Un suicidio annunciato di Lorenzo Sciacca Ristretti Orizzonti, 13 settembre 2015 Roverto Cobertera è un detenuto rinchiuso nella Casa di reclusione di Padova, un uomo che è in sciopero della fame e della parola da giorni e giorni per proclamare la sua innocenza di fronte a una condanna all’ergastolo. Ormai sono anni che lotta, ma pur avendo delle persone che credono realmente alla sua innocenza tutta questa sua vicenda sta rimanendo nel silenzio assoluto, o per meglio dire quella piccola parte di persone che cerca di dare voce alle sue urla non ha l’effetto mediatico che possono avere altri casi, come è stato il caso Meredith. L’unica parola che in questo momento mi sta venendo in mente è indifferenza. Roverto sta perdendo la voglia di vivere, Roverto vuole morire perché a vivere nell’impossibilità di essere ascoltato e nell’indifferenza non ci sta. "Caro Roverto, mi unisco dal profondo del cuore a te. Sai oggi parlando con Carmelo lui mi ha detto che le tue forze ti stanno abbandonando e che vorresti che giungesse presto la fine, per non sentire quel grosso peso che oggi per te la vita assume. Caro amico, nel mio passato l’ho sentito anch’io questo grosso peso, volevo che tutto terminasse, non riuscivo più a trovare un appiglio a cui aggrapparmi, non mi spiegavo neanche il perché la terra sotto ai piedi doveva sorreggere il mio peso, mi sentivo inutile, avevo perso la via. Oggi mi rivedo in te. Non ho la soluzione al tuo caso e di fronte a te mi sento impotente e nuovamente inutile, ma mi chiedo perché le persone che potrebbero dare voce alle tue grida di innocenza non combattano. Non voglio credere che nella tua ingiusta condanna abbia avuto un peso il fatto che la tua pelle è nera, inorridisco al solo pensiero che nel terzo millennio possano esserci ancora dei pregiudizi razziali, non voglio credere che persone che hanno il potere di amministrare la giustizia, possano giudicare un essere umano con particolare durezza perché nero. Però sono certo che essendo detenuti a volte subiamo dei pregiudizi da parte di chi dà per scontata la nostra colpevolezza. La giustizia può sbagliare e pensando a te mentre ascolti i telegiornali sentendo di nuovo parlare dell’assoluzione del caso Meredith, là dove vengono riconosciuti dalla Cassazione degli errori nelle indagini, immagino che la voglia di vivere si annienti difronte a questa ingiustizia che stai subendo. Io sono con te e per questo ho deciso di scriverti una lettera aperta. Vorrei che le persone potessero immaginare cosa prova un uomo innocente a stare rinchiuso in pochi metri, privato del calore che può dare un abbraccio del proprio figlio e avere un certificato con impresso il timbro della giustizia che chiusa una vita in un fine pena 9999. Io mi unisco a te proponendoti di procedere con lo sciopero del silenzio, ma di dare il cambio a noi, tuoi compagni, per lo sciopero della fame. Interrompi e noi a turno continueremo a scioperare e a dar voce ai tuoi silenzi". Giustizia: l’Ass. Antigone a Orlando "l’amnistia è utile se con revisione del codice penale" Adnkronos, 13 settembre 2015 Gonnella: "insieme servirebbero a ridare un po’ di giustizia e mitezza a un sistema ancora troppo duro". "Al di là di come interpretare l’appello del Papa, un provvedimento di clemenza, anche generalizzato, sarebbe importante se si avesse contemporaneamente il coraggio di mettere mano al codice penale, rivedendo i reati e le pene". Lo sottolinea Patrizio Gonnella, presidente di Antigone e della Coalizione italiana per le libertà e i diritti civili (Cild), interpellato dall’Adnkronos sulle dichiarazioni del ministro della Giustizia, Andrea Orlando, che ha assicurato che l’amnistia, invocata da Papa Francesco in occasione del Giubileo, non servirà perché il problema del sovraffollamento delle carceri sarà risolto entro la fine dell’anno. "Sicuramente c’è un trend di decrescita della popolazione detenuta, con un calo di circa 15mila unità negli ultimi 2-3 anni, ed è avvenuto senza che ci sia stato un provvedimento di amnistia. Ma se questa è davvero una stagione di riforme - osserva Gonnella - si dovrebbe discutere di un nuovo codice penale che, con un provvedimento di amnistia, potrebbe non solo decongestionare le carceri e risolvere il sovraffollamento, che è comunque una condizione contingente, ma anche ridare un po’ di giustizia e mitezza a un sistema che è ancora molto duro". Comunque, conclude, "vedrei bene un provvedimento di amnistia anche se sganciato da tutto questo". Pannella: l’amnistia è l’unica via d’uscita per le carceri Batte il ferro finché è caldo Marco Pannella: "L’amnistia è l’unica via d’uscita da una situazione criminale nelle carceri. Questa è la priorità". Lo afferma il leader radicale, Marco Pannella, alla Festa dell’Avanti. Sulla giustizia Pannella ritiene che vadano "dimezzati 5 milioni di processi pendenti". Riccardo Nencini elogia dal palco l’85enne Pannella: "Rappresenta un pezzo dell’Italia libera e civile, che abbiamo contribuito a costruire". Nencini propone a Pannella di unire le forze alle prossime elezioni comunali di Roma e Milano. "Una battaglia comune - dice Nencini - potrebbe essere introdurre la parola xenofobia nella Costituzione e negli Statuti regionali". Giustizia: la sicurezza, da "prodotto" a bene comune di Giuseppe Romeo Il Garantista, 13 settembre 2015 Da tempo il periodo estivo sembra essere per noi italiani il nostro mid-term e, in termini di sicurezza quasi un appuntamento atteso per fare due conti. Così, dopo Svimez e Antimafia ci ha pensato dopo la metà di agosto anche il Viminale a fornirci qualche cifra. Se confermate, quelle rese pubbliche, sono importanti e dimostrano, nonostante gli allarmi che provengono da diverse anime politiche e giornalistiche, un certo apprezzabile abbattimento della percentuale dei reati consumati, ovvero della tendenza a delinquere nel nostro Paese, scesa al - 9,3% (dato riferito al periodo 15 agosto 2014-2015). Tuttavia, anche se tale dato esprime un risultato positivo, esso va letto con attenzione per due motivi. Il primo perché per la prima volta si è posto l’accento sull’importanza di valutare i risultati non più solo sugli arresti effettuati, ovvero sulla repressione quantitativa. Il secondo, conseguenza del primo, l’aver fissato la priorità delle politiche in materia di sicurezza sulla capacità di riuscire a ridurre la tendenza a delinquere ritenendo questo l’aspetto più importante nella valutazione della qualità della vita delle comunità. Sottolineare ciò può sembrare superfluo, scontato, ma così non lo è. Ora, è noto che la corsa ai numeri si è sempre risolta nella quantità di arresti effettuati anno per anno, attribuendone all’aumento la dimostrazione di aver garantito una maggior sicurezza rappresentando, questo, l’aspetto principale della valutazione e promozione delle produttività istituzionali delle singole forze di polizia. La conseguenza di tale corsa era che la valutazione nel numero e nella qualità dei reati consumati e/o scoperti diventavano aspetti secondari, soprattutto per un motivo. Perché presentare prima il numero degli arresti era, ed è, mediaticamente più remunerativo. Insomma, si era di fronte ad un modo di "produrre" e "comunicare" la sicurezza che non poneva in stretta relazione il numero degli arresti ai reati consumati o scoperti e, quindi, non permetteva un valutazione qualitativa sul più importante obiettivo che una forza di polizia dovrebbe perseguire: dare sicurezza con la prevenzione, ovvero evitare il danno. Ora, la promozione statistica dei risultati, il marketing mediatico giornalistico-giudiziario negli anni hanno collocato la sicurezza alla stessa stregua di un prodotto da vetrina senza che nessuno mettesse mai "qualitativamente" in discussione i risultati ottenuti e/o non ottenuti dalla forze di polizia. Il risultato di tale metodo è che la "qualità" della sicurezza veniva misurata astrattamente attraverso numeri per i quali diventava difficile valutare differenze di comportamento e di risposta dal momento che "statisticamente" ogni reato veniva allineato senza esser pesato nella sua gravità. Una simile rappresentazione dell’attività di polizia ha ottenuto negli ultimi anni due risultati. Il primo, quello di presentare, appunto, un concetto di sicurezza quantitativo e non qualitativo. Il secondo, conseguenza del primo, quello di aver sacrificato abilità investigative complesse, su reati gravi come gli omicidi ad esempio, a favore di più remunerative attività repressive, configurando ipotesi di fattispecie ove è più pagante e immediato "fare numero" al di là del risultato processuale raggiungibile. Se i dati estivi del Viminale sono precisi, allora si potrebbe pensare che vi sia una volontà di mettere in discussione una volta per tutte il metro di valutazione del come il "prodotto" sicurezza venga confezionato. Che i dati delle forze di polizia siano letti ed interpretati criticamente, partendo dal verificare il numero dei reati consumati e scoperti prim’ancora del numero delle persone arrestate. Che la sicurezza sia nello stesso tempo un valore ed un bene da condividere con i cittadini a cui va il controllo e l’intervento, se necessario, perché esclusivi aventi diritto. Che la sicurezza sia soprattutto rappresentata da un modello qualitativo di prevenzione, oltre che quantitativo di repressione. Un modello che abbatta i reati prevenendoli e che renda più "sicura" la vita di ogni giorno senza alimentarsi, invece, dalle già tante incertezze e paure che segnano il nostro quotidiano. Giustizia: la vicenda Scattone e il populismo penale di Manuel Anselmi minimaetmoralia.it, 13 settembre 2015 La rinuncia all’incarico di insegnante nelle scuole da parte di Giovanni Scattone è un fatto di una gravità fuori dall’ordinario. Senza entrare nel merito della colpevolezza o meno di Scattone, anche se da più parti e da anni siano stati avanzati molti dubbi sull’intera vicenda processuale del caso Marta Russo, per restare ai fatti e avere una prospettiva più razionale è sufficiente ricordare che Scattone è stato giudicato colpevole di omicidio colposo aggravato, che Scattone ha scontato la sua pena e che a carico di Scattone non esiste alcuna restrizione giuridica specifica che limiti la sua libertà di lavorare e di insegnare. Pertanto il suo iter giudiziario deve essere considerato ottimale e nel pieno rispetto del principio di certezza della pena e di quello del recupero sociale del reo. Come è stato opportunamente già notato, in un paese normale ogni volta che un reo si reintegra nella società si dovrebbe festeggiare una vittoria dello Stato e, senza alcun eccesso retorico, anche della civiltà. Pertanto, se c’è un’anomalia nel recente caso Scattone, essa è rappresentata dalla reazione di molti alla sua nomina, suscitata ad arte da alcuni titoli di giornale in chiave polemico-politica, e che ha portato l’interessato alla decisione, personale e libera, e comprensibilmente sofferta, di rinunciare. E qui il problema prima che giuridico è di tipo sociale e politico. Di recente con Stefano Anastasia e Daniela Falcinelli, due colleghi giuristi dell’Università di Perugia, abbiamo provato a introdurre anche in Italia la categoria del populismo penale, pubblicando un libro con questo titolo (S. Anastasia, M. Anselmi, D. Falcinelli, Populismo penale. Una prospettiva italiana. Edizioni Cedam). Si tratta di un tema che da anni in altri paesi del mondo, a cominciare da quelli anglosassoni, costituisce una prospettiva di analisi scientifica delle alterate, complesse, e spesso pericolose, dinamiche che si producono tra il sistema della giustizia, la sfera della politica e l’opinione pubblica. Già solo il ritardo italiano a considerare scientificamente questo genere di questioni, è una dimostrazione ulteriore delle numerose difficoltà del nostro panorama intellettuale. Nella numerosa famiglia dei populismi, quello penale si caratterizza per la non necessaria riconducibilità a un leader carismatico che stabilisce con il popolo una dinamica di consenso alla luce di una crisi istituzionale, come invece avviene nei più conosciuti populismi politici. Il populismo penale è quindi un fenomeno acefalo e per questo meno visibile, che consiste nell’uso distorto di informazioni, in prassi sociali che investono vari settori della società, in comportamenti collettivi e rappresentazioni sociali diffusi che contribuiscono all’alterazione di contenuti relativi alla giustizia con una finalità politica. Sotto questa larga etichetta possiamo far rientrare la manipolazione dei dati sulla criminalità nelle campagne elettorali (basti pensare alle più recenti elezioni amministrative a Roma), le campagne di "tolleranza zero" (a cominciare di quella di Rudolph Giuliani), alla resistenza tutta italiana a introdurre il reato di tortura, alla criminalizzazione dello straniero, ma anche alla glamourizzazione dei magistrati e quello che in Italia siamo soliti chiamare in modo vago e troppo spesso assolutorio "giustizialismo". Il populismo penale esercita una costante azione di delegittimazione sociale delle istituzioni in materia di giustizia, indebolendo di fatto ciò che definiamo lo stato di diritto. Tutto ciò è favorito dalla complicità di molte redazioni che per non perdere il consenso dei lettori/spettatori lo cavalcano senza alcune remora deontologica. Al rispetto dei fatti giuridici (ebbene si esistono anche i fatti giuridici) si è ormai sostituita uno stile giornalistico basato sul kitsch-emozionale, dove prioritario è l’effetto di senso sentimentale sul lettore/spettatore. Un effetto di senso che lusinga il destinatario secondo un accorta retorica, i cui stilemi sono l’indignazione costante, il compiacimento dell’impotenza politica, la sfiducia per le istituzioni e il risentimento permanente per una dimensione privilegiata e ingiusta che lo esclude. E il fatto di cronaca resta solo un pretesto per ribadire tutto questo periodicamente, quasi fosse un rituale. Che cosa si può fare per rimediare a questa deriva? Oltre alla critica intellettuale che ciascuno di noi può esercitare scrivendo, si impone un ripensamento dell’educazione del cittadino per il nostro contesto contemporaneo mediatico e disincantato. Non può bastare l’elogio paternalistico della Costituzione, piuttosto servono nuove strategie d’azione intellettuali ed educative. Perché, come ha giustamente notato Christian Raimo su Internazionale, alla base di questi comportamenti c’è "una diseducazione giuridica di massa". Ognuno di noi può infatti ricordare come dagli anni Settanta in poi l’educazione civica, per quanto prevista nei programmi ministeriali, sia stata sistematicamente ignorata da insegnanti e dirigenti scolastici. La mentalità diffusa che è alla base del populismo penale è anche il risultato di queste lacune di Stato. E quindi se per il caso Scattone dobbiamo proprio tirare in ballo la scuola lo dobbiamo fare per chiedere (al ministro dell’Istruzione?) che vengano prese misure sostanziali per far fronte all’analfabetismo giuridico dilagante, così come si fa del resto per il bullismo o per l’alcolismo. Altrimenti come possiamo pensare di stare nel gioco della società senza conoscerne le regole? Giustizia: i Casamonica, la criminalità e il razzismo di Duana Pavlovic Il Fatto Quotidiano, 13 settembre 2015 Si accertino responsabilità penali ma si eviti, come sempre a proposito di famiglie rom, l’aria fritta con retrogusto razzista. La vicenda del funerale di Vittorio Casamonica aveva già dimensioni tragicomiche di un racconto di Kafka o di un film di Totò, figurarsi dopo il Porta a Porta con figlia e nipote. Surreali sono le reazioni della politica, quella da sempre collusa con la criminalità della Capitale, (vedi gli intrecci di Mafia capitale e il commissariamento del Pd romano). Ora tutti in coro si agitano: il "caso" Casamonica serve forse a sbiadire nella memoria collettiva la connivenza con il malaffare e la costante incapacità di governare Roma senza scendere a patti con i Carminati di turno o con le grandi strutture (dall’Atac all’Ama) basi elettorali del sindaco di turno? Altrettanto tragicomiche sono le reazioni della stampa, troppo spesso indipendente dalla conoscenza delle cose. Singolare il Corriere della Sera che il 10 settembre dedica le pagine 2, 3, 4, più pagina 33, alla vicenda di Porta a Porta, per dedicare poi le pagine 6, 7, 8 alla ben più tragica vicenda dell’Europa imbelle di fronte al più grande e drammatico esodo dal secondo dopoguerra che stermina migliaia di bambini, donne e uomini colpevoli solo di vivere nei territori in guerra, anche per colpa dell’Europa. A parte il fatto che da Porta a Porta, senza suscitare altrettanto scalpore, sono passati madri infanticide, criminali vari, mentre non esiste una sentenza di condanna per mafia per i Casamonica, che pure hanno subito condanne per reati comuni. Questo dà la dimensione di quale sia la graduatoria dei problemi in questo Paese. Ma occorre anche fare un po’ di chiarezza terminologica e fornire qualche informazione per fare in modo che politici e giornalisti possano distinguere: i Casamonica sono un clan mafioso o una grande famiglia rom italiana da sempre? Intanto l’associazione mafiosa ha una precisa definizione, mentre le famiglie rom non sono ciò che si pensa usando questo termine: papà, mamma, qualche figlio, qualche nonno e qualche zio. Qui si parla di migliaia di persone, legate da complessi legami e distribuite su territori spesso più vasti di quelli nazionali. Quindi più che clan, che ha una connotazione tendenzialmente criminale, si può parlare di tribù all’interno delle quali vigono antiche regole, tra le quali fondamentale è la partecipazione collettiva ai grandi riti (nascite, battesimi, matrimoni e funerali) ai quali nessuno si può sottrarre. Questo non esclude la presenza di attività illegali, di cui però vanno individuate le responsabilità individuali, per non fare, come sempre accade con i rom, di tutt’erba un fascio nel miglior stile salviniano. Se qualcuno dei politici o dei giornalisti che parlano di offesa alla città per il funerale di un vecchio rom capofamiglia, avesse mai partecipato per esempio a un matrimonio forse capirebbe di più sui rom. E qui viene un punto importante: politici e giornalisti - e di fatto l’intera società - si trovano di fronte a un modo essere, di intendere la vita e i suoi valori, che non capisce, e con il quale rifiuta di confrontarsi: nascite, matrimoni e morte erano e restano per i rom le tappe più importanti della vita, per le quali si spende anche tutto quello che non si ha - anche in forme che forse suscitano le reazioni sussiegose dei difensori del buon gusto - e i vecchi morivano e muoiono nei loro letti e non abbandonati in qualche Residenza Anni Azzurri. Il punto è: se Vittorio Casamonica non fosse stato uno "zingaro" avremmo avuto due mesi di aria fritta con retrogusto razzista? A differenza di molte persone potenti io non ho mai conosciuto un Casamonica e quando ho potuto ho denunciato la criminalità dentro le nostre comunità. Lungi da me, quindi, difenderli se hanno commesso reati, ma proprio per chiedo alla magistratura e non al sindaco Marino o a qualche giornalista di accertare le eventuali responsabilità penali e di agire di conseguenza ristabilendo una visione reale e non surreale dei fatti. Intanto lasciamo riposare in pace i morti. Lettere: giustizia, un sistema malato di Marco Buticchi La Nazione, 13 settembre 2015 La dea Diche volò in cielo e si stabilì nella costellazione della Vergine brandendo in una mano la spada e nell’altra la bilancia perché la sua figura fosse da monito: nessun uomo sarebbe stato diverso da un altro dinanzi alla legge. Sarà forse la difficile traduzione della mitologia in realtà a sollevare perplessità sul funzionamento della macchina giudiziaria italiana. Faccio miei i dubbi dei genitori della povera ragazza uccisa a Perugia: come fate a credere in una giustizia che prima condanna, poi assolve, poi ribalta ogni precedente sentenza? Dicono in sostanza i parenti dì Meredith Kercher. Abbiamo sempre pensato ai nostri diversi gradi di giudizio come a una garanzia di certezza. Oggi credo sia tempo di rivedere certe convinzioni: la lentezza pachidermica del nostro sistema, i suoi continui mutamenti, le sentenze di Supreme Corti spesso in grado dì stupire, sono invece capaci di relegare nell’incertezza l intera esistenza di un cittadino rimasto incagliato nelle maglie della legge. Sarebbe forse opportuno che i legislatori rendessero più snello l’intero iter processuale. C’è poi l’aspetto della coscienza: giudicare è difficile, ma una dose di buon senso può semplificare l’arduo compito. Mi spiegate allora perché i parenti di una ragazza molestata - morta poi suicida forse anche a causa del trauma subito - sono obbligati a risarcire il molestatore per "danno biologico"? Chi sarà mai in grado di risarcire il danno che ha subito quella studentessa e il patire dei suoi genitori? Capisco sia pura utopia che un cittadino si ponga dinanzi alla legge a cuor sereno, ma neppure deve essere angustiato dall’essersi imbarcato in un calvario infinito quanto incerto. Un ‘ultima cosa, dato che di giustizia si parla: amo, appena mi è possibile, andare in carcere e parlare con i detenuti delle mie esperienza da autore. In galera ho visto sempre tanta povera gente, mentre i furbi e quelli davvero cattivi restano fuori aiutati dalle loro disponibilità, da una schiera di costosi azzeccagarbugli e dalla lentezza della macchina che favorisce chi davvero ha sbagliato e andrebbe punito. Stasera alzate lo sguardo verso la costellazione della Vergine e provate a scorgere la sagoma della dea della giustizia. Aguzzate bene la vista, però: non vorrei si fosse addormentata. Lettere: per i magistrati la giustizia è più uguale di Davide Giacalone Libero, 13 settembre 2015 Dai professionisti siamo passati agli affaristi dell’antimafia. Dalle carriere costruite con le declamazioni s’è arrivati a quelle che, grazie a quella retorica, puntano all’accumulazione di potere e ricchezza. Alla faccia dei magistrati che l’antimafia la facevano veramente e che, per quella ragione, non fecero carriera, soffrirono l’ostilità dei colleghi e ci rimisero la vita. Il carrierismo e l’affarismo dell’antimafia, purtroppo, si sono diffusi nei palazzi di giustizia, come anche nella società che, assai impropriamente, si suppone civile. Da ultimo riguardano l’amministrazione dei beni sottratti ai mafiosi, ma non per questo al crimine. Il sospetto lambisce la dottoressa Silvana Sagunto, presidente della sezione misure di prevenzione, presso il tribunale di Palermo. Indagata, lei e diversi suoi familiari, per i rapporti con l’avvocato Gaetano Cappellano Seminara, a sua volta ricco di numerosi e succosi incarichi, proprio per la gestione di quei beni. Sagunto si è dimessa (dal posto ricoperto, mica dalla magistratura) e sarà destinata "ad altro incarico". Spero che si dimostrerà innocente, che, quindi, questa ulteriore vergogna ci sia risparmiata. Ma osservo che i cittadini normali, per molto meno, possono essere raggiunti da misure di prevenzione che impediscono loro qualsiasi attività. Né ho mai sentito parlare di sospetti destinati "ad altri affari". Amministrare la giustizia è cosa seria e dura. Inadatta a chi è accusato di averlo fatto per proprio tornaconto. Napoli: la rabbia di Giuliana Di Sarno "stavolta hanno vinto i clan, ma non mi arrendo" di Antonio Di Costanzo La Repubblica, 13 settembre 2015 Giuliana Di Sarno è il Presidente della Terza municipalità. Ieri le hanno strappato di mano lo striscione anticamorra. La presidente della terza municipalità: "Il nostro quartiere abbandonato, che fine ha fatto de Magistris?". "Un ragazzino, 15-16 anni, mi ha strappato da una mano lo striscione contro la camorra che ho preparato di notte e che volevo appendere visto che quello dell’altra sera era misteriosamente sparito". Il Presidente della terza municipalità, Giuliana Di Sarno, è turbata per quanto avvenuto. Dopo la fiaccolata di martedì, quando duemila persone erano sfilate per il rione dietro lo striscione "No camorra!". Di Sarno sperava che anche in occasione dei funerali del 17enne si potesse mandare un messaggio forte. Aveva scritto su un lenzuolo "Genny vive nei nostri cuori che la camorra ha ucciso". E invece? "Questa volta ha vinto la camorra, l’altra volta noi". Perché è la camorra che ha ordinato di togliere lo striscione? Secondo i preti si è trattato di un malinteso, dicono che c’era un accordo per far entrare in chiesa solo il manifesto degli amici del ragazzo. "Io volevo appenderlo all’esterno della chiesa non dentro il sagrato. La verità è che quanto avvenuto nasce da un sentimento di "camorria". Ovvero da un atteggiamento di prevaricazione per cui un ragazzino sente il dovere di strappare uno striscione dalle mani di una donna e di farlo sparire perché c’è scritta la parola camorra. Il messaggio è chiaro, il senso è: "Della camorra non ne vogliamo sapere, non se ne deva parlare". Forse lo ha fatto perché voleva evitare che si associasse il termine camorra al suo amico. Ovviamente i familiari del minore ucciso con tutto questo non c’entrano niente. Loro sono vittime della guerra in corso nelle nostre strade e ancora una volta, in occasione dei funerali, la famiglia Cesarano ha dato esempio di grande dignità". Eppure la manifestazione dell’altro giorno sembrava aver messo in moto qualcosa. Tutto inutile? "Gli stili di vita, le culture non le modifichi con un albero o solo con una fiaccolata. Vanno avviati lunghi processi sociali e culturali. E serve più presenza delle istituzioni". Vi sentite abbandonati? "Mi sembra evidente. Pensate che messaggio si sarebbe potuto lanciare se la giunta intera, tutti i consiglieri comunali, quelli della municipalità e i rappresentati dei partiti fossero venuti a dire: basta camorra. Invece, siamo sempre in pochi". Per il Comune c’era il vicesindaco Del Giudice. "E de Magistris? Che fine ha fatto il sindaco? Mette la testa sotto la sabbia per non vedere. Non guarda i nostri figli che qui muoiono perché sono lasciati alla camorra. La situazione è grave. Parliamo dell’evasione scolastica, ad esempio, sapete che i dati sono sottostimati perché se no c’è il rischio che chiudano le scuole come è avvenuto con il pronto soccorso del San Gennaro? In questo rione l’80 per cento degli abitanti è composto da persone oneste che devono subire i condizionamenti dell’altro 20 per cento di farabutti. Lancio un appello: organizziamo subito una grande manifestazione contro la camorra. Voglio vedere chi avrà il coraggio di aderire. I cittadini possono avere paura noi non ce lo possiamo permettere". Ok alla marce, ma che altro proponete? "Dobbiamo partire dalle scuole, tenerle aperte fino alle 20. Poi vorremmo aprire un centro culturale e una ludoteca nell’ex Froebeliano, ma non ci riusciamo per un contenzioso col Comune". Palermo: beni confiscati alla mafia, altri tre giudici indagati per le consulenze d’oro di Riccardo Arena La Stampa, 13 settembre 2015 Il pasticciaccio brutto della sezione misure di prevenzione di Palermo si allarga e coinvolge anche un ex consigliere del Csm, Tommaso Virga, di Magistratura indipendente, il figlio Walter, avvocato, nominato a 35 anni gestore di un patrimonio da 800 milioni: il magistrato, secondo i pm di Caltanissetta che indagano sulla gestione palermitana dei beni confiscati alla mafia, avrebbe tenuto a freno possibili iniziative disciplinari nei confronti della presidente della sezione sotto inchiesta, Silvana Saguto, e lei avrebbe scelto il 35enne Walter Virga per gestire gli sterminati beni della famiglia di imprenditori palermitani Rappa, sospettati di collusioni mafiose, e i negozi Bagagli. Nell’indagine entra pure un altro giudice, Lorenzo Chiara-monte, che avrebbe nominato amministratore giudiziario una persona a lui vicina, e un pm, Dario Scaletta, che avrebbe parlato dell’inchiesta proprio a Chiaramonte. E poi ci sono due componenti del cda, un coadiutore di Virga jr e il direttore di una società sequestrata per vicende di mafia, la Sport Car: assieme a Walter Vìrga avrebbero venduto o svenduto automobili di lusso ad amici e parenti. Tra i beneficiari anche Andrea Vincenti, figlio dell’ex presidente della sezione misure di prevenzione, Cesare Vincenti (entrambi non indagati). Le persone che risultano iscritte dai pm di Caltanissetta sono già 14. Al centro di tutto c’è la ex presidente Saguto, che si è dimessa venerdì per effetto della perquisizione e delle contestazioni di corruzione, concussione per induzione e abuso d’ufficio, che riguardano pure il marito, Lorenzo Caramma, e l’amministratore giudiziario Gaetano Cappellano Seminara. Fra i tre, sostiene il pool coordinato dal procuratore aggiunto nisseno Lia Sava, ci sarebbe stato un rapporto circolare, con la Saguto che avrebbe posto Cappellano alla guida di patrimoni sterminati e l’avvocato che avrebbe "ricambiato" affidando consulenze a Caramma. Nell’indagine sono implicati pure il padre del giudice donna, Vittorio Saguto, e il figlio, Emanuele Caramma, più un professore universitario, Carmelo Provenzano, nominato pure lui amministratore giudiziario. E nella questione entra pure la tesi di laurea di Caramma junior, sequestrata a colpo sicuro dai finanzieri del Nucleo di polizia tributaria. Dietro la questione potrebbe esserci dunque un altro patto di scambio. Tommaso Virga ieri ha escluso che durante il suo mandato al Csm (2010-2014) siano mai stati aperti procedimenti contro la collega Saguto. Venezia: Ordigoni (Udc): "sindaco individui subito area dove realizzare il nuovo carcere" La Nuova Venezia, 13 settembre 2015 A lanciare l’appello è Ezio Ordigoni, Udc, ex presidente di Favaro: "Avendo seguito a lungo le problematiche relative alla sicurezza dei cittadini rivolgo al sindaco metropolitano l’invito a individuare da subito l’area per la possibile realizzazione di un nuovo carcere". Prosegue: "Non lasciamo alla provvidenza l’ordine cittadino: per dare il senso della giustizia e indurre al rispetto delle regole considerando la difficile integrazione con cittadini di etnie e culture diverse dalla nostra, diventa essenziale creare il sentire comune che a Venezia c’è "la certezza della pena" e che la si sconta nella sua interezza, cosa impossibile con il sovraffollamento dell’attuale carcere maschile: servono soluzioni concrete affinché anche chi non ha niente da perdere incominci a perdere qualcosa". Precisa: "Nella scorsa legislatura per il Comune c’era l’opportunità di realizzare un nuovo carcere sostitutivo di quello di Santa Maria Maggiore ma l’opportunismo politico, che guardava più al consenso elettorale che alla tutela dei cittadini nonché alle condizioni umane di carcerati e polizia carceraria, non ha consentito la realizzazione dell’opera per la non individuazione dell’area. Ora si può fare l’inverso: in accordo con la città metropolitana si definisca da subito l’area per il nuovo carcere e si operi per reperire i finanziamenti con chi di competenza ricavando una parte dei fondi da una diversa destinazione d’uso dello stesso Santa Maria Maggiore". L’appello arriva dopo la visita al carcere dell’altro giorno del consigliere regionale Stefano Casali della lista Tosi accompagnato dai rappresentanti della Uil-Penitenziari. I poliziotti preoccupati "così non siamo al sicuro" (Corriere del Veneto) Solo un mese fa c’era stato l’episodio più grave: un detenuto aveva staccato con un morso la falange a un poliziotto. Ma la tensione nel carcere di Venezia continua e anche ieri è stata una giornata da dimenticare per gli agenti di Santa Maria Maggiore, tra lenzuola bruciate, lanci di uova e frutta, vetrate infrante e il fracasso infernale creato dai colpi di piatti e pentole sulle sbarre. Non sono infatti passate nemmeno 24 ore dalla conferenza stampa con cui il capogruppo della Lista Tosi in consiglio regionale, Stefano Casali, aveva denunciato le condizioni della casa circondariale lagunare, che subito si è scatenata una nuova ondata di proteste violente, che hanno portato ancora una volta un poliziotto al pronto soccorso, a causa di una lieve intossicazione da fumo. "L’aspetto paradossale è che esistono impianti di videosorveglianza efficienti, ma per carenza di manutenzione sono guasti", denuncia il segretario provinciale della Uil penitenziari Umberto Carrano, che venerdì mattina aveva accompagnato Casali insieme ad altri colleghi. "Inoltre non esistono impianti di automazione nelle sezioni e quindi la polizia penitenziaria non è messa in sicurezza", continua Carrano. "La situazione che ho verificato di persona è davvero preoccupante - aveva detto Casali - Qui si vive tra muri sconnessi, camminamenti pericolanti, ambienti comuni fatiscenti, con infiltrazioni e muffe". I numeri, sebbene più contenuti rispetto ai "record" di qualche anno fa (dove si superò quota 350), ora vedono 262 detenuti (di cui solo 91 italiani) in una struttura che al massimo ne può contenere 160, con un corpo di polizia penitenziaria ridotto a sole 100 unità, quando dovrebbero essere 180. "Sono rimasto allibito, preoccupato e sconcertato", aveva chiosato Casali, promettendo pressioni sul governo. Leonardo Angiulli, segretario triveneto della Uil, aveva ricordato che i lavoratori a Venezia sono in stato di agitazione sindacale dall’i agosto. "Abbiamo già registrato solo nei periodo estivo 11 infortuni legati ad atti violenti provocati da detenuti che circolano liberamente nei corridoi di Santa Maria Maggiore con un solo agente di sorveglianza ogni sessanta reclusi", aveva aggiunto Angiulli. Roma: arriva da Rebibbia il "Caffè Galeotto", buono, equo e solidale Dire, 13 settembre 2015 "A che bello cafè, pure in carcere ‘o sanno fa". Così cantava Fabrizio De Andrè, e a dimostrarlo ci pensano i detenuti della casa circondariale di Rebibbia con il Caffè Galeotto. Il progetto è iniziato a settembre 2014 grazie ad un’idea della Cooperativa Pantacoop che è riuscita a dar vita ad una vera e propria torrefazione dietro le sbarre del braccio G9 di Rebibbia con tanto di tostatrice e spietratrice, necessaria a selezionare con accuratezza ogni singolo chicco. È l’attenzione al prodotto, oltre alla riabilitazione di chi lo lavora, uno degli aspetti più interessanti di questa iniziativa che garantisce l’assenza di solventi chimici nel decaffeinato in polvere che realizza. Paradossalmente gli autori di tanta attenzione sono proprio i "galeotti", in carcere per scontare la pena e assunti con un regolare contratto part-time dalla cooperativa. La Pantacoop nasce nel 2001 e inizialmente lavora con i detenuti appena usciti dal carcere ma con il tempo capisce l’importanza di impiegare persone che si trovano ancora in penitenziario per poter insegnare loro una competenza da spendere una volta scontata la pena. A produrre e confezionare il Caffè Galeotto ci sono solo detenuti che, dopo aver svolto un periodo di formazione, hanno acquisito una nuova professionalità. I detenuti che lavorano nel progetto non sono scelti in base al reato commesso ma in base agli anni che ancora devono scontare, al loro comportamento e alla voglia che hanno di imparare il mestiere della torrefazione. Nella routine carceraria passare 6 ore a lavorare significa molto per persone costrette in cella per 22 ore al giorno; infatti le richieste dei carcerati di partecipare alla torrefazione sono tante e la cooperativa spera di aumentare i suoi collaboratori per ottobre 2015. Grazie al lavoro molti di loro hanno compreso gli errori del passato e stanno cogliendo questa nuova opportunità di riscatto. "La pena non è più esclusivamente punitiva ma anche riabilitativa; studi dimostrano - spiega Daniele Pellegrino responsabile marketing e comunicazione della Pantacoop - che chi non lavora in carcere, una volta fuori, reitera il reato nel 70 per cento dei casi. Il lavoro paga e paga soprattutto i detenuti". Il Caffè Galeotto è un orgoglio per l’istituto penitenziario di Rebibbia perché si inserisce a pieno nel commercio equo e solidale. I chicchi di caffè che sono lavorati dai detenuti, infatti, vengono acquistati da cooperative dell’Honduras e del Nicaragua che danno lavoro a donne, con un passato fatto di violenze, pagandole il giusto corrispettivo. Un caffè pensato a scopo sociale, di qualità ma comunque a prezzi di mercato, che può essere acquistato nel punto vendita adibito nel carcere oppure contattando la cooperativa alla e-mail marketing@caffegaleotto.it. Caltanissetta: accusato da sette "pentiti", in carcere 11 anni per due omicidi, ora assolto Ansa, 13 settembre 2015 Undici anni in carcere per due omicidi che non aveva commesso. Per Mirko Felice Eros Turco, 35 anni, di Gela, "è finito un lungo calvario. Alla fine è stata fatta giustizia", dice il suo avvocato, Flavio Sinatra. E dopo averlo assistito per 17 anni in diverse aule giudiziarie, "ora sono contento per lui". Turco, vittima di un clamoroso errore giudiziario, condannato all’ergastolo per due omicidi, tra cui quello di un ragazzino, adesso è stato definitivamente prosciolto da ogni accusa, dopo la revisione dei processi. Ma quasi 11 anni della sua vita, li ha trascorsi in carcere da innocente. Anni bui, che adesso può lasciarsi definitivamente alle spalle. "Un incubo". Ad accusarlo, ben sette pentiti. Secondo il loro racconto, Turco nell’estate del ‘98, avrebbe prima strangolato e massacrato, prima di bruciare il suo corpo ormai senza vita, un ragazzo di soli 16 anni, Fortunato Belladonna, ritrovato in un canneto del lungomare di Gela. Incriminato per quel delitto, finì in galera. Nel frattempo, dopo circa un mese, per lui arrivò un’altra dura accusa e un altro ergastolo per l’uccisione di Orazio Sciascio, un salumiere di 66 anni, ammazzato durante una rapina per essersi rifiutato di pagare il pizzo. Turco ha sempre sostenuto di essere innocente, che con quei delitti non c’entrava niente. La svolta arrivò nel 2008, quando due esponenti del clan Emmanuello, Carmelo Massimo Billizzi e Gianluca Gammino, da boss a pentiti, si autoaccusarono del delitto Belladonna, il ragazzino. La Corte d’appello di Messina, sempre nel 2008, accolse la richiesta di revisione del processo di Turco, disponendone la scarcerazione. Iniziò così a sbriciolarsi anche il castello accusatorio che era stato costruito per l’omicidio del commerciante, per il quale nel frattempo vennero arrestate due persone, Salvatore Rinella e Salvatore Collura. Nel 2012 la Corte d’Appello di Catania revocò la precedente condanna in primo grado assolvendo definitivamente Turco dall’accusa di omicidio. Adesso per Turco, diventa definitiva anche la sentenza di assoluzione per il delitto Belladonna. La sentenza è stata emessa dalla Corte d’Appello di Messina, dopo aver accolto la richiesta avanzata dal legale Sinatra, di procedere alla revisione del processo. La Procura Generale, che non ha mai creduto all’innocenza di Turco, aveva invece chiesto il rigetto dell’istanza di revisione e la conferma dell’ergastolo. Spoleto (Pg): Osapp; detenuto aggredisce due agenti, chiusura degli Opg grave problema umbria24.it, 13 settembre 2015 Lesioni giudicate guaribili in una decina di giorni, recluso di 24 anni spesso violento. Sindacato Osapp: "Carenze organizzative non si possono scaricare su polizia penitenziaria". Due agenti aggrediti nel carcere di Maiano (Spoleto). È ancora il detenuto di 24 anni che lo scorso aprile ha appiccato il fuoco alla cella causando l’intossicazione di tre poliziotti e problemi di ordine pubblico all’interno della casa di reclusione, dietro l’ultimo episodio di violenza consumatosi all’interno dell’istituto. Detenuto di 24 anni aggredisce 2 agenti A denunciare il particolare caso è direttamente il vicesegretario regionale del sindacato Osapp, Roberto Filippi, che evidenzia anche le difficoltà a collocare in una struttura esterna il soggetto dopo la chiusura degli ospedali psichiatrici. In particolare il giovane detenuto, di nazionalità italiana, si è scagliato con violenza contro due agenti, costringendo il trasferimento di uno all’ospedale di Foligno per tutti gli accertamenti del caso. Fortunatamente entrambe le prognosi emesse dai sanitari non risultano particolarmente gravi, variando da 7 a 10 giorni, ma le ripetute aggressioni da parte del recluso di 24 anni affetto da problemi psichici, non è la prima volta che picchia gli agenti, altre volte la violenza ha riguardato altri detenuti, preoccupano il sindacalista dell’Osapp in servizio nel carcere di Maiano. "Non si può scaricare chiusura ospedali psichiatrici su polizia penitenziaria" In particolare Filippi nella nota scrive: "Malgrado la professionalità e l’attenzione posta nello spostamento del detenuto conoscendone già i precedenti, è impossibile prevedere una sua aggressione perché prive di qualsiasi motivazione o avvisaglie sotto il profilo emotivo che lascino presagire una reazione violenta. Le strutture esterne che dovrebbero gestire detenuti di questa tipologia, rispondono che è un soggetto troppo violento e non hanno né personale né una struttura adeguata per gestire, così se la chiusura degli ospedali psichiatrici può risultare condivisibile sotto il profilo umano, dall’altra non è accettabile scaricare il problema sulla polizia penitenziaria che senza formazione e strutture pone sacrificio, spirito d’iniziativa ed esperienza continua a sopperire a carenze organizzative". Pisa: Sappe; nuova aggressione da detenuto che aveva commesso fatti analoghi a Lucca Ansa, 13 settembre 2015 Due detenuti, uno dei quali nei giorni scorsi a Lucca aveva aggredito le guardie carcerarie e creato problemi anche al pronto soccorso dell’ospedale, hanno aggredito gli agenti di polizia penitenziaria nel carcere Don Bosco di Pisa. Lo rende noto il Sappe, sindacato autonomo di polizia penitenziaria precisando che due poliziotti hanno dovuto "fare ricorso alle cure mediche presso il pronto soccorso". "Due detenuti stranieri - spiega Pasquale Salemme, segretario toscano del Sappe - tra loro anche quello che ha creato problemi di ordine e sicurezza nel carcere di Lucca, si sono prima lesionati il corpo e hanno poi colpito i due poliziotti accorsi per assicurare un primo soccorso". Secondo il segretario generale del sindacato, Donato Capece, servono subito "efficaci strumenti di tutela per i poliziotti penitenziari, che in Toscana sono davvero stanchi di subire la violenza di certi detenuti". "Altro che vigilanza dinamica e detenuti fuori dalle celle a non far nulla - conclude il leader del Sappe - questi inaccettabili atti di violenza andrebbero puniti con estrema severità: non sono più tollerabili. Cosa si aspetta ad assumere adeguati provvedimenti per garantire la sicurezza e la stessa incolumità fisica degli agenti di polizia penitenziaria che lavorano negli istituti toscani?". Padova: detenuto evaso dall’spedale, indagati i poliziotti penitenziari che lo piantonavano Corriere del Veneto, 13 settembre 2015 Fuggì dall’ospedale. Dichiarazioni non vere degli agenti. Secondo il rapporto ufficiale lui, 33enne detenuto tunisino in cura al reparto Malattie Infettive del Giustinianeo, perché malato di Tbc, era scappato grazie ad "un’azione repentina". In pratica aveva preso alla sprovvista i due agenti di polizia penitenziaria che la mattina di giovedì 3 settembre lo stavano piantonando in ospedale e aveva - si legge nel rapporto - scardinato la finestra della stanza, dandosela a gambe. Mentre loro, i due poliziotti, non erano riusciti a fermarlo pur lanciati all’inseguimento. A corollario di un’evasione incredibile, la fuga del detenuto tunisino aveva fatto scattare l’allarme sanitario in tutta Italia: affetto da Tbc, poteva contagiare chiunque si trovasse a parlare con lui. Ma tutto questo, semplicemente, non è vero secondo il sostituto procuratore Sergio Dini che ha chiesto il processo per i due agenti di custodia, un 35enne e un quarantenne, indagati con le accuse di evasione colposa (per la fuga del detenuto) e di falso per aver costruito ad arte il rapporto. A smascherare il racconto ufficiale dei poliziotti del Due Palazzi sono state le indagini e gli interrogatori condotti in settimana dalla procura che ha ricostruito con attenzione l’intera vicenda. Secondo l’accusa non ci sarebbe stato nulla di rocambolesco: la mattina di giovedì 3 settembre quando l’infermiera aveva raggiunto la stanza del detenuto guardato a vista da una parete a vetro (come da disposizioni del pm Benedetto Roberti, che aveva arrestato ad agosto il 33enne, già evaso dagli Infettivi a marzo), si era trovata di fronte ad un solo agente mentre il letto del detenuto era vuoto. "È in bagno", aveva risposto la guardia rimasta a piantonare la stanza. Scena che si era ripetuta identica un’ora dopo, dando la mossa a qualche sospetto. È così, hanno raccontano i testimoni al pm, che l’infermiera e il poliziotto sono entrati nella stanza: in bagno non c’era nessuno, come sul letto. Era invece aperta la finestra che dà sul giardino interno del Giustinianeo, ma del detenuto nemmeno l’ombra in tutta la struttura. A quel punto i due agenti della penitenziaria in servizio alla casa circondariale - dove è detenuto chi è in attesa del processo - hanno deciso, sempre secondo l’ipotesi del pm Dini, di compilare un rapporto in cui raccontavano la velocità del tunisino (finito dentro per essere uno dei maggiori spacciatori del Pescarotto) nel saltare sul letto, aprire la finestra e lanciarsi da circa due metri verso la libertà. E i poliziotti? Nel loro racconto dicono di essersi gettati all’inseguimento (uno dei due sarebbe anche inciampato nella corsa), ma di non essere riusciti a fermare l’uomo che dovevano controllare. Qualcosa però non tornava nella versione dei poliziotti spingendo la magistratura a scoprire cosa. Quello che ne esce è che con ogni probabilità, il detenuto affetto da Tbc ha potuto fare ogni cosa con calma mentre i poliziotti non si erano accorti di niente. Il dossier migranti infiamma la Ue di Beda Romano Il Sole 24 Ore, 13 settembre 2015 Domani a Bruxelles la decisione sulla ridistribuzione urgente di 120mila profughi. L’arrivo di migliaia di profughi alle frontiere dell’Europa orientale e meridionale sta provocando evidenti contrasti tra i Ventotto. Non vi sono solo profonde divisioni sull’opportunità di accoglierli o meno, tanto che l’attesa riunione di domani dei ministri degli Interni tutta dedicata alla redistribuzione in Europa di 120mila rifugiati sarà accesa. Vi sono anche tra i Ventotto accenti diversi sull’impatto, positivo o negativo, che queste persone avranno sulle economie nazionali. Durante una due-giorni di riunioni dei ministri delle Finanze europei tra venerdì e sabato qui in Lussemburgo, le diverse sensibilità sono emerse chiaramente. Non è un caso che i Ventotto abbiano chiesto alla Commissione europea di fare un’analisi sull’impatto che l’emergenza immigrazione potrebbe avere sull’andamento dei conti pubblici e dell’economia, optando eventualmente per considerare con magnanimità l’evoluzione dei bilanci nazionali. Molti Paesi sottolineano che la gestione degli immigrati potrebbe imporre costi aggiuntivi alle finanze pubbliche. Lo stesso governo tedesco, che vede nell’accoglienza di 800mila nuovi rifugiati sia un impegno morale che un interesse economico, ha già annunciato che ha previsto in bilancio nuove uscite per sei miliardi di euro nel 2016. Addirittura, la cancelliera Angela Merkel ha definito questa settimana "non inverosimile" la possibilità che i costi possano salire a 10 miliardi di euro l’anno prossimo. Altri governi, a differenza di Berlino, mettono l’accento solo sui costi dell’emergenza. L’Austria e l’Irlanda hanno ottenuto che Bruxelles faccia una valutazione d’impatto sui conti pubblici, consentendo nel caso flessibilità nel considerare eventuali aumenti del deficit. Un’idea questa che ha suscitato la prudenza del ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, e che non piace al ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schäuble, che l’ha definita "quasi noiosa", insistendo sul rispetto delle regole. Altri Paesi ancora preferiscono mettere invece l’accento sugli aspetti positivi. "Lo sforzo per i migranti deve avere una dimensione di gestione dell’emergenza e poi anche di gestione della capacità d’accoglienza degli immigrati, che possono essere una grande ricchezza per i Paesi che li ricevono", ha spiegato il ministro Padoan. L’economista non ha precisato il suo pensiero, ma è probabile che pensasse alle conseguenze positive sui consumi e sugli investimenti. Lo stesso ragionamento è stato illustrato dal ministro delle Finanze svedese, Magdalena Andersson: "L’accoglienza peserà sui conti pubblici, ma le numerose persone che accoglieremo avranno allo stesso tempo un impatto positivo sull’economia", in termini di domanda. A Stoccolma, come a Berlino, lo sguardo corre alla possibilità di usare i nuovi arrivi per rispondere alla carenza di manodopera in particolari settori dell’economia e per compensare l’invecchiamento della popolazione. Intanto domani i ministri degli Interni si riuniranno a Bruxelles per valutare la proposta della Commissione di ricollocare d’urgenza e su base vincolante 120mila profughi arrivati in Italia, Grecia e Ungheria. Diplomatici lussemburghesi, rappresentanti della presidenza di turno dell’Unione, sono ottimisti sul fatto che i ministri daranno mandato alle proprie delegazioni di negoziare il testo finale, lasciando ai tecnici l’impegno di risolvere i nodi più ostici: chiave di ripartizione e obbligatorietà delle quote. Alcuni Paesi dell’Est, preoccupati dai costi, dall’impatto sociale e politico dell’arrivo di migliaia di profughi sul proprio territorio, potrebbero dare battaglia; ma tra i diplomatici dei Ventotto si nota che c’è una larghissima maggioranza a favore della proposta. L’ipotesi di mettere in minoranza i Paesi più refrattari non preoccupa più di tanto. La riunione servirà soprattutto per capire, al di là dell’emergenza, quante possibilità vi siano di garantire all’Unione una nuova politica migratoria. Immigrati, la lezione americana di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi Corriere della Sera, 13 settembre 2015 Con un’economia che cresce è molto più facile sostenere la coesione sociale, che invece si perde quando le risorse non crescono e debbono essere spartite fra più persone. Fra vent’anni, guardando le foto dell’arrivo dei profughi siriani a Monaco, accolti dall’Inno alla Gioia, della colonna di automobili austriache che trasportano altri profughi verso la Germania, della nostra Marina che ha salvato migliaia di persone nel Mediterraneo, penseremo che quello fu il momento in cui nacque l’Europa multietnica. Come gli Stati Uniti sono una società di immigrati (più o meno recenti), così, piaccia o no, diventerà l’Europa. Al di là del problema dei profughi di guerra, l’Europa attira centinaia di milioni di potenziali immigrati che vivono vicinissimi ai suoi confini, per lo più con livelli di reddito infinitamente più bassi del nostro. Costruire, intorno all’Europa una muraglia, figurativa se non reale, è impossibile: non fermerebbe il flusso, avrebbe solo l’effetto di selezionare i più disperati. Controlli e selezione sì, non muri. Che cosa ci insegnano gli Stati Uniti? Prima lezione: dal punto di vista economico una società multietnica può funzionare assai bene. Diversità di formazione, cultura, punti di vista, abilità, stimolano l’innovazione e la produttività. Questo vale soprattutto per immigrati con un livello di istruzione relativamente alto, ma non solo. In Italia, per esempio, le "badanti" straniere hanno risolto l’assistenza agli anziani, un problema sempre più centrale nelle nostre vite. Inoltre il livello di istruzione di una popolazione può aumentare, anche rapidamente, con adeguati investimenti in capitale umano, cioè nella scuola e nell’università. Investimenti che sono certamente più utili di quelli in ponti o autostrade, come dimostra lo straordinario successo della Corea del Sud. Questo non significa, o non solo, più soldi pubblici: è soprattutto una questione di organizzazione e di merito, come scrivono da tempo Roger Abravanel e Roberto Perotti. La seconda lezione è che la generosità (quella privata, ma anche il welfare pubblico) funziona molto meglio fra persone della stessa nazionalità e cultura. Cioè, siamo più disposti a pagare tasse anche elevate per un welfare generoso (e talvolta sprecone) verso i nostri concittadini nati qui; molto meno se percepiamo che del welfare beneficiano anche gli immigrati (che peraltro pagano anch’essi le tasse). Ci sono due modi per affrontare questo problema: uno è ridimensionare lo stato sociale, limitandolo alle funzioni di base, cancellando i benefici per chi non ne ha bisogno, eliminando privilegi e sprechi, cose che dovremo fare comunque - fra l’altro in Paesi come Italia e Germania che stanno invecchiando rapidamente, un flusso di immigrati giovani renderebbe il nostro welfare più sostenibile. L’altra risposta, odiosa, è discriminare fra nativi ed immigrati, una strada non percorribile, né moralmente, né praticamente. Infine, i conflitti etnici diventano possibili, per quanto si faccia per evitarli. In Europa potremmo assistere alla crescita di partiti xenofobi, cui potrebbero opporsi partiti etnici, cioè gruppi politici interessati solo a promuovere gli interessi degli immigrati, di questa o quella nazionalità. Ciò renderebbe ingestibile non solo la politica dell’immigrazione ma anche la politica tout court. Un rischio tanto maggiore quanto più marcate sono le differenze culturali e religiose tra nativi e immigrati. Come affrontare l’immigrazione, non solo quella con cui ci confrontiamo oggi, prodotta dalla crisi profughi, sarà il problema di gran lunga più difficile che l’Europa e l’Italia dovranno affrontare nei prossimi anni. Non illudiamoci: come insegna l’esperienza americana sarà una strada piena di ostacoli, con passi avanti e fallimenti. Dobbiamo riuscire ad attrarre non solo individui con basso livello di capitale umano, ma anche persone più istruite e produttive. Ma non arriveranno solo immigrati con molti anni di istruzione alle spalle. Dovremo quindi fare uno sforzo per inserire loro e i loro figli nella scuola e nelle università in modo da aumentarne rapidamente il capitale umano. Dagli immigrati dobbiamo esigere il rispetto assoluto delle leggi: Germania, Gran Bretagna e Svezia, i Paesi europei che hanno le più ampie popolazioni immigrate (8% della popolazione in Germania e Gran Bretagna, 10 per cento in Svezia, a fronte del nostro 6 per cento) ci riescono. Tutto ciò è molto più facile in un Paese che cresce e che ha un bilancio pubblico in attivo, come la Germania. Ecco un altro motivo per cui far ripartire l’economia è fondamentale. Con un’economia che cresce è molto più facile sostenere la coesione sociale, che invece si perde quando le risorse non crescono e debbono essere spartite fra più persone. Orban alza la barriera anti-immigrati, mentre la Merkel accoglie 40mila profughi Il Sole 24 Ore, 13 settembre 2015 Le ferrovie ungheresi hanno cominciato i lavori per la costruzione di una "porta" lungo i binari della linea tra Subotica (Serbia) e Szeged (Seghedino, Ungheria), una sorta di barriera per le migliaia di migranti e profughi che passano illegalmente il confine fra i due Paesi, lungo la ferrovia per evitare il muro metallico alla frontiera. Seguire i binari inoltre serve ai migranti a non sbagliare strada e orientamento nella Marcia verso nord. La "porta", destinata a bloccare il flusso di migranti, dovrebbe essere pronta entro lunedì. Martedì 15 settembre è prevista l’entrata in vigore in Ungheria delle nuove norme in fatto di immigrazione, con l’arresto di chi entrerà illegalmente nel Paese e condanne fino a tre anni di carcere. Intanto nel corso di questo fine settimana 4.300 militari ungheresi saranno dispiegati lungo il confine meridionale con la Serbia, con l’obiettivo principale di affiancare le forze di polizia nel completamento della barriera difensiva anti-immigrati. Lo ha detto il ministro della difesa ungherese Istvan Simicko. Per il premier Viktor Orban, i migranti che a migliaia arrivano in Europa "non vengono in realtà da zone di guerra ma da campi in Paesi vicini alla Siria come Libano, Giordania o Turchia" e "lì erano al sicuro", ha detto Orban in un’intervista al quotidiano tedesco Bild. A suo avviso, le migliaia di persone in marcia lungo la rotta balcanica non vengono in Europa per stare al sicuro ma perché "vogliono vivere come i tedeschi o come gli svedesi". "Per loro le condizioni di vita in Grecia, Macedonia, Serbia, Ungheria e Austria non sono sufficientemente buone". Nell’intervista alla Bild Orban ha confermato che la frontiera ungherese con la Serbia verrà chiusa a partire dal 15 settembre con la barriera metallica e di filo spinato, e che con ciò i migranti verranno rimandati indietro nel Paese "da dove sono arrivati". Vienna: come nazisti ed ebrei. Scambio di accuse al vetriolo tra Austria e Ungheria sull’emergenza migranti. Il cancelliere austriaco, Werner Fayman, ha paragonato il trattamento dei rifugiati da parte dello xenofobo Viktor Orban alla deportazione degli ebrei ad opera dei nazisti. "Stipare i rifugiati in treni e inviarli in posti totalmente differenti da quelli dove credono di andare ci ricorda i capitoli più bui della storia del nostro continente", è stata il duro affondo del cancelliere di Vienna in una intervista al settimanale Der Spiegel. Immediata la replica di Budapest che ha respinto le accuse, definendole "totalmente indegne di un leader europeo del 21esimo secolo", e convocato per protesta l’ambasciatore austriaco. L’Austria, ha aggiunto il ministro degli Esteri ungherese, Peter Szijjarto, conduce da mesi una "campagna di falsità" contro l’Ungheria che ha reso ancor più difficile il raggiungimento di una soluzione europea alla crisi dei migranti. Migranti, il salto all’indietro dell’Europa di Franco Venturini Corriere della Sera, 13 settembre 2015 Quando la Commissione presenterà ai ministri degli Interni e della Giustizia della Ue un piano migranti che fa leva sull’indispensabile solidarietà tra europei, l’Europa risponderà facendo un grande salto all’indietro e tornando a dividersi tra Est e Ovest. Lunedì prossimo, quando la Commissione presenterà ai ministri degli Interni e della Giustizia della Ue un piano migranti che fa leva sull’indispensabile solidarietà tra europei, l’Europa risponderà facendo un grande salto all’indietro e tornando a dividersi tra Est e Ovest. Gli ultimi dubbi sul "no alle quote obbligatorie" da parte di Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia (con aggiunta della Romania e delle Repubbliche Baltiche) sono svaniti ieri quando il ministro degli Esteri tedesco Frank-Walter Steinmeier ha incontrato i quattro del Gruppo di Visegrad per tentare di convincerli. Siamo alle prese con quella che potrebbe essere la più grave crisi nella storia dell’Europa, ha ammonito Steinmeier mettendo sul tavolo tutto il non trascurabile peso della Germania. Ma i suoi interlocutori, guidati dall’Ungheria, hanno fatto orecchie da mercante. Va bene per la protezione umanitaria dei migranti (che proprio in Ungheria non si è vista e non si vede). Va bene per il rimpatrio di chi proviene da Paesi ritenuti "sicuri". Ma le quote obbligatorie no, quelle non le accettiamo nemmeno se ce lo chiede la Germania. La conseguenza appare ormai inevitabile: come già era accaduto tra giugno e luglio quando la Commissione di Bruxelles fece il suo primo fallito tentativo di stabilire quote numeriche obbligatorie per l’accoglimento dei migranti in ogni Stato della Ue, anche questa volta il fronte del rifiuto (che può contare su otto Stati votanti, se non di più) imporrà un criterio di "volontarietà" che vanifica il progetto franco-tedesco fortemente appoggiato dall’Italia. Nessuno si lascerà spaventare dalle sanzioni finanziarie, che peraltro restano da definire. Semplicemente il criterio della solidarietà rimarrà al palo un’altra volta, l’Europa offrirà al mondo un nuovo spettacolo di divisione interna proprio mentre gli Usa annunciano di voler aprire la porta a 10 mila migranti. E l’Italia, che pretende una logica contemporaneità tra messa in funzione dei centri di identificazione e garanzie di redistribuzione dei richiedenti asilo, si troverà, salvo miracoli, a dover valutare attentamente le conseguenze dei rifiuti orientali. Rifiuti che hanno peraltro una valenza diversa di caso in caso. La Polonia non accetterà le quote ma accoglierà un numero più alto di migranti (sempre che le elezioni di ottobre, che vedono favorita la destra ultranazionalista, non impongano la retromarcia). In Slovacchia emergono forti umori anti islamici a fianco di quelli anti stranieri. In Ungheria la "sfida" di Orbán alla Merkel si nutre ogni giorno di nuovi capitoli, ora per i migranti è annunciato l’arresto preventivo. Ma se vanno accettate le diversità nazionali, è anche vero che una questione di principio accomuna tutti i nuovi soci della Ue: non sembra prevalere, nei loro governi e nelle loro opinioni pubbliche, un sentimento di appartenenza europea che pure è stato assai forte nella corsa all’adesione e poi nell’utilizzo degli aiuti provenienti da Bruxelles. Al contrario di quanto è accaduto all’Ovest non si sono stemperati i loro nazionalismi, che anzi esplodono ora che non sono più sottoposti al giogo sovietico degli anni 1945-1989. Insomma, i nostri fratelli d’Oriente vivono una fase storica diversa dalla nostra e gli allargamenti sono stati portati a termine con non poche illusioni. Una parte dell’Ovest sembra muoversi in direzione opposta. Sappiamo che Gran Bretagna, Danimarca e Irlanda usufruiscono di un Opt-out che peraltro Cameron ha addolcito accettando 20.000 rifugiati extra-quote. Sappiamo della generosità della Germania e della Svezia. Ma ora anche la recalcitrante Spagna sta al gioco. E nella Francia dei Le Pen un sondaggio mostra per la prima volta in vantaggio i pro accoglienza. Divisi e sempre più lontani, è questo il destino degli europei? È possibile, almeno fino a quando non sarà chiaro a tutti che quello degli immigrati è un problema ma è anche una occasione che ci promette di finanziare uno Stato sociale altrimenti condannato dalle nostre realtà demografiche. Stati Uniti: rivolta in un carcere dell’Oklahoma a gestione privata, morti 3 detenuti Ansa, 13 settembre 2015 La rivolta è scoppiata all’interno di una sola unità dove si trovano detenuti in regime di media sicurezza. A giugno un’altra rivolta nella stessa struttura aveva causato 12 feriti. Tre detenuti sono morti e altri cinque sono rimasti feriti dopo che le guardie sono intervenute per sedare una rivolta in una prigione privata dell’Oklahoma, negli Usa. Non sono chiari i motivi della protesta nel penitenziario di Cimarron della Correctional Corporation of America, una delle maggiori società che gestiscono carceri private nel Paese. Protrattasi per una quarantina di minuti. Il penitenziario si trova a nord-ovest di Tulsa e ospita 1.650 detenuti uomini, 180 dei quali in regime di massima sicurezza. La rivolta è scoppiata all’interno di una sola unità dove si trovano detenuti in regime di media sicurezza. A giugno un’altra rivolta nella stessa struttura aveva causato 12 feriti. Russia: "noi non ci pentiamo, meglio morti"… tra i dannati del carcere Aquila Nera di Mark Franchetti Corriere della Sera - La Lettura, 13 settembre 2015 "Aquila Nera" è tra i più duri penitenziari in Russia, situato in una zona remota tra le foreste degli Urali. È riservato a coloro che hanno commesso i crimini più efferati, e Mark Franchetti vi ha trascorso tre settimane. Nel cuore profondo della Russia, circondato da foreste impenetrabili più grandi della Germania, si trova una prigione che non ha uguali. La zona un tempo ospitava i famigerati gulag. Denominata Colonia 56 dalle autorità, tra i detenuti e i bassifondi criminali è conosciuta come Aquila Nera. È un carcere solo per assassini. Sono 260 uomini, i detenuti. Collettivamente, hanno ucciso oltre 800 persone, equivalente alla popolazione di un paesino russo. Dietro le sue mura ci sono terroristi, sadici, psicopatici, omicidi seriali, stupratori che hanno ammazzato le loro vittime, sicari della mafia russa, assassini di bambini, esponenti della malavita organizzata. Ci sono anche uomini che hanno ucciso in un raptus di follia o in preda all’alcol. Sono considerati i criminali tra i più pericolosi di tutto il paese. Per loro, Aquila Nera rappresenta la fine della corsa, un pozzo buio senza ritorno. Le condizioni di vita, dietro le cinque recinzioni sormontate da filo spinato, le torrette di sorveglianza e le pattuglie dotate di cani poliziotto, sono le più repressive consentite dalle istituzioni penitenziarie, e il regime carcerario di Putin, come tante altre cose nel suo paese, non lascia scampo. Il senso di lontananza e di isolamento dal mondo esterno è drammatico e sconvolgente. Prima della costruzione di una nuova strada, qualche anno fa, la prigione si trovava a 14 ore di macchina dalla città più vicina, Yekaterinburg negli Urali. Ancora oggi occorrono otto ore di percorrenza. Se si proviene dalle regioni più lontane, si viaggia in treno per giorni. La sensazione di lontananza è inasprita dal fatto che Aquila Nera è circondata interamente da foreste, un oceano verde che si estende per centinaia di chilometri in tutte le direzioni. Gli inverni freddissimi durano sette mesi l’anno. Le temperature scendono fino a 45 gradi sotto zero e la regione resta sepolta sotto 3 metri di neve, sprofondata nel buio e sferzata dalle bufere di vento che scendono dall’Artico. Le brevi estati sono soffocanti e infestate di zanzare. La prigione, un insieme di edifici fatiscenti risalenti all’era sovietica, non dispone ancora di fognature. I detenuti utilizzano dei secchi nelle loro celle, che poi svuotano all’esterno una volta al giorno. Una linea telefonica per il direttore è stata installata solo qualche anno fa. Nel fabbricato che ospita gli ergastolani, una fortezza di mattoni rossi a due piani, costruita negli anni Sessanta, i prigionieri sono costretti a restare nelle loro celle 23 ore al giorno. L’unica ora d’aria al giorno si trascorre in un minuscolo cortile, da soli o a coppie. Attraverso le maglie della recinzione metallica si vede solo il cielo. Ogni cortile si affaccia su un fossato, dove gli uomini vuotano i secchi di escrementi. La puzza è insopportabile. Le celle degli ergastolani sono di dodici metri quadrati, da condividere in due, oppure quattro metri quadrati per una sola persona. Le celle più piccole sono talmente anguste che basta appoggiare la spalla a una parete e tendere un braccio per toccare la parete opposta. Essere rinchiusi là dentro anche solo per qualche istante dà la sensazione di essere sepolti vivi. Ai detenuti è consentito fare la doccia una sola volta alla settimana. Durante i primi dieci anni di carcerazione, gli ergastolani possono ricevere un piccolo pacco ogni 12 mesi e due visite all’anno, ciascuna per quattro ore al massimo, dietro un vetro spesso. Non è ammesso nessun contatto fisico. Aquila Nera è talmente isolata, e i parenti dei detenuti sono per la maggior parte talmente indigenti, che alcuni prigionieri qui non vedono un parente da 18 anni. I detenuti hanno a disposizione un televisore e qualche libro. Possono tenere con sé qualche effetto personale e spendere fino a 700 rubli (9 euro) al mese nello spaccio del carcere. Durante il giorno è vietato restare distesi sul letto, e tranne che per qualche raro privilegiato, non ci sono lavori da svolgere. Nessun carcerato è mai evaso da Aquila Nera e sono in pochissimi ad averci provato. "Solo i più tosti riescono a sopravvivere in queste condizioni, quelli che sono più forti mentalmente", mi dice Vladimir Eremeev, 64 anni, condannato per omicidio, che ha trascorso più di 40 anni nelle prigioni sovietiche e russe. "Un terzo degli ergastolani impazzisce. Tutti gli altri sanno che usciranno di qui solo nella cassa da morto". Nel 2000 sono stato il primo giornalista straniero ad avere accesso ad Aquila Nera. Di recente, dopo oltre sei mesi di trattative per concordare un permesso dalle autorità della prigione, ho fatto ritorno in compagnia di Nick Read, un regista pluripremiato, e una troupe televisiva. Insieme, abbiamo trascorso 21 giorni all’interno del penitenziario per realizzare I Condannati, un documentario su alcuni dei prigionieri rinchiusi in quel mondo desolato. Nessuna troupe straniera ha mai ottenuto il permesso di restare così a lungo, e senza vincoli di sorta, in una prigione russa, tantomeno in una fortezza impenetrabile e remota come Aquila Nera. Abbiamo intervistato oltre 50 detenuti sui loro delitti e castighi, e tra questi abbiamo selezionato sei prigionieri, ai quali abbiamo chiesto di raccontare la loro storia. Abbiamo provato a esplorare come cambiano la mente e l’animo di un uomo, quando resta segregato in una cella di quattro metri quadrati per 23 ore al giorno per decenni. Quale speranza resiste, quando ogni speranza è morta? A che cosa si aggrappa un uomo, quando viene spogliato di tutto? Esiste il pentimento, esiste la redenzione? E perché taluni carcerati sostengono che la pena di morte sarebbe una punizione più umana e misericordiosa della condanna a vivere a Aquila Nera? In Russia la pena capitale è rimasta in vigore fino al 1996, quando il presidente Boris Eltsin la revocò per consentire al paese l’ingresso nel Consiglio d’Europa. Nell’era sovietica, i criminali come quelli incarcerati ad Aquila Nera venivano giustiziati con un colpo alla nuca e seppelliti in segreto in tombe senza nome. Quando venne varata la moratoria, il governo fu costretto a decidere sul destino dei detenuti richiusi nel braccio della morte in attesa di esecuzione capitale. Scelse di risparmiar loro la vita e di commutare la sentenza a 25 anni di reclusione. Sono trascorsi 19 anni da allora e oggi restano solo 170, degli antichi condannati a morte, a scontare la loro pena in un carcere di massima sicurezza, e sono tutti rinchiusi ad Aquila Nera. Gli altri 90 prigionieri nella prigione sono stati condannati all’ergastolo per omicidio, dopo la sospensione della pena di morte. Non tutti i detenuti nel braccio della morte hanno reagito con sollievo alla notizia che gli era stata risparmiata la vita, in cambio di 25 anni di carcere durissimo. Per alcuni, la prospettiva si è rivelata insopportabile. "Sono stato l’ultimo - dice Eremeev- ad avere la condanna commutata. Quando uno dei carcerati che era con me nel braccio della morte ha visto il decreto presidenziale che trasformava la pena di morte in 25 anni di reclusione… cinque minuti dopo si è impiccato. Un altro lo ha fatto tre giorni dopo, con le mutande. Il terzo si è conficcato un arnese nel cuore. Pensa che coraggio, trafiggersi a morte. Se mi avessero giustiziato, a dire il vero, mi avrebbero risparmiato tutta questa tortura e questa angoscia. Scontare 25 anni non è una sensazione piacevole, nemmeno per uno come me". Gli ergastolani condannati dopo la moratoria del 1996 sono rinchiusi in celle, mentre gli antichi condannati a morte, ai quali è stata risparmiata la pena capitale, vivono in comunità, in una vecchia caserma di legno, costruita in epoca sovietica, che assomiglia a un gulag. Gli "scampati", come vengono chiamati gli antichi condannati a morte, dormono in stanzoni sovraffollati, mangiano in mensa ma - soprattutto - hanno il permesso di passeggiare all’aperto e godersi un po’ di sole e di aria fresca. I detenuti malati di tubercolosi sono isolati in un edificio a parte. Il regime più mite accordato agli ex condannati a morte è semplicemente il risultato di incongruenze legali, scaturite dalle modifiche apportate al codice penale sovietico quando il paese si lasciò alle spalle il regime comunista. Le differenze non riflettono la convinzione, tra le autorità, che i detenuti "scampati" siano meno pericolosi degli ergastolani. "Sono tutti uguali, hanno commesso reati inenarrabili", dice Subkhan Dadashiov, direttore di Aquila Nera dal 1986. "Sono qui da 29 anni e non ho mai provato compassione per nessuno di loro. Francamente, preferivo la pena di morte. Se qualcuno non mi capisce, vuol dire che non ha mai guardato negli occhi uno di questi assassini. Per me la pena di morte è l’unica soluzione". Dadashiov, 53 anni, vive in una casetta di legno a poche centinaia di metri dal perimetro del penitenziario, in un paesino di meno di 200 abitanti, per la maggior parte guardie carcerarie. Dalla sua stanza da letto gli giunge il ronzio dei sensori del perimetro esterno. Insieme alla moglie ha allevato tre figlie in questo cupo isolamento e quando gli ho chiesto se, dopo quasi tre decenni, non fosse diventato anche lui un carcerato, ha sorriso, sfoggiando due incisivi d’oro. "Sono arrivato qui che avevo 24 anni, adesso ne ho 53, niente male. Perfino gli ex condannati a morte fanno solo 25 anni, io ne ho fatti 29. Buffo, no? Ci scherzo su, dicendo che loro sono arrivati con una condanna, io con un contratto. Quando siamo arrivati qui, all’inizio, mia moglie mi ha fatto una sola domanda mentre ci inoltravamo sempre più nella foresta: perché non ci sono macchine che viaggiano in direzione opposta?". La prigione è talmente isolata che quando la sua vecchia Volga sovietica è in panne, Dadashiov non ha altra scelta che farsela aggiustare dagli ex condannati a morte nel cortile del carcere. Il direttore si fa tagliare i capelli dal barbiere del penitenziario, che in un raptus di gelosia ha ammazzato moglie e suocera. Si fa servire i pasti in ufficio dal suo "maggiordomo", un uomo sulla sessantina, pacato e cortese, che ha ammazzato sei persone e che mi ripete, in tono paterno, che non mangio a sufficienza. I detenuti si attengono a una severa gerarchia e a un insieme di tacite regole assai complesse. In fondo alla graduatoria ci sono gli "emarginati", ovvero coloro che hanno ucciso donne e bambini, oppure hanno commesso crimini a sfondo sessuale. Nella palazzina degli "scampati", costoro dormono in disparte e mangiano al loro tavolo, con i loro piatti e posate. Gli altri non si degnano di stringere loro la mano né di accettare alcunché da loro, nemmeno una sigaretta. Uno degli emarginati è Andrei Lebedev, che nei primi anni Novanta ha stuprato e ucciso una ragazza e ha passato sei anni nel braccio della morte, per poi vedersi commutare la pena in 25 anni di carcere. Qualche anno fa la vittima di uno stupro gli ha scritto, nel tentativo di scavare nella mente di uno stupratore e assassino. I due hanno tenuto in vita una corrispondenza, dalla quale è nata un’amicizia che ha portato al loro matrimonio dietro le sbarre. A differenza degli ergastolani di Aquila Nera, agli "scampati" sono concesse visite coniugali in una foresteria tenuta sotto chiave. Lebedev e la moglie hanno avuto anche due figli, un maschio che oggi ha nove anni e una femmina di sette. Il padre gli ha parlato per telefono, ma non li ha ancora incontrati di persona, poiché sono ritenuti troppo giovani per visitare la prigione. Non gli è stato ancora detto per quale motivo il loro padre si trova dietro le sbarre. Nel fabbricato degli ergastolani, dove i detenuti possono vedere un congiunto per un totale di otto ore all’anno (le visite qui sono ancor più rare che nel settore degli "scampati"), abbiamo filmato due riunioni. La prima tra Maxim Kiselev e sua madre. Un sociopatico, Kiselev si ricorda soltanto di essersi ubriacato, di aver iniziato una rissa e di essersi svegliato con un coltello in mano e sei persone stese a terra, tra le quali anche una donna e un bambino di dieci anni. La donna non vedeva il figlio da cinque anni e aveva percorso ottomila chilometri, tra andata e ritorno, per potergli parlare per quattro ore dietro un divisorio di vetro spesso. In lacrime, dice che sarà l’ultima volta che vedrà suo figlio, perché non ha i soldi per rifare il viaggio. "Se tu fossi rimesso in libertà, saresti un pericolo per la società?" chiedo a Kiselev, 33 anni, che preferisce restare chiuso in una cella singola da quattro metri quadrati, dove sopravvive sepolto in un suo mondo immaginario. "Certo che lo sarei", mi risponde senza esitare. "Vedrei la gente che si gode la bella vita e vorrei farlo anch’io. Ma io non ho mai lavorato. Allora mi metterei a rubare, a ubriacarmi e ad ammazzare di nuovo. Perché se hai ucciso una volta, ucciderai ancora". Prova delle aberrazioni mentali generate nella mente di taluni reclusi dall’estremo isolamento di Aquila Nera, Kiselev, che una volta per protesta si è cucito la bocca e tagliato le vene, dice che non si accorge più del trascorrere delle settimane, dei mesi e degli anni. Per molti detenuti di Aquila Nera, i giorni passati dalla troupe a filmare il documentario hanno rappresentato un evento eccezionale, l’unico svago da anni a questa parte. Non tutti hanno voluto parlare con noi, ma per la maggior parte erano incuriositi dalla nostra presenza. Uno solo ci ha mostrato ostilità, un detenuto che, quando la pesante porta metallica della sua cella si è aperta, mi ha riconosciuto subito dalla mia prima visita nel 2000. Molti detenuti mi hanno chiesto piccoli favori, che sono stato costretto a respingere educatamente per non violare il regolamento severo del carcere. Un gruppetto di loro adesso mi spedisce gli auguri di compleanno e di Natale. Scrivono lettere regolarmente e chiamano da un telefono a pagamento che solo gli "scampati" possono usare. Un sicario della criminalità organizzata, rinchiuso nel fabbricato degli ergastolani, mi ha regalato il suo rosario, un gesto carico di significato in un luogo dove ai detenuti è concesso tenere con sé pochissimi oggetti personali. Ogni tanto scherzo se dico di non aver mai conosciuto un branco di assassini così simpatici. Ma ho imparato ad apprezzare l’onestà brutale con la quale si sono aperti a me per parlare dei loro reati, rimpianti, redenzione, mancanza di rimorsi, libertà e famiglia, pazzia e speranza. "Io ho ucciso, come faccio a pentirmi?", dice Eremeev, il vecchio detenuto con più di 40 anni di carcere sulle spalle. "Che senso ha parlare di pentimento? Come fanno assassini e sadici come noi a chiedere perdono? Un uomo che ha ammazzato tre o quattro persone, che ha ammazzato donne e bambini - che senso ha il pentimento? Nessuno cambia. Una volta tornato libero, un uomo potrebbe anche non commettere più reati e condurre una vita normale, ma quello non è pentimento. Se vuoi davvero pentirti, vai a spararti oppure prendi una corda e impiccati. Quello sì che sarebbe pentimento per i tuoi peccati. È solo davanti a Dio che ci pentiremo. Nell’altro mondo". Storia di un detenuto Il sicario Timur Temirov: "la vita nel penitenziario Aquila Nera equivale a tortura mentale". La prima volta che ho ammazzato un uomo avevo 24 anni. Non ho provato nessuna emozione, solo un senso di soddisfazione per un lavoro ben fatto. E mi sentivo forte. Non è difficile uccidere un uomo. È difficile vivere con quel ricordo. Per oltre quindici anni ho fatto parte di una gang criminale in Siberia. Ammazzavo su commissione e per difendere il mio onore. Ognuno ha il suo stile. Ho ammazzato sparando due volte a bruciapelo, dietro l’orecchio. La polizia l’ha definito la mia firma, ma non lo facevo per vantarmi. Lo facevo per essere sicuro di non dare scampo alla vittima. Sono stato condannato all’ergastolo e sono in carcere da più di sette anni. Il suicidio sarebbe la via d’uscita più facile, ma è peccato ed è la scelta di un debole. Io non mi considero un debole. No, io sono un duro. Mi hanno condannato per quattro omicidi. La polizia sospetta che io sia l’autore di molti altri, ma non ha le prove. Mi hanno accusato di essere un sicario, ma non sono riusciti a dimostrarlo in tribunale. Dopo l’arresto, durante gli interrogatori la polizia non mi ha fatto sconti. Anzi, me la sono vista brutta, tanto che dopo l’ultimo giro sono tornato in cella e ho pensato di impiccarmi, solo per non dover ricominciare tutto daccapo il giorno dopo. Ma poi ho ripreso il controllo su me stesso e mi sono detto che ce l’avrei fatta. Le condizioni di vita qui ad Aquila Nera sono durissime. Subito capisci che non tornerai mai più in libertà. Ogni attimo ti senti schiacciare dal passato, ripensi alla tua vita, a quello che è successo alla tua famiglia a causa delle tue azioni. È questa la vera punizione. Sarebbe più facile essere giustiziati. Ti sparano un colpo in testa, cala il buio, tutto è finito. Invece qui hai occasione di fermarti a riflettere; la gente libera non ha questa opportunità, perché è tutta presa nel vortice della vita. Quando ero libero, ero cieco; adesso mi si sono aperti gli occhi. Non è che mi sono ravveduto, sono cambiato dal punto di vista spirituale. Se non mi avessero arrestato sarei ancora un criminale e non so se sarei ancora vivo, oggi. Con il passar del tempo la mia posizione cambia, ma quello che è stato non cambia. Poi c’è il senso di vergogna davanti alla mia famiglia e a tutti coloro che hanno sofferto a causa delle mie azioni. Vorrei chiedere perdono alle persone cui ho causato tanta sofferenza, vorrei chinare il capo e dire "Perdonatemi". Non è pentimento, è solo il primo passo. Il vero pentimento non è per niente facile. Camerun: un incendio scoppiato ieri notte nel carcere di Douala ha provocato 16 morti Ansa, 13 settembre 2015 Lo riportano media locali, aggiungendo che sembra che le fiamme siano partite dalla cucina ma non si sa se per un incidente o per dolo. Il carcere New Bell è stato costruito diversi anni fa per ospitare 700 detenuti ma attualmente ne ha circa 4.000. Egitto: condannati a morte 12 membri Isis, preparavano attacchi contro polizia ed esercito Askanews, 13 settembre 2015 Un tribunale egiziano ha confermato le condanne alla pena di morte pronunciate contro 12 persone, accusate di appartenere all’Isis e di aver pianificato attentati contro la polizia e l’esercito. Il Mufti d’Egitto ha dato il suo parere positivo, come prevede la legge egiziana. Il mese scorso un tribunale della provincia di Charkiya aveva condannato alla pena capitale i componenti del gruppo per aver formato una "cellula terroristica" dello Stato islamico in Egitto. Sei membri del gruppo sono in carcere, altri sei sono stati condannati in contumacia. In questi ultimi mesi centinaia di poliziotti e soldati sono rimasti uccisi in attacchi jihadisti, in particolare nel nord della Penisola del Sinai, roccaforte della costola egiziana dell’Isis. Francia: attaccano furgone della penitenziaria francese e fanno evadere detenuto 17enne swissinfo.ch, 13 settembre 2015 Spettacolare evasione nell’hinterland di Parigi. Intorno alle undici di ieri mattina, un furgone della Polizia Penitenziaria è stato attaccato mentre trasportava un detenuto dal carcere di Fresnes all’ospedale Kremlin-Bicêtre. All’arrivo del furgone nel centro medico, due individui armati hanno bloccato gli agenti ed estratto "di forza" il detenuto. Durante l’operazione è stato anche sparato un colpo d’arma da fuoco ma non ci sono feriti. I tre uomini sono fuggiti a piedi. Il detenuto evaso grazie all’aiuto dei complici ha 17 anni. Stava scontando una pena a sei mesi di prigione per furto aggravato.