Giustizia: Roverto è innocente e per dimostrarlo è disposto a morire di Carmelo Musumeci Il Garantista, 15 settembre 2015 Roverto Cobertera sta continuando il suo sciopero della fame per dimostrare la sua innocenza. Ed è disposto a morire per questo, perché tempo fa mi aveva detto che nessuna vita vale la pena di essere vissuta se devi scontare una pena per un delitto che non hai commesso. Mi aveva anche confidato che sperava di morire prima che lo ricoverassero all’ospedale, perché non voleva essere alimentato con la forza. Non vedo Roverto da quando ha iniziato il digiuno, perché lui è in una sezione diversa dalla mia e possiamo scambiarci solo dei biglietti tramite alcuni compagni in comune. Oggi ho ricevuto questa sua lettera: "Mio caro Carmelo, spero che al ricevimento della mia lettera ti trovi bene, come anche tutta la tua bella famiglia. Io sto bene, entro le mie possibilità, ho perso 8 kg e mezzo. Mi sento ancora forte e sereno, sto aspettando ancora un po’ per chiedere la relazione medica e dopo te la spedisco. Credimi, è una cosa più forte dentro di me, che non so cosa sia, ma mi fa andare avanti. So che non sei credente, ma noi siamo stati fortunati nella vita. Il problema è che non ci siamo resi conto, c’è qualcosa di superiore dentro dì noi che ci sta vicino, i momenti della felicità nella vita sono piccolissimi, quasi come un atomo e per questo quando arrivano dobbiamo goderceli, perché i periodi della sofferenza sono tanti e lunghi. So che tu hai sofferto tanto, però anche se sei dietro le sbarre hai visto crescere i tuoi bei due figli e anche i tuoi nipotini. Che è qualcosa che noi non vediamo, però esiste. Quando ho intrapreso questa decisione sono stato sicuro di quello che volevo, anche se non ci sarà alcun risultato, almeno vorrei essere un esempio per alcune persone, per fargli capire che nella vita bisogna lottare, come fai tu. Ricordo una frase, me l’hai detta tanto tempo fa, che nella vita bisogna amare, senza aspettare di essere ricambiato: io voglio lottare anche se non ottengo niente in cambio, So che esiste un’altra vita migliore di questa. Sai che ti voglio bene. Un forte abbraccio a Nadia e salutami anche Don Antonio. Tuo caro amico Roverto Cobertera". Alcuni compagni che sono nella sua sezione mi hanno detto che Roverto è diventato l’ombra di se stesso, non ha più forza, né energia, ed è pronto e rassegnato a morire serenamente. Ho chiesto al direttore del carcere se in via eccezionale mi concede di andare a trovarlo nella sua sezione per tentare di convincerlo a riprendere a mangiare, o per abbracciarlo almeno per l’ultima volta. Provo rabbia che Roverto Corbetera sta morendo e nessuna fa nulla e quelli che vorrebbero far qualcosa non possono fare nulla. Non mi resta che rivolgermi al Dio in cui crede lui, per chiedergli di fare qualcosa, affinché Roverto non muoia lontano dalla sua terra, dai sui cari, in una schifosa cella delle nostre civili e democratiche galere. Giustizia: accusato di omicidio da 7 "pentiti", scarcerato perché innocente dopo 11 anni di Vincenzo Vitale Il Garantista, 15 settembre 2015 È notizia di queste ore che un trentacinquenne di Gela, Mirko Eros Felice Turco, accusato da ben sette pentiti di un omicidio, dopo 17 anni di processi e dopo la condanna definitiva all’ergastolo e dopo aver trascorso ben 11 anni in carcere, è stato riconosciuto del tutto innocente e perciò scarcerato. Storie di ordinarie ingiustizie? Forse. Ma forse c’è qualcosa di più, che conviene ripensare con una certa attenzione. Non a caso infatti Platone nella Repubblica distingueva fra la possibilità dell’ingiustizia, sempre presente nell’esperienza, da un lato, e la impossibilità della giustizia, dall’altro: questi due risultati del processo sono lontani come la notte dal giorno. Che i giudici possano sbagliare, giudicando colpevole un innocente, valutando male le prove raccolte, errando nel visionare i risultati delle indagini; che possano addirittura essere indotti in errore da accertamenti non corretti, da esperimenti probatori incompleti, da consulenze incomplete o mal formulate è cosa fisiologica, che va messa nel conto delle cose normali. La possibilità dell’ingiustizia insomma è coerente ed omogenea ad ogni sistema istituzionale di giurisdizione. Non così invece nel caso della impossibilità della giustizia. Qui davvero siamo sul terreno patologico, vale a dire in un ambito del tutto estraneo alla normalità dell’errore: siamo in un terreno inesplorato e mortifero, dove la giustizia non è in grado di apparire neppure all’orizzonte. Ora, nel caso del povero Turco che di nome fa Felice, ma che dopo oltre un decennio di carcerazione ingiusta non penso lo sia molto di fatto, in quale caso siamo? Siamo solo davanti ad un caso di banale, anche se terribile, errore giudiziario o piuttosto davanti ad un caso di una giustizia impossibile? La domanda acquista un senso per il motivo che, come riportano le cronache, pare che questo poveraccio sia stato accusato da ben sette pentiti, insomma da una associazione di pentiti in funzione permanente (per oltre diciassette anni) ed effettiva. Orbene, quando tante persone per tutto questo tempo concordemente accusano un certo soggetto, delle due l’una: o sono nel vero o si tratta di un terribile accordo criminoso attraverso la grave calunnia perpetrata in danno di quel tale. In questa ultima ipotesi, siamo davvero nell’ambito della impossibilità della giustizia, il che è davvero inquietante. Infatti: come si può immaginare che si possa rendere giustizia confrontandosi con un gruppo di pentiti che in modo compatto e perpetuo accusano un innocente? In questo caso, non si tratta di un caso qualunque, ma di un caso tipico in cui i giudici vedono sorgere una cortina fumogena fra se e la realtà, fra se e la giustizia possibile: ne viene appunto la impossibilità della giustizia; ne viene un ergastolo per un innocente. Come si vede, non si tratta di cosa da poco, anche perché potrebbe ripetersi. Speriamo di no. Giustizia: il Viceministro Costa "gli errori dei magistrati sono già costati 600 milioni di €" Il Garantista, 15 settembre 2015 "Azioni disciplinari per i giudici che sbagliano". È stata sfondata a luglio la soglia dei 600 milioni di euro di pagamenti per riparazioni per ingiusta detenzione dal 1992 - anno delle prime liquidazioni - a oggi (601.607.542,51 euro). Sempre dal 1992, sono state complessivamente 23.998 le persone indennizzate per essere state ingiustamente private della libertà personale. Per questi errori ha pagato e continua a pagare solo lo Stato? "Pare proprio di sì e questa lacuna va colmata": è il monito del viceministro della Giustizia Enrico Costa, che commenta così i dati relativi al periodo gennaio-luglio 2015. "Di fronte a un indennizzo riconosciuto in via definitiva e liquidato - spiega Costa, non vi è alcuna norma che stabilisca che questo provvedimento finisca sulla scrivania di titolari dell’azione disciplinare per valutare se vi siano le condizioni per avviarla nei confronti di chi ha sbagliato". In particolare - si legge in una nota - sono state 772 le riparazioni effettuate nei primi 7 mesi del 2015, per un totale di 20.891.603,50 euro. In tutto il 2014 erano invece stati spesi 35.255.030,59 per 995 provvedimenti, Quindi, nel 2015 si registra una tendenza all’aumento dei casi e dei pagamenti. "Di fronte a questi numeri - commenta il viceministro Costa - mi spiace dover tornare per l’ennesima volta sulle medesime considerazioni, ma se un magistrato toglie ingiustamente la libertà a un uomo e una Corte riconosce a quella stessa persona un’indennità per il carcere ingiustamente subito, oggi nessuno valuta se il comportamento di quel magistrato debba essere sanzionato sotto il profilo disciplinare". "Auspico che il Parlamento, come già accade per la legge Pinto - sostiene Costa - voglia introdurre un meccanismo per cui l’ordinanza che accoglie l’istanza di riparazione per ingiusta detenzione sia comunicata, ai fini dell’eventuale avvio del procedimento di responsabilità, ai titolari dell’azione disciplinare". "Se questa norma non vedrà la luce - ammonisce - sarà solo per resistenze corporative inaccettabili. Auspico che nel ddl sul processo penale che verrà discusso questa settimana ci possa essere una presa di coscienza del problema e si possa avviare una riflessione sul tema". Giustizia: innocenti finiti in cella per errore, lo Stato sborsa più di 600 milioni di Maurizio Gallo Il Tempo, 15 settembre 2015 L’ultimo caso è notizia di ieri. L’ennesima odissea giudiziaria frutto di un errore dei magistrati è quella di Mirko Eros Felice Turco, il trentacinquenne di Gela rimasto 11 anni dietro le sbarre per due omicidi che non ha mai commesso. Da Sud a Nord le cose non cambiano. A Brescia hanno ritrattato dopo tre lustri i figli di un uomo condannato a nove anni e due mesi per abuso sessuale su minori, cioè nei loro confronti. Adesso i legali del padre calunniato e detenuto a Sassari, chiedono la revisione del processo. Non si tratta di episodi isolati. Proprio ieri il viceministro della Giustizia ha fornito i dati aggiornati dei rimborsi ottenuti per ingiuste detenzioni. A luglio, ha spiegato Enrico Costa, "è stata sfondata la soglia dei 600 milioni di euro" di pagamenti (per essere esatti sono 601.607.542,51) a partire dal 1992, anno delle prime liquidazioni. "Sempre dal 1992, sono state complessivamente 23.998 le persone indennizzate" dopo essere state ingiustamente private della libertà personale", ha aggiunto il viceministro, sciorinando anche i dati dell’anno in corso: 772 le riparazioni effettuate nei primi 7 mesi del 2015, per un totale di 20.891.603,5 euro. In tutto il 2014 erano invece stati spesi 35.255.030,59 per 995 provvedimenti. Poi ci sono gli errori giudiziari, per i quali sono stati sborsati 32 milioni, 611 mila e 202,44 euro. Quindi, nel 2015 si registra una tendenza all’aumento dei casi e dei soldi versati alle persone danneggiate dall’ingiustizia all’italiana. Ma a pagare è sempre e solo lo Stato, cioè i contribuenti. Per questo Costa chiede al Parlamento di "introdurre un meccanismo per cui l’ordinanza che accoglie l’istanza di riparazione per ingiusta detenzione sia comunicata, ai fini dell’eventuale avvio del procedimento di responsabilità, ai titolari dell’azione disciplinare". Un fenomeno che Il Tempo denunciò con un’inchiesta durata una settimana nel settembre 2013, continuando a seguire in questi due anni il trend in continuo aumento. Spiegammo che, calcolando i 25.0000 rimborsi concessi e quelli (molto più numerosi) negati, almeno 50.000 italiani erano stati incarcerati senza un motivo valido dall’inizio degli anni 90, cioè da quando (con il nuovo codice) è stato introdotto il risarcimento, ad oggi. Le cose sono peggiorate. La riforma introdotta a febbraio non ha cambiato molto la situazione. Lo scoglio della responsabilità diretta, sempre demonizzata dalle toghe, non è stato superato. Il cittadino, che pure ha visto ampliate le possibilità di fare ricorso, dovrà rivalersi sempre sullo Stato e non direttamente sul magistrato "fallace". Poi sarà il primo a rivalersi sul secondo. E, anche se viene ridelineata la portata della "clausola di salvaguardia", il magistrato non è chiamato a rispondere dell’attività di interpretazione della legge e di valutazione del fatto e delle prove. Insomma, non è tenuto a rispondere quasi di niente. Più o meno come prima. I numeri continuano a darci ragione. Anzi. Di più. Le cifre diffuse da Palazzo Chigi un anno fa registravano 995 domande liquidate, per un totale di 35 milioni e 255mila euro, con un incremento del 41,3 per cento dei pagamenti delle riparazioni per ingiusta detenzione rispetto a 12 mesi prima, quando erano state accolte 757 domande, per un totale di 24 milioni 949mila euro. Dal 1992 al 31 dicembre 2014 l’ammontare complessivo delle riparazioni raggiunge così i 580 milioni, 715mila e 939 euro. Complessivamente, sono oltre 23mila le liquidazioni effettuate. Adesso siamo andati oltre i 600 milioni di euro. Un’enormità. Numeri che gridano vendetta davanti a migliaia di italiani che vivono sotto la soglia di povertà. E le toghe? Quanti magistrati sono stati condannati per errori fatti durante il giudizio negli ultimi anni? Uno su cento. Gli negano il rimborso dopo aver trascorso 14 mesi in prigione Da trascorso oltre quattordici mesi in carcere per un omicidio che non ha mai commesso. Protagonista del calvario giudiziario, Vittorio Luigi Colitti, 23 anni, accusato (in concorso con il nonno, Vittorio) dell’omicidio di Giuseppe Basile, il consigliere dell’Italia dei Valori assassinato davanti alla sua abitazione a Ugento - in provincia di Lecce - la notte tra il 14 e il 15 giugno del 2008. Vittorio Luigi Colitti è stato assolto due volte. La sentenza è diventata definitiva e irrevocabile il 28 maggio 2013. Ma prima ha dovuto passare 14 lunghi mesi nell’istituto penale minorile di Bari. La vicenda ha segnato la vita del 23enne e della sua famiglia. Vittorio ha visto sgretolarsi i suoi affetti, gli studi, il lavoro e i legami più cari. Ha sviluppato, come accertato dai consulenti, "un disturbo post traumatico da stress di grado severo, attualmente in fase cronica, e con sopraggiunti attacchi di panico senza agorafobia, con un danno biologico residuo pari al 35 per cento". Dopo il verdetto di primo grado, con cui il 27 dicembre del 2010 i giudici del Tribunale per i minorenni lo avevano assolto per "non aver commesso il fatto", i giudici della Corte d’Appello di Lecce erano arrivati alla sentenza di assoluzione dopo meno di un’ora di camera di consiglio, il 15 maggio 2012. L’accusa aveva chiesto una condanna a 15 anni di reclusione. Il 30 dicembre 2014 la Corte d’Appello di Lecce ha rigettato la richiesta - quantificata in 500 mila euro - presentata dall’avvocato Francesca Conte. Per i giudici il giovane "avrebbe mentito su circostanze rilevanti quali l’orario in cui era tornato a casa la sera del delitto e per aver convinto l’amico a dire il falso". Decisive, quindi, si rivelarono le sue bugie. Il legale del giovane impugnerà la decisione in Cassazione. Cento giorni di arresti e otto lunghi anni per avere ragione È stato assolto dai retai di associazione per delinquere, truffa e corruzione con la formula "per non aver commesso il fatto". Ma all’avvocato Marco Savini sono stati necessari ben otto anni per ottenere giustizia e dopo che aveva trascorso 98 giorni agli arresti domiciliari. Savini, ex vicesindaco di Montesilvano (in provincia di Pescara), è uscito a testa alta dall’inchiesta Ciclone, che a luglio 2007 cambiò per sempre la sua vita costringendolo, a 32 anni, a quasi 100 giorni di arresti domiciliari. Un’avventura giudiziaria lunga otto anni che Savini ora ha deciso di portare fino in fondo attraverso una richiesta di un risarcimento danni in grado, se non di cancellare la sofferenza di essere stato accusato ingiustamente di una lunga serie di reati che vanno dall’associazione a delinquere, al falso, dalla truffa alla corruzione, almeno di poter dimostrare che la giustizia ha compiuto correttamente tutto il suo percorso. "Ho sempre avuto fiducia nel sistema giudiziario", ha spiegato lui, "e pur ritenendomi una persona assolutamente estranea a tutti i capi di imputazione, in maniera rispettosa e silente, mi sono fatto i miei processi e mi sono difeso. Ma proprio perché credo molto nel sistema, adesso il sistema prevede che chi come me ha subito ingiuste detenzioni o, come nel mio caso, un danno alla propria immagine, possa ottenere un risarcimento. Non voglio gridare al complotto e non lo faccio in un’ottica di rivincita, ma è solo un modo per compensare le opportunità personali perse e che credo siano state perdute anche dalla città. E non perché Marco Savini era il più bravo di tutti", chiarisce l’ex vicesindaco, "ma perché erano stati attivati dei processi amministrativi che poi sono stati tranciati e messi nel tritacarne". "Ha ucciso il padre". Sedicenne in carcere per centotredici giorni A soli 16 anni è finito in cella per l’omicidio del padre. Ma era innocente. Il milanese Luca Agostino ha fatto 113 giorni in galera con l’accusa di aver assassinato il padre Cosimo Agostino, ucciso invece dal fratello maggiore di Luca, Vincenzo, in presenza sua e della madre dei due. Luca Agostino è stato già prosciolto dal gip Marilena Chessa e adesso risarcito dalla Corte d’Appello con 24.300 euro a titolo appunto di riparazione per il carcere dal 25 febbraio al 17 giugno 2010. Cosimo Agostino, alla fine di una tormentata e aspra conflittualità familiare, viene ucciso con tre colpi di pistola in casa a Desio il 24 febbraio 2010. Il minorenne Luca all’inizio si avvale della facoltà di non rispondere, poi dopo due giorni risponde alle domande e spiega di non essere stato lui. Ma quando gli inquirenti arrestano il fratello maggiore Vincenzo, reo confesso di un delitto d’impeto, che fece ritrovare l’arma del delitto in un laghetto, arrestano pure il minorenne e lo tengono in carcere (per alcuni giorni in isolamento) fin tanto che non siano stati completati gli accertamenti scientifici in grado di dissipare il sospetto che il fratello maggiore voglia proteggerlo. Paradossalmente, infatti, è sulle sue mani - e non su quelle del fratello maggiore reo confesso - che vengono trovate tracce di polvere da sparo. Ma sia il consulente del pm sia i periti del giudice dei minori concludono che "i risultati delle operazioni peritali appaiono compatibili con le dichiarazioni rese dai tre soggetti presenti al momento dell’omicidio", e quella polvere da sparo "ben può essere spiegata con la dinamica dei fatti così come raccontata dai tre". A salvare Luca sono le intercettazioni in carcere dei colloqui tra il fratello maggiorenne e la zia. Macchia sulla pelle scambiata per tatuaggio. Un anno a Regina Coeli Lo scambio di persona si era palesato sin dal principio, eppure lo Stato è stato costretto a sborsare 100 mila euro per quell’errore. Manolo Zioni, romano di 26 anni, ha trascorso in carcere un anno con l’accusa di concorso in tre rapine, nonostante un detenuto si fosse sin da subito autoaccusato di quei "colpi". Dopo la sentenza di assoluzione, la quarta sezione penale della Corte d’appello di Roma ha condannato il ministero dell’Economia a corrispondere a Zioni un indennizzo pari a 235 euro per ciascuno dei 351 giorni trascorsi in carcere. Il 20 settembre 2010 il giovane, all’epoca aveva 22 anni, viene arrestato per aver commesso tre rapine nello stesso supermercato in zona Pineta Sacchetti e con le stesse modalità. Il fermo viene convalidato il 23 settembre e il 12 ottobre la custodia cautelare in carcere è confermata dal Riesame. Il 29 dicembre Alessandro Rossi, già recluso per una serie di rapine consumate nella stessa zona, in un interrogatorio reso al pm, ammette di aver commesso anche le tre contestate a Zioni. Il 10 gennaio 2011, a una settimana dalla prima udienza dibattimentale, la difesa chiede di revocare la misura cautelare nei confronti del giovane, sulla base della testimonianza che lo scagiona. L’istanza viene però rigettata dal Tribunale. Nel corso del processo i dipendenti del supermercato, sentiti come teste, non riconoscono in Zioni l’autore delle rapine. Ma i giudici non sono convinti e dispongono d’ufficio una perizia antropometrica sulle immagini riprese dalle telecamere di sorveglianza. La svolta grazie a un tatuaggio. Sul corpo del vero ladro è tatuato una specie di diamante. Anche Zioni ha un segno sul collo ma il perito ha chiarito che si trattava di solo di una macchia sulla pelle. Giustizia: "azioni disciplinari per chi sbaglia", intervista al viceministro Enrico Costa di Pietro De Leo e Maurizio Gallo Il Tempo, 15 settembre 2015 La proposta al Parlamento del viceministro della Giustizia Enrico Costa: "Adesso non è automatico che le carte finiscano sul tavolo del ministro". "Un trend particolarmente preoccupante". Così Enrico Costa, viceministro alla Giustizia di Ncd, definisce i numeri degli indennizzi per ingiusta detenzione dal 1992 a oggi. Quasi 24 mila persone per un totale di oltre 600 milioni di euro. "Abbiamo più o meno mille casi l’anno", spiega, "e fino ad oggi il fenomeno non era mai emerso in tutto il suo dramma. E poi 24 mila sono i cittadini indennizzati, ma quanti ce ne saranno che magari non hanno fatto domanda di indennizzo per varie ragioni?". Come se ne esce? "Innanzitutto prevedendo un meccanismo secondo cui si va a verificare se, caso per caso, ci sono dei presupposti per avviare un’azione disciplinare verso il giudice. Che, poi, potrà finire in un’archiviazione o meno. Finora non è automatico che le carte finiscano sul tavolo del titolare dell’azione disciplinare, che è il ministro della Giustizia o il Procuratore Generale della Cassazione. Non si vuol riconoscere il principio secondo cui può esserci un’azione disciplinarmente significativa. Lo Stato riconosce il suo errore e indennizza. Ma non può essere il solo a pagare". Quindi, nel caso, il giudice dovrà pagare di tasca sua? "Non intendo questo, la responsabilità disciplinare, è cosa ben diversa dalla responsabilità civile". Dopo che lei ha lanciato la proposta, c’è chi sta frenando? "Diciamo che ci sono delle resistenze corporative molto forti. Poco fa, un magistrato ha sostenuto che andare a prevedere un meccanismo di questo genere equivale ad un’intimidazione. Ma si tratta di un principio di civiltà giuridica, perché quando la superficialità del magistrato compromette la libertà personale di una persona, non ci si può di certo passare sopra. Specie considerando che esistono degli aspetti anche relativi alla reputazione della persona. Quando uno passa per il carcere, anche se ci passa ingiustamente, non è che poi si toglie quel marchio con molta facilità". C’è qualche caso che l’ha particolarmente colpita? "No. Quando si hanno di fronte vicende di ingiusta compromissione della libertà personale, tutti i casi sono uguali. Queste vicende non hanno colori né significati diversi a seconda delle persone. Io ho fatto una valutazione complessiva del fenomeno, effetto di un’applicazione disinvolta della custodia cautelare". L’Italia è un Paese dalle manette così facili, quindi? "La custodia cautelare è stata applicata troppo spesso in maniera estensiva. Troppo spesso, inoltre, mi pare ne sia stato fatto un abuso, quasi per andare a sostituire la carenza di certezza della pena nel nostro Paese". Leggendo i dati di quest’anno, primi sette mesi, sul podio per indennizzi ci sono tre distretti del Sud... "Sì, in molti casi al Sud c’è una forte incidenza di questo fenomeno". E questo da cosa deriva secondo lei? "Bisogna valutare tutto molto bene, senza generalizzazioni affrettate. Per questo bisogna parlarne e approfondire". Ora, all’atto pratico, come ha intenzione di dare concretezza alla sua battaglia? "All’atto pratico, credo che nel percorso del provvedimento sul processo penale si potranno quanto meno accendere i fari sul fenomeno". Che vuol dire "accendere i fari"? "Significa stimolare un monitoraggio costante da parte del Ministero, con un’analisi il più approfondita possibile di questi casi". Verranno presentati emendamenti? "Ci sono già degli emendamenti presentati che potranno essere presi in considerazione". Il Pd è d’accordo sul principio di aprire ad approfondimenti disciplinari sui giudici? "Spero di sì. Mi pare un principio di civiltà". E pensa di trovare sponde anche altrove? "Credo di sì, sono sicuro possa esserci una forte sensibilità sul tema". Giustizia: Carbone (Anm) "aumentando le sanzioni i magistrati saranno più condizionati" di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 15 settembre 2015 "Mi sembra che siamo in continuità con gli slogan che accompagnarono la responsabilità civile. Quella legge mise d’accordo tutto il Parlamento, che si ricompattò con lo slogan fuorviante del "chi sbaglia, paga". Maurizio Carbone, segretario dell’Associazione nazionale magistrati è critico con "l’offensiva disciplinare" che sta emergendo in Parlamento contro i magistrati, in particolare con la norma, targata Ncd, che fa scattare l’eventuale azione disciplinare nei casi di condanna dello Stato per ingiusta detenzione. E considera "anomalo" che, mentre il ministro insedia un’apposita commissione per riformare l’ordinamento giudiziario e, quindi, anche la materia disciplinare, il Parlamento proceda in ordine sparso. Secondo il viceministro Costa (Ncd), è giusto che un magistrato che ha "tolto ingiustamente la libertà" a una persona "ne paghi" le conseguenze... "È sbagliata la premessa, e cioè che dietro un’ingiusta detenzione vi sia sempre un errore del giudice. La valutazione fatta in sede cautelare è diversa da quella fatta in dibattimento: nel primo caso ci sono solo indizi, per quanto gravi; nel secondo caso, devono esserci prove che, oltre ogni ragionevole dubbio, portino a una condanna". Chi sbaglia paga è uno slogan di forte impatto sull’opinione pubblica e ha già... "pagato". Ci sarà un bis? "Già in occasione della responsabilità civile dissi che quando la politica è incapace di fare riforme serie, necessarie per far funzionare la giustizia, si nasconde dietro slogan e cerca scorciatoie, come quella di buttare in pasto all’opinione pubblica difetti della magistratura facendola apparire colpevole di ogni disfunzione. Respingiamo questa impostazione e la nostra non è certo "resistenza corporativa". Questa "attenzione" verso la responsabilità civile e disciplinare dei magistrati può portare a una sorta di "giustizia difensiva"? "È proprio quello che temiamo. Incrementare sempre più le ipotesi sanzionatorie verso i magistrati, in una realtà normativa sempre più complessa e variegata in cui l’insidia di un errore è dietro l’angolo, può creare un atteggiamento che va al di là della normale prudenza del giudice nonché il rischio di un condizionamento eccessivo, soprattutto sui provvedimenti cautelari reali, come i sequestri". Giustizia: "benefici agli ergastolani", la pazza idea del governo di eliminare l’art. 4 bis OP di Giuseppe Lo Bianco Il Fatto Quotidiano, 15 settembre 2015 L’allarme del procuratore antimafia Franco Roberti: "Così potrà uscire anche Totò Riina". Il grimaldello è in una riga e mezzo: "Revisione della disciplina di preclusione ai benefici penitenziari per i condannati alla pena dell’ergastolo". In molti temono che serva ad aprire "il cancello delle gabbie delle belve", come Giovanna Maggiani Chelli, presidente dell’Associazione dei familiari delle vittime di via dei Georgofili, definisce l’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario, che da 23 anni impedisce ai mafiosi detenuti di ottenere i benefici penitenziari aggirando così l’ergastolo. Oggi il governo cambia rotta: e nonostante "l’assoluta contrarietà a ogni futura modifica normativa che possa anche solo attenuare le previsioni di cautela oggi vigenti" manifestata il 9 luglio scorso dal capo dell’antimafia Franco Roberti in una lettera inviata al presidente della commissione Giustizia della Camera Donatella Ferranti, l’aula di Montecitorio riprende il percorso delle riforme volute dai ministri Orlando e Alfano preparandosi a rivedere una norma antimafia forse più importante del 41 bis. Roberti dice di più: "Nel ddl si parla di eliminare". Come non è ancora chiaro. "La dizione contenuta nell’art. 30 lettera E del ddl Orlando è generica - dice Giulia Sarti, del M5S - e tutto viene rinviato a un decreto legislativo attuativo. Il rischio è che vogliano dare la possibilità a mafiosi e terroristi di usufruire dei benefici penitenziari anche se non collaborano con la giustizia". I grillini annunciano battaglia anche se, ammette la Sarti, "non sarà facile". Quella norma non sono disposti a toglierla e l’approveranno, anche se dopo la lettera del procuratore Roberti la presidente Ferranti (Pd) ha introdotto una clausola che recita: "Salvo i casi di eccezionale gravità e pericolosità e in particolare per le condanne per i delitti di mafia e terrorismo anche internazionale". Per i grillini non è la soluzione giusta, anzi rende la norma più vulnerabile e si batteranno per eliminarla: "Per noi è ancora più grave - aggiunge Giulia Sarti - perché scarica sui magistrati così esposti a pressioni corruttive o minacce, la responsabilità della scelta". Perché per la lotta alla mafia è importante che l’art. 4 bis non venga toccato lo spiega Roberti nella sua lettera: premesso che è "indiscutibile la necessità che in stato di detenzione (il mafioso, ndr) sia messo nell’impossibilità di mantenere, all’esterno e all’interno del carcere, quei collegamenti con l’organizzazione criminale che, storicamente e attualmente, costituiscono la regola di comportamento di tali soggetti", che ha indotto il legislatore a introdurre il 41 bis, lo stato detentivo non modifica il ruolo del mafioso all’interno della sua cosca, che riprenderà una volta libero: "Il che conferma la necessità che possa godere dei benefici solo in via eccezionale e quando emergano con certezza le condizioni che escludano ogni pericolo derivante da una maggiore o anticipata libertà". Condizioni garantite dall’art. 4 bis che, secondo un orientamento diffuso tra i magistrati antimafia rende l’ergastolo "una pena vera". "Senza il 4 bis - dicono - può uscire anche Riina". E che il tema è sensibile lo dimostrano i siti internet protagonisti di attacchi personali a quanti operano nelle istituzioni a tutela della certezza della pena. Promette battaglia anche la Chelli: "Se passerà una ignominia tale ci troverete in via dei Georgofili a difendere la memoria dei morti sacrificati in nome dei rappresentanti del Parlamento che non sanno prendersi le responsabilità e che assecondano Cosa Nostra". Giustizia: Mafia Capitale si poteva scoprire cinque anni prima di Marco Lillo e Valeria Pacelli Il Fatto Quotidiano, 15 settembre 2015 Cantone: nel 2010 l’Autorità dei Lavori pubblici aveva rilevato gli appalti senza gara alle coop di Buzzi. Senza muovere un dito. Mafia Capitale ha prosperato anche grazie all’inerzia delle autorità di controllo. Con il deposito di migliaia di carte "nuove" del fascicolo dei magistrati romani emerge anche la lettera inviata da Raffaele Cantone al procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone. Il capo dell’Autorità Anticorruzione segnala che gli uffici della disciolta Autorità di Vigilanza sui Lavori Pubblici, poi confluita nell’Anac, avevano segnalato al Comune di Roma tutto quello che non andava negli affidamenti senza gara alle coop sociali. La segnalazione risaliva al 2010. Nulla era accaduto. Tanto che la lettera di Cantone a Pignatone si chiude con l’annuncio di un’ispezione interna. "Dopo che la stampa ha dato notizia dell’indagine su Mafia Capitale, ho fatto fare una verifica per accertare se sugli appalti relativi ai servizi sociali erano stati effettuati in passato, accertamenti da parte dell’Autorità di vigilanza dei contratti pubblici (Avcp)", scrive Cantone a Pignatone. "Grazie alla collaborazione di un dirigente, ho ricostruito una vicenda che, credo, potrà essere utile per le indagini ma che potrebbe meritare da parte della S.V. un approfondimento su eventuali possibili omissioni negli anni 2010/2011 da parte di dipendenti dell’Avcp". Il Comune di Roma si era di fatto autodenunciato chiedendo all’Autorità un parere sulla cassa integrazione dei lavoratori dell’assistenza agli immigrati. Ma la gara stessa vinta dalla cooperativa che li impiegava, per l’Avcp, era illecita. "Il 3 settembre 2010", scrive Cantone, "il vice segretario generale dell’Avcp evidenziò al Dipartimento citato che l’appalto per il quale era stata avanzata richiesta di chiarimenti non era stato affidato conformemente alle disposizioni normative in materia di contratti pubblici e individuò una lista di appalti affidati con medesime modalità, chiedendo di fornire spiegazioni. Il 19 ottobre 2010, il dipartimento del Comune di Roma precisava che la totalità dei servizi era stata affidata a cooperative sociali di tipo A o di tipo B e si individuavano le ragioni per cui si era proceduto sostanzialmente in deroga al codice dei contratti - in particolare perché si trattava di risolvere una situazione di grave disagio ed emergenza sociale, per ovviare a problemi di ordine pubblico ed igienico sanitario". Cantone sottolinea che "nell’atto trasmesso dal Comune era contenuto un elenco di cooperative beneficiarie degli affidamenti, in cui risultano fra l’altro la Coop sociale 29 giugno e Eriches 29 giugno". L’Autorità rispose il luglio 2011 segnalando "criticità emerse nel settore esaminato che riguardavano il mancato esperimento da parte del comune di procedure di confronto concorrenziale, in assenza dei necessari presupposti normativi ed il frequente ricorso ad affidamenti diretti". Cantone segnala che ciononostante l’Autorità, invece di intervenire con un provvedimento contro il Comune, preferiva ipotizzare ispezioni in tutta Italia e un confronto tra Roma e altre città. La ragione? Le difficili condizioni finanziarie della Capitale. Conclude Cantone: "Nessuna attività di successiva ispezione è stata effettuata né in alcun modo è stata effettuata comparazione con altre città né che le irregolarità, comunque emerse, siano state comunicate al Comune di Roma, alla Corte dei Conti o alla Procura della Repubblica". Al termine della lettera Cantone chiude minaccioso: "L’anomalia della procedura evidenziata sarà evidentemente oggetto di ulteriori accertamenti ispettivi interni i cui esiti saranno prontamente comunicati alla Procura". Nelle carte compare anche un’intercettazione in carcere di Massimo Carminati che parla con un altro detenuto: "Quando avevo 16 anni andavo in giro armato di pistola, quando poi i miei amici sono tutti morti ammazzati, io mi sono specializzato in quello che loro dicono e mi accusano. Ma non hanno capito che gli piscio in testa se voglio". Carminati non collabora con i pm, a differenza dell’uomo ritenuto il suo braccio destro, Salvatore Buzzi. Il ras della cooperativa 29 giugno ha parlato tante volte con i pm e i compagni di detenzione non hanno gradito. Buzzi, in una lettera alla Procura, scrive che "l’ambiente della sezione, sebbene sia stato tollerante dopo i due interrogatori, ora è diventato ostile nei miei confronti, salvo alcune eccezioni. Ieri sera dopo i telegiornali, i detenuti della sezione hanno iniziato a gridare nei miei confronti: andiamo a fare i pentimenti religiosi, i pentimenti li facciamo all’aria". E chiede l’isolamento. Intanto ieri è tornato agli arresti domiciliari Daniele Pulcini, l’imprenditore romano arrestato anche lui con l’accusa di concorso in turbativa d’asta. Dal 4 giugno scorso era ai domiciliari, poi però è stato portato in carcere dopo che la Procura ha scoperto che organizzava cene e party a bordo piscina durante la detenzione. In una lettera ai pm, riconosce "di aver sbagliato". Giustizia: "Mafia Capitale per nascondere altro", le intercettazioni di Carminati in carcere di Valeria Di Corrado e Andrea Ossino Il Tempo, 15 settembre 2015 È il 4 aprile. Nella casa circondariale di Parma, dove si trova recluso in regime di 41 bis, Carminati è a colloquio con la compagna Alessia Marini, il figlio Andrea Carminati e la sorella Micaela Carminati. Dopo che la convivente rassicura l’ex terrorista nero di avergli portato il formaggio primo sale, "er Cecato" comincia a parlare delle sue vicende processuali: "nasconderanno quello. Questa Mafia Capitale è nata per nascondere altre cose. La cosa che mi fa vomitare è l’associazione mafiosa, mi avessero dato banda armata va bene... ma l’associazione". Carminati poi commenta quello che legge sui giornali, parlando di "La Repubblica" dice: "Guardano in faccia solo alcune persone, preferisco "Il Fatto Quotidiano" che non guarda in faccia a nessuno (...) Io al processo chiamo tutti a testimoniare". Un’altra conversazione carpita dal carcere è quella del 19 marzo scorso: Carminati parlando con un altro detenuto gli spiega: "Quando avevo 16 anni andavo in giro armato di pistola, quando poi i miei amici sono tutti morti ammazzati, io mi sono specializzato in quello che loro dicono e mi accusano, ma non hanno capito che gli piscio in testa se voglio". Nei suoi colloqui con i familiari Buzzi, invece, non si sbilancia: "Qui siamo pieni di telecamere siamo nel carcere più tecnologizzato (...) Sto nel reparto trans... ci stanno le telecamere (...) quei cappellotti sono le telecamere (...) uno c’ha preso un ergastolo per parlare (ride) sparando cazzate, sai ammazza quello....". Umberto Prudente, commerciante di Ponza, il 29 gennaio scorso viene ascoltato dai carabinieri di Formia come persona informata sui fatti. Racconta di conoscere Massimo Carminati e Riccardo Brugia "da circa una trentina d’anni". "Nella metà degli anni 80 i due vennero per le vacanze sull’isola di Ponza in compagnia di altre sei o sette persone, tutti appartenenti ai Nar e responsabili di rapine e altri reati". In una di queste occasioni, a ridosso delle elezioni politiche del febbraio 2013, Prudente spiega: "Mi è rimasto impresso, considerata la loro ideologia politica di estrema destra, Carminati, Brugia e Lacopo (proprietario del distributore di Corso Francia, ndr) mi riferivano che, delusi dai comportamenti di alcuni esponenti politici nazionali di tale area, avrebbero votato per Bersani". In uno dei 240 file che compongono il nuovo deposito vi sono, ad esempio, le dichiarazioni spontanee rese dall’indagato Roberto Lacopo, il proprietario del distributore di benzina che sorge in Corso Francia. Un’attività divenuta un luogo d’incontro per i principali indagati di questa maxi-inchiesta. È un colloquio particolare quello tra Lacopo e gli inquirenti. Tanto singolare da costringere gli inquirenti a verbalizzare: "Si da atto che il sig. Lacopo mostra di essere turbato". Probabilmente l’indagato è turbato perché ha ascoltato numerose conversazioni: "Un giorno Reginaldo e Calvio litigarono per una somma di 6mila euro per dei lavori che quest’ultimo aveva effettuato presso la villa di proprietà di un senatore, per conto di Reginaldo". È un fatto: "Spezzapollici" andava a casa di un misterioso senatore. Singolare risulta anche il ritrovamento di due lingotti d’oro ritrovati nelle disponibilità di Tatiana Emanuelli e Bracci Raffaele. I preziosi sono stati sequestrati dagli inquirenti e dietro quei lingotti potrebbe nascondersi un affare ben più ampio. Secondo il Ros Braccio era il "finanziatore e erogatore materiale della somma di denaro finalizzata alla realizzazione di un’operazione di compravendita e importazione d’oro nel continente africano". La vicenda inizia nel marzo del 2013, quando Fabio Gaudenzi, dovendo fare un affare alle Bahamas, si rivolge a Filippo Maria Macchi, un amico d’infanzia. Macchi spiega però che non aveva liquidi perché stava per effettuare un’operazione in Africa: "Tu stringi un rapporto con il capo villaggio dove c’è l’oro(...)Tu ti metti d’accordo con lui gli dici senti io vengo già con l’aereo privato, ti pago le tasse d’esportazione, esportiamo il prodotto lo portiamo nella mia azienda e ti pago ok? (...)Con un investimento del genere, del 4% fai delle plusvalenze che tu costruisci 50 ville capito?". "Stiamo acquistando mezzi in Sicilia mettendogli la passarella facendoli tutti di un colore per spedirli in Venezuela e fare una linea di trasporti". Dal Venezuela fino in Costa Rica passando per la Sicilia. Odevaine agiva su scala mondiale. "L’unica attività che sto facendo in Venezuela su sollecitazione del mio amico venezuelano che il sindaco di Puerto Cabello è una linea di trasporti passeggeri - spiega Odevaine nel luglio del 2014 non sapendo di essere intercettato. Si stanno comprando in Sicilia dieci pullman che verranno spediti...io li sto comprando - continua l’indagato - i pullman non potrebbero entrare in Venezuela(...) a meno che non siano mezzi speciali allora abbiamo architettato la cosa che c’hanno la passarella per i disabili e allora il direttore della dogana che è un amico del sindaco ha detto: "Se è così ve li faccio passare". Del resto Odevaine pensa in grande. Anche quando si tratta di finanziamenti da prendere dal ministero per "mettersi a posto" grazie alla "Festa del Fico D’India". Un finanziamento da 3 milioni di euro. Giustizia: la magistrata Rita Sanlorenzo "Cantone e i tecnici garanti del potere" di Jacopo Rosatelli Il Manifesto, 15 settembre 2015 Non si combattono le correnti del Csm con slogan generici e populismi. La magistratura avrebbe bisogno della riscoperta di coscienza critica e capacità di denuncia, anche al proprio interno, in contrasto con gli individualismi. Altre novità in arrivo nel pianeta-giustizia: il 3 settembre il ministro Andrea Orlando ha istituito due commissioni per elaborare la riforma dell’ordinamento giudiziario e quella del Csm, l’organo di autogoverno di giudici e pm. Chiediamo a Rita Sanlorenzo, ex segretaria nazionale di Magistratura democratica, per oltre vent’anni giudice del lavoro e ora sostituto procuratore in Cassazione, una valutazione sulle condizioni oggi e sulle prospettive future della giustizia italiana. Dottoressa Sanlorenzo, ordinamento giudiziario vuol dire valutazione e carriere dei magistrati. Cosa dovrebbe cambiare? "Per risponderle è necessario fare un bilancio delle riforme Mastella di nove anni fa, che hanno già profondamente cambiato la magistratura: l’attenzione ai percorsi di carriera, il nuovo verticismo negli uffici, l’enfatizzazione del ruolo del dirigente hanno determinato una sorta di mutamento antropologico nella categoria. Esiste un nuovo conformismo diffuso, che non si sconfigge con una diversa formulazione delle circolari del Csm sull’accesso ai ruoli dirigenti. La magistratura avrebbe bisogno della riscoperta di coscienza critica e capacità di denuncia, anche al proprio interno, in contrasto con gli individualismi". Invece si parla ossessivamente quasi solo di efficienza e "numeri". "Per questo servirebbe un pensiero critico che esamini ciò che è successo in questi anni. La sede in cui ho lavorato sino a poco fa, Torino, è indicata come modello nazionale di efficienza: è vero che ha una situazione ottima nel civile, ma presenta arretrati ingestibili nel penale. Si è dato a un settore per togliere a un altro. Non solo: il mito dell’efficienza fa sì che vengano premiati con nomine a posti prestigiosi magistrati che hanno ottenuto lo smaltimento delle pendenze, senza che si affronti mai il problema della qualità del loro lavoro. Il giudizio disciplinare sembra che abbia ad oggetto ormai solo il mancato rispetto dei termini di deposito delle sentenze: negli uffici, chi fa le spese di questo trend sono soprattutto i più giovani, gli ultimi arrivati. E la tanto sbandierata nuova responsabilità dei dirigenti non ha impedito al Csm di confermare praticamente tutti nei ruoli apicali". A proposito di Csm, nei propositi di riformarlo vede più opportunità o rischi? "Guardo con apprensione a ogni rinnovata attenzione della politica verso il Csm. Non so come ci si muoverà, vorrei solo che si sfatasse la cattiva vulgata per cui la magistratura ha bisogno di sottrarsi al suo stesso autogoverno. Non mi rassicurano le intenzioni di spostare il baricentro verso un maggior peso della politica, che mostra in molti casi di muoversi all’interno del Csm secondo logiche clientelari. Un magistrato che chiede una raccomandazione a un collega è malcostume, ma se la chiede a un politico è una ferita all’indipendenza". È un luogo comune individuare nelle correnti il male principale dell’autogoverno: Cantone, che a una corrente è iscritto, le ha definite di recente un "cancro", ed è stato durissimo con Md. "Ormai siamo abituati alle dichiarazioni di Cantone che, pur restando in magistratura, ritiene di aver titolo per spaziare a tutto campo oltre i suoi ambiti funzionali. Ricordo le critiche a Rosy Bindi sull’affare De Luca, e ancor più quando si è detto "indignato" per la condanna inflitta all’Italia della Corte di Strasburgo per i fatti della Diaz e la mancata introduzione dei reati di tortura. C’è un flusso di esternazioni che ormai contribuiscono alla costruzione del "personaggio Cantone", che certo ha a cuore la propria nuova immagine piuttosto che il bene della magistratura, i cui problemi vengono liquidati con una retorica degna della peggior polemica politica. Slogan generici e populismo non servono però a modificare nessuno dei mali che indicano. Servirebbero una critica circostanziata e un’analisi precisa, in grado di indicare anche le colpe della politica rispetto a tali degenerazioni. Ma non penso che sia quello lo scopo di certi "botti" mediatici. E su Md, Cantone si ferma al macchiettismo sulle toghe rosse che usano i processi per fare "giustizia di classe": chissà cosa ne pensano i tanti colleghi di Md che con lui hanno combattuto le mafie, e i tanti altri che hanno fatto il proprio dovere negli uffici". Dopo gli anni turbolenti di Berlusconi, ora sembra regnare una sorta di pax renziana fra politica e magistratura. È così? "Il caso di Cantone mi sembra emblematico di un nuovo atteggiarsi reciproco. Si rafforza la stigmatizzazione dei magistrati che passano alla politica, ha successo invece il ruolo del "tecnico" prestato al governo (centrale o territoriale) per fungere da garante qualificato, per dare una patente di legalità all’agire amministrativo. E "tecnico" ama definirsi il sottosegretario alla giustizia Ferri, già segretario di Magistratura indipendente, rimasto al governo pur dopo essere stato colto nella non certo istituzionale attività di fare campagna elettorale per i candidati al Csm della sua corrente. La sua permanenza al governo è stata definita in un primo momento dal premier come indifendibile, poi non se ne è fatto più nulla: ecco come la politica si occupa delle degenerazioni correntizie. Bisogna essere chiari: svolgere ruoli cosiddetti "tecnici" non impedisce l’abbandono della terzietà, e può significare un oggettivo supporto al potere in carica". Giustizia: intercettazioni e indagini, lo scontro va in Aula di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 15 settembre 2015 Alla vigilia del ritorno nell’aula della Camera del ddl sul processo penale, piovono rassicurazioni del Pd su intercettazioni e indagini, piovono pietre dall’Ncd contro i magistrati per l’ingiusta detenzione e piovono strali dai 5 Stelle contro il governo per norme "antidemocratiche e vergognose". La pausa estiva non ha cambiato né lo scenario né il clima di fine luglio, quando l’esame del provvedimento fu sospeso e rinviato per l’ostruzionismo dei grillini, le contestazioni di magistrati e giornalisti, la confusione del governo, in particolare sulla norma (Ncd) che punisce da 6 mesi a 4 anni di carcere le registrazioni "fraudolente". Norma a dir poco ambigua, che ora verrà emendata dal Pd per garantire il diritto di cronaca ma che, anche emendata, resta la fotocopia della famosa "norma D’Addario" voluta nel 2010 dalla maggioranza dell’allora governo Berlusconi e contro la quale proprio il Pd fece le barricate. Ad aprire il fuoco è stato, domenica, il viceministro della Giustizia Enrico Costa, rilanciando i dati sugli indennizzi pagati dallo Stato in caso di ingiusta detenzione (si veda Il Sole 24 ore del 10 settembre) e, quindi, l’emendamento a firma Pagano che, in questi casi, prevede l’azione disciplinare contro il magistrato "colpevole" dell’ingiusta detenzione. Porta la stessa firma anche la "norma D’Addario" sulle registrazioni fraudolente, nonché quella che fa scattare l’azione disciplinare in caso di ritardata iscrizione della notizia di reato nel relativo registro. Su queste ultime due, il partito di Alfano ha già incassato il via libera del governo e del Pd ma, non contento, ora punta i piedi sulla responsabilità disciplinare in caso di ingiusta detenzione, anche se sembra disposto ad accettare una mediazione (si veda l’intervista a Costa in questa pagina) purché non sconfessi il principio che "chi sbaglia, paga": nella fattispecie, oltre allo Stato anche il magistrato. È evidente che il centrodestra gioca al rialzo. La partita autunnale della giustizia, infatti, comprende anche la riforma della prescrizione al Senato, dove l’Ncd intende sterilizzare l’aumento della metà dei termini introdotto dalla Camera. E se è vero che avrebbe Forza Italia dalla sua, è anche vero che a difendere il testo di Montecitorio potrebbero arrivare i 5 Stelle. Ma la prospettiva di una maggioranza variabile, in questo momento politico, è un lusso che il governo non può permettersi. Di qui la necessità di trovare una mediazione politica sulla prescrizione, a Palazzo Madama, e sul ddl sul processo penale, alla Camera. Sullo sfondo, magistrati e giornalisti stanno a guardare, pronti a scendere sul piede di guerra. A differenza delle norme sulle intercettazioni, quelle sui magistrati sono immediatamente operative. Le prime, infatti, sono di delega al governo, che avrà un anno di tempo per scrivere un articolato dettagliato a tutela della privacy. E qui arriva la prima bordata dei grillini che - in una conferenza stampa e alla presenza di alcuni giornalisti tra cui il presidente dell’Ordine Enzo Iacopino - parlano di "delega in bianco" e di "norme bavaglio", confermando la loro opposizione anche se, ormai, i tempi per l’esame del provvedimento sono contingentati per cui il voto finale (nonostante i 300 emendamenti) potrebbe arrivare già giovedì. Parla di "polverone" e di "strumentalizzazione" il Pd che, con il responsabile Giustizia David Ermini esclude limitazioni del diritto all’informazione. "Abbiamo posto il problema di non far entrare nelle ordinanze testi di intercettazioni irrilevanti per le indagini: è questo il bavaglio?" chiede, ricordando che con un emendamento di Walter Verini sarà "garantito a chi esercita il diritto di cronaca anche di registrare in modo fraudolento". Quanto alle norme che per i 5 Stelle "pregiudicheranno" i magistrati e le indagini ("la tagliola dei 3 mesi", dopo il deposito degli atti, per esercitare l’azione penale), Ermini puntualizza che quel termine, "sacrosanto", scatta "dopo lo svolgimento delle indagini". Una volta approvato dalla Camera, il testo dovrà passare al Senato ma il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha fatto sapere che già dopo il primo passaggio parlamentare insedierà al ministero una commissione per predisporre il decreto legislativo sulle intercettazioni. I principi della relativa delega sono in effetti molto generici; da qui la preoccupazione che il testo (su cui le Camere potranno dare solo pareri non vincolanti) possa, in nome della privacy, limitare la libertà di stampa. Certo è che, al netto del diritto di cronaca, l’unica norma dettagliata della delega sembra ispirata a una iper-tutela della privacy che, portata alle estreme conseguenze, potrebbe portare a sanzionare penalmente non solo la diffusione di registrazioni fraudolente ma anche di conversazioni telefoniche o private trascritte. Come faceva la norma D’Addario. Con la sola differenza che quella era una norma ordinaria e questa una norma di delega. Giustizia: caso Cucchi, vicini a una svolta di Eleonora Martini Il Manifesto, 15 settembre 2015 Pm a un passo dagli autori dei pestaggi. Consegnato il nastro con l’ammissione del perito: "La frattura vertebrale resa non visibile". "Commossa", Ilaria, sorella di Stefano: "Non pensavo che le indagini fossero così avanzate". Potrebbero essere molto vicini alla verità, gli inquirenti, forse hanno già individuato coloro che massacrarono di botte Stefano Cucchi. Sua sorella Ilaria è quasi incredula quando esce, accompagnata dall’avvocato Fabio Anselmo, dall’incontro avuto ieri pomeriggio con il procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone e con il sostituto Giovanni Musarò, responsabile dell’inchiesta bis aperta, sei anni dopo, sulla morte, rimasta finora senza responsabili, del giovane geometra arrestato per droga dai carabinieri il 15 ottobre 2009 al Parco degli Acquedotti di Roma. "Sono emozionata, commossa, non pensavo che la procura fosse così avanti nelle indagini. Avrei voglia di gridare al mondo molto di più, ma ho molta fiducia nel procuratore". A Pignatone hanno appena consegnato un altro documento importante: la registrazione della telefonata intercorsa tra il giornalista Duccio Facchini, della rivista di informazione indipendente Altraeconomia, e la tecnica radiologa incaricata dalla Corte d’Assise di esaminare per il processo la colonna vertebrale di Cucchi. Nell’intervista, la tecnica ausiliaria Beatrice Feragalli, dell’Università di Chieti e Pescara, spiega (vedi il manifesto del 12/9/2015) perché la frattura "recente" sulla terza vertebra lombare di Stefano, riscontrata dalla perizia firmata dal prof. Carlo Masciocchi, presidente della Società italiana di radiologia, e depositata venerdì scorso dalla famiglia, non compare invece nei referti ufficiali attorno ai quali si sono svolti due processi conclusi con l’assoluzione di tutti gli imputati: "La L3 - riferisce Feragalli - non era valutabile nel nostro esame proprio perché era già stato sezionato l’osso, non era intera la vertebra". "In procura, abbiamo avuto un lungo confronto sulla crisi di questi aspetti medico legali; l’interesse dei pm ricade su di essi e quindi sulla causa della morte di Stefano", riferisce l’avvocato Anselmo che oggi stesso tornerà a piazzale Clodio per consegnare altre immagini radiologiche della L3 e della sacrale S4, le vertebre fratturate, secondo il prof. Masciocchi, "contestualmente" e non molto tempo prima del decesso, "con alta verosimiglianza" a causa di "un trauma compressivo". Dunque, si torna a indagare a 360 gradi su tutti coloro che contribuirono a insabbiare il pestaggio del ragazzo, allora 31enne. Evento comunque appurato dalla stessa Corte d’Appello che, nelle motivazioni della sentenza con la quale ha assolto, ribaltando il primo grado, sei medici, tre infermieri e tre poliziotti penitenziari, consigliava alla procura di indagare ulteriormente sui militari che ebbero Cucchi sotto tutela. Ed è proprio grazie alla testimonianza resa spontaneamente da due carabinieri - un uomo e una donna che avrebbero riferito a Pignatone di quanto alcuni loro colleghi si fossero dati da fare per nascondere il pestaggio, o forse i pestaggi, come sostengono i familiari - che sul registro degli indagati è finito, con l’accusa di falsa testimonianza, un maresciallo dell’Arma, ex comandante della stazione Appia da cui partì la volante che eseguì l’arresto. Ma, ragionano i legali della famiglia Cucchi, "se il carabiniere è indagato per falsa testimonianza, non può rimanere solo e ci sarà una catena di false testimonianze che riguarderà tutto il processo". "La morte di mio fratello doveva essere archiviata come la fine naturale di un povero tossico, una vittima scomoda da seppellire subito. Noi - promette Ilaria Cucchi in un’intervista a Repubblica - dimostreremo che è stato un omicidio". Giustizia: perizie, ammissioni e lesioni trascurate, la famiglia Cucchi e l’incontro in Procura di Ilaria Sacchettoni Corriere della Sera, 15 settembre 2015 L’ex vicecomandante della stazione Appia dei Carabinieri, Roberto Mandolini, avrebbe coperto i suoi uomini, tacendo il pestaggio di Stefano Cucchi nella notte del suo arresto per spaccio (il 15 ottobre 2009). Come è scritto nella convocazione che gli è stata notificata dalla Procura a luglio scorso, Mandolini avrebbe taciuto "ciò che sapeva in merito alla responsabilità dei carabinieri appartenenti all’Arma". Un’accusa che rischia di trascinare altri militari nell’inchiesta bis. A partire dai due appuntati Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro che potrebbero finire nel registro degli indagati per lesioni colpose. È solo il principio. Se vi fu un pestaggio - e due militari rintracciati dal difensore della famiglia Cucchi, Fabio Anselmo, lo avrebbero confermato nei dettagli - è chiaro che vi furono anche omissioni. Si presume che Mandolini abbia mentito all’autorità giudiziaria: ma ai suoi superiori? Non solo. L’inchiesta del pm Giovanni Musarò dovrà pesare anche le conseguenze di quelle percosse (la prima stabiliva che le cause della morte erano collegate a omissioni dei medici del Pertini che trascurarono Cucchi ricoverato). I documenti depositati ieri dalla sorella di Stefano, Ilaria, sembrano fornire indicazioni agli investigatori. 1 risultati della perizia commissionata a un radiologo, Car-o Masciocchi, rilevano fratture recenti alla terza vertebra: "Le iatture riscontrate sembrano essere assolutamente contestuali" dice l’esperto, sconfessando il perito dei pm che istruì la prima indagine. Per Ilaria Cucchi è possibile che il perito della procura abbia trascurato proprio quella parte della colonna vertebrale. Lo confermerebbe l’intervista realizzata da un giornalista del sito "Altreconomia" alla radiologa Beatrice Ferragalli dell’Università di Chieti e Pescara che esaminò il cadavere: "Quella vertebra non poteva essere esaminata per intero, l’osso era stato sezionato". L’inchiesta bis ha riacceso le aspettative dei familiari: "Siamo soddisfatti e fiduciosi nei confronti del lavoro che sta facendo oggi la Procura. Siamo emozionati, molto, molto commossi". Sei anni dopo, l’esito non è scontato. Il difensore di Mandolini, avvocato Piero Frattali, si definisce "perplesso" anche dai due supertestimoni che inchioderebbero il suo cliente: "Sono sorpreso dal loro tempismo dopo che per 6 anni hanno trascurato i loro obblighi giuridici e morali, sapendo che tre innocenti (i tre agenti della penitenziaria, ndr) venivano processati". Giustizia: un anno di condanna a Grillo per diffamazione, sotto accusa i talk show di Astolfo Di Amato Il Garantista, 15 settembre 2015 Grillo è stato condannato, dal tribunale di Ascoli Piceno, ad un anno di reclusione, senza sospensione condizionale della pena, per il reato di diffamazione aggravata. Gli è stato, in particolare, contestato, secondo quanto riferiscono le agenzie di stampa, di aver fatto, durante la campagna per il referendum sul nucleare, la seguente affermazione: "Vi invito a non pagare più il canone, io non lo pago più, perché non puoi permettere ad un ingegnere dei materiali, nemmeno del nucleare, parlo di Battaglia, un consulente delle multinazionali, di andare in televisione e dire, con nonchalance, che a Chernobyl non è morto nessuno. Io ti prendo a calci nel c.o e ti sbatto fuori dalla televisione, ti denuncio e ti mando in galera". L’affermazione di Grillo era riferita ad un intervento dell’ingegner Battaglia nella trasmissione televisiva Annozero, condotta da Santoro. Sulla circostanza che la frase incriminata abbia un chiaro contenuto offensivo e diffamatorio, nei riguardi di Battaglia, non possono esservi dubbi. La frase di Grillo, difatti, non si limita affatto ad una critica di quelle che sarebbero state le affermazioni di Battaglia, ma giunge a denigrare la persona in modo violentemente offensivo. In questo senso, la sentenza del tribunale di Ascoli appare perfettamente in linea con i canoni elaborati da una giurisprudenza consolidata sui limiti che possono consentire un legittimo esercizio del diritto di critica. Vi è, peraltro, un versante della decisione che, sia pure senza ancora conoscere le motivazioni, lascia perplessi. Ed è il seguente. Trasmissioni televisive come Annozero, e come tanti altri talk show televisivi che a quel format si sono ispirati, sono caratterizzate da una dialettica che spesso trascende nei toni e che sostituisce frequentemente l’aggressione verbale alla pacata esposizione delle proprie ragioni. La cifra caratterizzante di tali trasmissioni è, perciò, un dibattito fatto di critiche aspre, portate avanti con espressioni molto colorite in cui è spesso difficile rinvenire una analisi obiettiva dei contenuti discussi. La partigianeria portata avanti ad oltranza rappresenta, e ancora più rappresentava all’epoca della trasmissione Annozero, un elemento fondamentale del successo di quel tipo di dibattito televisivo. La questione che, allora, si pone è se la virulenza delle espressioni attribuite a Grillo vada parametrata o no al tono urlato e aggressivo che complessivamente segna di frequente le trasmissioni quale quella nella quale è intervenuto Battaglia. Difatti, se il parametro deve essere costituito dal tono generale della trasmissione televisiva, possono sorgere dei dubbi sulla effettiva illiceità della condotta di Grillo. Al riguardo diventa giocoforza osservare che la giurisprudenza della Corte di Cassazione ha ritenuto pienamente legittimo l’uso di espressioni offensive nell’ambito del dibattito politico e sindacale, proprio in considerazione del tono acceso che di regola caratterizza tale tipo di dibattito. Così, secondo la giurisprudenza, è alla stregua del tono che caratterizza un certo tipo di dibattito che va valutata l’offensività o no delle espressioni usate. Se tale criterio dovesse essere ritenuto applicabile anche ai talk show televisivi caratterizzati da una dialettica aggressiva e violenta, verrebbero meno le possibili ragioni a sostegno della condanna di Grillo. Giustizia: Beppe Grillo condannato per diffamazione. "Io come Mandela e Pertini" Il Tempo, 15 settembre 2015 Il leader del M5S diffamò nel 2011 il professor Battaglia. La pena: un anno di prigione e 50mila euro di risarcimento. "Beppe Grillo condannato a un anno di prigione". Con questo titolo apre il blog del leader M5S, che riporta la sentenza emessa ai suo danni e chiosa: "Forse fa paura che il Movimento 5 Stelle si stia avvicinando al governo? Se Pertini e Mandela sono finiti in prigione potrò andarci anch’io per una causa che sento giusta e che è stata appoggiata dalla stragrande maggioranza degli italiani al referendum". Si tratta, nello specifico, della querelle sul nucleare. La condanna. "Oggi è stata emessa la sentenza dal tribunale di Ascoli Piceno contro di me per diffamazione - spiega Grillo - per aver detto in un comizio che il professor Franco Battaglia, docente di Chimica ambientale del Dipartimento di Ingegneria "Enzo Ferrari" dell’Università di Modena e Reggio affermava delle coglionate in merito al nucleare. Il fatto risale all’11 maggio 2011, in occasione di un mio comizio elettorale a San Benedetto del Tronto in vista del referendum sul nucleare". "Vi invito a non pagare più il canone, io non lo pago più perché - dissi davanti al pubblico del comizio - non puoi permettere ad un ingegnere dei materiali, nemmeno del nucleare, parlo di Battaglia, un consulente delle multinazionali, di andare in televisione e dire, con nonchalance, che a Chernobyl non è morto nessuno. "Io ti prendo a calci nel c...o e ti sbatto fuori dalla televisione, ti denuncio e ti mando in galera", dissi riferendomi alla partecipazione di Battaglia ad una puntata di Anno Zero", riporta Grillo. "Il Pm aveva chiesto una multa di 6.000 euro. Il giudice mi ha invece tolto la condizionale condannandomi a un anno di prigione e a 50.000 euro di risarcimento. Io sono fiero - rivendica Grillo - di aver contribuito a evitare la costruzione di nuove centrali nucleari in Italia. È un’eredità che lascio ai nostri figli che potranno evitare incidenti come Chernobyl e Fukushima". A Chernobyl non è morto nessuno?, chiede il leader 5 Stelle. Segue un post scriptum in cui Grilllo puntualizza come, contrariamente a quanto riportato da alcuni organi di informazione, la pena non è stata sospesa. Il commento del professor Battaglia. "Grillo dovrebbe smetterla di diffamare a destra e manca. Lui può fare la carriera politica che vuole ma deve farla in modo civile. Oltre a offendermi e a incitare alla violenza contro di me, disse che io difendevo il nucleare perché sarei pagato dalle multinazionali. Ma quello che più mi preoccupa di Grillo è che molta gente lo segue e lo ascolta, per questo deve fare attenzione quando parla. Ora è stato condannato a un anno di reclusione per diffamazione aggravata dalla recidiva per la precedente condanna, sempre per diffamazione, ai danni del premio Nobel Rita Levi-Montalcini. "Immagino che Grillo farà appello e cercherà di arrivare alla prescrizione, che sarà nel 2020 - continua il docente universitario - In quattro anni avrebbe potuto chiedermi scusa e invece non lo ha fatto. Ora - conclude Battaglia - mi auguro che si faccia un po’ di servizi sociali, come Berlusconi". Le condanne precedenti. Quella stabilita dal tribunale piceno non è la prima condanna per diffamazione. Risale a 12 anni fa il patteggiamento in una causa intentata contro di lui dal premio Nobel Rita Levi-Montalcini, definita dal leader una "vecchia p...", insinuando che la scienziata avesse ottenuto il premio grazie a una ditta farmaceutica. Nel 2012 è arrivata la condanna in appello per aver diffamato a mezzo stampa la Fininvest in un suo articolo di otto anni prima sulla testata Internazionale. Due anni fa la condanna definitiva in Cassazione per diffamazione nei confronti di Giorgio Galvagno, ex sindaco di Asti e parlamentare di Forza Italia. Sempre nel 2013 la condanna in primo grado per la causa indetta dal tesoriere del Pd Antonio Misiani. Giustizia: al via gli avvocati specializzati di Gabriele Ventura Italia Oggi, 15 settembre 2015 Specializzazioni forensi al via. Ma per diventare specialisti gli avvocati dovranno frequentare corsi ad hoc (o aver trattato ogni anno almeno 15 affari rilevanti ai fini della specializzazione) e non potranno conseguire il titolo in più di due settori. Il prossimo 15 settembre verrà pubblicato in Gazzetta Ufficiale il decreto del ministero della giustizia recante il regolamento che disciplina le modalità di conseguimento e mantenimento del titolo di avvocato specialista. Il provvedimento entrerà definitivamente in vigore decorsi 60 giorni dall’approdo in G.U., vale a dire il 15 novembre 2015. Sempre martedì prossimo sarà pubblicato il decreto che stabilisce le forme di pubblicità per l’esame di abilitazione all’esercizio della professione di avvocato. Ricapitoliamone quindi i principali contenuti. Le specializzazioni. Gli avvocati potranno conseguire il titolo di specialista in non più di due di una serie di settori. Tra questi: il diritto delle relazioni familiari, delle persone e dei minori, il diritto agrario, diritti reali, di proprietà, locazioni e condominio, ambiente, diritto industriale e delle proprietà intellettuali, diritto commerciale, della concorrenza e societario. Ancora: diritto dell’esecuzione forzata, bancario e finanziario, della navigazione e dei trasporti. Gli elenchi degli avvocati specialisti saranno tenuti dai Consigli dell’ordine. Quanto ai requisiti per poter diventare avvocati specialisti, è necessario aver frequentato, nei cinque anni precedenti, i corsi di specializzazione; non aver riportato, negli ultimi tre anni, una sanzione disciplinare definitiva diversa dall’avvertimento conseguente a un comportamento in violazione del dovere di competenza o aggiornamento professionale; non aver subito, nei due anni precedenti, la revoca del titolo di specialista. I corsi, invece, che sono organizzati da una commissione permanente presso il ministero della giustizia, hanno una durata almeno biennale e una didattica non inferiore a 200 ore, delle quali almeno 100 devono essere di didattica frontale. L’avvocato deve frequentare almeno l’80% della durata del corso ed è prevista almeno una prova, scritta e orale, al termine di ciascun anno di corso. Altra strada per diventare avvocati specialisti è la comprovata esperienza. L’art. 8 del regolamento prevede che i requisiti essenziali siano: aver maturato un’anzianità di iscrizione all’albo degli avvocati ininterrotta e senza sospensioni di almeno otto anni; aver esercitato negli ultimi cinque anni in modo assiduo, prevalente e continuativo attività di avvocato in uno dei settori di specializzazione. Per dimostrarlo, l’avvocato deve produrre documentazione che attesti la trattazione nel quinquennio di incarichi professionali fiduciari rilevanti per quantità e qualità almeno pari a 15 per anno. Infine, possono presentare domanda al Cnf per il conferimento del titolo di avvocato specialista, previo superamento di una prova scritta e orale, gli avvocati che, nei cinque anni precedenti l’entrata in vigore del regolamento, abbiano conseguito (o stiano conseguendo) un attestato di frequenza di un corso almeno biennale di alta formazione specialistica organizzato dal Cnf, dai Coa o dalle associazioni forensi. Esame di avvocato. Il secondo decreto stabilisce invece le forme di pubblicità per l’esame di abilitazione all’esercizio della professione di avvocato. Secondo tale regolamento la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del decreto che fissa gli esami di stato dovrà avvenire almeno 90 giorni prima della data d’esame e, nei successivi dieci giorni, il ministero della giustizia e il Consiglio nazionale forense ne daranno comunicazione sui propri siti internet. Misure cautelari: rischio reiterazione solo se è certa l’occasione per delinquere di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 15 settembre 2015 Corte di cassazione - Sezione III - Sentenza 14 settembre 2015 n. 36919. Per ritenere attuale e concreto il rischio di reiterazione del reato, non basta ipotizzare che l’indagato se ci sarà l’occasione tornerà a delinquere, ma è necessario prevedere che quell’"opportunità" ci sarà. La Cassazione, con la sentenza 36919, prende le distanze dal vecchio adagio con il quale si avverte che "l’occasione fa l’uomo ladro", e invita i giudici a stabilire se il momento propizio per commettere di nuovo il delitto può davvero ricapitare. La Suprema corte bacchetta il tribunale del riesame che non ha tenuto in debito conto le modifiche introdotte dalla legge 47/2015 che rende più stringente l’obbligo di verifica sulla necessità delle misure cautelari. I giudici annullano l’ordinanza con la quale veniva disposto l’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria nei confronti di un indiziato per cessione di sostanza stupefacente. Una conclusione basata "sulle disinvolte e ripetute modalità della condotta". Per la Cassazione non basta. Il giudice deve cambiare il suo schema logico non può più ipotizzare che "se si presenta l’occasione, sicuramente o molto probabilmente, la persona sottoposta alle indagini reitererà il delitto" ma dovrà seguire la diversa impostazione concludendo che "siccome è certo o comunque altamente probabile che si presenterà l’occasione del delitto, altrettanto certamente, o comunque con elevato grado di probabilità la persona sottoposta alle indagini/imputata tornerà a delinquere". Arresti domiciliari esclusi solo in vista della condizionale di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 15 settembre 2015 Il giudice nel valutare l’esigenza delle misure cautelari deve considerare la possibilità per l’imputato di ottenere la condizionale o una condanna inferiore ai tre anni. Se in base al suo pronostico la toga ritiene possibile la concessione della condizionale (articolo 163 del Codice penale) dovrà escludere il ricorso alle misure cautelari, quando invece, a suo avviso, l’asticella della giustizia sia orientata verso una condanna non superiore ai tre anni il giudice potrà limitarsi a dire no alla sola custodia in carcere. La Cassazione, con la sentenza 36918 depositata ieri, fornisce i chiarimenti per una corretta lettura dell’articolo 275, comma 2-bis del Codice di procedura penale, sul quale è intervenuto il Dl 92/2014, convertito nella legge 117/2014. La nuova norma sbarra la strada della custodia in carcere in tutti i casi in cui il giudice prevede che alla fine del giudizio la pena resterà sotto la soglia dei 3 anni. Un’indicazione seguita dai giudici di merito che avevano sostituito la misura della custodia cautelare in carcere con gli arresti domiciliari, nei confronti di un imputato accusato di aver prodotto fatture false finalizzate all’evasione fiscale (articolo 8, Dlgs 74/2000). Contro la decisione dei giudici di merito aveva fatto ricorso l’imputato ritenendo immotivata l’esigenza delle misure cautelari sebbene nella forma meno restrittiva. Una conclusione raggiunta guardando al destino di un coimputato per lo stesso reato al quale era stata concessa la condizionale dopo il patteggiamento. A suo avviso il Tribunale della libertà avrebbe dovuto prevedere gli effetti di una possibile pena concordata e del beneficio della condizionale. Per la Suprema corte però il giudice cautelare si è comportato in modo esemplare. La prognosi, infatti, non deve basarsi su dati astratti ma sul caso concreto. L’impatto che sull’esito finale del giudizio possono avere i riti alternativi non va parametrato alla loro ipotetica praticabilità "ma ad elementi che ne facciano ritenere la più che probabile fattibilità". Fermo restando - ricorda la Suprema corte - che il pericolo di recidiva rende "infausta la prognosi della concedibilità della sospensione condizionale". Nel caso esaminato il reato era stato contestato in relazione a diverse annualità: una continuazione, che avrebbe con ogni probabilità fatto lievitare la pena minima di un anno e sei mesi, allontanando la possibilità del beneficio invocato. Obiettivo del legislatore non è lasciare impuniti i reati ma fare in modo che, a procedimenti conclusi, l’imputato non sia in credito con la giustizia per essere stato sottoposto durante il percorso processuale a restrizioni che non era destinato a subire alla fine. Il tutto per un’errata valutazione del giudice. Il volantino anti-immigrati non integra il reato di propaganda all’odio razziale di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 15 settembre 2015 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 14 settembre 2015 n. 36906. Nel necessario bilanciamento tra la "libertà di espressione" ed il divieto di offendere la "pari dignità" degli uomini, la lotta politica gode di una particolare licenza espressiva. Secondo la Cassazione, infatti, non integra il reato di "propaganda di idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale" il volantino elettorale che, su di un verso (oltre al nome del candidato), rechi la scritta "Basta usurai, basta stranieri", e sull’altro contenga una sequela di vignette in cui i rappresentanti delle diverse etnie sono intenti a commettere ciascuno il proprio reato "tipico". Per la III Sezione penale, sentenza 36906/2015, siamo infatti di fronte ad un "messaggio politico" volto a propagandare "un’avversione non verso i soggetti rappresentati in modo caricaturale ma verso le attività illecite dagli stessi poste in essere", sia pure secondo un pregiudizio non condivisibile. La vicenda - Nel volantino stampato per le elezioni europee 2013 dal candidato Stefano Salmè (per la Destra sociale - Fiamma tricolore) sotto la scritta "Difendi l’Italia" comparivano dunque sei caricature: un asiatico intento a vendere prodotti "made in China"; Abramo Lincoln contornato da dollari svolazzanti; un uomo di colore intento a cedere droga; un arabo con una cintura di dinamite e infine una rom che allunga le mani verso una bambino in braccio ad una italiana. Per i giudici si tratta di una "generalizzazione" alquanto "grossolana" che "appare una forzatura anche agli occhi del destinatario più sprovveduto" ma che va inquadrata "contestualizzandola" in quel particolare clima in cui si svolgono le competizioni elettorali. Laddove "il linguaggio della polemica politica può assumere toni più pungenti ed incisivi rispetto a quelli comunemente adoperati nei rapporti interpersonali tra privati". Infatti, confrontandosi "concezioni contrapposte", anche la valutazione di comportamenti o giudizi "fortemente critici", verso gli avversari politici, o "l’uso di argomenti forti", per veicolare il programma, "deve essere compiuta tenendo presente il preminente interesse generale al libero svolgimento della vita democratica". La questione - Il tema, nuovo almeno in questi termini per il nostro "giudice legittimità", è quello dei cd "hate speeches", i discorsi sull’odio pronunciati dagli esponenti politici verso gruppi minoritari, più volte affrontato dalla Corte Edu che ha "quasi sempre" fatto prevalere il diritto alla libera manifestazione del pensiero (salvo che per il negazionismo dello Shoah). Su questa linea si muove anche la Cassazione affermando che la libera espressione può essere compressa "unicamente in presenza di condotte che disvelino una concreta pericolosità" e non dunque sulla base di "una valutazione astratta". Si deve peraltro escludere, prosegue la sentenza citando un proprio precedente, che possa automaticamente ricondursi alla nozione di "odio" ogni e qualsiasi sentimento o manifestazione di generica antipatia, insofferenza o rifiuto, pur se riconducibile a motivazioni attinenti alla razza, alla nazionalità, all’etnia o alla religione. La decisione - Così, tornando al caso specifico, secondo i giudici, il messaggio veicolato dal volantino è quello per cui va posto un freno alle attività finanziarie riconducibili agli Stati Uniti e alla presenza di stranieri in Italia perché portatori di un aumento della criminalità. Non vi sarebbe perciò un’ostilità pregiudiziale verso determinate etnie ma soltanto un’avversione verso le attività illecite da esse praticate. Mentre affinché la discriminazione sia sanzionabile penalmente occorre che essa sia basata sulle "qualità del soggetto" (zingaro, negro, ebreo, ecc) e non sui "comportamenti". Del resto, conclude la Corte, in assenza di qualsivoglia indicazione violenta perché quel "Basta stranieri" si realizzi, il reato di propaganda all’odio razziale non sussiste. Alla Corte Ue il nodo penale-amministrativo negli omessi versamenti Iva di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 15 settembre 2015 Il doppio binario amministrativo-penale per colpire le infrazioni tributarie torna all’attenzione della Corte Ue. Che questa volta, verosimilmente, non potrà evitare di pronunciarsi nel merito e che, stando ai precedenti potrebbe aprire scenari inediti in una materia tanto delicata. Ieri dalla Corte di giustizia europea è arrivata la comunicazione sull’introduzione di una nuova causa che riguarda l’Italia. Oggetto, la coerenza con la disciplina comunitaria di una legislazione come quella nazionale che ammette la coesistenza di sanzioni penali e amministrative per l’evasione dell’Iva. A sollevare la questione è stato il tribunale di Santa Maria Capua Vetere, di fronte al caso di un contribuente che, pur avendo dichiarato di dover corrispondere allo Stato poco più di un milione di euro, per il 2011, non effettuava il pagamento nei termini di legge. L’Agenzia delle Entrate ha provveduto alla segnalazione alla Procura per il reato di omesso versamento Iva. Il contribuente ha fatto ricorso contro il provvedimento di sequestro preventivo, mentre l’illecito è stato oggetto di accertamento da parte dell’Agenzia delle Entrate in epoca precedente. L’Agenzia, oltre a liquidare il debito tributario ha inflitto una sanzione pari al 30% dell’importo dovuto. Questo accertamento tributario è stato poi oggetto di transazione con il contribuente, nella quale l’Agenzia ha rinunciato alla pretesa della sanzione, concordando sul pagamento della sola imposta dovuta. Con la transazione, l’accertamento è diventato definitivo, non essendo stato oggetto di impugnazione. Ora il tribunale di Santa Maria Capua Vetere chiede alla Corte di giustizia Ue se è conforme al diritto Ue l’articolo 10 ter del decreto legislativo n. 74/00 che punisce chi, per lo stesso fatto (omesso versamento Iva) ha già subito una sanzione amministrativa. I giudici europei sono in realtà già stati chiamati in causa sul fronte penale tributario, nella prospettiva del mancato rispetto del ne bis in idem, solo pochi mesi fa, dal Gip di Torino. Tuttavia si fermarono prima di entrare nel dettaglio della questione, sottolineando come, ma si fermarono prima di scendere nel dettaglio delle questione, sostenendo la propria incompetenza. Allora, era maggio, non si dibatteva di un omesso versamento Iva (classico tributo comunitario), ma di un mancato versamento Irpef. Ora la Corte Ue non potrà eludere il tema e dovrà entrare nel merito e, a fare da guida, potrà essere un importante precedente: la sentenza Akerberg Fransson, C-617/10. In quella pronuncia la Corte ammise che "il principio del ne bis in idem sancito all’articolo 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea non osta a che uno Stato membro imponga, per le medesime violazioni di obblighi dichiarativi in materia di imposta sul valore aggiunto, una sanzione tributaria e successivamente una sanzione penale, qualora la prima sanzione non sia di natura penale, circostanza che dev’essere verificata dal giudice nazionale". Ed è proprio sulla natura della sanzione tributaria che le opinioni divergono, con la Cassazione che ha sinora difeso il connubio penale- amministrativo, mentre il dubbio comincia a farsi sempre più strada nei giudici di merito. Come visto si stanno riproponendo le questioni pregiudiziali alla Corte Ue. Ma non solo: una parola probabilmente decisiva in materia dovrà dirla la Corte costituzionale alla quale, proprio sul fronte degli omessi versamenti Iva, si è rivolto il tribunale di Bologna. A fare da volano c’è stata evidentemente la recente giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo che, soprattutto con la sentenza Grande Stevens del marzo 2014, ha sancito l’incompatibilità tra misure penale e sanzioni Consob sul market abuse. Lettere: la dignità della persona carcerata e le tre "vie" di Papa Francesco di Nunzio Marotti (Garante dei diritti dei detenuti di Porto Azzurro) toscanaoggi.it, 15 settembre 2015 Papa Francesco, rivolgendo l’attenzione alle persone detenute, ha sottolineato tre aspetti: l’opportunità di una grande amnistia, l’esperienza della misericordia di Dio nel carcere (indulgenza nelle cappelle e passando per la porta della propria cella), l’esperienza di libertà tra le sbarre. Il primo tema, richiamandosi alla tradizione, riguarda il mondo dei decisori politici. Ad essi è chiesto di coniugare le esigenze della giustizia con quelle della misericordia. Non si tratta di negare la colpevolezza del condannato, ma di riconoscere i passi positivi compiuti nel percorso rieducativo. E di farlo attraverso un adeguato atto di clemenza. Qui si parla di amnistia, un provvedimento che estingue il reato e fa cessare l’esecuzione della condanna e le pene accessorie relative ai reati per i quali è stata concessa. È distinta dalla grazia e dall’indulto che fanno cessare la pena ma non estinguono il reato. Qualsiasi misura apparirebbe al beneficiario come vicinanza di una comunità di uomini che crede nel valore dell’uomo e nella sua recuperabilità alla comunità stessa. Il secondo tema è l’esperienza di misericordia tipica del credente che, seguendo le indicazioni per l’indulgenza, vive (riscopre, approfondisce, rafforza) la sua fede nel periodo di reclusione. La presenza del cappellano, orientata in questa direzione, dovrà essere se possibile più continua per raggiungere tutti coloro che desiderano (riconciliazione ed eucarestia). Ma il detenuto stesso farà esperienza di vicinanza di Dio nella preghiera e in quel passaggio orante attraverso la porta ("santa") della propria cella. Il terzo tema è l’esperienza di libertà tra le sbarre. Vuol dire non lasciarsi vincere dal male (fatto o subìto), ma credere nella forza del bene. Non in astratto ma nella concretezza della vita di reclusione. Libertà per il bene. Anche tra le sbarre. È la parte che nessuno può togliere, come scriveva san Paolo nella prigionia. È quel bene che è possibile. È quel bene che esiste e si vede. Nei tanti gesti di dono e di accoglienza. Nella pratica delle opere di misericordia, soprattutto quelle spirituali. Persone recluse che consigliano i dubbiosi. Quelli che insegnano a chi non sa, soprattutto con l’aiuto linguistico agli stranieri, alle prese con regolamenti e carte giudiziarie. Chi aiuta a prendere coscienza dei propri errori, evitando la trappola della disperazione ma indicando traguardi alti e possibili. Uomini che consolano chi è nell’afflizione e altri che riescono a perdonare le offese ricevute per non alimentare la catena di male e di violenza. I molti che si sforzano di sopportare chi per carattere o educazione molesta un suo simile. Quanti, infine, pregano per i vivi e per i morti. Tutto queste opere valgono per qualsiasi fedele, quasi tutte anche per i non credenti. "Ogni volta - ci ricorda Francesco - che un fedele vivrà una o più di queste opere in prima persona otterrà certamente l’indulgenza giubilare. Di qui l’impegno a vivere della misericordia per ottenere la grazia del perdono completo ed esaustivo per la forza dell’amore del Padre che nessuno esclude". La misericordia di Dio, dimenticando completamente il peccato commesso, è inclusiva. Al centro di tutto c’è la dignità umana: "La gloria di Dio è l’uomo vivente" (sant’Ireneo). Una dignità da riconoscere e rispettare. Il condannato, oltre alla privazione della libertà, non deve subire pene aggiuntive. Ancora molto c’è da fare nelle carceri perché i diritti della persona vengano rispettati. Conclusa, per ora, l’emergenza sovraffollamento, permangono i problemi di edilizia: gli ambienti sono talvolta inadeguati e non rispettosi della privacy, carenti dal punto di vista igienico. Ci sono poi i problemi di scarsità di personale: sono sottorganico i poliziotti e gli educatori. Mancano le piene condizioni per rispettare il dettato costituzionale (art. 27) della finalità rieducativa della pena: pochissimo lavoro interno e scarse possibilità all’esterno; carenza di attività formative, scolastiche, culturali, artistiche, sportive. E ancora, le questioni legate all’affettività. Su questi punti occorre lavorare. Qualche fiducia è riposta negli "stati generali delle carceri", che il ministro Orlando ha avviato nelle scorse settimane, che potrebbero avviare una riforma complessiva del carcere. Infine, una parola sull’ergastolo. È tempo di mantenere "la grande promessa" (dei padri costituenti): quella dell’abolizione dell’ergastolo, in particolare di quello ostativo. Proprio papa Francesco lo aveva definito "una pena di morte nascosta". Il Giubileo potrebbe essere un’occasione. Lettere: ergastolo, non aprite quella porta di Marco Travaglio Il Fatto Quotidiano, 15 settembre 2015 Eccoli che ci riprovano. I partiti tornano all’assalto dell’ergastolo con una "riforma" che rischia di svuotarlo. L’allarme lo lancia, insieme con i 5Stelle, Giovanna Maggiani Chelli, presidente dell’Associazione tra i familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili: "È probabile stia per essere dato a Cosa Nostra ciò che con la strage di via dei Georgofili ha fortemente chiesto con un attacco diretto allo Stato. I mafiosi delle stragi che non hanno collaborato, oggi all’ergastolo ostativo a regime di 41 bis, stanno forse per essere messi nelle condizioni di usufruire di tutti quei benefici che gli consentiranno di aggirare il carcere a vita. Abbiamo l’impressione che la politica si stia lavando le mani, come fece Pilato, per le condanne a vita di mafiosi pericolosissimi come Riina, Provenzano, Bagarella e fratelli Graviano, rimettendo tutto nelle mani della magistratura che sarà ancora una volta crocifissa con leggi vergogna. Comunque, se passerà indenne una tal ignominia ci troverete in via dei Georgofili a difendere la memoria dei nostri morti sacrificati in nome e per conto di rappresentanti del Parlamento che non si assumono mai le proprie responsabilità". La sensibilità di una madre che 22 anni fa ebbe la figlia sfigurata e il futuro genero bruciato vivo dalle bombe politico-mafiose è comprensibile. E merita un approfondimento. In ballo c’è il ddl delega di ben 34 articoli che approda oggi alla Camera per la riforma del processo penale con un gran guazzabuglio di norme chieste del ministro Andrea Orlando e dai partiti retrostanti: Pd, Ncd e - ben, anzi mal nascosta - Fi. Tutti ansiosi di tagliare le unghie ai magistrati e ai giornalisti per l’eterna impunità. Già la forma della riforma è indecente: una vaghissima delega in bianco al governo, che potrà fare i suoi comodi con i decreti attuativi, evitando dibattiti ed emendamenti. La sostanza è ancora peggio: la legge-bavaglio per punire i giornalisti che pubblicano intercettazioni di "persone occasionalmente coinvolte" nelle indagini e imporre ai magistrati di stralciarle dagli atti perché non le legga nessuno; la galera fino a 4 anni per chi registra e divulga conversazioni all’insaputa dell’interlocutore; tre mesi ai pm per chiudere le indagini; limiti alle impugnazioni dei Pg sulle assoluzioni in primo grado; azioni disciplinari per i magistrati che incappano in errori giudiziari, veri o presunti; e aumenti di pena per furti, scippi e rapine, peraltro già punibili fino a 20 anni, tanto almeno questi reati i politici non li commettono. Infine la riforma dell’ergastolo, con la modifica dell’art. 4 bis dell’Ordinamento penitenziario: quello che esclude i detenuti per mafia non pentiti dai benefici e dalle pene alternative al carcere. Il ddl parla di rivedere "modalità e presupposti d’accesso alle misure alternative, sia con riferimento ai presupposti soggettivi sia con riferimento ai limiti di pena, al fine di facilitare il ricorso alle stesse, salvo i casi di eccezionale gravità e pericolosità e in particolare per le condanne per i delitti di mafia e terrorismo"; e di eliminare "automatismi e preclusioni che impediscono o rendono molto difficile l’individualizzazione del trattamento rieducativo" e cambiare "la disciplina di preclusione dei benefici penitenziari per i condannati alla pena dell’ergastolo, salvo i casi di eccezionale gravità e pericolosità e in particolare per le condanne per i delitti di mafia e terrorismo anche internazionale". Se oggi gli autori di reati gravissimi non possono accedere a benefici e alternative, in futuro spetterà al giudice valutare caso per caso: se dirà no, lo farà a suo rischio e pericolo, esponendosi a vendette e rappresaglie, perché avrebbe potuto anche dire sì, mentre finora era la legge a imporgli il no. E il giudice colluso potrà dire sì e favorire gli amici degli amici. Le esclusioni ("salvo i casi" ecc.) sono così vaghe che non si capisce se mafiosi e terroristi saranno sempre esclusi, o invece toccherà al giudice misurare l’eccezionale gravità dei reati per decidere se metterli fuori in anticipo. La logica dice che l’interpretazione corretta è la seconda, altrimenti non si vede il motivo della riforma: già oggi l’ergastolo esiste davvero solo per stragisti mafiosi e terroristi non pentiti, mentre gli altri stragisti e assassini sono ammessi ai benefici di legge ed escono dopo 30 anni (in realtà 20 o poco più con la "liberazione anticipata", che ogni anno abbuona 5 mesi su 12). Non a caso Riina inserì l’abolizione dell’ergastolo in cima al "papello" consegnato nell’estate ‘92 agli uomini della Trattativa, insieme con la fine del 41 bis, la chiusura delle supercarceri e la riforma dei pentiti (tutte richieste puntualmente accolte). La micidiale tenaglia ergastolo-carcere duro, ideata da Falcone, cominciava a produrre gli effetti sperati: molti mafiosi, pur di non finire i propri giorni in galera, scelsero di collaborare, facendo catturare centinaia di latitanti e scoprire i colpevoli di migliaia di delitti. Terrorizzati dalle loro rivelazioni sulla trattativa, nel 1999 i partiti abolirono l’ergastolo, dimostrando che la trattativa era più che mai in corso. Solo le proteste di pm e parenti delle vittime, Maggiani Chelli in prima fila, costrinsero il Parlamento a tornare sui suoi passi un anno dopo. Ora vedremo se i nuovi allarmi sono fondati o no: dipenderà da come verrà scritta la legge delega e poi il decreto delegato del governo. Ma il fatto stesso che si riapra quella porta, col rischio che vi si infilino le solite manine e manone, giustifica l’interrogativo: che bisogno c’è di riformare l’ergastolo, di fatto riservato ai terroristi e ai mafiosi, se non si vogliono favorire i terroristi mafiosi? Lettere: perché non possono essere i magistrati a riformare la giustizia di Giuseppe Di Federico (professore emerito di Ordinamento giudiziario) Il Foglio, 15 settembre 2015 Una delle cose che ho maggiormente apprezzato del governo Renzi è il pieno rinnovo del personale di governo, di ministri cioè che non sono condizionati da precedenti esperienze governative e da tentativi di riforma falliti. Una causa a mio avviso non secondaria delle iniziative di riforma che comunque le si voglia giudicare certamente rappresentano una novità di rilievo rispetto ad un passato di governi tanto cauti da risultare impotenti. Purtroppo questo orientamento al nuovo non ha contagiato un settore di governo, quello della giustizia, che non è certo secondario per il benessere dei cittadini e per lo sviluppo economico del nostro Paese. Questo appare chiaramente allorquando si consideri la storia delle persone che il ministro della Giustizia Orlando ha nominato nelle due commissioni cui ha affidato il compito di elaborare le riforme di cui necessita la nostra claudicante giustizia. Sono quasi tutti magistrati e buona parte di loro sono stati, in vario modo, protagonisti della elaborazione e/o della gestione delle passate riforme della giustizia. Di riforme cioè che alla prova dei fatti sono spesso risultate dannose o, al meglio, inefficaci. Se si considerano, infatti, i componenti delle due commissioni, ivi inclusi i tre magistrati componenti di diritto (ex officio), di entrambe le commissioni si può vedere che della prima commissione fanno parte 6 ex componenti del Csm (di cui 4 magistrati e 2 laici) 8 magistrati ordinari (inclusi i tre componenti di diritto), un avvocato-professore, 2 professori di diritto. Vi sono 12 magistrati o ex magistrati su 17 componenti. Non dissimile la composizione della seconda commissione: 8 ex componenti del Csm (di cui 6 magistrati e 2 laici), 5 magistrati (inclusi i tre magistrati componenti di diritto), un professore universitario, un solo avvocato. In tutto 11 magistrati o ex magistrati su 15 componenti. La presenza dei magistrati è ulteriormente rafforzata dal magistrato capo di gabinetto, cui è affidato il compito di coordinare il lavoro delle due commissioni e dai 7 magistrati che compongono la segreterie tecnico scientifiche. Diverse sono le riflessioni utili a valutare la propensione riformatrice di queste commissioni. Ne ricordo solo alcune, le più generali e facili da esporre: La prima. Così come sempre avvenuto in passato anche questa volta le commissioni di riforma che riguardano importanti questioni ordinamentali (cioè quelle di maggiore interesse/rilievo corporativo per i magistrati) sono composte in assoluta, predominante maggioranza da magistrati, un fenomeno che si ripete da tempo ed è solo italiano. Così come in passato anche questa volta le riforme ordinamentali sono considerate dal Ministro un affare di famiglia dei magistrati. La presenza degli avvocati nelle commissioni è solo simbolica e tale da far pensare che i due avvocati siano stati inclusi per mera cortesia istituzionale. Come già avvenuto più volte in passato, dalle commissioni sono rigorosamente esclusi coloro che hanno espresso documentate critiche al nostro assetto giudiziario e che sono sgradite alla corporazione dei magistrati perché toccano i loro interessi. Non solo professori ma anche magistrati: ad esempio, non è stato preso in considerazione un magistrato componente dell’ultimo Csm, Aniello Nappi che, in maniera documentata, ha espresso in un suo libro aspre critiche sulla gestione corporativa e clientelare del Csm. La seconda. Circa la metà dei componenti di entrambe le commissioni sono stati componenti di Csm del passato a partire dal 1986. Sono cioè coloro che in passato hanno contribuito personalmente a creare e solidificare proprio quelle disfunzioni che ora sono chiamati a correggere. E qui l’elenco sarebbe lungo. Solo qualche esempio con riferimento ad alcuni dei molti compiti di riforma assegnati alle commissioni. Dovrebbero riformare il Csm e certamente con esso il fenomeno del correntismo che ne condiziona le decisioni, dovrebbero riformare il sistema delle incompatibilità nonché quello delle valutazioni di professionalità. Affidare proprio a loro questi compiti può sembrare poco comprensibile per almeno tre ragioni: - Perché anche loro che nei rispettivi Csm sono stati protagonisti della creazione e gestione del sistema correntizio che ormai tutti considerano gravemente disfunzionale. - Perché anche loro nei rispettivi Consigli hanno contribuito a creare quel sistema di prassi, solo italiana, che garantisce a tutti i magistrati, a prescindere dal reale accertamento del merito professionale, di raggiungere il livello massimo della carriera, dello stipendio, della pensione e della liquidazione (nonostante l’articolo 105 della Costituzione che assegni al Csm il compito di effettuare le "promozioni"). E per comprendere la dimensione del fenomeno basta ricordare che ciascuno dei consiglieri dei passati Csm ha partecipato a circa 4.000 inconsistenti valutazioni di professionalità. Dall’ analisi dei verbali dei diversi Csm risulta inoltre che nessuno di loro in sede consiliare si è col proprio voto sistematicamente dissociato da quella prassi - Perché anche loro quand’erano consiglieri hanno consentito che moltissimi magistrati svolgessero per molti anni, a volte per decenni, compiti diversi da quelli propri del magistrato (di natura politico-partitica, e amministrativa), non solo ma li han- no anche sempre promossi per merito (quale?) al pari dei magistrati che svolgono funzioni giudiziarie. - Perché anche loro, con le loro iniziative e il loro voto hanno contribuito a mortificare drasticamente il potere di gestione e supervisione del lavoro dei capi degli uffici giudiziari, cosa e che nel caso degli uffici di procura ha portato al fenomeno della così detta "personalizzazione delle funzioni del PM" a scapito delle esigenze funzionali del coordinamento e della uniformità di azione nel settore delle indagini e dell’iniziativa penale. Mi sono domandato perché il Ministro della giustizia abbia nominato quelle commissioni di riforma ordinamentale adottando criteri non dissimili dai suoi predecessori della prima Repubblica (tranne Claudio Martelli: ha nominato persino me). Mi sono ricordato che in una conferenza stampa Matteo Renzi rivolgendosi al Ministro della giustizia Orlando lo ha definito un do-roteo. Che sia questa la ragione? Aggiungo due postille. La prima. So benissimo che le norme sulle valutazioni di professionalità previste dalle leggi del 2006/2007 e che ancor più le circolari del Csm sono molto rigorose sotto il profilo formale, tra le più rigorose e invasive dell’Europa continentale. Il lavoro e l’investimento organizzativo (e quindi anche i costi) che hanno generato sono certamente molto elevati, ma i risultati non differiscono significativamente da quando erano meno rigorose e stringenti. Uno dei pericoli delle riforme fatte da commissioni come quelle appena nominate è proprio che facciano riforme all’apparenza risolutive e che poi a livello interpretativo e operativo risolvano poco o niente. La seconda. Ho partecipato in varia forma (personalmente o con contributi scritti) a diverse commissioni di riforma degli ordinamenti giudiziari di altri paesi: i magistrati non erano mai in maggioranza. Tra queste ne ricordo, a mo’ di esempio, solo una, cioè la "Commission de reflection sur la justice" istituita dal presidente francese Chirac nel 1997 (che doveva, tra l’altro occuparsi dell’assetto del pm). Dei 20 componenti solo 6 erano magistrati ordinari (3 giudicanti e 3 requirenti), 4 gli avvocati, 2 magistrati del Consiglio di Stato, 2 professori di diritto e 2 di filosofia, un ispettore delle finanze, 2 giornalisti, un prefetto. Lo stesso vale, in varie forme e proporzioni, anche per le commissioni di riforma ordinamentale nei paesi scandinavi, in Germania ed Austria. Oltre ad assicurare il contributo di esperienze e conoscenze differenziate è anche un modo per evitare che prevalgano orientamenti di natura corporativa. Abruzzo: ricorso al Tar "Garante dei detenuti, illegittima l’esclusione di Rita Bernardini" di Elisabetta Di Carlo certastampa.it, 15 settembre 2015 "L’esclusione della candidatura di Rita Bernardini a ricoprire la carica di Garante dei Detenuti abruzzesi è illegittima: abbiamo presentato ricorso al Tar". Lo dichiara l’avv. Vincenzo Di Nanna, segretario di Amnistia, Giustizia e Libertà Abruzzi. "Oltre alla palese violazione della legge Severino, è stata infatti invasa la sfera di competenza del Consiglio Regionale, a cui spettava, in via esclusiva, il compito di deliberare sull’ammissibilità o meno della candidatura: ci troviamo invece davanti a una decisione politica che è stata presa per via amministrativa. Pertanto, insieme agli avvocati Paolo Mazzotta e Giuseppe Rossodivita abbiamo deciso d’impugnare il respingimento della candidatura, fermo restando che ci auguriamo sia la stessa Amministrazione Regionale a riammetterla in autotutela. La Regione darebbe così un grande segnale in un momento drammatico per le condizioni delle carceri italiane, riparando a questo grave precedente con un primo passo che indichi invece la volontà di cominciare a provvedere a una situazione inaccettabile per l’Italia intera, come ricordato da papa Francesco nella sua richiesta di un provvedimento di clemenza". "Il curriculum di Rita Bernardini è infatti ineguagliabile non solo per la sua straordinaria competenza ed esperienza, ma anche per via della sua continua e diretta vicinanza alle problematiche dei detenuti afflitti dalla illegalità in cui vertono loro malgrado gli istituti di pena in un paese che, come sottolinea instancabilmente Marco Pannella, è in flagranza di reato contro i diritti umani più basilari. Correggere autonomamente l’illegittimità della esclusione dell’on. Bernardini sarebbe quindi un atto politico in controtendenza e un modo, una volta tanto, di "essere speranza" a fianco dei Radicali. Nel frattempo, dalla mezzanotte di ieri, la candidata esclusa ha intrapreso uno sciopero della fame dopo l’ennesimo tentato suicidio in un istituto di pena, questa volta a Modena, dove un detenuto che soffre di problemi mentali si trova attualmente in coma: il suo legale aveva presentato ripetutamente istanza di scarcerazione, ma non ha ricevuto risposta in quanto l’ufficio di sorveglianza si trova da due anni sprovvisto del giudice previsto in organico". Modena: Ufficio sorveglianza da due anni senza giudice, Bernardini in sciopero della fame radicali.it, 15 settembre 2015 In coma il detenuto che si era impiccato in carcere. Bernardini da domani in sciopero della fame Dichiarazione di Rita Bernardini, Segretaria di Radicali Italiani: "Antonio C. è in coma. Il suo legale a maggio aveva presentato un’istanza all’ufficio di sorveglianza perché il suo assistito, detenuto presso il carcere di Modena, ha seri problemi di salute mentale. Tuttavia, il giudice di sorveglianza non risponde per il semplice fatto che quello previsto in organico non c’è da due anni. Antonio C. - caso segnalato e conosciuto visto che era in cura al centro di igiene mentale di Sassuolo - si impicca nella sua cella, ma non riesce a farla finita tanto che ora è in coma all’ospedale di Modena. Ho diverse domande da porre nel Paese delle meraviglie dove lo stupore si manifesta anche quando impiccagioni e morti sono con ogni evidenza preannunciate. Come mai la notizia dell’impiccagione non è trapelata? Come mai chi di dovere non ha ascoltato il drammatico appello sulla scopertura degli organici lanciato nei mesi scorsi dal presidente del tribunale di Sorveglianza di Bologna, Francesco Maisto? Come mai chi di dovere non mi ha ascoltata, visto che dall’anno scorso denuncio l’assenza del giudice di sorveglianza di Modena? Come mai il ministro della Giustizia non ha ancora risposto all’interrogazione presentata dal vicepresidente della Camera Roberto Giachetti il 7 luglio scorso sui problemi urgenti delle scoperture di organico della magistratura di Sorveglianza italiana e, in particolare, di quella di Bologna? Io ringrazio il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini che il 4 settembre scorso mi ha ricevuta assieme al leader Marco Pannella e al dott. Massimo Brandimarte proprio sulle questioni riguardanti i macroscopici buchi della sorveglianza, ma temo che i tempi del Csm non siano compatibili con le emergenze in corso: emergenze relative ai diritti umani fondamentali dei detenuti. Si sa, i radicali esagerano sempre, sono vittimisti e piagnoni. Io comunque dalla mezzanotte inizio lo sciopero della fame anche perché mi pesa troppo il cappio che Antonio C. si è stretto dalla disperazione intorno al collo. Genova: Uil-Pa; detenuto tenta il suicidio a Marassi, eventi critici in forte aumento genova24.it, 15 settembre 2015 "La Casa Circondariale di Marassi continua a macchiarsi di eventi critici di una certa entità. Sabato mattina, infatti, un detenuto tunisino con seri problemi psichiatrici ha tentato di togliersi la vita impiccandosi". A darne notizia è Fabio Pagani, Segretario regionale della Uil-Pa Penitenziari. "Se oggi non stiamo commentando una tragica notizia di suicidio, è solo grazie al tempestivo intervento del personale di Polizia Penitenziaria che, con grande professionalità, ha evitato il peggio, liberando il detenuto da una corda al collo all’ultimo istante - aggiunge Pagani - quello stesso personale che è costretto ad aspettare mesi e mesi per vedersi retribuito straordinari e missioni, che è privato delle proprie divise, per forniture inadeguate, che viaggia con mezzi obsoleti e che spesso è obbligato a coprire più posti di servizio e che nonostante tutto, espleta il proprio mandato istituzionale a testa alta e senza alcuna limitazione o condizionamento". "Quello che per Marassi posso affermare con convinzione, è che la carenza di organico di Polizia Penitenziaria, la carenza di educatori, di psicologi e psichiatri (solo uno) e la mancanza di spazi che limita le iniziative trattamentali, rendono ancora più dura la detenzione - conclude il sindacalista - è normale poi che tutte le insofferenze debbano essere sopperite dal personale di Polizia Penitenziaria, che, in prima linea, deve rispondere per tutti i deficit provocati dall’amministrazione". Frosinone: stato di agitazione in carcere, il Sappe pronto per la manifestazione linchiestaquotidiano.it, 15 settembre 2015 I poliziotti penitenziari aderenti al Sindacato Autonomo Sappe, il primo e più rappresentativo dei Baschi Azzurri, manifesteranno domani martedì 15 settembre 2015, dalle ore 9.30, davanti al carcere di Frosinone (in via Cerreto) per protestare contro le criticità e le problematiche di servizio del personale di Polizia Penitenziaria in servizio nella struttura detentiva del Frusinate. Spiega Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria, che domani sarà a manifestare a Frosinone con i Baschi Azzurri del Frusinate: "Il Sappe ha deciso di dare vita a una incisiva forma di protesta presso la Casa Circondariale di Frosinone. Non è più possibile lavorare in sicurezza per chi sta nella prima linea delle sezioni detentive del carcere di via Cerreto. La recente assegnazione di 200 nuovi detenuti a regime di "Alta Sicurezza", oltre ad aver fatto "lievitare" i detenuti presenti al numero di oltre 660 rispetto ai 500 posti letto regolamentari, ha comportato un considerevole aumento dei posti di servizio (circa 40) per il Reparto della Polizia Penitenziaria, che ha ottenuto un incremento di soli 5 (!) nuovi poliziotti rispetto ai 60 che sarebbero necessari per garantire ordine, sicurezza, trattamento e rieducazione! E questo vuol dire, per i poliziotti in servizio a Frosinone, ferie e riposi settimanali sistematicamente cancellati, anche per effetto dell’aumento delle traduzioni e dei trasporti di detenuti; turni di servizio che durano fino alle 16 ore (!) consecutive, con buona pace del recupero psico-fisico; accorpamento delle sezioni detentive dalla ore 18 alle 8 del mattino successivo, a tutto discapito della sicurezza del carcere e degli Agenti che fanno servizio; minacce, insulti ed aggressioni contro il nostro Personale". "Per questo", conclude Capece "martedì 15 settembre 2015 manifesteremo davanti al carcere, dove resteremo in presidio permanente fino a quando non otterremo garanzie sull’aumento del Personale e su migliori condizioni di lavoro all’interno". Catanzaro: detenuto incendia materasso nella cella del carcere minorile, ricoverato Ansa, 15 settembre 2015 Un minorenne di nazionalità straniera, detenuto nel carcere minorile di Catanzaro, ha dato alle fiamme un materasso all’interno della cella che condivide con altri detenuti. Lo riferisce una nota del coordinatore nazionale del sindacato Ussp, Walter Campagna. Subito dopo il giovane ha anche ingerito una batteria. Solo l’intervento degli agenti in servizio e di quanti erano nei loro alloggi ha evitato ulteriori e più gravi conseguenze. Il minore è stato ricoverato in ospedale "La situazione nel carcere minorile di Catanzaro - affermano in una nota Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del Sappe, e Damiano Bellucci, segretario nazionale dello stesso sondacato - è ormai ingestibile, a causa dei continui eventi critici. Dopo l’episodio piùrecente che ha visto un giovane detenuto dare fuoco ai suppellettili della cella ed ingoiare delle pile, pochi minuti fa un altro detenuto ha tentato di impiccarsi all’interno della sua cella. Si tratta di un giovane di 20 anni, di Milano, trasferito da poco nel carcere minorile di Catanzaro. Per fortuna, grazie al pronto intervento di un assistente della polizia penitenziaria, una giovane vita è stata strappata a morte certa. Il ragazzo dovrà uscire dal carcere tra due mesi. È il terzo tentativo di suicidio - fa rilevare il Sappe - ad opera di altrettanti detenuti, nel breve giro di una settimana, sempre nel carcere di Catanzaro. È evidente che qualcosa non funziona in tutto il sistema penale minorile, dove, a volte, gli eventi critici superano addirittura quelli degli adulti. Non è aumentando l’età di permanenza nelle strutture per minori, da 21 a 25 anni, che si risolvono i problemi". Pisa: Sappe; rissa tra 20 detenuti nordafricani, feriti anche tre poliziotti penitenziari La Repubblica, 15 settembre 2015 Ancora violenza nel carcere Don Bosco di Pisa. Dopo un’aggressione agli agenti penitenziari avvenuta nei giorni scorsi oggi si è verificata una rissa tra una ventina di detenuti stranieri. Lo rende noto il Sappe, il sindacato autonomo di Polizia Penitenziaria, aggiungendo che l’episodio è avvenuto "poche ore fa". Il sindacato spiega che "venti detenuti nordafricani se le sono date di santa ragione e se non fosse stato per il tempestivo intervento dei poliziotti penitenziari le conseguenze della rissa potevano essere peggiori visto che nel cortile è stata trovata anche un’arma bianca". Per il segretario generale del Sappe Donato Capece il fatto "è sintomatico di un’emergenza penitenziaria che permane, nonostante tutto". "Mi auguro - aggiunge Capece - che i poliziotti siano premiati per l’ottimo intervento operativo. Un saluto particolare va ai tre poliziotti feriti colpiti dai detenuti mentre tentavano di separarli. Ora si trovano al pronto soccorso per le cure. La rissa poteva avere più gravi conseguenze, visto che i poliziotti hanno sequestrato nel cortile un rudimentale coltello". "Ho già avanzato proposte specifiche al provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria per aumentare la sicurezza dell’istituto e del personale". Lo ha detto all’ANsa Fabio Prestopino, direttore del carcere Don Bosco di Pisa, commentando la rissa. "Auspico che le proposte che ho formulato, specificatamente connesse alla sicurezza, e che preferisco non anticipare - ha aggiunto Prestopino - siano accolte dall’amministrazione perché sono sicuro che avranno effetti positivi". Infine il direttore ha spiegato che "la rissa, stando alle prime informazioni, sarebbe stata originata da questioni legate allo spaccio di sostanze stupefacenti all’interno del carcere, un fenomeno a Pisa purtroppo ampiamente diffuso". Pasquale Salemme, segretario regionale Sappe della Toscana, aggiunge: "Mi preoccupa il continuo ripetersi di eventi critici e violenze contro i poliziotti nel carcere di Pisa. Sono troppi gli Agenti che subiscono le violenze dei detenuti: dovrebbe fare riflettere il consistente numero di poliziotti assenti per malattia. Ma mi sembra che il direttore del carcere non adotti alcun intervento risolutivo per modificare questo stato di cose, come una organizzazione del lavoro più funzionale alle necessità di sicurezza e tutela dei Baschi Azzurri. Per fortuna nostra e delle Istituzioni a Pisa lavorano poliziotti penitenziari molto determinati, che credono nel proprio lavoro, che hanno valori radicati e un forte senso d’identità e d’orgoglio. Agenti, Sovrintendenti, Ispettori, Funzionari che lavorano ogni giorno, nel silenzio e tra mille difficoltà ma con professionalità, umanità, competenza e passione nel dramma delle sezioni detentive pisane e italiane. A loro va il plauso mio personale e del primo Sindacato della Polizia Penitenziaria, il Sappe". Ferrara: Sappe; sovraffollamento risolto, ora pensiamo alla Polizia penitenziaria estense.com, 15 settembre 2015 Il sindacato denuncia la carenza di mezzi e risorse economiche non solo in via Arginone. "È giunto il momento di smetterla di parlare della condizione dei detenuti perché il problema del sovraffollamento nelle carceri è risolto, è ora di affrontare la situazione del personale di polizia penitenziaria che opera in carenza di mezzi e risorse economiche". È questa la denuncia lanciata dal Sappe in visita alla casa circondariale di via Arginone. Una denuncia che sa di provocazione: "Non è possibile fare tagli in questo settore a meno che non chiudiamo le carceri" commenta il segretario generale aggiunto Giovanni Battista Durante, accompagnato dal segretario regionale Francesco Campobasso. "Il sovraffollamento in carcere - spiegano i rappresentanti del sindacato di polizia penitenziaria - è stato regolamentato con l’ampliamento della detenzione domiciliare, l’affidamento in prova al servizio sociale e l’aumento degli sconti di pena con una liberazione anticipata speciale, caratterizzata da una detrazione di 75 giorni ogni sei mesi di pena scontata. Questi provvedimenti hanno permesso di avere in Italia 14mila detenuti in meno rispetto al 2012". Una diminuzione di presenze riscontrata anche in Emilia Romagna dove i detenuti sono passati da 4200 a 2853, quasi in linea con la capienza regolamentare di 2802 posti. Di questi 1841 sono i condannati, 897 gli imputati e 115 gli internati. A livello locale, i detenuti dell’istituto penitenziario ferrarese sono 290 (di questi 201 sono definitivi e 89 in posizione giuridica diversa) a fronte di una capienza di 256 posti. "La situazione è molto migliorata per quanto riguarda il sovraffollamento dei detenuti - afferma Durante - ma è peggiorata per il personale di polizia penitenziaria che opera in strutture fatiscenti dove mancano mezzi efficienti e risorse economiche. Il ministro continua a convocare gli stati generali per l’esecuzione della pena e non si preoccupa del personale che lavora senza il toner per il fax e la carta per le fotocopiatrici, guida mezzi che hanno già fatto 400mila km e compra la divisa al supermercato perché non viene offerta dall’amministrazione". A peggiorare la situazione è anche la mancanza di un rinnovo contrattuale da quasi 6 anni nonostante le promozioni ei miglioramenti di carriera. "Anche questo governo voleva prorogare il blocco contrattuale, già attivo dal 2010, fino al 2018 - denuncia Durante - ma il sindacato, con l’appoggio della corte istituzionale, è riuscito a sbloccare le varie indennità e il contratto. Da luglio è previsto un incremento economico di 5 miliardi ma sembra che ne verranno assegnati solo 2 alle qualifiche più basse. Come li daranno questi aumenti?". Per rispondere a questa domanda, il sindacato ha annunciato una manifestazione a Roma entro fine settembre o inizio ottobre per sollecitare il governo ad aprire le trattative e per chiedere un riordino delle carriere per le forze di polizia penitenziaria. Che sono sempre meno. "Ogni anno vanno in pensione 1200-1300 agenti e ne vengono assunti solo 200-300: abbiamo avuto 7mila perdite negli ultimi anni ma il fatto che i detenuti siano diminuiti non cambia il nostro lavoro perché la struttura e i servizi sono gli stessi" nota il segretario generale che offre dei dati anche a livello locale. La Casa circondariale di Ferrara conta 196 agenti mentre quelli previsti sono 211. Una mancanza di personale che per ora non incide sulla sicurezza della struttura dove non si registrano atti di autolesionismo da parte dei detenuti, definiti "gestibili", o gravi episodi di aggressione al personale a parte un pugno sul volto ricevuto un paio di settimane fa da una guardia carceraria per aver richiamato all’ordine un detenuto. Ben diversa la situazione in regione. Nel primo semestre del 2015, in Emilia Romagna, ci sono stati da parte dei detenuti, 298 atti di autolesionismo, 1 tentativo di suicidio, 3 suicidi, 53 decessi per cause naturali, 173 colluttazioni, 41 ferimenti, 19 mancati rientri da licenze di internati e 1 dalla semilibertà. Mancano dati riguardanti la salute della polizia penitenziaria "ma in varie strutture i colleghi sono stati infettati da tbc, vaiolo e scabbia - dichiarano i sindacalisti - e costretti a pagarsi le cure da soli perché non c’è più nessuna copertura sanitaria per le patologie contratte in servizio, anche se stanno aumentando perché il 35% dei detenuti sono stranieri e provengono da paesi in cui queste patologie ci sono ancora". A Ferrara i detenuti stranieri sono 180 e gli agenti lamentano "difficoltà nel capire la lingua, usi, costumi e religioni" e quindi "diventa più difficoltoso l’insegnamento del rispetto delle regole". In generale, la "mancanza di un percorso di rieducazione" (rispetto delle regole, formazione e lavoro) viene percepita dal sindacato come un problema perché "aumenta il rischio di recidiva per quando i detenuti dovranno reinserirsi in società" e perché "l’ozio aumenta le possibilità di fare scuola del crimine in carcere". "Siamo servitori dello Stato e vorremmo che lo Stato ci mettesse nelle condizioni di operare al meglio" concludono i sindacalisti che ci tengono a sottolineare che "se i livelli di criticità nella casa circondariale di Ferrara sono bassi è merito della professionalità del personale di polizia penitenziaria". "Una responsabilità che vorremmo venisse riconosciuta dal governo - chiosa il Sappe - perché l’utenza, ad esempio, vive in condizioni logistiche e igienico-sanitarie migliori degli agenti che svolgono un lavoro delicato". Milano: detenuta fugge dal lavoro in Expo, quando l’evasione è tra i padiglioni di Luca Fazzo Il Giornale, 15 settembre 2015 Doveva fare poca strada: dai tornelli di Expo ai cancelli del carcere di Bollate. Ogni giorno, insieme a decine di altri detenuti del carcere a bassa sorveglianza, la giovane transessuale brasiliana si recava a lavorare all’esposizione universale, nell’ambito del progetto di reinserimento lavorativo cui era stata ammessa. Ma una sera, all’inizio di luglio, la detenuta ha deciso che quel breve tratto di strada era troppo lungo per lei. E che troppo lungo era soprattutto il percorso che ancora la separava dalla fine della sua condanna: meno di due anni e mezzo, che visti da fuori possono sembrare pochi. Ma che a lei sono apparsi una eternità invalicabile. Così, ha preso la sua strada ed è andata. Sparita nel nulla. Evasa, tecnicamente parlando. E anche ora, passati ormai due mesi, della detenuta evasa da Expo non si è più saputo nulla. É una storia inattesa, quella con cui si sono trovati a fare i conti i funzionari del ministero della Giustizia che hanno seguito il progetto di lavoro presso Expo dei detenuti dei carceri milanesi (oltre a Bollate, il progetto ha coinvolto anche Opera e Monza). La transessuale che è sparita nel nulla era considerata infatti tra i detenuti più affidabili, visto il percorso che aveva seguito negli anni precedenti: condannata per omicidio preterintenzionale, aveva seguito senza scossoni tutti i passaggi del trattamento rieducativo, usufruendo di diversi permessi premio e rientrando sempre regolarmente in carcere. Ormai era vicina al "fine pena" e avrebbe già potuto chiedere l’affidamento ai servizi sociali. Invece, nella sera di luglio, dopo una giornata passata tra il Decumano e l’imbocco dei padiglioni fornendo informazioni ai plotoni dei turisti, la giovane trans ha preso un’altra strada. E si è messa nei guai. Adesso è ricercata per evasione, insieme alla nuova accusa le piomberà addosso la revoca di tutti i benefici carcerari concessi finora, e se verrà presa dovrà scontare fino all’ultimo giorno la vecchia condanna. Un gesto così insensato che in carcere chi conosceva la donna lo riesce a spiegare solo come un gesto d’impeto, una fuga non pianificata, nata lì per lì in un momento di umore particolare. Ma anche se la scelta di scappare è stata presa all’ultimo istante, la fuga è comunque riuscita in pieno: nonostante da due mesi venga ricercata attivamente, passando al setaccio tutta la sua rete di conoscenze e di appoggi, della detenuta-cicerone non si è trovata neppure l’ombra. Che sia sparito uno solo del centinaio di detenuti impegnati in Expo, d’altronde, è per i promotori dell’iniziativa un segno della sua riuscita: il 99 per cento di chi ha lavorato sul sito di Rho ha fatto il suo dovere fino in fondo e senza sgarrare. Quando il 31 ottobre l’esposizione chiuderà i battenti, avrà un casella in più da barrare nel curriculum del proprio reinserimento sociale. E avrà anche messo da parte qualche soldo, anche se i semiliberi sono pagati (come prevede la legge) un terzo in meno dei loro colleghi. Fermo: detenuti a scuola da aiuto cuoco, con gli chef della dieta mediterranea informazione.tv, 15 settembre 2015 Studiare da aiuto cuoco, per ricominciare a costruire il futuro. È la nuova proposta della direzione della casa circondariale di Fermo e dell’area trattamentale che, col supporto dell’Ambito sociale XIX e della Caritas, hanno messo in piedi un percorso formativo dedicato alla dieta mediterranea. L’iniziativa, possibile grazie all’impegno del comandante Nicola De Filippis e degli agenti di Polizia penitenziaria, è stata presentata nei giorni scorsi proprio all’interno del carcere, otto i detenuti che hanno chiesto di partecipare, alcuni giovanissimi e tutti già impiegati nella cucina della casa di reclusione. Protagonisti gli chef del Laboratorio della dieta mediterranea ma anche il diabetologo Paolo Foglini e il medico Lando Siliquini che si occuperanno della parte scientifica. A illustrare il progetto Adolfo Leoni che è uno dei fondatori del laboratorio: "Tutto è nato da una ricerca scientifica portata avanti dall’università del Minnesota negli anni ‘90, a dimostrare che il fermano è il luogo nel quale c’è l’alimentazione più sana del mondo, motivo di grande longevità. Quello che facciamo è cercare di portare avanti la passione per il territorio e per il buon vivere, raccontiamo che si può e anzi si dovrebbe tornare ad un certo tipo di alimentazione per vivere a lungo e vivere bene. Anche questo corso è un modo per cambiare la cultura, per fare attenzione a certe cose". Lando Siliquini e Paolo Foglini hanno sottolineato che durante il corso ai detenuti verranno fornite anche competenze di igiene e la capacità di abbinare gli alimenti per ottenere piatti sani e completi. Gli chef saranno Sandro Pazzaglia, Mauro Donati e Benito Ricci, artigiani esperti, tre assolute eccellenze del fermano, protagonisti tra l’altro nei giorni scorsi all’Expo di Milano dove si sta parlando proprio di dieta mediterranea. Per i detenuti saranno 12 lezioni, metà teoriche e metà pratiche, con alcune verifiche finali, a partire dal prossimo 23 settembre. Tra i partecipanti anche tre stranieri, dal Marocco, dalla Tunisia e dall’Albania, che potranno dare suggerimenti con le preparazioni dei loro paesi, per uno scambio di culture che arricchisce tutti. La direttrice della casa di reclusione Eleonora Consoli si è detta felice di poter offrire un percorso formativo tanto valido, punto di partenza per una vita diversa. Il responsabile dell’area trattamentale Nicola Arbusti ha selezionato i detenuti, augurando loro di poter cogliere un’occasione unica di crescita, per ritrovarsi tra le mani un mestiere buono da spendere fuori. Europa: il ritorno delle frontiere di Anna Maria Merlo Il Manifesto, 15 settembre 2015 Consiglio dei ministri degli Interni a Bruxelles. Le quote sfumano, i reticenti alzano la voce. Molti paesi seguono la Germania e ripristinano le frontiere. Crisi dei rifugiati. Consiglio dei ministri degli Interni a Bruxelles. Le quote sfumano, i reticenti alzano la voce. Molti paesi seguono la Germania e ripristinano le frontiere (la Francia potrebbe rimettere i controlli al confine italiano). Aut aut a Italia e Grecia: hotspot e controlli nel paese di primo arrivo, poi (forse) la redistribuzione. Intanto c’è il via alla fase 2 della missione navale EuvNavForMed, che permette attacchi agli scafisti La libera circolazione rischia di venire travolta dal panico in cui sta cadendo la Ue in queste ore. I ministri degli Interni dei 28 paesi Ue mettono la sordina sulle "quote obbligatorie", mentre la Germania, domenica, seguita ieri da Austria, Slovacchia, Repubblica ceca e nel tardo pomeriggio anche dall’Olanda, ha sospeso Schengen ristabilendo i controlli alle frontiere. Polonia e Belgio potrebbero fare la stessa scelta nelle prossime ore. Il ministro degli Interni francese, Bernard Cazeneuve, si piega alle richieste delle destre e afferma da Bruxelles che "sono già state disposizioni" per ripristinare i controlli alla frontiera con l’Italia "se si ripeterà una situazione simile a quella di alcune settimane fa" (a Ventimiglia), ma giudica "stupido" fare la stessa cosa al confine con la Germania. L’Ungheria da oggi impone lo stato d’emergenza, con l’arresto per chi entra illegalmente, l’utilizzazione di containers per ospitare i tribunali alla frontiera con la Serbia che giudicano senza la presenza di interpreti i profughi trattati come criminali, richiusi in campi di detenzione. La decisione più concreta di ieri, presa in mattinata prima dell’incontro dei ministri degli Interni (e della Giustizia) a Bruxelles, è stato il varo della fase 2 della missione navale EuNavForMed, che permette l’uso della forza contro gli scafisti. Le operazioni dovrebbero partire da inizio ottobre. Per la redistribuzione dei profughi, invece, i ministri degli Interni si riuniscono di nuovo l’8-9 ottobre, ma già si parla di "flessibilità" nell’applicazione del ricollocamento dei 120mila del piano Juncker. Se i blocchi continuano, dovrà venire convocato un vertice dei capi di stato e di governo, che rischia di sancire la frattura che ormai mina la Ue. Francia e Germania, che cercano di mantenere una parvenza di unione anche se la decisione di Berlino di sospendere Schengen è stata accolta come una sberla da Parigi, chiedono "immediatamente" l’apertura di hotspots in Italia e Grecia (e Ungheria, ma Orban si autoesclude), e affermano che faranno un forte "pressing" sui partner. Per François Hollande, "far rispettare le frontiere esterne è la condizione per poter accogliere degnamente i rifugiati". Il ministro degli Interni della Baviera, Joachim Herrmann, che non risparmia critiche a Merkel per aver incitato i profughi a venire in Germania, punta il dito contro Italia e Grecia, paesi di primo arrivo, secondo lui responsabili del "caos". In pratica, riprende alla grande nella Ue lo scaricabarile dei profughi. Angelino Alfano chiede che "i rimpatri" vengano organizzati da Frontex "con i soldi Ue". Bruxelles promette che "gli stati invieranno subito funzionari di collegamento" per aiutare i paesi di primo arrivo a fare la distinzione tra chi ha diritto all’asilo e chi deve venire espulso. Cazeneuve parla di "umanità e responsabilità", sperando di convincere i reticenti alla distribuzione. Per il momento, c’è il programma presentato a giugno, per la ricollocazione di 40mila persone (con offerte solo "volontarie" per ricollocare 24mila persone già presenti in Italia e 16mila che sono in Grecia), mentre è sempre in alto mare il meccanismo di ripartizione per "quote" di altri 120mila. Nei fatti, gli arrivi delle ultime settimane rendono ormai caduche queste cifre, inferiori di molto alla realtà. La Commissione ha messo nel cassetto la minaccia di multe per chi non partecipa alla redistribuzione. Le richieste dell’Onu, ancora ribadite ieri, per "quote obbligatorie" e gli appelli della Commissione a favore di una soluzione "comune" rischiano di cadere nel vuoto, così come l’allarme del gruppo S&D: "la politica comune di immigrazione e asilo è l’unica strada per salvare l’Europa dalla disintegrazione". La posizione tedesca si è di fatto indebolita, con il voltafaccia di Angela Merkel di domenica, anche se sembra fosse destinato a far pressione sull’est reticente. Il portavoce di Merkel, Steffen Steibert, assicura che rimettere i controlli alle frontiere "era necessario, ma nulla cambia" nella politica di accoglienza di Berlino. Per il ministro degli Interni, Thomas de Maizière, deve essere però chiaro che "i richiedenti asilo devono accettare il fatto che non possono scegliere il paese europeo a cui chiedere protezione". Per il ministro degli Esteri polacco, Rafal Trzaskowski, "l’Europa rischia una crisi istituzionale se impone quote obbligatorie", impegno ormai sfumato nei documenti di Bruxelles. Il fronte del "no" al piano Juncker sulla ridistribuzione dei 120mila profughi si è ricompattato, Ungheria ormai fuori dalle regole Ue, con Repubblica ceca, Slovacchia, Polonia, Romania (c’è anche la Danimarca, ma il paese ha l’opt out su questi temi, come Gran Bretagna e Irlanda). In Francia, l’ex presidente Nicolas Sarkozy chiede uno statuto speciale per i rifugiati di guerra, che dovrebbero rientrare in patria una volta tornata la pace (questa clausola in effetti esiste, ma è la Commissione a doverla attivare). Da Bruxelles ok a missione anti-scafisti sulle quote intesa rinviata a ottobre di Andrea Bonanni La Repubblica, 15 settembre 2015 Veto dell’Est sulla redistribuzione dei migranti. Secondo nodo: gli "hotspot" per registrazione e rimpatri. Parigi minaccia controlli ai confini italiani. Un accordo "di principio" che somiglia molto a un rinvio. E un rinvio che ha il sapore di una sconfitta. Non passano, per ora, le quote obbligatorie per la redistribuzione dei 120mila rifugiati proposte dalla Commissione. Anche sul numero, per ora non si trova un’intesa. I ministri dell’interno riuniti ieri a Bruxelles si limitano a prenderne atto: "i numeri proposti dalla Commissione costituiscono la base per un accordo sulla distribuzione di queste persone entro l’Unione europea", era scritto nell’ultima bozza su cui i rappresentanti dei governi si sono azzuffati fino a tarda sera. La spaccatura è talmente profonda che alla fine si è rinunciato a sottoscrivere una dichiarazione comune lasciando alla presidenza lussemburghese il compito di illustrare le conclusioni. Ogni decisione è rinviata alla prossima riunione del Consiglio affari Interni, che si terrà l’8 ottobre a Lussemburgo. Si ripete insomma, almeno per ora, il brutto pasticcio di questa estate. Il 20 luglio, di fronte alla richiesta di Bruxelles di ripartire 40mila rifugiati in Italia e Grecia, i governi dissero no alle quote vincolanti e optarono per una redistribuzione volontaria. Ma già allora molti si tirarono indietro. Risultato: disponibilità ad accogliere solo 32mila persone. E gli 8mila posti mancanti, finora, non si sono ancora trovati. Figuriamoci ora, che i profughi da trasferire salgono a 160mila. La giornata di ieri dedicata alla crisi migratoria è corsa su due binari paralleli, che si sono rivelati entrambi in salita. Da una parte la questione della redistribuzione, dall’altra quella dei cosiddetti hotspot, cioè i centri per la registrazione dei migranti e per la classificazione tra quanti hanno potenzialmente diritto all’asilo politico e quanti devono invece essere rimpatriati. Sulla ridistribuzione, come si è detto, si è arrivati sostanzialmente ad un rinvio, pur accettando in linea di massima le cifre proposte dalla Commissione. L’opposizione ad un sistema di quote vincolanti da parte di cechi, ungheresi, slovacchi e polacchi, sostenuti dai tre baltici, è risultata insormontabile. Fino a tarda sera la discussione è stata bloccata dal ministro della Slovacchia che esigeva nelle conclusioni un riferimento esplicito al principio della "volontarietà". Proprio questa ostinazione, alla fine, ha impedito che si approvassero le conclusioni. Il timore dei Paesi dell’Est è che a ottobre, in mancanza di un accordo, la presidenza lussemburghese decida di mettere la questione ai voti e di far passare le quote vincolanti a maggio- ranza. Per questo vogliono fin da ora garanzie che non saranno obbligati ad ospitare contingenti di rifugiati senza il loro esplicito consenso. La seconda partita che si è giocata ieri riguarda la questione della registrazione e del rimpatrio degli irregolari che non hanno diritto all’asilo. L’operazione deve essere fatta nei Paesi di accesso all’Unione, cioè in pratica Italia, Grecia e Ungheria. I centri dovrebbero aprire al più tardi entro l’anno. Francia e Germania premono moltissimo su questo punto, e ne fanno una pre-condizione per far partire la redistribuzione dei contingenti. Ieri, prima dell’apertura dei lavori, si è tenuto un incontro ristretto cui hanno partecipato, oltre ad Alfano, i ministri tedesco, francese, greco e ungherese e il commissario Avramopoulos. La Grecia e l’Italia hanno accettato, almeno in linea di principio, la creazione degli hotspot gestiti in collaborazione con gli esperti europei. Da noi dovrebbero essere sei: il primo a Lampedusa e gli altri vicino ai centri di prima accoglienza. Ma l’Ungheria continua a rifiutarsi di registrate i profughi e dunque respinge la richiesta dei partner europei. Quanto all’Italia, spesso accusata di non registrare i migranti che sbarcano sulle nostre coste e minacciata ieri dai francesi di un nuovo blocco alle frontiere, il ministro Alfano ha messo alcune condizioni. La prima è che i centri di registrazione aprano solo dopo che sarà cominciata la redistribuzione dei rifugiati. Il secondo è che l’Europa si faccia carico del costo del rimpatrio di quanti non hanno diritto di asilo e devono dunque essere respinti. Anche se queste due richieste italiane, però, si sono ottenute solo rassicurazioni generiche e un impegno a rafforzare i poteri di Frontex in materia di rimpatri. La questione, dunque, resta di fatto in sospeso. Nello stesso giorno, la Francia ha minacciato controlli alle frontiere con l’Italia. Le uniche decisioni concrete prese ieri sono la pubblicazione di una lista di Paesi "sicuri", i cui cittadini non hanno diritto all’asilo politico, e l’avvio della fase due dell’operazione navale Eunavfor, che prevede l’uso della forza contro gli scafisti. La lista dei Paesi sicuri comprende, tra gli altri, tutti gli stati dei Balcani che hanno uno statuto di candidato all’adesione all’Ue. Dalla lista, però, è esclusa la Turchia, visto che la minoranza curda continua ad essere vittima della repressione governativa. Intelligence e abbordaggi per fermare i barconi, ma pesa il caos libico di Giampaolo Cadalanu La Repubblica, 15 settembre 2015 L’Europa avvia la fase due del piano anti-carrette del mare: interventi con aeronautica e marina in acque internazionali. Per le incursioni a terra serve il via libera dell’Onu. Lo strumento militare contro gli scafisti: l’avvio della "fase 2" della missione Eunavfor Med è ormai ufficiale, le navi europee hanno il via libera per fermare e controllare in acque internazionali le barche dei migranti, con l’autorità di sequestrarle e distruggerle, ma sempre con la massima attenzione a salvare le vite umane. Più che un’operazione militare tradizionale, è un’operazione di polizia messa in pratica con gli strumenti delle forze armate. Non è previsto, com’era ovvio, nessun genere di "attacco" alle carrette dei disperati, e tanto meno un bombardamento. In più, la fase due della missione arriva fino a un limite ben evidente: le acque territoriali di Paesi sovrani e il loro territorio, in cui però le forze europee potrebbero spingersi nella "fase tre". Perché incrociatori e caccia arrivino, per esempio, fin dentro il Golfo di Sirte, perché le diverse aeronautiche dei Paesi europei possano colpire a terra i mezzi degli scafisti o perché militari europei possano metter piede sul territorio libico, servirà una risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, oppure un invito preciso delle autorità libiche, o magari tutt’e due. Le navi di Eunavfor Med si apprestano dunque a fare abbordaggio alle imbarcazioni sospette, come permette la legge del mare e in particolare la convenzione di Montego Bay dell’82. Tecnicamente, è un’azione che presenta pochi problemi, già fatta più volte nelle acque della Somalia, durante le campagne anti-pirateria. Per la Marina italiana, in più, è una prassi già sperimentata con Mare Nostrum nel Mediterraneo, e con la missione Atalanta al largo del Corno d’Africa. Ai controlli si dovrà affiancare una forte azione di intelligence, come già è successo in Somalia, grazie a un lavoro delicato che ha condotto all’accordo con i capi delle tribù costiere. Al quartier generale di Centocelle non lo possono dire, ma è palese che i primi passi per le operazioni di intelligence non possono che essere già ben avviati. E proprio il lavoro "dietro le quinte" risulterà prezioso quando e se l’Europa darà via libera alla fase 3, quella che prevede "gli scarponi sul terreno", ed è dunque la più delicata. Più che la copertura legale delle Nazioni Unite, a garantire un risultato accettabile per l’intervento in acque libiche e soprattutto per le operazioni di terra è indispensabile un accordo con i locali, anche se per adesso la confusa situazione libica potrebbe imporre un rinvio. Per poter distinguere quali barche siano effettivamente usate dai nuovi schiavisti e quali invece siano strumenti di lavoro per i pescatori, il sostegno delle comunità locali è indispensabile. A esso si affiancano le perlustrazioni affidate a nuclei ristretti di truppe speciali e ai mezzi dell’Aeronautica, in particolare i droni che garantiscono invisibilità e lunga autonomia in volo. I dettagli di ogni missione saranno modulati sulle regole di ingaggio, che per il momento sono ancora tutte da decidere, sulla base delle priorità politiche e del quadro di riferimento legale. Ma a meno di un accordo più o meno ufficiale con le autorità locali, eventuali pattuglie di incursori correrebbero rischi fortissimi, sottolineano gli analisti di affari militari. In altre parole: per evitare che domani un drappello di specialisti del Comsubin sia bloccato in terra libica e diventi un ostaggio prezioso per gli integralisti dell’Is, è indispensabile che gli incursori lavorino fianco a fianco con i libici. I rischi resterebbero comunque molto elevati. Ma gli esperti non hanno dubbi: un’azione che non preveda la presenza concreta sul territorio avrà poche possibilità di successo, soprattutto in termini di dissuasione dei trafficanti. Per capirlo, basta pensare che gli scafisti si fanno pagare prima dell’imbarco: un intervento che blocchi la barca "dopo" il pagamento del percorso finisce per essere persino gradito ai trafficanti, in genere molto disponibili a disfarsi della "carretta di mare" utilizzata, dopo il viaggio. E per distruggere le barche con efficacia, riducendo al minimo il pericolo di fare vittime civili, bisogna andare molto, molto vicini. Ungheria: i detenuti che alzano un muro davanti ai nostri occhi di Tommaso Perrone lifegate.it, 15 settembre 2015 L’Ungheria sta costruendo un muro al confine con la Serbia per arginare il flusso di profughi che vogliono entrare in Europa. Un muro che ha come unico obiettivo chiudere gli occhi delle nostre coscienze. Uno dei paesi principali, quello che fa più discutere per le scelte politiche e perché sulla rotta dei profughi per raggiungere l’Europa settentrionale è l’Ungheria. Tra le azioni decise dal governo di Viktor Orbán c’è la costruzione di un muro lungo il confine con la Serbia per arginare il flusso di persone che entrano illegalmente nel paese portando al collasso, secondo fonti interne, i costi legati al welfare, alle spese per l’accoglienza. Il muro, una volta completato, sarà lungo 175 chilometri e alto quattro metri tra filo spinato, reti metalliche e mattoni. L’Ungheria ha fatto sapere che alla costruzione lavorano 900 persone, tra esercito e detenuti. Queste foto mostrano bene quanto espresso a parole in centinaia di articoli. Ce n’è una, in particolare, che sembra d’altri tempi, potrebbe essere scambiata per un fotogramma tratto da uno dei film più apprezzati del nostro tempo, Le ali della libertà di Frank Darabont. Eppure è stata scattata l’11 settembre 2015 e un giorno forse verrà ricordata come una delle foto che non si capisce come possano essere state realizzate in un periodo storico dove l’Unione europea aveva cancellato i confini interni e dove internet stava sbriciolando quelli internazionali. Dove era "impossibile essere un’isola di prosperità in un mare di sofferenza". Invece bisogna far sapere a tutti che è una fotografia di oggi, bisogna far sapere a tutti cosa sta succedendo in Ungheria e all’interno dei confini dell’Unione europea in queste ore. Non bisogna cedere al "già visto" o al "tanto non cambia nulla". Natalie Nougayrède, editorialista del Guardian ed ex direttore del quotidiano francese Le Monde, ha scritto che "per evitare che l’Europa si frammenti sulla questione dei profughi, le battaglie d’opinione saranno importanti quanto le trattative tra governi". Per questo al posto di muri abbiamo bisogno di ponti fisici, uguali e opposti a quel muro in costruzione in Ungheria, e morali in grado di abbattere le barriere del populismo per evitare di perdere le conquiste raggiunte con fatica dopo la fine della Seconda guerra mondiale. La finta amnistia di Cuba, "sfida morale" per Papa Francesco di Maurizio Stefanini Il Foglio, 15 settembre 2015 Il Pontefice è atteso in visita sull’isola e il regime si preparava ad accoglierlo con la liberazione degli oppositori politici. I numeri dicono però che le cose non andranno proprio così. Cinque giorni prima dell’arrivo di Papa Francesco a Cuba, una cinquantina di dissidenti sono stati arrestati durante una marcia di protesta. Niente di nuovo sotto il sole, in realtà. Da 22 domeniche a oggi, le Damas de Blanco marciano tutte le mattine per la libertà dei detenuti politici. E da 22 domeniche polizia e simpatizzanti del regime intervengono, picchiandole e arrestandole. La detenzione dura poche ore, e la settimana dopo il copione si ripete. Per questo ad agosto gli arresti per ragioni politiche hanno raggiunto la cifra record di 768 persone imprigionate. A Cuba ora garrisce la bandiera e volano belle parole, niente di più Il disgelo cubano continua. E gli arresti degli oppositori al regime anche L’amnistia di Raul Castro prima dell’arrivo del Papa Questa domenica, però, c’era la novità dell’imminente visita pontificia e dell’amnistia che era stata annunciata in vista dell’arrivo del Papa e che prevede la liberazione di ben 3.522 detenuti. Il problema è che secondo quanto ha reso noto il governo, il provvedimento riguarderà "persone con oltre 60 anni di età, giovani minori di 20 anni senza altri precedenti penali, malati cronici, donne, coloro che arrivavano al termine stabilito per la libertà condizionale nell’anno 2016 e una parte di detenuti che scontano la pena e lavorano, così come stranieri, sempre che il paese di origine garantisca il loro rimpatrio". Ma, salvo ragioni umanitarie, sono esclusi i condannati per omicidio, stupro, pederastia con violenza, corruzione di minori, furto e macellazione di bestiame di grande taglia, traffico di droga, rapina con violenza, intimidazione di persone in modalità aggravata e delitti contro la sicurezza dello stato. Insomma, per i fratelli Castro gli oppositori politici e coloro che si fanno arrosto una mucca aggirando il razionamento stanno sullo stesso piano di assassini, stupratori, rapinatori, pedofili e narcos. Secondo i calcoli, sarà liberata una sola persona tra quelle che compaiono nella lista dei 60 detenuti politici cubani (a parte gli arresti di domenica). Berta Soler, la leader delle Damas de Blanco, sostiene che il regime negli scorsi mesi abbia fatto retate di piccoli delinquenti in genere tollerati apposta per poter poi gonfiare le liste dei liberati nel momento in cui Francesco sarebbe stato arrivato. Per questo, la marcia di domenica chiedeva di estendere l’amnistia anche ai detenuti politici. Tra i non liberati, tra l’altro, c’è Danilo Maldonado Machado "El Sexto", un popolare artista e graffitaro, arrestato a Natale con l’accusa di aver progettato una performance "irrispettosa" nei confronti dei fratelli Castro. L’evento avrebbe avuto raggiunto il culmine con l’esibizione di due maiali con su scritto "Fidel" e "Raúl". I parenti del "Sexto" dicono che i maiali c’erano, ma i nomi li ha scritti la polizia. Ad ogni modo, da allora non è stato ancora processato. Gli arresti a Cuba arrivano dopo la condanna dell’oppositore venezuelano Leopoldo López a 13 anni, 9 mesi, 7 giorni e 12 ore. L’Economist ha pubblicato un articolo in cui sostiene che questi sviluppi a Cuba e in Venezuela pongono una "sfida morale" a Papa Francesco, accusato di essere duro nel denunciare il capitalismo ma ultimamente un po’ troppo timido verso le violazioni dei diritti umani compiute da regimi che si proclamano di sinistra. Il Cile ricorda le vittime di Pinochet, chiudere le carceri d’oro Askanews, 15 settembre 2015 Una grande marcia pacifica ha segnato l’anniversario del golpe di Augusto Pinochet a Santiago in Cile domenica. I cileni sono scesi in piazza per ricordare le vittime della dittatura e per chiedere la chiusura della prigione d’oro degli ex membri del regime. Alla fine del corteo, partito dal palazzo presidenziale La Moneda bombardato nel giorno del golpe, si sono verificati alcuni scontri tra un gruppo a volto coperto, non appartenente agli attivisti per i diritti umani che hanno partecipato alla manifestazione, e la polizia che ha usato il gas lacrimogeno e ha arrestato quattro persone. "La ferita resta aperta perché la verità non è venuta ancora alla luce e non è stata fatta giustizia", ha dichiarato Tania Nunez, che ha marciato portando una foto con i volti di alcuni dei 3.200 esponenti di sinistra assassinati dalla dittatura. L’11 settembre del 1973 i militari guidati da Pinochet rovesciarono il governo democratico di Salvador Allende, imponendo la dittatura fino al 1990.