unica chance per l’imputato - La circostanza che l’imputato avesse optato per quest’ultima soluzione, di fatto era l’unica che in ogni caso non gli avrebbe precluso la possibilità di recuperare in sede dibattimentale la prova alla cui acquisizione era stato subordinato il giudizio abbreviato e che avrebbe portato verosimilmente a escludere la sussistenza di due dei tre reati contestati. Non assume nemmeno rilevanza la circostanza che l’imputato non avesse nominativamente e formalmente eccepito il vizio dell’abnormità dell’atto impugnato, dovendosi aver riguardo alla sostanza dell’eccezione che si coniugava perfettamente con le ragioni per le quali la Corte la ritiene fondata. Conclusioni - Logica conseguenza è che l’ordinanza con la quale l’imputato non è stato ammesso al giudizio abbreviato è stata annullata con conseguente annullamento del decreto che dispone il giudizio. Nuove specializzazioni al via dal 14 novembre di Marina Castellaneta e Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 16 settembre 2015 Dm Giustizia 12 agosto 2015, n. 144. Sarà operativo dal 14 novembre il nuovo regolamento sulle specializzazioni degli avvocati. Ieri sono infatti approdate in Gazzetta (n.214) le nuove regole che dovrà seguire il legale che vuole fregiarsi del titolo di specialista o lo vuole mantenere. Diciotto le aree di specializzazione dal diritto di famiglia, alla proprietà, dal diritto industriale a quello fallimentare fino al diritto dell’Unione europea. L’avvocato però dovrà circoscrivere la sua scelta a due settori da indicare al consiglio dell’Ordine di appartenenza. La domanda per essere iscritto negli elenchi, tenuti dai Consigli e accessibili on line, è riservata a chi ha frequentato, con esito positivo negli ultimi cinque anni i corsi. Ma non basta. La strada della specializzazione è preclusa a chi è stato "punito", nei tre anni precedenti la domanda, con una sanzione disciplinare diventata definitiva, diversa dall’avvertimento o ha subìto due anni prima la revoca del titolo. Il compito di formare i nuovi specialisti è affidato alle Università legalmente riconosciute che nei Dipartimenti di giurisprudenza metteranno a punto i percorsi da sottoporre, per una valutazione di conformità, al ministero della Giustizia. Sarà una commissione permanente, composta da sei esperti, due magistrati nominati da via Arenula, due avvocati scelti dal Cnf, e due professori universitari selezionati dal Miur ad elaborare, con occhi attenti alle best practies, i programmi per formare gli avvocati Doc. Al Consiglio nazionale forense è concessa l’opportunità di di stipulare le convenzioni con gli Atenei d’intesa con le associazioni specialistiche più rappresentative. Accordi che prevedono l’istituzione di un comitato scientifico misto per individuare programmi dettagliati con docenti scelti solo tra professori universitari di ruolo o avvocati di comprovata esperienza e abilitati al patricinio nelle corti superiori. Via libera anche alle lezioni telematiche a distanza ma con la garanzia di un tutor nella sede esterna, utile anche a rilevare le presenze. Un sistema udi-visivo consentirà l’interazione tra "allievi" e docenti. La durata dei corsi deve essere almeno di due anni e non inferiore alle 200 ore, con una didattica "frontale" che non può scendere sotto le cento ore di lezione, mentre l’obbligo di frequenza è fissato nella misura minima dell’80 per cento dell’intera durata. Per gli aspiranti specialisti gli esami non finiscono mai: per raggiungere il titolo sarà necessario superare almeno una prova, scritta e orale, al termine di ogni anno. A giudicare la preparazione del candidato sarà una commissione nominata dal Comitato scientifico e composta, per almeno due terzi, da membri esterni al corso. Previsto anche un riconoscimento d’ufficio per i professionisti che siano iscritti, ininterrottamente all’albo, da almeno otto anni. Il regolamento premia anche la pratica: nessuna trafila neppure per il professionista che è in grado di provare, documentazione alla mano, di avere esercitato per cinque anni in prevalenza proprio nel settore prescelto. Per finire, nella disposizione transitoria è previsto un titolo, da "consegnare" però solo dopo una prova orale e scritta, anche a chi, nei cinque anni precedenti l’entrata in vigore del regolamento ha conseguito l’attestato di frequenza, almeno biennale, di un corso di alta formazione specialistica organizzato da Cnf o dalle associazioni maggiormente rappresentative. Conseguito il titolo lo specialista dovrà dimostrare, ogni tre anni, di avere rispettato gli obblighi di formazione permanente e di aver conseguito almeno 75 crediti nel biennio e comunque non meno di 25 per ogni anno. L’alternativa è provare di aver svolto sul campo l’attività specialistica nei tre anni canonici trattando almeno 15 incarichi fiduciari. E siccome dal regolamento non devono derivare oneri a carico dello Stato, i corsi li pagano i partecipanti, in base a quote determinate dal comitato di gestione d’intesa con quello scientifico. Nella Gazzetta di eri, ancora un Regolamento destinato ai legali (decreto 143/2015) quello relativo alle forme di pubblicità dell’esame di Stato utile per l’abilitazione. Il decreto con il quale vengono indette le prove sarà pubblicato in Gazzetta almeno 90 giorni prima degli scritti. Il testo sarà inserito nei siti del ministero della Giustizia e del Cnf entro 10 giorni dalla pubblicazione. Lettere: il Ministro del "Fino a fine pena" di Carmelo Musumeci carmelomusumeci.com, 16 settembre 2015 Un compagno che è uscito dopo tanti anni di carcere mi ha scritto queste parole che mi hanno fatto riflettere: "Carmelo il carcere è duro, ma quello che viene dopo è ancora più duro" (Diario di un ergastolano). Il Ministro degli interni, Angelino Alfano, rispondendo a una domanda sulla proposta di amnistia lanciata da Papa Francesco per umanizzare le carceri e la pena, ha risposto: "Dobbiamo fare in modo che le carceri siano luoghi di rieducazione, ma chi è condannato resti in carcere fino all’ultimo giorno. E se i posti non bastano ne costruiamo di altri. Il Santo Padre fa il pastore di anime, io come Ministro dell’Interno non posso non ricordare che dietro ogni condannato c’è almeno una vittima a cui lo Stato deve rispetto". È vero! Personalmente ritengo che è giusto pagare. Ma mi chiedo: perché solo con il carcere? E che se ne fanno le vittime della sofferenza dei prigionieri? Non credo che saperli in carcere li faccia stare meglio. Vorrei ricordare, invece, che chi accede alle misure alternative alla detenzione ritorna meno in carcere, rispetto ai detenuti che scontano la pena "fino all’ultimo giorno" la percentuale di recidiva è molto più bassa. Forse gli unici che ci guadagnano con l’insistenza sul carcere duro e col disinteresse verso le forme di pena alternativa sono alcuni politici, che sfruttano e usano il dolore delle vittime dei reati per cercare voti e consensi elettorali. Signor Ministro, mi permetto di ricordarle che, a parte gli ergastolani, tutte le persone detenute nelle nostre carceri prima o poi finiranno di scontare la loro pena e dovranno essere rilasciate. E credo che sarebbe meglio per loro (e anche per la società) che uscissero migliori di quando sono entrati. Questo può accadere solo se i detenuti vengono trattati con umanità, dando loro la possibilità di dare una svolta alla loro vita. Penso che tenere una persona in carcere per scontare la propria pena e saldare il proprio debito con la società sia giusto. Ma ad un certo punto, dopo diversi anni trascorsi dentro, la pena non sia più necessaria, non sia più manifestazione di giustizia, ma solo di un’inutile e cattiva vendetta. E questa può diventare anche un crimine peggiore di quello che il detenuto ha commesso. Inoltre, poi, i dati statistici dicono che le persone in carcere, specialmente nelle nostre democratiche e civili "Patrie Galere", non migliorano ma diventano ancor più criminali di quando sono entrate. Credo che non ci saranno mai abbastanza carceri per rinchiudere tutti "fino a fine pena" e che, anzi, i carceri diventino spesso "promotori" di mentalità criminale, anziché di rinnovata coscienza e di responsabilità verso la società. Lettere: Scattone ha pagato il suo debito, perché non può insegnare? di Valter Vecellio Notizie Radicali, 16 settembre 2015 Sì, d’accordo: in "nome del popolo italiano Giovanni Scattone è stato condannato a cinque anni e quattro mesi di reclusione per l’omicidio, colposo e aggravato, di Marta Russo, il famoso delitto all’università de "La Sapienza" del 9 maggio 1997. Delitto che resta negli annali dei misteri della cronaca nera italiana. Sul come e il perché è stata uccisa quella povera ragazza si è detto e scritto di tutto. Indimenticabili alcune affermazioni della pubblica accusa, secondo cui "il movente è l’assenza di movente", dopo, però averne elencati una quantità e tra i più disparati. Per non parlare dell’ipotizzata presenza demoniaca che sarebbe aleggiata nell’aula di giustizia. Sì, d’accordo: nelle requisitorie si deve anche far sapiente uso della suggestione; però se ci sono prove inconfutabili non c’è bisogno di farla tanto lunga né di suggestioni: si elencano i testimoni, si esibiscono gli elementi messi a disposizione dai periti, si concatenano i fatti non smentibili…Ma qui si devia dal discorso che preme ora. Torniamo a Scattone. Condannato a cinque anni e quattro mesi, li sconta. Lui si proclama innocente, ma ritengono sia colpevole. A conclusione di un lungo, tormentato iter la Corte di Cassazione decide di non comminare pene accessorie: cancella l’interdizione all’insegnamento. Scattone, laureato in filosofia (110 e lode), ha un curriculum professionale rispettabile: master in storia moderna e contemporanea; borsa di studio annuale presso il Cnr per discipline giuridiche e politiche; ricercatore universitario e assistente; dottorato di ricerca in "Teoria generale del Diritto e Filosofia della Politica". Pubblica volumi specialistici e divulgativi, oltre a numerosi articoli su riviste specializzate di filosofia del diritto e bioetica; licenza in Storia della Filosofia presso la Pontificia Università Gregoriana. La sua attività di studio si svolge presso l’università "La Sapienza" di Roma, l’Istituto Benincasa di Napoli, la European Academy of Legal Theory di Bruxelles. Colpevole di omicidio colposo e non di delitto volontario gli viene accordata la riabilitazione penale, a decorrere dal giorno della fine della pena. Scattone sconta la pena, prima in carcere (fino al 2004) poi ai servizi sociali (nella riabilitazione dei disabili) fino al 2006; non più interdetto dai pubblici uffici, lavora come professore di liceo supplente; nel 2011 ottiene una supplenza in storia e filosofia presso il liceo scientifico Cavour di Roma. Caso vuole che sia lo stesso dove ha studiato Marta Russo; la cosa fa discutere, ci si divide riguardo la sua riammissione all’insegnamento; docenti, genitori, studenti. Polemiche accese, lo convincono ad abbandonare l’incarico. Insegna poi filosofia nel liceo "Primo Levi", e successivamente è supplente di materie umanistiche in altri licei. Ancora polemiche: studenti di estrema destra inscenano proteste e contestazioni; altri studenti e genitori scendono in sua difesa. Nel 2015 ottiene una cattedra in psicologia all’istituto "Einaudi" di Roma, diventa insegnante di ruolo, dopo aver superato nel 2012 il relativo concorso a cattedra. Dopo qualche giorno, rinuncia in seguito alle polemiche accanite suscitate dalla stampa e dai social network. Decide anche di abbandonare definitivamente l’attività di insegnante: "Dicono che è uno scandalo che faccia l’educatore? La verità è che un altro lavoro, diverso dall’insegnante, io lo farei volentieri. Solo che a quasi cinquant’anni faccio fatica a trovarlo. Farei anche un lavoro per cui non serve la mia laurea. Però sono stufo di queste polemiche, ogni anno è la stessa storia e ormai son dieci anni che insegno nei licei. Per dieci anni ho fatto il supplente, ho insegnato storia e filosofia e con i ragazzi mi son sempre trovato bene, anche loro con me... Ora ho vinto questo concorso, anzi l’ho vinto tre anni fa per insegnare Filosofia e Scienze Umane e non c’entra niente la "Buona Scuola" di Renzi, sarei entrato comunque per la regola del turnover...". I giornali e le televisioni registrano il composto dolore e l’irritazione dei genitori di Marta Russo; qualsiasi cosa i genitori dicano, pensino, nessuno ha il diritto di giudicare, replicare. Vanno rispettati: la perdita della figlia è un qualcosa di crudele, inconsolabile, irreparabile. Non ci si può, tuttavia, sottrarre alla valutazione dei fatti; e i fatti, anche quelli, c’è poco da discuterli. Ha ragione Giovanni Valentini: sulla Repubblica di qualche giorno fa osserva che "se per la giustizia è stato Scattone a uccidere, per la stessa giustizia Scattone non aveva l’intenzione di uccidere: se ha sparato, l’ha fatto maneggiando incautamente una pistola (mai ritrovata) e sporgendo il braccio da una finestra". Appunto, omicidio colposo. Scattone ha scontato interamente la pena, senza beneficio di amnistie o condoni. A tutti gli effetti è un libero cittadino. Per la sua buona condotta, il tribunale di Roma lo riabilita. Può non piacere, ma così è. Se non piace, e se non si vuole che così sia, per favore: meno indignazione, meno grida, meno invettive: piuttosto cambiate la legge; fateci sapere come si intende punire (magari togliendo anche il costituzionale "orpello" del carcere che riabilita) il delitto colposo, anche "dopo", quando la pena è stata scontata. Ma fino a quando queste leggi sono legge, che si applichino: quando piacciono, e anche quando non piacciono. Già che siamo nel discorso (che vale in particolare per noi che di mestiere facciamo i giornalisti): i processi seguiamoli, udienza per udienza. È lì che si forma la prova, che si verifica la consistenza delle accuse, se sono tali da giustificare o meno la condanna. Di regola sono pochissimi coloro che certosinianamente si sobbarcano l’onere di seguire tutte le udienze; ricordiamoci anche - ce n’è urgente necessità - che non si deve stabilire è la pubblica accusa a dover provare che un cittadino è colpevole, non il cittadino che è innocente. Ricordiamocelo quel po’ di diritto romano che ci resta, compreso il "in dubio pro reo" del Digesto giustinianeo. Chi scrive non dirà, come non ha mai detto, che Scattone è innocente. Dice, come ha detto, che le accuse contro Scattone e il suo complice Salvatore Ferraro sono labili, non gli sembrano sostenute da sufficienti prove per giustificare la condanna. C’è stata una pressione mediatica, come spesso avviene in casi come questi, che forse può ha influenzato e "inquinato" una valutazione serena e obiettiva dei fatti. Chi ripercorre tutto il lungo iter giudiziario non può che sentire un brivido corrergli lungo la schiena. Ma qui il discorso rischia di portarci lontano, con riflessioni e divagazioni sull’amministrazione della giustizia, il potere dei giudici, la sofferenza che dovrebbero provare nell’inevitabile esercizio del giudicare. Un’altra volta... Ora restiamo a Scattone: ha pagato quello che la Giustizia ha ritenuto fosse la sua colpa; ha "rimesso" il suo debito. Perché le porte dell’insegnamento gli devono essere precluse? Lettere: "Le parole impazzite". Per una corretta informazione sulla salute mentale di Fabio Della Pietra politicamentecorretto.com, 16 settembre 2015 Matto, pazzo, psicolabile, squilibrato, folle, psichiatrico, malato mentale, malato psichiatrico, (ex) detenuto psichiatrico, paziente (psichiatrico), serial killer, detenuto pericoloso socialmente, paziente ex detenuto. Raptus, raptus omicida, follia omicida, insano gesto, gesto di follia, follia killer. Pericolosità (sociale), sicurezza, allarme, attacco, sorveglianza, rischi, custodia. Sono solo alcune delle parole, associate ad eventi riferiti a persone con sofferenza mentale, che leggiamo sovente su quotidiani, magazine, media più in generale, cartacei e digitali, social media compresi, in particolare Facebook. Perché, tranne rare eccezioni, la maggioranza delle parole usate dai media quando si parla di salute mentale hanno connotazione negativa? Perché riguardano eventi di per sé negativi, come un omicidio, si dirà. Perché i media faticano a presentare casi positivi, di reinserimento nella società di persone con sofferenza mentale? Perché trovano poco spazio i casi positivi, perché non si scrive che di malattia mentale si può anche guarire? La risposta che la cronaca nera fa vendere più giornali e ottenere più clic su Facebook rispetto alla cronaca bianca è limitante di per sé. E chiamerebbe in "correità" i gruppi editoriali, più interessati alle vendite che all’etica della professione. È davvero pensabile che per ottenere un clic in più si sia disposti al rischio di alimentare lo stigma e il pregiudizio nei confronti delle persone con sofferenza mentale? Possibile che non si possa concepire di costruire tutti insieme - giornalisti, psichiatri, operatori e cooperatori, beneficiari dei servizi - una nuova etica dell’informazione rispetto i temi della salute mentale, anche sui social media? Perché alimentare la paura del matto in quanto altro da sé, del diverso, di chi non si conosce, e non praticare invece giornalismo responsabile? Un’indicazione, da subito, la fornisce la lingua italiana. Per il Thesaurus di Word il primo antonimo per il vocabolo "matto", quello più diretto, è "normale". E ci porta alla arcaica dicotomia matto/normale, noi/loro, demolita grazie all’opera di Franco Basaglia e alla Legge 180 del 1978. Sono trascorsi 37 anni e, come per la Legge Basaglia, anche il superamento di quella dicotomia (come il superamento degli ex manicomi-lager-istituzioni totali) è avvenuto a macchia di leopardo. I buchi neri ci sono, a volte sono molto profondi, altre sono dentro di noi, non solo dentro la psichiatria. Così, all’interno di un gruppo, la persona che deraglia dalla "normalità", comunemente accettata e definita dall’organizzazione sociale del momento (il cosiddetto deviante sociale), va prima di tutto identificata, poi isolata, punita ed espulsa per preservare la salute e la salvezza degli altri componenti. Esattamente come è avvenuto diverse centinaia di anni fa a migliaia di donne (ma anche uomini) accusate del crimine di stregoneria. Perché se il matto si riconosce per tempo, si può evitare; le caratteristiche lo identificano e ci possono allontanare da lui, ci possono salvare dal pericolo, e per noi è più rassicurante Il meccanismo è lo stesso, applicato in seguito ad ebrei, zingari, omosessuali, disabili e a tante altre "categorie" di persone. E continua ad accadere ancora oggi, non solo con i matti, ma anche con, i rom, i migranti, i rifugiati. Il matto è colpevole a priori, ed è colpevole per il solo fatto di essere matto, di esistere. È nato colpevole. Come i benandanti friulani dovevano i loro poteri all’essere nati con la camicia o durante solstizi ed equinozi, così il matto è tale perché lo ha scritto nel Dna, ha una colpa innata, per così dire biologica. Primordiale e inappellabile. Da qui, ma non solo da qui, è nata l’idea nella Cooperativa sociale Itaca di interrogarci sulle parole della salute mentale in occasione della Giornata Mondiale della Salute Mentale. "Il nostro obiettivo - come spiega Nicola Bisan, formatore di Itaca - non è fornire delle risposte, ma farci delle domande, riflettendo assieme a giornalisti, psichiatri e beneficiari dei servizi della salute mentale". Lo faremo il prossimo 9 ottobre dalle 9.30 alle 14.30 in Sala Ajace a Udine all’interno di un evento organizzato da Itaca in collaborazione con il Dsm di Udine, il Comune di Udine e l’Ordine dei giornalisti del Friuli Venezia Giulia, appuntamento che rientra all’interno dei corsi di formazione obbligatoria rivolti ai giornalisti, approvati dall’Ordine nazionale. Con noi ci saranno i giornalisti Gianpaolo Carbonetto e Raffaella Maria Cosentino, il direttore del Dsm udinese Mauro Asquini, la psichiatra Maria Angela Bertoni e la Comunità Nove di Udine. Moderatore della sessione mattutina Fabio Della Pietra, giornalista e ufficio stampa della Cooperativa Itaca; il presidente di Legacoopsociali Fvg, Gian Luigi Bettoli, modererà la tavola rotonda del pomeriggio. Toscana: il Garante regionale dei detenuti, Franco Corleone, in visita a Porto Azzurro di Paola Scuffi parlamento.toscana.it, 16 settembre 2015 Oggi alle ore 11.00 inizia il sopralluogo alla casa circondariale dell’isola d’Elba. "Una visita sotto i migliori auspici", così Franco Corleone, Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, ha definito il sopralluogo alla casa di reclusione di Porto Azzurro, in programma per oggi. "Finalmente a Porto Azzurro la richiesta pressante di un direttore stabile è stata ascoltata - ha commentato Corleone - Francesco D’Anselmo è direttore a tempo pieno ed è importante per un carcere che è stato abbandonato a se stesso, tanto da essere definito grande promessa". La terza visita sull’isola è caratterizzata anche da un altro fatto positivo: la nomina del garante dei detenuti di Porto Azzurro Nunzio Marotti. "Mi auguro di trovare condizioni nuove, per sperimentare nodi strutturali e di vita - ha affermato Corleone - il carcere ospita 248 detenuti ed ha una capienza di 363, occorre capire cosa fare in un’isola, quindi lavorare per una fortezza come occasione di incontro tra liberi e ristretti". Il Garante regionale, nel sopralluogo a Porto Azzurro, sarà accompagnato dal locale garante e dal garante di Livorno Marco Solimano. Meno detenuti ma non aumenta qualità vita "In Toscana i detenuti e le detenute in carcere sono oggi circa 3.000 unità, rispetto alle oltre 4.500 del 2010-2011. A questa diminuzione di presenze, però, non ha corrisposto un aumento significativo della qualità della vita". Lo ha ricordato il garante toscano per i diritti dei detenuti Franco Corleone, illustrando alla commissione affari istituzionali del consiglio regionale, presieduta da Giacomo Bugliani (Pd), l’attività svolta nel corso del 2014. Corleone, spiega una nota, ha rilevato, fra l’altro, che rimane critica la situazione strutturale degli edifici penitenziari, mentre l’assistenza sanitaria non viene garantita in modo omogeneo, dal punto di vista delle attrezzature e degli spazi, ma anche in termini di orari e presenze. La componente femminile, pari a circa il 4,2% della popolazione detenuta, vive inoltre una condizione di marginalità pesante. Non è, infine, stato ultimato il processo di chiusura dell’Ospedale psichiatrico giudiziario di Montelupo fiorentino, con il passaggio degli internati dal regime carcerario a quello sanitario. L’impegno per l’anno in corso si svilupperà, in particolare, sulla riabilitazione dei sex offenders, detenuti per reati sessuali ai danni di donne e minori, sulle problematiche specifiche per i detenuti stranieri e per i tossicodipendenti, sulle criticità dei trattamenti sanitari obbligatori. La commissione, in una proposta di risoluzione licenziata a maggioranza, esprime "apprezzamento per l’attività svolta dal Garante regionale" e ribadisce l’impegno assunto con la sua istituzione "a contribuire ad assicurare la finalità rieducativa della pena ed il reinserimento sociale dei condannati". Napoli: "la camorra è il dato costitutivo della città". Le parole di Bindi diventano un caso di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 16 settembre 2015 "O putiferio". A Napoli lo definiscono così il clamore scatenato dalle parole di Rosy Bindi, presidente dell’Antimafia: "La camorra è un elemento costitutivo della società e della storia napoletana". E al termine della trasferta della commissione bicamerale nel capoluogo partenopeo, sono piovute proteste e censure. "La camorra non è nel Dna dei napoletani che non hanno una propensione al crimine", ha esordito il procuratore Giovanni Colangelo. "Dovrà spiegare quella frase. Quando l’ho letta sono saltato sulla sedia", ha rincarato il sindaco, Luigi de Magistris. E il governatore della Campania, Vincenzo De Luca, ha chiosato: "Un’offesa sconcertante nei confronti dei napoletani". Ma Rosy Bindi controreplica: "Se qualcuno si è offeso non posso chiedere scusa. Mai parlato di Dna, ma di camorra come elemento costitutivo. Non si può fare la storia di Napoli senza fare la storia della camorra, così come non si può fare la storia dell’Italia senza fare la storia delle mafie. Sentirsi offesi per questo è il primo regalo che possiamo fare alle mafie". La difende Roberto Saviano che durante la puntata di Ballarò dice: "Forse è stata mal interpretata, qualcuno ha creduto che si facesse riferimento al Dna dei meridionali o dei napoletani ma non credo che abbia fatto riferimento a questo". Tutto era nato da un’analisi tracciata dalla Bindi al termine del primo giorno di trasferta della commissione nella città partenopea: "Non ripartirà l’Italia se ci saranno queste diseguaglianze e se noi non ci convinceremo che questa è una parte d’Italia che va accompagnata per riscattare vite umane. Il Mezzogiorno deve essere definitivamente adottato da questo governo nazionale", aveva detto la presidente Antimafia. E ancora: "Questo è il tessuto nel quale le mafie crescono, hanno futuro e fanno fortuna". Ieri le polemiche. La "criminalità rappresenta una minima percentuale della popolazione rispetto ai cittadini che vogliono vivere in pace. È una manifestazione patologica e non fisiologica della società napoletana; la delinquenza fa più rumore dei cittadini che vogliono vivere in pace", ha precisato il procuratore Colangelo. Ancora più indignato, de Magistris: "La cultura, la storia, il teatro, l’umanità sono l’elemento costitutivo della città di Napoli, della Campania e del Mezzogiorno. Altro è dire camorra: è diventata forte come le mafie perché per troppo tempo sono andate a braccetto con la politica e con centri di potere. Oggi la camorra non ha più rapporti con l’amministrazione comunale. E a Napoli è iniziato un riscatto che porterà alla sconfitta della camorra. Trovo offensive, aberranti e false le affermazioni della Bindi". "Napoli ha tantissimi elementi costitutivi - ammette la Bindi, ha ragione il sindaco, come ne ha l’Italia. Ma hanno anche la camorra e le mafie. Se neghiamo il dato costitutivo, loro vinceranno". Quanto ai legami con la politica contesta: "Non credo che Rosa Russo Iervolino o Bassolino abbiano mai interloquito o offerto una sponda alla camorra". Contro Bindi anche i segretari dei circoli napoletani del Pd: "Rischia di aprire la porta alla rassegnazione". Amaro il giudizio di don Maurizio Patriciello, prete della "Terra dei fuochi": "Oltre al danno anche la beffa. Se la Campania è diventata la pattumiera d’Italia la colpa è dei cittadini? Se lo Stato pone l’accento sul lavoro la camorra resterà un sogno". Con Bindi, invece, l’ex governatore Stefano Caldoro: "Ha avviato una riflessione. Non vedo lo scandalo". Bologna: i manicomi criminali sono un brutto ricordo, benvenuti alla "Rems" di Rosario Di Raimondo La Repubblica, 16 settembre 2015 Chiusi i vecchi Opg, a Bologna c’è la "Casa degli Svizzeri". Stanze colorate e ping pong: per essere liberi di guarire. Fuori il filo spinato e le guardie, a ogni ora del giorno e della notte. Dentro le stanze col bagno in camera, la cucina, la sala ricreativa, psichiatri e infermieri. Una terra di mezzo, dove chi la abita è sospeso tra reclusione e libertà. Da quasi sei mesi, in via Terracini, prima periferia di Bologna, sorge la Rems. Una residenza gestita dall’Ausi che ospita persone "socialmente pericolose", che hanno commesso reati gravi (omicidi, tentati omicidi, lesioni, danni al patrimonio) ma hanno anche serissimi disturbi psichiatrici e non possono andare in carcere. In una parola, gli "internati". Sono dodici, nove uomini e tre donne. Vivono qui per via della chiusura degli ospedali giudiziari (gli Opg come quello di Reggio Emilia), i "manicomi criminali", gironi infernali e disumani che in passato hanno fatto guadagnare all’Italia richiami per violazione dei diritti umani. La "Casa degli svizzeri" - così si chiama la residenza - è immersa nel verde, alla fine di un viale alberato. Una guardia giurata della Coopservice viene ad aprire. Un gruppetto di ospiti è seduto in giardino, fuma e chiacchiera. Altri due sono in cucina, apparecchiano la tavola per il pranzo. Libertà è anche sentirsi utili. Roberto (cambiamo il nome per rispetto della sua privacy) lo sa bene. È sulla quarantina, barba incolta e parlata toscana. Prima "dell’incidente" - lui lo chiama così - prima insomma di finire in carcere, faceva il meccanico. Poi la galera e il trasferimento a Bologna. "All’inizio ero disorientato, mi stupivo anch’io di questa libertà. La prima cosa che ricordo è la doccia: finalmente ne ho fatta una come si deve!". Lui e i suoi "compagni" organizzano, periodicamente, una riunione per discutere gli "ordini del giorno" su ciò che serve, perché "da noi si dice che il porto è fatto dai marinai". Ci sono persone, qui dentro, che vivevano in stanze da tre letti infilati in nove metri quadri, che rischiavano di finire in barelle di contenzione con dei buchi all’altezza del bacino. E adesso approvano ordini del giorno. Dormono in stanze che non sono indicate per numeri ma per colori (la verde, la lilla, l’arancione...): al primo piano le donne, al secondo gli uomini. Ogni camera è doppia o singola con il bagno personale. In una, sul comodino accanto al letto, è poggiata una fotografia: due persone ridono e si abbracciano. Dentro la Rems si può leggere, giocare a biliardino o ping pong. C’è la tv, si organizzano cineforum, verrà presto allestita una piccola palestra. Una stanza serve per le udienze con il magistrato. Sì, perché da qui si deve uscire. È un luogo di riabilitazione, questo, non di lenta tortura. Quattro ospiti in sei mesi sono già entrati in percorsi alternativi, una percentuale alta. "Fanno parte di progetti nel territorio - racconta Claudio Bartoletti, responsabile sanitario, che ci guida per i corridoi col direttore sanitario dell’Ausi Angelo Fioritti e la coordinatrice infermieristica Velia Zulli. Tre dei nostri ospiti sono arrivati da Reggio. Ce li avevano descritti come ragazzi che picchiavano tutti. Mai successo un episodio di violenza. È passato a trovarli un cappellano che li conosce, non credeva ai suoi occhi". La "Casa degli Svizzeri" è anche legata a due episodi che hanno sollevato polemiche. Prima un internato che è uscito da solo (da lì la decisione del filo spinato sulle palizzate), poi un altro che si è allontanato di recente mentre era in giro con l’assistente sociale: imprevisti che - dicono gli esperti - purtroppo possono accadere. Francesco Maisto, presidente del Tribunale di sorveglianza di Bologna (che ha la facoltà di revocare o attenuare le misure di sicurezza) fa un bilancio positivo dei primi mesi: "Queste strutture servono, con responsabilità, al reinserimento sociale, grazie a diverse forme come le comunità o le case-famiglia. In questo l’Emilia Romagna è un esempio. Gli inconvenienti sono da mettere in conto. Ma ricordiamoci sempre che veniamo da situazioni oscene in giro per l’Italia. Finora è stato un successo". Torre Annunziata (Na): aule senza gabbie e detenuti ammanettati in mezzo ai testimoni di Salvatore Piro lostrillone.tv, 16 settembre 2015 Nuova "rivolta" degli avvocati torresi. La Camera Penale: "Condizioni inaccettabili. Scioperiamo altri tre giorni". Un’altra astensione da tutte le udienze penali. L’ennesima proclamata in un solo anno: stop a tutti i processi nei giorni 30 settembre, 1 e 2 ottobre prossimi al Palazzo di Giustizia di Torre Annunziata. Lo ha deciso nell’ultima seduta il Consiglio Direttivo della Camera Penale oplontina (l’associazione, presieduta dall’avvocato Antonio Cesarano, che raccoglie la maggior parte dei legali del Circondario) in protesta fin dal giorno del "restyling" del tribunale di Corso Umberto, dopo l’accorpamento delle Sedi distaccate di Castellammare di Stabia, Gragnano, Torre del Greco e Sorrento. Un tribunale nuovo nel "look", ma sovraffollato e ancora da completare, anche per l’ultima interdittiva antimafia (la terza) che ha colpito la "Grumic srl", la società che avrebbe dovuto finire i lavori, in subappalto dal Comune di Torre Annunziata, entro il 31 dicembre 2015. Con "buona pace" delle sole aule più grandi ubicate al primo piano (la "Siani" e la "Nitrato Izzo", ndr), destinate alle udienze collegiali, le altre al piano terra sono addirittura "indecorose". Così recita senza mezzi termini il nuovo documento siglato dal Direttivo della Camera Penale, che terminerà lo "sciopero" solo il 2 ottobre, con un’Assemblea Generale degli iscritti convocata alle 9 di mattina al Palazzo di Giustizia. Gli avvocati di Torre Annunziata protestano soprattutto per "il concreto pericolo per la sicurezza". Tanti, infatti, i processi che si tengono senza gabbie per i detenuti, costretti addirittura a mischiarsi ai testimoni in stanzette misere, di 30 metri quadri al massimo: senza finestre, aperture o divisioni di sorta. "I detenuti spesso sono in piedi - conclude la missiva inviata, tra gli altri, anche al Ministro della Giustizia Andrea Orlando - ammanettati in mezzo ai testi, alle persone offese ed agli stessi avvocati. Ciò in evidente spregio alle più elementari regole di dignità e decoro". Lo stato di agitazione, dopo l’ultimo "sciopero" pre-ferie del 23 luglio scorso, continuerà a singhiozzo finché "il Governo in primis" non si occuperà, di fatto, di una questione divenuta ormai critica. Foggia: Ce.Se.Vo.Ca. "Lib(e)ri Dentro", la storia di Nicola Stame raccontata ai detenuti Ristretti Orizzonti, 16 settembre 2015 I detenuti hanno incontrato Lello Saracino, autore del libro sul "tenore partigiano" foggiano, nell’ambito delle attività realizzate nelle case Circondariali di Capitanata dal Ce.Se.Vo.Ca. Le future attività del Centro Servizi per il Volontariato in ambito penitenziario. La storia eroica e tragica del "tenore partigiano" Nicola Stame ha affascinato per circa due ore i detenuti della Casa Circondariale di Foggia. Nell’ambito di "Lib(e)ri dentro", attività nata da una costola del Progetto "Innocenti Evasioni", il Ce.Se.Vo.Ca. (Centro Servizi per il Volontariato di Capitanata), in collaborazione con la libreria Ubik, ha organizzato la presentazione del libro scritto dal giornalista foggiano Lello Saracino presso il teatro dell’Istituto Penitenziario. L’introduzione è stata affidata a Saverio Russo, docente di Storia Moderna e Presidente della Fondazione Banca del Monte, che da circa due anni sostiene attività di volontariato nei tre Istituti di Pena della provincia di Foggia, con il coordinamento del Ce.Se.Vo.Ca.. All’incontro, tenutosi lunedì scorso, hanno partecipato oltre 50 detenuti del Nuovo Complesso e della Sezione Reclusione, che hanno ascoltato il racconto della vita di Stame. "Arrestato nel gennaio 1944, il partigiano foggiano passò per le famigerate stanze di via Tasso, dove le SS torturavano gli antifascisti, poi finì al carcere di Regina Coeli. Ogni sera - ha ricordato Saverio Russo, presentando il libro di Saracino - nella sua cella, cantava arie d’opera per infondere coraggio ai compagni di prigionia. Tra questi, un giorno, capitò anche un giovane trasteverino, che a sua volta sarebbe divenuto cantante, uno dei più famosi della musica leggera italiana: Claudio Villa". Lello Saracino ha scandito il suo racconto proiettando fotografie, alcune anche molto forti, che hanno suscitato meraviglia tra i presenti. Ha spiegato il difficile lavoro di raccolta delle fonti ma anche i rapporti con l’ispiratore del libro, Mario Napolitano e con la famiglia di Stame. "L’incontro è andato molto bene - spiega il direttore del Ce.Se.Vo.Ca., Roberto Lavanna - i reclusi sono stati molto attenti, nonostante l’argomento storico fosse impegnativo e alla fine hanno posto delle domande all’autore. Qualcuno ha persino espresso la volontà di andare in visita alle Fosse Ardeatine". "Il lavoro di promozione del volontariato nel mondo penitenziario è uno dei settori su cui il Ce.Se.Vo.Ca. si sta concentrando maggiormente nell’ultimo periodo - aggiunge il Presidente, Pasquale Marchese - abbiamo promosso complessivamente sette progetti nei tre Istituti di Capitanata e nel futuro sono in programma nuove attività". Al momento, è all’attenzione del direttore del Carcere di Foggia la nuova edizione del Progetto "Innocenti Evasioni", realizzato dallo scorso anno nella sezione AS da Michele Paglia e Raffaele Falcone del Centro Studi Diomede di Castelluccio dei Sauri e da Annalisa Graziano, responsabile Promozione del Volontariato del Ce.Se.Vo.Ca. e che nella quarta annualità vedrà anche la collaborazione dell’Ass. Formaidea. "L’obiettivo - spiega Marchese - è quello di incoraggiare riflessioni critiche nei detenuti rispetto alle proprie esperienze di vita, grazie al confronto con le vicende raccontate sui quotidiani e in brevi saggi di attualità". È in attesa delle ultime autorizzazioni, invece, il progetto "Spiriti Liberi - Ri-scatti d’autore nel mondo penitenziario foggiano" che il Ce.Se.Vo.Ca. ha ideato nell’ambito delle iniziative a carattere culturale e artistico, finalizzate a portare all’esterno spunti di riflessione e conoscenza sul mondo del carcere e delle persone detenute o in pena alternativa, attraverso linguaggi di maggior impatto comunicativo e di più facile penetrazione. "Gli scatti, affidati a Giovanni Rinaldi - spiegano dal Ce.Se.Vo.Ca. - saranno realizzati sia durante le attività previste dall’Area Trattamentale dell’Istituto, con particolare attenzione a quelle realizzate da volontari, che durante momenti di quotidianità della popolazione detenuta. Una sezione della mostra sarà poi dedicata all’Esecuzione Penale Esterna, con il coinvolgimento degli affidati di UEPE Foggia (Ufficio Esecuzione Penale Esterna). Un progetto reso possibile grazie alla disponibilità del Direttore del carcere di Foggia, Mariella Affatato, sempre attenta alle sollecitazioni del mondo del Terzo Settore così come del personale dell’Area Educativa e degli operatori della Polizia Penitenziaria, che ci accompagnano nelle attività quotidiane. Stessa grande disponibilità del direttore di Uepe, Angela Intini e dei funzionari dell’Ufficio, con cui da anni collaboriamo e realizziamo progetti importanti per la comunità di Capitanata e con cui si è subito attivata un’importante sinergia". Innocenti Evasioni e la mostra saranno realizzati grazie al sostegno della Fondazione Banca del Monte di Foggia. Eboli (Sa): "MusIcatt al castello", iniziativa a sostegno del progetto per i padri detenuti salernonotizie.it, 16 settembre 2015 È stata presentata nell’aula consiliare del comune di Eboli, la serata di beneficenza organizzata presso l’Istituto a Custodia Attenuata per il Trattamento delle Tossicodipendenze a supporto del progetto "Genitori senza Barriere", un percorso di sostegno alla genitorialità dei padri reclusi nel penitenziario ebolitano. "MusIcatt al Castello - BandeAmì canta De Andrè" è un concerto di beneficenza che si terrà sabato 19 settembre a partire dalle ore 20 nel cortile del Castello Colonna, sede dell’Icatt. I proventi della raccolta fondi spontanea saranno devoluti per l’acquisto di giochi destinati ad attrezzare l’area del carcere in cui si svolgono gli incontri tra i detenuti e i loro figli. L’evento è stato inserito nel calendario di iniziative della Fondazione De Andrè ed è organizzato in collaborazione con il Ministero della Giustizia, Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Casa di reclusione Icatt, con il patrocinio del comune di Eboli. L’ingresso alla serata è gratuito ma con prenotazione obbligatoria indicando i propri dati anagrafici necessari per l’accesso all’area penitenziaria. Per prenotarsi, rivolgersi al 3397488366. Messo fortemente in discussione dall’esperienza della reclusione, quello della genitorialità è un aspetto ancor più delicato sia per chi si vede privato del contatto col proprio papà sia per l’esclusione del genitore dalla funzione paterna, nel caso specifico dei detenuti dell’Icatt. "Come istituzione penitenziaria promuoviamo programmi di reinserimento sociale che abbracciano anche le relazioni umane -spiega Rita Romano, direttrice Icatt. Sosteniamo azioni volte a ricucire lo strappo che inevitabilmente in alcuni casi si crea con le famiglie. Chi ha scontato il proprio debito con la giustizia ha diritto a essere reintrodotto a pieno titolo nella società". "Genitori senza barriere" è un progetto che l’Icatt porta avanti dal maggio 2014 e che vede coinvolti circa 20 detenuti. Il percorso di sostegno alla genitorialità è seguito dalla psicologa e criminologa clinica Angela Mastrolorenzo, l’educatrice e counsellor Enza La Padula e la sociologa e counselor Raffaella Terribile che dichiara: "Anche i detenuti hanno il diritto e il dovere di sentirsi genitori. Una prima fase del progetto è incentrata sulla presa di coscienza del proprio ruolo nel contesto familiare e sulla conseguente assunzione di responsabilità in tal senso. Molti detenuti non hanno conosciuto i loro figli perché quando questi sono nati loro erano già in carcere. Ciò crea una maggiore difficoltà a entrare in relazione con i bimbi, rapporto che cerchiamo di facilitare. Una seconda fase del progetto riguarda un percorso di accompagnamento al di fuori dell’istituto penitenziario entrando nel merito delle relazioni con l’intero nucleo familiare". A rendere più armoniosi gli incontri con i figli degli ospiti dell’Icatt punta il concerto di sabato prossimo i cui proventi finanzieranno l’acquisto di giochi per attrezzare l’area del carcere dove si svolgono gli incontri familiari: Patrizia La Porta, voce del gruppo BandeAmì sottolinea: "Riflettendo sulle esigenze dei bambini figli di detenuti come gruppo musicale abbiamo voluto promuovere una raccolta fondi spontanea per l’acquisto di attrezzature e giochi con cui si allestirà l’area degli incontri genitori-figli. Ci siamo ispirati a De Andrè con l’intenzione di proporre brani dai temi e sentimenti forti, poco scontati e privi di convenzioni dominanti, brani che descrivono figure apparentemente senza tempo e che restano ai margini. Ci sarà un coinvolgimento diretto dei detenuti dell’Icatt in un percorso di integrazione reale di questi ragazzi". BandeAmì è una band nata lo scorso anno da un gruppo di amici con la passione per De Andrè. La formazione vede alla voce Patrizia La Porta; Nicola Alberto Danza, all’armonica e voce; Enzo Greco al basso; Enrico La Rocca alla batteria; Agostino D’Incecco alla chitarra. Alcuni brani godranno della partecipazione musicale di Ernesto Pumpo al sax soprano. Il concerto prevede in scaletta 15 canzoni scelte tra il vastissimo repertorio del mitico Faber ma anche intermezzi teatrali degli ospiti dell’Icatt che da anni girano i migliori teatri della Campania con la compagnia "Le canne pensanti". Percorsi di integrazione nel tessuto sociale della comunità cittadina, il sindaco di Eboli Massimo Cariello annuncia: "A breve presenteremo un piano d’azione in collaborazione con l’Icatt che da anni dimostra un’enorme capacità di fare rete con il territorio. Seguo da sempre le attività dell’istituto penitenziario ma oggi da primo cittadino l’attenzione sarà ancora maggiore. Eboli ha un numero elevato di minori tribunalizzati. Molti di loro oggi sono maggiorenni, alcuni sono diventati mariti, padri. L’ente ha avviato un percorso di recupero sociale per alcuni ragazzi indicati dall’Ufficio locale per l’Esecuzione Penale Esterna. Il comune di Eboli metterà in campo tutte le sinergie possibili per dare un’ulteriore occasione a queste persone, l’errore di una volta non deve diventare l’errore di una vita intera. L’Icatt è una realtà da preservare, l’istituto penitenziario segue dal punto di vista sociale, culturale, emotivo aggregativo un patrimonio umano che va valorizzato". Pisa: "Favolare", sogni e storie senza sbarre nel libro realizzato con e per i detenuti La Nazione, 16 settembre 2015 Continua il viaggio di Favolare, il libro realizzato con e per i detenuti della casa circondariale Don Bosco. Con le sue ali di carta ha raggiunto Roma, richiamando l’attenzione del sottosegretario alla giustizia Cosimo Ferri arrivato fino a Pisa per la presentazione del volume avvenuta lo scorso sabato in largo Menotti in collaborazione con la libreria Ghibellina di Pisa. Durante il dibattito moderato dal responsabile della redazione pisana de La Nazione, Tommaso Strambi, Ferri ha avuto modo di commentare il progetto che sta dietro la realizzazione del testo. "Favolare è una raccolta che guarda oltre e che realizza la ratio della finalità rieducativa della pena: gli istituti detentivi non sono l’ultima fermata per i detenuti - commenta il sottosegretario - bisogna guardare avanti e in questo senso deve andare il nostro Paese, in modo da concretizzare un’organica riforma della giustizia". Alla presentazione c’erano anche due dei detenuti scrittori, che hanno emozionato la platea portando la loro esperienza vissuta da autori, accompagnati dall’enfasi di Daniela Bertini della LaAv che ha introdotto e chiuso la kermesse con due stralci di Favolare. Il libro, nato dall’idea di Antonia Casini, è stato pubblicato dalla casa editrice pisana Mds (rappresentata da Sara Ferraioli e Fabio Della Tommasina) che ha creduto coraggiosamente in questo programma. Antonia, l’altro curatore Giovanni Vannozzi e l’illustratore Michele Bulzomì, hanno condotto con alcuni autori un laboratorio di scrittura creativa nella casa circondariale Don Bosco. "Dietro le sbarre - afferma la giornalista e scrittrice - non mi sono mai sentita in gabbia. Spero di continuare questa avventura insieme a vecchi e a nuovi compagni". Il viaggio di Favolare non si arresta e continua a perseguire il suo obiettivo. Per far questo, però, ha bisogno di un appoggio concreto, sostegno che probabilmente arriverà proprio dalle istituzioni. "Credo sia difficile raccontare le proprie esperienze, in maniera particolare quelle vissute in carcere - dice l’onorevole pisano Paolo Fontanelli, che ha scritto un taccuino a proposito sulla sua pagina personale - Favolare è riuscito a esprimere queste emozioni e a raccontare le esigenze del nostro sistema". Entusiasta anche il sindaco di Pisa, Marco Filippeschi, che ha manifestato il suo consenso all’iniziativa. A chiudere gli interventi delle alte cariche del territorio pisano sono stati il direttore del carcere, Fabio Prestopino, il presidente del tribunale di Pisa, Salvatore Laganà, e Alberto Marchesi, presidente dell’ordine degli avvocati di Pisa, che si sono riferiti a Favolare come una grande occasione di riflessione e di crescita. presente anche il magistrato di sorveglianza Leonardo Degli Innocenti. Milano: Franco Mussida e il Progetto Co2 "ecco perché la musica nutre l’anima" di Andrea Carozzi mentelocale.it, 16 settembre 2015 L’ex chitarrista della Pfm racconta il progetto Co2. L’arte dei suoni come strumento riabilitativo per i detenuti. Si parte dal carcere di Opera. Sabato 19 settembre, Franco Mussida è protagonista dell’incontro La musica come nutrimento naturale dell’anima a Expo Milano 2015. L’evento, a cura di Cpm Music Institute in collaborazione con Ecornaturasì, si svolge alle ore 19.30 presso il Padiglione Italia (Teatro della Terra, Parco della Biodiversità). Per chi conosce la musica, Franco Mussida non ha certo bisogno di presentazioni: storica chitarra e membro fondatore della mitica Premiata Forneria Marconi, la band che, forse più ogni altra, ha fatto conoscere il progressive italiano al mondo intero, durante gli anni Settanta. Autore dell’onirica Impressioni di settembre, una delle pietre miliari della discografia del gruppo, Mussida ha lasciato la Pfm nel marzo del 2015 dopo oltre quarant’anni per dedicarsi ad altre attività. Tra queste spicca la Pedagogia musicale del nuovo millennio con Co2, un progetto didattico rivolto ai detenuti di quattro carceri italiane - Opera, Rebibbia, Secondigliano e la Casa Circondariale di Monza - che intende evidenziare la sintonia che si crea tra gli stati d’animo e la musica. "Così come i contadini oggi sono chiamati a ritornare a metodi di coltivazione più genuini e biologici, tanto per intenderci, i musicisti devono cambiare la propria mentalità per ritrovare un contatto reale con le emozioni", spiega Mussida: "la musica non può essere solo un momento in cui i musicisti si esprimono divertendosi perché può essere qualcosa di più profondo. È un mezzo di comunicazione tra le persone, e chi la crea deve esserne consapevole. Anche da questa riflessione nasce il progetto Co2". In cosa consiste questo progetto? Perché è nato per il carcere? "Il carcere è un luogo di grandi tensioni e angosce. Co2 si pone come una grande audioteca che classifica i brani in essa contenuti secondo 9 grandi stati d’animo. La musica in questo caso viene utilizzata come un elemento che dà ai detenuti la possibilità di leggere il proprio stato d’animo e le sue sfumature: sono sì nove gli stati in cui è divisa l’audioteca si va dalla nostalgia, alla rabbia, all’equilibrio, ma all’interno di queste macrocategorie si trovano fino a 27 sottocategorie che contemplano stati come quello riflessivo, meditativo e tanti altri. Il progetto è stato realizzato con l’aiuto di psicologi che hanno dato il proprio contributo nella stesura delle griglie emozionali". Come è stata strutturata questa audioteca? "I brani presenti sono stati tutti inseriti da musicisti che hanno deciso di partecipare al progetto. Non è un elenco qualsiasi, ogni musicista ha infatti legato ciascun brano offerto al sentimento che ha provato ascoltandolo. Ogni pezzo è quindi catalogato con: nome del donatore, titolo, autore, formazione che lo esegue, area di genere a cui appartiene e stato d’animo prevalente. Sono tutti pezzi strumentali, si va dalla classica al jazz. Ad oggi sono 1000 i brani inseriti ma l’obiettivo è quello di raggiungere i 5 mila entro dicembre e i 10 mila entro la fine del 2016". I detenuti come sono chiamati a interagire con Co2? "Dopo l’ascolto i detenuti avranno la possibilità di compilare diverse schede sulle quali potranno riportare le sensazioni derivate dal loro ascolto. La musica diventa quindi il veicolo attraverso il quale il detenuto potrà provare stati d’animo, immagini emotive e descriverle. Inoltre chi parteciperà al progetto potrà dichiarare di non essere d’accordo con categoria emozionale in cui il brano è stato inserito. Lo scopo è quello di fornire un approccio alla musica, capace di stimolare l’emotività di chi vive in uno stato di reclusione, ma non solo. Oggi tutti noi abbiamo disimparato a leggerci". Siccome stiamo parlando di musica ed emozioni, quanto è importante per un musicista riuscire a connettere la sua anima con lo strumento che suona? "È fondamentale. Tanto è vero che, se si prende la storia del movimento rock pop, la prima cosa che risalta è l’autenticità di chi vuole utilizzare la musica come mezzo di comunicazione. Prendi Kurt Cobain: tecnicamente non era il massimo ma era autentico. Così come, ad esempio, i gruppi punk degli anni Settanta: se ne fottevano della bravura ma avevano una gran voglia di comunicare ed erano veri. Lo stesso Jimi Hendrix, ha inventato un mondo, uno stile, ma era tecnicamente inferiore a tanti chitarristi jazz a lui contemporanei. La tecnica arriva sempre dopo, prima deve sempre esserci la visione, l’idea". Impossibile non chiederti perché dopo oltre quarant’anni di carriera sei uscito dalla Pfm... "Credo di aver fatto per questo gruppo tutto quello che potevo fare, ho cantato e ho scritto la musica di moltissimi brani della Pfm, ma in questo momento ho deciso di svoltare, di intraprendere dei percorsi che non potevo proporre o imporre al gruppo. Credo di aver dato tutto e ora voglio comunicare i miei pensieri e i miei lavori attraverso la Cpm (Centro Professione Musica). Il lavoro di creazione musicale con la Pfm si è concluso con il progetto Pfm Classic, un lavoro molto bello di cui vado fiero. Mi allontano dal pubblico per il momento ma non ho intenzione di abbandonarlo e presto ve ne accorgerete". Finanziato dalla Siae e patrocinato dal Ministero di Grazia e Giustizia e dal Patronato del Presidente della Repubblica, il progetto Co2 prende il via mercoledì 16 settembre nella Casa Circondariale di Opera (Milano) dopo che il direttore del carcere Giacinto Siciliano, sorpreso dai risultati ottenuti dal gruppo di detenuti che hanno partecipato alla fase sperimentale, ha deciso di aprire con un anno di anticipo l’audioteca a tutti i detenuti che accedono all’area biblioteca. Rifugiati, il caos europeo continua di Anna Maria Merlo Il Manifesto, 16 settembre 2015 Ministri degli Interni di nuovo riuniti il 22. Germania e Austria avevano chiesto un vertice europeo. Merkel: subito gli hotspots in Italia e Grecia. Egoismi europei. Ministri degli Interni di nuovo riuniti il 22. Germania e Austria avevano chiesto un vertice europeo. Merkel: subito gli hotspots in Italia e Grecia. Intanto anche Vienna rimette i controlli alla frontiera italiana. Minaccia (poi ritirata) di Berlino ai paesi reticenti ad accettare le quote: tagli ai fondi strutturali. Riunione straordinaria dei ministri degli Interni della Ue martedì prossimo. Una risposta a Angela Merkel e il cancelliere austriaco Werner Faymann, che hanno chiesto ieri, seguiti dalla Slovacchia, un vertice dei capi di stato e di governo della Ue, "la prossima settimana", per trovare una via d’uscita al caos e alle divisioni in cui si dibattono i 28. Lunedì notte, i ministri degli Interni si sono separati a Bruxelles su una constatazione di fallimento, senza un accordo sulla distribuzione di 120mila profughi, cifra ormai travolta dalla realtà (più di 500mila persone hanno attraversato il Mediterraneo quest’anno per Frontex, 464.876 secondo l’Organizzazione internazionale delle migrazioni). "L’Europa si è coperta di vergogna" ha commentato Sigmar Gabriel. Per il vice-cancelliere tedesco "se non ci mettiamo d’accordo, le previsioni sul budget europeo a breve saranno solo aria, la Germania non è pronta ad essere sempre quella che paga in Europa. Sono tutti lì quando c’è da prendere dei soldi, ma non c’è più nessuno quando bisogna assumersi delle responsabilità". Il ministro degli Interni, Thomas de Maizière aveva affermato la vigilia che "i paesi che rifiutano" la distribuzione di quote di rifugiati "sono quelli che ricevono molti fondi strutturali". Potrebbe essere riesumata la minaccia di una multa per i paesi reticenti. Ma Merkel ha calmato il gioco delle minacce, ieri, anche di fronte alla difficoltà di tagliare l’accesso ai fondi strutturali al fronte del rifiuto, cioè il gruppo di Visegrad (Ungheria, Repubblica ceca, Slovacchia e Polonia), a cui si sono aggregati Romania e Lettonia. "Credo che dobbiamo riuscire a creare un nuovo spirito europeo - ha precisato Merkel - ma le minacce non sono la strada per arrivare a un accordo". Il ministro degli Interni francese, Bernard Cazeneuve, ha ricordato all’est reticente che "l’Europa non è à la carte, la solidarietà non è divisibile, il carico dell’accoglienza dei rifugiati non può gravare solo su 5 paesi, che da soli ne accolgono il 75%". Per Germania e Francia, il primo passo, per smuovere la situazione, è l’apertura "immediata" di hotspots in Italia e Grecia, ha insistito Merkel, per poter poi avviare la redistribuzione "equa". Alfano ha parlato ieri di "due mesi" di tempo. Aprire "subito" gli hotspots è una mano tesa verso i reticenti, perché significa assicurare che ci sarà una registrazione rapida, con la distinzione tra chi ha diritto all’asilo e chi invece è un migrante economico, che sarà rinviato in fretta al suo paese d’origine. Il tempo stringe e la Ue affonda. Per il commissario Dimitris Avramopoulos la crisi dei rifugiati è "un crash test" per l’Europa. Per l’Alto Commissario Onu per i rifugiati, Antonio Guterres, l’Europa che rifiuta le quote di accoglienza "ha dato un’immagine terribile al resto del mondo". Un vertice dei capi di stato e di governo può trasformarsi in una scommessa pericolosa, perché al Consiglio europeo ci vuole il consenso e le divisioni sarebbero manifeste e irreparabili a quel livello di potere. Un’atra ipotesi è ricorrere al voto a maggioranza al prossimo consiglio Interni dell’8 ottobre, passo che è stato evitato lunedì per scongiurare una rottura definitiva. Pressioni anche da Mrs.Pesc, Federica Mogherini, di fronte all’Europarlamento: "in gioco c’è la vita di persone, ma anche la stessa esistenza della Ue". E ha invitato a finanziare il Trust Fund della Ue (ieri la Serbia ha chiesto finanziamenti per far fronte alla crisi degli arrivi). "Nessun muro, nessuna recinzione fermeranno la disperazione di chi è disposto a mettere in pericolo la propria vita e quella dei propri figli, pur di scappare dalla schiavitù: sarà meglio che lo capiscano tutti, prima o poi", ha aggiunto Mogherini, rivolta ai paesi che erigono barriere, come l’Ungheria, che ieri oltre al muro di filo spinato al confine con la Serbia ha cominciato ad erigerne un altro alla frontiera con la Romania. L’Austria ha rimesso i controlli alla frontiera con l’Italia, la Francia lo ha già previsto in caso di una nuova crisi tipo Ventimiglia. Tornerà sul tavolo a Bruxelles la questione della lista dei "paesi sicuri". Un’altra fonte di discordia nella Ue, dove non tutti sono d’accordo, sul Kosovo, per esempio, ma soprattutto sulla posizione da attribuire alla Turchia. Oggi, il parlamento francese dibatte sui rifugiati. Ieri, ha discusso sull’intervento in Siria, con voli di ricognizione che saranno presto seguiti da attacchi mirati, imminenti. Parte della destra chiede un intervento a terra, che Hollande ha escluso. Gli infetti di Lucio Caracciolo La Repubblica, 16 settembre 2015 Nelle emergenze storiche le democrazie europee hanno saputo talvolta ispirarsi a leader decisi a difenderle. Vorremmo sbagliarci, ma oggi non ne vediamo traccia. Nel giro di un’estate gli europei hanno assestato alla loro presunta casa comune una sequenza di colpi micidiali. Prima con la crisi greca, quando ci siamo divisi lungo la faglia Nord-Sud, ovvero "formiche" contro "cicale", spingendoci a evocare per la prima volta l’espulsione di un inquilino per morosità. Poi, medicata ma non curata tanta ferita, ecco lo tsunami dei migranti. Stavolta la partizione distingue, zigzagando, l’Est dall’Ovest, ossia alcuni paesi in paranoia xenofoba da altri che cercano di non farsene contagiare, aggrappandosi ai valori fondativi della moderna civiltà europea. I muri portanti dell’architettura comunitaria si stanno sbriciolando. Al loro posto proliferano arcigni tramezzi o loro surrogati in lamiera e filo spinato. A disegnare sinistre enclave protette, che si vorrebbero impenetrabili ai migranti d’ogni sorta, profughi inclusi. Neanche fossero portatori d’infezione culturale. Forse però gli infetti siamo noi. Come possiamo considerarci associati in una comunità di destino con un paese come l’Ungheria, che nel 1956, invasa dai carri sovietici, suscitò in Europa occidentale (Italia compresa) una gara di solidarietà con i suoi profughi, e che oggi si trincera dietro un muro, dichiara criminali coloro che vorrebbero passarlo e mobilita polizia ed esercito contro chi s’azzarda a bucarlo? Quando nel 2000 i "liberali" austriaci di Jorg Haider furono ammessi al governo dell’Austria, gli altri quattordici Stati membri (l’Ungheria e gli altri ex satelliti di Mosca erano ancora in lista d’attesa) imposero blande sanzioni politiche a Vienna. Oggi a Budapest domina, legittimato dal voto popolare, un carismatico leader xenofobo, Viktor Orbán, appetto del quale Haider si staglia campione di tolleranza. Per Orbán i migranti sono animali pericolosi e per tali vanno trattati. Esasperati, i tedeschi minacciano di colpire l’Ungheria e gli altri paesi che equiparano i migranti ai criminali con sanzioni economiche, tagliando i fondi strutturali loro dedicati. È notevole che, nel penoso annaspare della Commissione e nella decadenza della Francia, Berlino si muova per conto del resto d’Europa, avendo constatato che persino i vertici intergovernativi non servono più a nulla, se non a riconoscersi diversi. Certo non è con le multe, per quanto onerose, che si può spaventare chi si considera in lotta per la sopravvivenza contro un’invasione nemica. L’unica coerente misura sarebbe di separarci con un taglio netto da chi viola apertamente e ripetutamente le regole di base della convivenza umana, prima che lettera e spirito dei trattati europei. Se questa è la sua Europa, se la tenga. Sulla questione migratoria sta riaffiorando un antico spartiacque geoculturale che la retorica europeista voleva sepolto. Al Centro-Est del continente, tra Balcani e Baltico, persiste una radicata concezione etnica dello Stato: l’Ungheria è degli ungheresi (naturalmente anche di quelli in provvisoria diaspora, specie fra Slovacchia, Serbia e Ucraina), la Slovacchia degli slovacchi, la Romania dei romeni (inclusi quelli di Moldavia) eccetera. All’Ovest resiste a stento l’idea di cittadinanza, che fonda la nazione su valori e regole condivise al di là del sangue. Modello inaugurato dalla Francia rivoluzionaria, che oggi trova nella Germania multietnica l’esempio migliore. Geograficamente siamo tutti europei. Culturalmente e politicamente apparteniamo a continenti diversi. Ancora per poco, forse. Da questo sabba xenofobo potremmo essere travolti anche noi euroccidentali, italiani non esclusi. Il mito della comunità monoetnica, votata a proteggersi dalle impure razze che bussano alle porte, ha rivelato nella storia la sua potenza di fascinazione. Partita nel 1957 come Europa occidentale, avanguardia vetero continentale dello schieramento atlantico, questa Unione Europea può scadere nel suo perfetto opposto: un caotico subbuglio di nazionalismi etnici. Arcipelago di reciproci apartheid. Ciascuno arroccato dietro le sue fortificazioni. Con le eurocrazie elitiste a salmodiare nei palazzi blu di Bruxelles e Strasburgo, mimando riti cui esse stesse hanno rinunciato a credere. Nelle emergenze storiche le democrazie europee hanno saputo talvolta ispirarsi a leader decisi a difenderle. Vorremmo sbagliarci, ma oggi non ne vediamo traccia. Nell’Ungheria del Muro di Orbán arresti e soldati contro i profughi di Bernardo Valli La Repubblica, 16 settembre 2015 Dietro il filo spinato, migliaia di persone ammassate. Oltre 170 i fermati. Via allo sciopero della fame. Il primo ministro chiude le frontiere e la maggior parte del paese è con lui. Anche molti intellettuali di sinistra lo appoggiano in nome dell’unità etnica della nazione. Dietro il filo spinato, migliaia di persone ammassate. Oltre 170 i fermati. Via allo sciopero della fame Budapest. La conosco da tempo. Quando l’incontrai la prima volta criticava da sinistra il "comunismo al gulash". Lo chiamavano così perché era permissivo. Era una specialità comunista ungherese. Per l’intellettuale che allora si definiva marxista liberale, il regime riempiva le pance perché i cervelli non pensassero. Era un comunismo godereccio rispetto agli altri modelli al potere nell’area dell’impero sovietico. Una versione volgare dell’idea socialista. C’erano persino le ragazze in minigonna e si vedeva che molte non avevano il reggiseno. Una vergogna per la conoscente che ritrovo dopo anni, più anziana e supernazionalista. I carri armati sovietici, sempre presenti, dopo avere stroncato nel 1956 l’insurrezione, lasciavano fare, non erano esigenti, in quegli anni Sessanta sulle sponde del Danubio, purché si rispettasse la fedeltà a Mosca. Adesso l’ex marxista liberale di un tempo, rimasta scrittrice, è per Viktor Orbán. È una sua ammiratrice. Anche se è il leader della destra. La sterzata ideologica mi stupisce, ma lei sorride ironica. I tempi sono cambiati. E con i tempi i problemi. Oggi non è più questione di destra e sinistra: è in gioco l’unità etnica della nazione raggiunta attraverso tanti drammi. Per questo approva che nelle ultime ore Orbán abbia chiuso la barriera di filo spinato lungo il confine con la Serbia e che ne prepari un’altra lungo quello con la Romania. L’Ungheria sarà così più protetta. La legge che Orbán ha appena promulgato e che condanna a tre anni i migranti illegali è una conseguenza di quel che accade. E naturalmente non poteva fare a meno di far arrestare decine di uomini e donne (173 secondo l’ultimo bilancio) dalla polizia e dall’esercito mandato a rincalzo nelle province di frontiera. Inoltre non è serio ritenere il primo ministro responsabile degli scioperi della fame di uomini e donne fermati dal filo spinato nella loro marcia verso la Germania. Lo spettacolo di migliaia di profughi assiepati davanti ai valichi e alle truppe schierate non è nuovo nella storia ungherese. Ma spesso le vittime erano i gendarmi di oggi. Devo rammentarglielo. Il ministro degli interni, György Bakondi, ha annunciato la creazione di "una zona di transito" dove i rifugiati che si trovano in territorio ungherese saranno raccolti prima di essere rispediti in Serbia. La notizia mi riporta con la memoria a tanti anni fa, quando giovane cronista fui mandato al Brennero ad accogliere i profughi ungheresi, dopo la repressione sovietica del 56. Ne arrivarono 250mila in Occidente. Fu il mio primo servizio giornalistico emozionante. Lo racconto all’ex intellettuale di sinistra, per ricordarle che mezzo secolo fa anche i suoi connazionali fuggivano in cerca di un asilo politico. La risposta è che oggi Orbán si trova di fronte a un’invasione di musulmani. Anche il clero ungherese è perplesso. Il primate d’Ungheria, il cardinale Péter Erdo, arcivescovo di Esztergom, è stato sibillino: ha detto che non è un trafficante di esseri umani. Erano in pochi, due forse tre mila, sulla piazza davanti al Parlamento, a gridare "Orbán dittatore" e a esibire un distintivo con su scritto "Solidarietà". Non c’era un solo poliziotto nei paraggi. E sulla sponda del Danubio il traffico continuava indifferente, come se quella manifestazione promossa dall’opposizione non fosse degna d’attenzione. Secondo Janos, agente di pubblicità e grande lettore di giornali, neppure le critiche a Orbán dei quotidiani, che sono frequenti e non censurate, neppure se appaiono sul Népszabadság, il più diffuso, hanno un grande effetto sulla gente. Stando ai sondaggi meno di un terzo degli ungheresi si dichiara in favore di Orbán (ma il quarantuno per cento dei votanti). Lui, Janos, esperto in pubblicità, non pensa che il primo ministro abbia carisma, anzi non lo trova né colto né buon oratore, neppure spiritoso, ma ritiene che in questo momento interpreti i sentimenti di larga parte della popolazione. Anche di quella che non condivide la sua politica di destra sciovinista, e che tuttavia si riconosce nel suo rifiuto degli immigrati, avanguardie di una società multiculturale, destinata a inquinare la civiltà cristiana magiara. In realtà Viktor Orbán ha il carisma che Janos non gli riconosce. Come non gliela riconoscono quasi tutti i non pochi scrittori e scienziati ungheresi conosciuti all’estero. L’opinione pubblica cui tiene Orbán è tuttavia un’altra. Le élite lo interessano poco. A guidarlo nell’interpretare quel che pensano gli ungheresi è un ex restauratore di mobili: il suo guru è Árpád Habony. Il linguaggio popolare, lo sguardo acceso si adeguano alle inchieste di opinione che Habony conduce con squadre specializzate. Così Orbán trascina con sé quella larga parte della società frustrata dal comunismo e dal post comunismo di sinistra, rivelatosi corrotto e incapace. Sono sostenitori di Orbán gli agricoltori, gli operai, i piccoli borghesi diventati di destra per delusione o per convinzione, spesso portati alla xenofobia o all’insofferenza per le minoranze come i Rom, comunque animati dal forte nazionalismo di un paese che si sente accerchiato. Una base che si è compattata se non allargata negli anni del suo governo (1998-2002 e 2010-2015) perché ha capito di essere favorita, e destinata a sostituire negli affari, nel commercio, nella funzione pubblica, la parte di società dominante nel post comunismo, e spesso con radici nel regime precedente, quello del comunismo al gulash. Viktor Orbán ha 52 anni. Ha avuto il tempo di essere uno dei responsabili della gioventù comunista e poi anche un militante nella campagna finale contro la presenza sovietica. Lo si ricorda con la barba e la voce forte chiedere la partenza dell’Armata rossa in piazza degli Eroi, nel cuore di Budapest. La sua tesi per la laurea in legge era sulla Solidarnosc polacca. Nato in provincia in una famiglia piccolo borghese calvinista ha poi sposato una cattolica, dalla quale ha avuto cinque figli. Dopo gli studi a Budapest, grazie all’aiuto della Fondazione Soros (il miliardario progressista) ha fatto un breve soggiorno a Oxford, ma nella città universitaria inglese non ha assimilato l’uso dell’understatement. Lui descrive l’Ungheria d’oggi come un paese accerchiato, sul punto di essere invaso. E su questo tema accende le fantasie ricorrendo alla storia, ai momenti cruciali del paese, anche quelli antichi, quando le popolazioni asiatiche scendevano nelle pianure che sarebbero diventate l’Ungheria. Le statue degli eroi nazionali ritornano, si moltiplicano sulle piazze. Capita a Orbán di ricorrere a formule contradittorie, stravaganti, come "democrazia illiberale". Angela Merkel si stupì e fece dell’ironia sulla fervida immaginazione di Viktor Orbán. Il cui stile ricorda quello di Putin. Sembrano sintomi di strabismo politico. Il primo ministro ungherese, alla testa di un paese dell’Unione europea, e membro della Nato, sembra avere come modello, almeno in parte, il presidente russo. Punta su riforme che non cancellano del tutto i riti democratici, ma che li limitano, adeguandoli ai suoi interessi. Controlla il mondo degli affari e quello imprenditoriale favorendo persone fidate. Anche lui ha i suoi oligarchi. A guidarlo nei problemi economici è Lajos Simicska, l’ex tesoriere di Fidesz, il suo partito. Simicska è l’uomo che ha raccolto i mezzi finanziari per la scalata al potere. La nazionalizzazione di alcuni servizi pubblici essenziali in mani straniere serve per assegnare la direzione a dei vassalli. E adesso starebbe per vendere ai privati 300mila ettari di terra e gli acquirenti prescelti, nessuno ne dubita, saranno suoi sostenitori. Con Putin ha ottimi rapporti. Si aspetta dal presidente russo aiuti economici, in particolare per la costruzione di una centrale nucleare. Dal ritratto di Viktor Orbán si potrebbe ricavare l’impressione di un uomo politico instabile. In realtà non ha veri avversari all’interno perché l’opposizione di sinistra è divisa in due partiti in aperta tenzone: il partito socialista (12 per cento) e la coalizione democratica (13 per cento). Inoltre il tema della difesa da una società multiculturale, con una componente islamica, estende i consensi travolgendo il confine tra destra e sinistra. Punto di riferimento per altri paesi dell’Est (dalla Slovacchia alla Repubblica ceca, alle tre repubbliche baltiche) Viktor Orbán non è isolato nell’Unione europea. Non lo è nemmeno nel Partito popolare, nel Parlamento di Strasburgo, perché ha l’appoggio dei bavaresi della Csu. Senza contare gli sguardi teneri dei partiti populisti occidentali. "Mancano regole sui migranti", l’Italia blocca l’apertura degli hotspot di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 16 settembre 2015 Respinti i solleciti Ue a far partire da oggi le strutture: prima inizi la redistribuzione. Secondo il Viminale, ci vorranno almeno due mesi per siglare una nuova intesa. La data di inizio era stata fissata per oggi. E invece tutto è stato bloccato. Nessun "hotspot", gli ormai famosi centri di smistamento e identificazione, sarà aperto. Nel documento stilato dalla commissione europea che due giorni fa ha diviso i governi mostrando ancora una volta il fallimento di politiche comuni in materia di immigrazione, era ritenuto "cruciale che un efficace meccanismo diventi operativo dal 16 settembre in Italia e in Grecia per garantire l’identificazione, la registrazione e la raccolta delle impronte digitali dei migranti". Ma l’Italia dice no, nessuna misura sarà attuata fino a che l’intero sistema non sarà approvato e otterrà il via libera per entrare in funzione. Non serve l’ulteriore monito della cancelliera tedesca Angela Merkel di far partire la nuova procedura per il censimento degli stranieri, né la decisione presa in serata dalla presidenza di turno lussemburghese di convocare per il 22 settembre una nuova riunione dei ministri dell’Interno "con l’obiettivo di raggiungere un accordo sulla crisi migratoria". Fino a quando non saranno stabilite regole chiare sul trasferimento dei profughi negli altri Stati, nel nostro Paese non sarà fatto nulla di ciò che la Ue sollecita. L’irritazione per quanto accaduto martedì sera a Bruxelles, quando non si è riusciti a dare il via libera neanche a un accordo di massima sul piano messo a punto dalla commissione guidata da Jean-Claude Junker, era apparsa evidente pochi minuti dopo la chiusura della riunione ed è montata con il trascorrere delle ore. Il ministro Angelino Alfano lo ha spiegato esplicitamente ieri mattina ai responsabili dei dipartimenti interessati - in particolare quello dell’Immigrazione Mario Morcone e il capo della Polizia Alessandro Pansa - dopo aver concordato la linea con Palazzo Chigi. Del resto in un’intervista rilasciata a Rtl era già stato esplicito: "Nei prossimi due mesi partiranno le prime redistribuzioni di richiedenti asilo dall’Italia verso l’Europa e poi faremo partire gli hotspot, i centri di smistamento in cui si distingueranno chi ha diritto all’asilo e chi invece va rimpatriato". Due mesi, questo secondo il titolare del Viminale, potrebbe essere il tempo necessario a siglare una nuova intesa. In realtà le resistenze dei Paesi del blocco dell’Est appaiono solide, difficile che si riesca a convincere tutti ad accettare una divisione "permanente e obbligatoria" di chi varca i confini europei per scappare dalla guerra. Ma anche - questa era l’altra condizione posta dall’Italia già qualche settimana fa - che si riesca ad effettuare i rimpatri assistiti negli Stati d’origine di chi non ha diritto all’asilo, in particolare in Africa. Ostacoli che convincono i tecnici del ministero dell’Interno a cercare soluzioni alternative per l’accoglienza di chi è già in Italia e di chi arriverà nelle prossime settimane. Non a caso si è deciso di "sfollare" il Centro di Mineo - portando il numero delle presenze dalle attuali 2.900 persone a 2.000 con la previsione di dimezzarlo ancora - se non addirittura di svuotarlo completamente entro la fine dell’anno. E di accelerare la messa a disposizione dei 20 mila posti secondo le quote regionali indicate nella circolare inviata alle prefetture la scorsa settimana per sistemare gli stranieri in alberghi, residence, campeggi. Il timore è che la scelta di molti Stati di sospendere il trattato di Schengen e ripristinare i controlli alle frontiere provochi una situazione di emergenza nel nostro Paese lasciando di fatto "intrappolati" anche coloro che arrivano in Italia solo per transito ma vogliono stabilirsi altrove. Sanzione delirante per gli albergatori che ospitano i profughi di Luca Fazio Il Manifesto, 16 settembre 2015 Regione Lombardia. Su istigazione della Lega di Roberto Maroni, la nuova legge sul turismo approvata ieri sera contiene un emendamento punitivo che nega i fondi regionali a chi ospita migranti nel proprio hotel. Ritirata all’ultimo minuto la proposta di multe e revoca di licenza, resta un provvedimento che qualifica la classe politica che dirige goffamente il Pirellone. Razzisti piccoli piccoli. Lavorano di cesello, si incattiviscono sugli emendamenti, provocano. C’è sempre una deprimente particina anche per loro nell’Europa ossessionata dalla criminale politica del controllo. C’è chi mette il filo spinato e chiude le frontiere, chi come Matteo Salvini rispolvera un classico di ogni inizio anno scolastico chiacchierando in tv - "se in classe ci sono pochi bambini italiani non c’è confronto ma solo casino" - e poi c’è anche chi vorrebbe blindare gli alberghi della Lombardia con provvedimenti ridicoli (che infatti ieri sera sono passati in consiglio regionale con alcune sostanziali correzioni). Sono leghisti, perdono tempo nel palazzo della Regione di Roberto Maroni, a pochi passi dalla stazione dove da mesi vengono soccorse migliaia di persone che fuggono da fame e guerre. Ce l’hanno con loro e sono in preda all’ansia di farlo sapere. Ieri si sono ritagliati un quarto d’ora di celebrità con una proposta contenuta in un emendamento alla nuova legge regionale sul turismo. La firmano il capogruppo della Lega Massimiliano Romeo, il suo sottoposto Fabio Rolfi e il consigliere Pietro Foroni. Cosa vorrebbero fare? Multare con una sanzione da 5 a 10 mila euro quegli albergatori che daranno ospitalità a stranieri senza permesso di soggiorno, profughi e "migranti economici" compresi. E se non dovesse bastare, sarebbero disposti anche a sospendergli l’attività da sei mesi a un anno. La proposta, oltre a fare a pugni col buon senso, con gli alleati del Ncd e con la realtà - qualora gli albergatori si prestassero ad ospitare profughi lo farebbero su indicazione e con il permesso del ministero dell’Interno - se non altro ha il merito di qualificare la classe politica che dirige goffamente la Regione Lombardia. "Tutte le strutture ricettive alberghiere e non alberghiere - si leggeva sull’emendamento ritoccato all’ultimo minuto - non possono ospitare, anche in via emergenziale, soggetti entrati illegalmente nel territorio italiano che non siano stati definitivamente regolarizzati ai sensi della normativa vigente". Le sanzioni avrebbero dovuto scoraggiare gli albergatori. "Si propone di evitare - era l’obiettivo dichiarato - che le strutture dedicate al turismo e alla ricettività lombarda, che si vogliono qualificare a valorizzare, possano essere utilizzate come alloggi o rifugi temporanei per soggetti entrati illegalmente nei confini dello Stato (siano essi profughi o migranti economici)". Il provvedimento sanzionatorio, il solito pasticcio in salsa padana che poi si limiterà a minacciare "mancate corresponsioni" di contributi in caso di lavori di ristrutturazione, è stato rivendicato anche dal governatore, ma senza troppa convinzione. "Se il governo li mette negli alberghi nostri, a spese dei lombardi, io ho il dovere di reagire come governatore", ha farfugliato Maroni. Per lui "quello che decide il Consiglio regionale è sovrano". Poi, in conclusione, una sottigliezza da vero statista: "Io sono favorevole a tutte le iniziative che evidenziano la nostra opposizione a questa gestione". Comprese le iniziative strampalate come questa, che comunque non sembrano scaldare più di tanto le opposizioni. Per Alessandro Alfieri, segretario regionale del Pd, si tratta del solito spot leghista contro i migranti. "La Lega finisce per penalizzare gli imprenditori lombardi - ha detto - per mero furore ideologico. Dobbiamo fare una legge per il turismo lombardo, per aiutare anche gli albergatori a fare bene il loro lavoro, non per punirli. La gestione dei profughi non c’entra nulla con questo provvedimento, teniamo separati i due argomenti e la Regione faccia bene quello che altre Regioni già fanno: aiuti i comuni a gestire queste persone in modo umano e razionale". Gli albergatori come la pensano? Il ricatto meschino certo non farà piacere. La Regione Lombardia alla fine ha deciso di "vendicarsi" con gli albergatori che ospitano i migranti negando loro eventuali fondi regionali previsti in caso di ristrutturazioni edilizie. Se ne faranno una ragione. Il fatto è che gli albergatori che in questo momento ospitano i profughi hanno già stipulato contratti con le prefetture. È il governo che paga, per cui non sarà un emendamento leghista a gettarli sul lastrico. Cannabis legale, Europa a due velocità di Susanna Ronconi Il Manifesto, 16 settembre 2015 "La questione cruciale che l’Europa, oggi, ha di fronte non è se sia necessario o meno modernizzare le politiche sulla cannabis, ma quando e come farlo". Così Tom Blickman, ricercatore del Tni (Transnational Institute di Amsterdam), sintetizza il punto sul dibattito europeo attorno alla riforma del governo legislativo e politico di produzione e consumo di canapa nel suo intervento alla Summer School di Forum Droghe e Cnca svoltasi a Firenze il 3-5 settembre. Blickman è attento studioso dei processi di cambiamento che a livello mondiale stanno imprimendo una accelerazione decisa alla riforma delle politiche delle droghe in materia di canapa, processo tanto significativo da aver portato, in modo irrituale, ad una anticipazione al 2016 della sessione globale di Ungass prevista per il 2019, su pressione di alcuni stati dell’America Latina che hanno imboccato la via della legalizzazione. Non parlare del "se" regolamentare, ma del "come e quando" significa leggere un dato di realtà, quello della ormai evidente normalizzazione dell’uso di cannabis, non solo riferita al numero imponente di consumatori ma soprattutto a come questo consumo sia diventato, vissuto e percepito come un comportamento quotidiano, ordinario, socialmente e culturalmente accettato. Ciò che ormai oggi stride è la contraddizione tra questa natura sociale e culturale e un governo del fenomeno caparbiamente punizionista e patologizzante, che continua a produrre e riprodurre una fittizia e controproducente divisione tra paese che usa e paese che non usa sostanze. Nazioni come l’Uruguay e alcuni stati degli Usa hanno messo mano a questa contraddizione tra paese reale e paese legale, mentre l’Europa sembra in posizione di stallo. L’Europa dei governi, però, non certo quella sociale né quella delle città. Che, anzi, sono in grande movimento. L’auto-organizzazione dei consumatori in forma di Cannabis Social Club (Csc), nati nelle maglie delle "zone grigie" delle legislazioni nazionali, si sta diffondendo: oltre alla realtà più ampia e diversificata della Spagna (700 club, di cui 350 in Catalogna, 250 a Barcellona, 75 nei Paesi Baschi), il fenomeno è in crescita in Belgio e in Svizzera, e "incubatori" sono attivi in Francia, Regno Unito, Italia, Repubblica Ceca, Slovenia, Bulgaria. Ma "dal basso" premono anche le città e le regioni, l’altro paese legale che già aveva promosso il radicale cambiamento della riduzione del danno negli anni 80-90, spingendo su governi sordi e inerziali. Le autorità locali si muovono con gli strumenti amministrativi che loro competono, e che pur con non pochi limiti, tuttavia consentono loro di innovare: per esempio, sui Csc Paesi Baschi e Catalogna stanno elaborando un quadro di regolazione, così come stanno facendo Ginevra, Zurigo, Berna e Basilea. Altre città puntano sul modello coffee shop olandese, dunque su un sistema di licenze che rendano legale fornire cannabis: ci stanno lavorando Copenhagen, e in Germania città importanti come Berlino, Brema, Colonia, Dusseldorf, Francoforte. E in filigrana tra questi progetti e sperimentazioni stanno già emergendo linee guida per modelli praticabili, sostenibili e "sicuri". "La riforma delle politiche sulle droghe - afferma Blickman - è spesso bottom-up, come dimostra il successo della rete Ecdp (European Cities for Drug Policy) nel promuovere la riduzione del danno a livello locale e internazionale. Sulla canapa è tempo di lanciare un "Ecdp 2.0". E in Italia? C’è qualche sindaco che batta un colpo? Emirati Arabi: Amedeo Matacena "perché Orlando vuole me e non fa estradare Battisti?" di Martino Villosio Il Tempo, 16 settembre 2015 "Non è una notizia inaspettata, ma è ridicolo che un ministro provi a nascondere l’incapacità sua e del governo di riformare la giustizia vendendo un po’ di fumo all’opinione pubblica con l’estradizione di Matacena. Io sono stato condannato a tre anni ingiustamente, Orlando per cominciare poteva andare in Brasile a chiedere di estradare il compagno pluriomicida Cesare Battisti invece di venire qui". Amedeo Matacena, latitante da tre estati dopo una condanna definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa, risponde da Dubai. Ieri ha compiuto 52 anni. Un compleanno amaro, visto che nello stesso giorno il Guardasigilli Andrea Orlando è volato negli Emirati Arabi per siglare importanti accordi di cooperazione giudiziaria che potrebbero stringere la morsa intorno all’armatore calabrese, ex parlamentare di Forza Italia. È preoccupato? "No. La cosa che mi fa riflettere è che sembra che i problemi della giustizia italiana, dall’inefficienza alla totale assenza di certezza del diritto, dalle sentenze sbagliate ai giudici che non rispondono quando fanno errori e commettono falso ideologico nelle loro sentenze, siano ridotti alla necessità di estradarmi. Il tutto a causa di una sentenza ingiusta, emessa da un giudice di Magistratura Democratica che ha sostituito il collega di Unicost, e dunque non di sinistra, cui inizialmente era stato assegnato il mio processo. Questo magistrato per la foga di condannarmi ha ignorato i principi della cosiddetta sentenza Mannino della Cassazione, già applicati per assolvere Andreotti ed altri collegi parlamentari, e inoltre mi ha dato 5 anni applicando retroattivamente una legge in maniera illegittima. Tanto che la Cassazione ha ridotto in seguito la pena a tre anni applicando la norma giusta. Ovviamente senza che il giudice di MD abbia subito alcun provvedimento". Lei tenterà di fuggire ancora? "Io sono qui, e qui resto. Se mi faranno tornare in Italia verrò, perché non sono mai fuggito. All’epoca della condanna per concorso ero fuori dal Paese perché stavo finalizzando l’acquisto di una casa per la famiglia. I legali mi avevano detto di stare tranquillo perché il reato sarebbe andato prescritto. Comunque prima che un accordo di estradizione diventi operativo deve essere ratificato dal Parlamento. Non mi risulta che sia stato dato un potere di delega al ministro su questo caso particolare. Se dovessero fare un’operazione in violazione del potere del Parlamento lascio a lei ogni ulteriore commento. Inoltre gli accordi simili stipulati dall’Italia con tutti gli altri Paesi non hanno mai avuto operatività retroattiva, se questo dovesse averlo sarebbe un altro dei "casi strani" che mi hanno riguardato". Davvero lei si sente perseguitato? "Quegli "strani casi" li ho elencati nella domanda di grazia che a breve i miei legali depositeranno all’attenzione del Capo dello Stato. Le ricordo che la sinistra è riuscita a governare in Calabria solo dopo che il sottoscritto è stato fatto fuori per vie giudiziarie". Se dovesse tornare in Italia si toglierebbe qualche sassolino? A marzo lei si disse pronto, nel caso in cui fosse successo qualcosa ai suoi familiari, a rivelare i conti correnti svizzeri in cui sarebbero state depositate presunte tangenti dell’affaire Telecom Serbia prese da tre importanti politici italiani... "Vedremo. La volontà di togliermeli dei sassolini ci sarebbe, ma non esiste una giustizia in Italia di cui fidarsi e a cui affidare alcunché. Io ho sempre in mente la famosa vicenda del dossier Mitrokin, l’elenco delle spie al servizio del KGB in cui emersero importanti personalità della sinistra italiana. Non è successo niente. E a proposito di due pesi e due misure mi lasci dire una cosa al ministro Orlando". Che cosa? "Una vera riforma della giustizia non è riuscito a farla. La legge sulla responsabilità civile dei giudici si è rivelata una boutade. Napolitano gli aveva chiesto provvedimenti di amnistia e indulto rimanendo inascoltato. Tutto lo spessore di questo ministro si riduce nel venire qui a Dubai. Matacena ha avuto tre anni. Io sarei andato prima in Brasile per far estradare chi ha ammazzato delle persone. Perché a prendere il compagno Cesare Battisti non ci va nessuno?". Si aspettava più sostegno dai suoi ex colleghi del centrodestra? "Il problema del centrodestra è che insorge solo quando si tratta di Berlusconi. Non l’hanno fatto per nessun altro, tranne forse nei casi di Previti e Dell’Utri. È sempre mancata una percezione globale del problema giustizia in Italia". Iran: la morte sospetta del detenuto politico Zamani nella prigione di Gohardasht da Segretariato del Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana politicamentecorretto.com, 16 settembre 2015 Appello per la creazione di una commissione d’inchiesta per indagare sulle morti sospette dei detenuti politici. Il detenuto politico Shahrokh Zamani, originario dell’Azerbaijan, ha perso la vita in maniera sospetta nella prigione di Gohardasht (Rajai Shahr), nel pomeriggio di domenica 13 Settembre. Intorno alle 17:00 i suoi compagni di cella nella sala 12 della sezione 4, hanno scoperto il suo corpo nel letto con la bocca piena di sangue e la testa fracassata. Zamani era stato insieme ai suoi compagni di cella fino alle 10 di mattina ed era sempre di buon umore. Si allenava regolarmente. Gli aguzzini e gli agenti dell’intelligence lo odiavano profondamente e non si fermavano davanti a nulla pur di tormentarlo. Lo avevano minacciato di morte in molte occasioni. In una nota scritta prima della sua morte Zamani diceva: "Sono stato minacciato di morte direttamente e indirettamente dal dipartimento dell’intelligence. Hanno minacciato di avvelenarmi, di mettermi insieme a gente malata di Aids, hanno costretto individui disturbati, pericolosi e omicidi ad aggredirmi, mi hanno messo insieme ad agenti dell’intelligence travestiti da detenuti che mi incoraggiavano a scappare, così avrebbero potuto spararmi mentre cercavo di fuggire (ho preso le distanze da loro quando sono stati identificati e denunciati). Ho avvertito tutti delle conseguenze di questo tipo di cose. La mia morte in prigione, qualunque ne sarà il motivo, dovrà essere imputata alle autorità della prigione". Shahrokh Zamani, 51 anni, pittore e operaio, era stato arrestato diverse volte per le sue attività in difesa dei diritti dei lavoratori, tra cui il diritto alla previdenza sociale e all’indennità di disoccupazione per i pittori. Aveva subito le più tremende pressioni e torture negli anni trascorsi nelle prigioni di Tabriz, Yazd, Ghezel-Hessar e quella di Gohardasht a Karaj. Era stato arrestato la prima volta nel 1993 per le sue attività segrete nel sindacato dei pittori, rimanendo in carcere per 18 mesi. L’8 Giugno 2011, era stato arrestato a Tabriz e condannato a 11 anni di prigione con l’accusa di "propaganda contro il sistema". A Settembre 2013 era stato nuovamente incriminato in un processo-farsa dei mullah, per "insulti al leader" e condannato ad altri 6 anni di carcere. Zamani era stato molte volte trasferito in isolamento o in sezioni di quarantena e aveva fatto lo sciopero della fame per protestare contro queste atrocità. Non gli era mai stato concesso di incontrare i suoi familiari in prigione e non gli avevano permesso di partecipare alla cerimonia funebre della madre o al matrimonio di sua figlia. Durante la sua detenzione a Tabriz, i suoi aguzzini lo avevano trasferito nella sezione dei prigionieri affetti da malattie pericolose. Aveva sofferto di molte malattie causate dalle dure condizioni carcerarie e dalle terribili torture subite. Non gli era stato permesso di essere curato fuori dalla prigione. Godeva di un grande rispetto tra i detenuti per la sua posizione decisa contro il regime dei mullah ed era sempre in prima fila nei movimenti di protesta in carcere. L’omicidio segreto dei detenuti politici è un metodo ben noto utilizzato dal regime iraniano, in particolare negli ultimi anni. Valiollah Fayz Mahdavi, Amir Hossein Heshmat-Saran, Mansour Radpour, ed Afshin Assanlou, sono alcuni di questi detenuti uccisi. L’ufficio del medico legale del regime iraniano ha cercato di giustificare la loro morte fornendo motivazioni irreali. Maryam Rajavi, Presidente eletta della Resistenza Iraniana, ha porto le sue condoglianze alla famiglia di Shahrokh Zamani, al popolo eroico dell’Azerbaijan e a tutti i lavoratori. Ha sottolineato che il sangue di questi tenaci detenuti, proprio come quello dei 120.000 martiri per la libertà, non fa altro che aumentare la determinazione e la risolutezza del popolo iraniano ad abbattere questo regime disumano e che il suo ricordo, come quello degli altri martiri per la libertà, resterà per sempre nella storia dell’Iran. Maryam Rajavi ha chiesto alle Nazioni Unite, in particolare al Consiglio di Sicurezza e a tutte le organizzazioni internazionali in difesa dei diritti umani, di condannare le condizioni disumane all’interno delle prigioni del regime iraniano e il trattamento criminale cui i detenuti vengono sottoposti dai loro aguzzini, nonché le pressioni e le torture imposte a questi detenuti. Ha poi chiesto che una missione internazionale indaghi sulle morti sospette dei detenuti politici in Iran. Stati Uniti: gli ex detenuti si inventano il "Tripadvisor delle carceri" L’Arena, 16 settembre 2015 A volte sono serie, altre scanzonate. Ma tutte sono scritte da chi ha usufruito del "servizio": sono le recensioni delle prigioni, che negli States spopolano ormai sui social network, da Yelp a Google. Lo racconta wired.com, spiegando che sono in molti a descrivere online la loro esperienza nei penitenziari, archiviandoli nella categoria "Servizi pubblici e amministrazioni locali". Jenny Vekris, per esempio, finita più volte in carcere per guida in stato di ebbrezza, ha recensito il carcere di Travis County Jail, Austin perché, spiega, "quando sono uscita non potevo permettermi un terapeuta". A lasciare commenti sul luogo sono ex detenuti, certamente, ma anche assistenti sociali o parenti in visita. A Victoria Ramos, per esempio, è stato impedito di vedere il fratello al Correctional Institution di Tehachapi, California. Gli addetti le hanno consigliato di mettersi addosso qualcosa che fosse meno aderente, ma nelle regole del penitenziario nessuno aveva specificato come ci si dovesse vestire. "A saperlo, scrive lei, "mi sarei presentata con l’abbigliamento adeguato". Ma in questa sorta di "Tripadvisor" delle prigioni ci sono anche commenti di chi è stato detenuto in più di un penitenziario e di chi, tutto sommato, dice di esser stato trattato bene.