Giustizia: il ministro Orlando "l’amnistia non servirà, a fine anno risolto il nodo carceri" di Marco Menduni Il Secolo XIX, 12 settembre 2015 L’amnistia in Italia none necessaria dal punto di vista puramente fisico "perché entro fine anno le carceri non saranno più sovraffollate". Lo dice il ministro della Giustizia Andrea Orlando, che però non trascura i problemi etici posti recentemente dal Papa. Parola fine al sovraffollamento nelle carceri alla fine dell’anno. Riforma della giustizia alla volata finale, anche se rimangono gli scogli delle intercettazioni e dell’assetto del Csm, la proposta di attribuire il Nobel per la Pace alla nostra marina militare che ha salvato migliaia di vite nel Mediterraneo. E per il Pd ligure, dopo la sconfitta alle urne e la crisi interna del partito, un consiglio: non cercare di "fare lo sgambetto" alla giunta Toti, ma tentare di imporre una piattaforma alternativa nata sul territorio. Così il ministro della Giustizia Andrea Orlando. che sarà ospite questa era alla festa de l’Unità di Genova, alle 21. Giustizia e riforma, un anno in trincea. "Il primo provvedimento è stato del settembre 2014, cui ne sono seguiti molti altri. Non abbiamo fatto una riforma in un unico testo, ogni singolo punto rinviava a singoli provvedimenti che in gran parte sono stati approvati. Molti stanno producendo effetti che vanno al di là delle nostre aspettative, anche quelli che non sono davvero strutturali ma, chiamiamoli così, di pronto soccorso, i dati sul processo civile sono molto positivi". Nel percorso della riforma è arrivata la richiesta di Papa Francesco di un’amnistia. "Credo siano i fatti a suggerire le risposte. Tutti i nostri dati, le nostre proiezioni, ci portano a pensare che nei prossimi mesi, entro la fine dell’anno, nella carceri italiane saremo a quota zero sovraffollamento. Potremo arrivare, grazie ai nostri provvedimenti e all’inaugurazione di nuovi istituti, a tanti posti regolari quanti detenuti. Le carceri-inferno potranno essere superate, anche se le parole del Pontefice pongono anche a noi laici un tema più grande, quello del senso della pena e della sua finalità di riabilitazione, della possibilità di offrire ai detenuti un riscatto. Questo obiettivo non si realizza solo con i metri quadri". A che punto siamo nel cammino della riforma? "A due terzi del percorso, anche se non mi nascondo che davanti a noi rimangono scogli molto delicati dal punto di vista politico. Penso al tema delle intercettazioni, sul quale occorrerà ancora del lavoro dopo l’approvazione della delega, mentre sono convinto che sul la prescrizione manchino solo pochi punti per chiudere un provvedimento che è già passato alla lettura della Camera". Poi la riforma del consiglio superiore della magistratura. "Sì, l’altro grande tema sul piatto, il funzionamento del Csm. Il nostro intento non è quello di limitare, ma anzi di valorizzare la funzione di autogoverno come presupposto dell’autonomia della magistratura. Tendiamo a un intervento che garantisca più trasparenza, senza modificare gli equilibri costituzionali". Mai, ad esempio, due Csm distinti per pm e giudici? "No, questo comporterebbe modifiche costituzionali che ritengo sbagliate. Però, a mio avviso, due punti sono fondamentali. Il primo: la legge elettorale dei membri togati, che è il presupposto dei criteri nella selezione di chi deve andare a dirigere gli uffici. Il tema dell’appartenenza non deve influenzare la carriera dei magistrati, Poi ci vuole maggior separazione tra le funzioni disciplinari e quelle di carattere amministrativo. Chi giudica non nomina, è il presupposto, Nel Csm le cose vanno distinte, la commistione rende tutto meno trasparente". Il tentativo è quello di mettere la parola fine alla politicizzazione della giustizia? "Siamo nella fase in cui il rischio non è la politicizzazione, ma la burocratizzazione della magistratura, una visione ripiegata su una dimensione interna. Di politicizzazione ormai parlerei molto meno, perché le grandi vicende globali, anche di livello europeo, hanno costretto la politica a riprendere una visione, un primato". La prima tra le grandi vicende globali è sicuramente l’immigrazione... "Nell’attuale situazione l’Italia, sin dall’inizio, ha perseguito una posizione di umanità, ma realistica. Chiudere le vie di fuga ai rifugiati non corrisponde alla nostra cultura e sarebbe anche irrealizzabile, l fatti si sono incaricati di dimostrare questo dato e la nostra posizione ha assunto forza in Europa, L’Italia ha svolto un ruolo positivo nell’emergenza e sostengo la proposta di assegnare il premio Nobel per la pace alla Marina militare italiana". Il resto d’Europa è comunque arrivato in ritardo e molti Stati hanno preso consapevolezza della gravità del problema solo quando ne sono stati toccati direttamente. "Ho inaugurato al ministero, riprendendo un’esperienza fatta nel tribunale di Genova, una targa dedicata ai magistrati liguri caduti nella lotta di Liberazione. Ho ricordato che i nostri morti sono stati tantissimi: sarebbero stati ancora di più se qualcuno avesse chiuso le porte. Di fronte a questo esodo di carattere umanitario, alla fuga di chi preferisce rischiare la vita nel Mediterraneo piuttosto che avere la certezza di perderla, se avessimo fatta nostra un’assurda richiesta di chiusura avremmo reso più difficile la presa di consapevolezza dell’Europa". Il caso Pd in Liguria. Alla Festa de L’Unità, di cui sarà stasera ospite, si percepisce il disorientamento della base. "Dopo una sconfitta non attesa c’è sconcerto, a volte non si sa come reagire, lo penso che David Ermini (il commissario, ndr) sia un dirigente politico in grado di dare un contributo alla ripartenza. Ma il grosso tocca ai dirigenti locali". Anche all’interno del partito si continua ad avvertire un’atmosfera di contrapposizioni molto elettriche. "Non ho intenzione di dare alcun contributo in termini di elettricità. Non ho risposto a rilievi che mi riguardano e che ritengo ingiustificati, proprio perché non voglio contribuire a far alzare la tensione". Anche il presidente Giovanni Toti, alla festa, ha raccolto qualche applauso. Ha accomunato Forza Italia e Pd, pur su fronti contrapposti, come partiti nel cui dna c’è la governabilità del Paese. "Sono d’accordo sul fatto che dobbiamo lasciarci alle spalle un bipolarismo di carattere muscolare, i vent’anni che ci hanno preceduto hanno detto che questo scontro così violento ha portato al massimo di promesse e al minimo di realizzazioni. Ci sono un’attesa e un’aspettativa, all’inizio di una legislatura, che avvantaggiano il centrodestra, lo credo però che le posizioni moderate entreranno presto in conflitto con quella dose populista utilizzata per far bottino elettorale". Il ruolo del Pd dopo una sconfitta non attesa? "Non dobbiamo cercare di fare lo sgambetto, ma proporre e imporre una nostra piattaforma alternativa, costruita nella e con la società ligure". Le riforme costituzionali tra i distinguo della minoranza Pd e le fibrillazioni all’interno di Ncd. "La situazione, lo ammetto, è complessa, ma sono convinto che supereremo questo passaggio, Non penso che nessuno voglia veramente pregiudicare una ripresa di cui si avvertono i primi segnali e un percorso di riforme dal quale iniziamo a raccogliere i frutti". Giustizia: e così Monsignor Fisichella corregge il Papa "misericordia… non è amnistia" di Valter Vecellio Il Garantista, 12 settembre 2015 Monsignore è uomo di mondo; frequenta salotti dabbene, parla con linguaggio forbito, i toni sono felpati, di chi da sempre vive in Curia: non "puzza" di pecora o montone. Codogno, nella bassa Lodigiana, non è un paese "quasi alla fine del mondo"; e poi i suoi talenti li sa ben mettere a frutto: sacerdote per la diocesi di Roma grazie al cardinale Ugo Poletti, professore di teologia presso la Pontifica Università Gregoriana, rettore della chiesa di San Gregorio Nazareno, cappellano della Camera dei Deputati, vescovo ausiliare di Roma grazie al cardinale Camillo Ruini, magnifico rettore della Pontificia Università Lateranense; è monsignore a far da "ponte" tra l’Oriana Fallaci degli ultimi mesi e il papa ora emerito Benedetto XVI; e una quantità di altri carichi e incarichi, Congregazioni, Collegi Pontifici, Comitati: un vero labirinto da cui nessun filo d’Arianna ti salva, se non sei ben inserito nelle cose vaticanesche. Da ultimo la "regia" del Giubileo straordinario per la misericordia, visto che è stata affidata al Pontificio Consiglio per la Promozione della nuova Evangelizzazione, da monsignore è presieduto. Monsignore, si sarà forse capito, è Rino Fisichella. Perché occuparsi di monsignore? Mettiamola così: è sicuro che l’attuale papa, francescano e insieme gesuita, sangue italiano nelle vene, ma con esperienza anche di natura "altra", aliena, da quella che si respirava fino a poco fa nelle cabine del potere vaticano, ha impresso una sua "perestrojka" i cui esiti sono certamente da più d’uno temuti, da altri seguiti con apprensivo interesse. Il Gorbaciov di San Pietro sa bene quale sia la situazione reale del "regno" terreno cattolico: le sue degenerazioni, i pericoli che corre, gli scismi, sommersi e silenziosi, che l’attraversano e scuotono. "Sa", e tenta una sua glasnost, una sua perestrojka, nel tentativo di salvare il salvabile, e impedire l’inevitabile disastro, se ci si continua a cristallizzare su posizioni e "sacralità" che non hanno più presa, non sono più "colla" e "mastice" per quasi nessuno. Il francescano che crede nella fede liberatoria, e il gesuita che lucidamente prende atto di una situazione, oggi convivono perfettamente nel soglio di Pietro; quello che accade è l’espressione di questo doppio, parallelo, binario. Ovvio, umano, che vi siano resistenze; che interessi anche molto concreti, consolidati e sedimentati si oppongano; che i Ruini, i Bertone (tanto per fare due nomi), non si rassegnino a essere messi completamente fuori gioco. Questo pontefice, quasi sempre dice cose "normali"; perfino banali, se di vuole. Pensate un po’: rammemora quel brano del Vangelo di Matteo che parla di come, giunto il Giudizio Universale, l’umanità verrà giudicata: "…saranno riunite tutte le genti, ed egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dai capri, e porrà le pecore alla sua destra e i capri alla sinistra…Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi. In verità vi dico: ogni volta che non avete fatto queste cose a uno di questi miei fratelli più piccoli, non l’avete fatto a me. Poi dirà a quelli alla sua sinistra: Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli. Perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare; ho avuto sete e non mi avete dato da bere; ero forestiero e non mi avete ospitato, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato". Un pontefice che cita il Vangelo; normale, no? A quanto pare è proprio vero; questi sono tempi dove essere "normali" è cosa straordinaria. Così, ecco monsignore. Preoccupato, affannato, spiega e chiarisce che il Papa non intende chiedere al Governo un’amnistia. Proprio no: il suo è un discorso generale e pastorale. L’autentica interpretazione è in un’intervista pubblicata su Tempi, la rivista vicina a Comunione e Liberazione. È vero: papa Bergoglio sostiene che il Giubileo "ha sempre costituito l’opportunità di una grande amnistia destinata a coinvolgere tante persone che, pur meritevoli di pena, hanno tuttavia preso coscienza dell’ingiustizia compiuta e desiderano sinceramente inserirsi di nuovo nella società…"; ma questo, scandisce monsignore, non significa che ci sia alcuna intenzione di "rivolgersi al Governo e agli Stati". Se vorrà farlo, ci illumina monsignore, "troverà le forme perché abbia ad essere un messaggio rivolto ai governi e agli Stati", ma questa forma non è sicuramente "una lettera scritta per il Giubileo". Stiano insomma tranquilli, a palazzo Chigi e negli altri luoghi del potere reale, quanti si sono allarmati per la sortita papale. In Curia c’è chi "lavora" e vigila; c’è sicuramente chi trema, c’è, certamente, chi trama. Come sia, spirito francescano o pragmatismo gesuita, questo papa dieci ne pensa, dieci cerca di farne. Ha anche avuto la bella idea di chiedere a ogni comunità religiosa di accogliere almeno una famiglia di rifugiati; è sempre in linea con quel passo del Vangelo di Matteo, anche se bello spirito ne approfitta per dire che è un "comunista". Un bello spirito che non ha neppure l’intelligenza di comprendere quale sia l’interesse, l’investimento opportuno e necessario, per il prossimo futuro. Al contrario, mostra di averlo compreso la tedesca Angela Merkel; la cui politica non è solo "caritatevole": alla lunga si dimostrerà redditizia e produttiva. Comunque, l’appello papale, e la tragedia, l’Olocausto, come lo definisce Marco Pannella, almeno una riflessione, un dibattito, un confronto, lo dovrebbero provocare; e far si che, almeno, ognuno di noi faccia i conti con se stesso. Stesso discorso per "l’interpretazione" autentica fornita da monsignore sulla questione amnistia (che riguarda le carceri, ma anche, si tende a dimenticarlo, la più generale questione Giustizia). Invece niente. Si tace, manca il confronto, il dibattito, anche quello duro, urticante. Benissimo Casamonica in studio; ma un Fisichella-Pannella perché lo si nega? Non fosse altro per ricordarci che c’è un Matteo migliore di quelli offerti quotidianamente, il Renzi e il Salvini. Nelle prigioni e nei palazzi di giustizia si consuma anche lì un Olocausto: di diritto, di legalità, di persone. Sono almeno 32 i suicidi nelle carceri dall’inizio dell’anno. 78 i detenuti morti nel corso degli ultimi otto mesi. Dal 2000 e fino al 31 agosto 2015, in 875 si sono tolti la vita; 2.450 i decessi, considerando anche le morti per cause naturali e incidenti. "Una realtà che ci umilia in Europa e ci allarma", ha detto Giorgio Napolitano quand’era presidente della Repubblica. Poi, con il messaggio inviato alle Camere, ha posto solennemente l’accento sull’obbligo di uscire immediatamente, prefigurando anche provvedimenti di amnistia e di indulto, da una condizione di manifesta illegalità. Di carne ce n’è. Occorrerebbe un fuoco. Giustizia: donne, detenute e abbandonate… la discriminazione corre dietro le sbarre di Anna Dichiarante L’Espresso, 12 settembre 2015 Negli istituti di pena italiani la popolazione femminile è nettamente minoritaria rispetto a quella maschile. Il numero esiguo delle recluse, però, diventa spesso causa di svantaggi ed emarginazione. Perché organizzare attività ricreative, culturali o lavorative e garantire i diritti che l’ordinamento penitenziario sancisce solo per loro non conviene. Quando si è in minoranza, è ovvio, non si è mai in una posizione di forza. Quando la minoranza è composta di donne, poi, le cose possono andare anche peggio. Così, paradossalmente, il fatto (di per sé positivo) che nelle carceri italiane la popolazione femminile sia nettamente minoritaria si trasforma nell’ennesimo motivo di discriminazione. Su un totale di 52.389 detenuti nei nostri istituti penitenziari (dato aggiornato al 31 agosto scorso), le donne sono 2.131. Il quattro per cento circa dell’intera popolazione carceraria, una percentuale che le costringe a subire una serie di limitazioni nel corso della loro vita dietro le sbarre. Del problema si sono resi conto anche gli esperti che, per conto del Ministero della Giustizia, stanno elaborando una serie di proposte in materia di riforma dell’ordinamento penitenziario. A luglio, infatti, il ministro Andrea Orlando ha inaugurato gli Stati generali dell’esecuzione penale, una piattaforma di studio suddivisa in 18 tavoli, ciascuno dei quali incaricato di approfondire un tema specifico tra le numerose problematiche che ruotano intorno al mondo delle carceri. E delle donne detenute si occupa il tavolo tre, coordinato da Tamara Pitch, docente di Filosofia del diritto presso l’Università di Perugia. Il lavoro del gruppo si è rivelato non facile già dall’inizio, perché la suddivisione per temi ha ridotto il suo ambito di azione: in altre parole, la questione femminile è trasversale e, per forza di cose, s’interseca con altri aspetti, come la salute, l’affettività, il disagio psichico, il lavoro, la formazione e così via. Il team della professoressa Pitch, quindi, rischia spesso di sconfinare nella competenza degli altri tavoli e di doversi limitare a prendere in considerazione la sola tutela della maternità in carcere. Tralasciando problemi altrettanto importanti, tra cui, appunto, la possibilità che le donne siano svantaggiate. "Il numero delle detenute, esiguo rispetto a quelli degli uomini, non può diventare un alibi per la concessione di privilegi, ma non deve nemmeno trasformarsi in un motivo per negare le loro specificità o per precludere l’accesso a diritti sacrosanti", spiega Laura Cesaris, docente di Diritto dell’Esecuzione penale a Pavia e membro del tavolo tre. Innanzitutto, il principio della territorialità della pena, garantito per legge, viene spesso violato: su 198 istituti penitenziari sparsi per le venti regioni italiane, le donne sono dislocate soltanto in una cinquantina, visto che non tutti sono dotati di sezioni femminili. Il che significa una maggiore probabilità di spostamenti e di allontanamento dal luogo in cui la detenuta viveva o in cui restano i suoi familiari. Ma non solo. Le discriminazioni esistono anche per quanto riguarda il cosiddetto trattamento penitenziario, ossia quell’insieme di iniziative e di strumenti che l’ordinamento predispone, affinché l’espiazione della pena corrisponda ai principi costituzionali e tenda alla rieducazione del condannato, oltre che al suo reinserimento in società. Il lavoro, per esempio. Oppure le attività culturali, sportive o scolastiche. Ecco, anche da queste le donne finiscono talvolta per essere escluse per mancanza di organizzazione. O meglio, perché l’organizzazione non conviene: troppo poche le detenute, troppe, in proporzione, le risorse da spendere per attività a loro dedicate. Capita così che in alcuni penitenziari gli uomini abbiano l’opportunità di coltivare la terra e imparare a fare gli agricoltori, mentre le donne no; capita che quelle che vengono chiamate ‘aree verdì, cioè spazi all’aperto in cui i detenuti possono incontrare i familiari senza la presenza delle guardie, siano spesso accessibili solo a papà e mariti. Capita persino che le palestre per fare sport siano prevalentemente occupate dalle sezioni maschili. Ma soprattutto succede che i servizi sanitari e la prevenzione di malattie gravi, già carenti a livello generale, siano ancora più inefficienti per la popolazione carceraria femminile perché non adeguati alle necessità fisiologiche delle donne. "Le segnalazioni di discriminazioni ci sono state. Abbiamo fatto ispezioni e abbiamo in programma di farne in altri istituti dove si sospetta avvengano delle violazioni", continua Cesaris. Che ricorda, poi, come al 31 agosto 2015 nelle carceri italiane vivano ancora 38 bambini. Anche l’aspetto della genitorialità, infatti, resta un problema: "Per evitare che questi bambini siano costretti a essere reclusi insieme alle madri, a causa della mancanza di un domicilio sicuro dove sistemarli, si dovrebbero incrementare gli istituti a custodia attenuata e le case-famiglia protette". Per rendersi conto della situazione, però, basta sapere che al momento, nel nostro Paese, esistono solamente tre istituti a custodia attenuata e una casa-famiglia. Entro il 15 ottobre prossimo, comunque, gli Stati generali dovranno concludere il loro lavoro, ma già il il 15 settembre presenteranno un primo resoconto: "In quel documento noi del tavolo sulle donne e il carcere esporremo le nostre perplessità e inizieremo a fare proposte - prosegue Cesaris -. Bisogna considerare, tuttavia, che nemmeno il nostro compito è agevole perché le donne subiscono una discriminazione nella discriminazione: persino nel monitoraggio a fini statistici effettuato dal Ministero finiscono per essere un po’ dimenticate". Vale a dire che i dati diffusi dall’amministrazione penitenziaria spesso sono globali e questo rende impossibile distinguere tra uomini e donne. Cosa che succede, per esempio, nella conta degli atti di autolesionismo o dei suicidi: "Estrapolare il dato femminile per il 2014 non è stato semplice - ammette la professoressa -. Alla fine comunque siamo riusciti a registrare un decesso, 57 tentati suicidi e 362 atti di autolesionismo". Numeri abbastanza impressionanti, se confrontati con il totale delle detenute in Italia. Forse sono sintomo di un disagio ancora più accentuato di quanto non lo sia quello degli uomini. E allora, quali soluzioni? "Noi non possiamo intervenire nel concreto, non abbiamo poteri di azione o di sanzione e non possiamo certo compiere verifiche in ogni singolo istituto - conclude Cesaris. Quello che si dovrebbe fare, da parte dell’amministrazione penitenziaria e del Ministero, è incrementare le risorse, le strutture e gli strumenti, in modo che siano sufficienti a rispondere ai bisogni di tutti. E poi, in particolare per le donne, si dovrebbero trovare delle vere alternative alla pena del carcere". Giustizia: un esercito di ragazzi via dalle aule scolastiche, Napoli non riesce a guarire di Marco Demarco Corriere della Sera, 12 settembre 2015 Rione Traiano, Forcella, la Sanità: Napoli ha una grande periferia nel cuore della città e questi, da sempre, ne sono i quartieri simbolo. Oscurati per oltre un ventennio dalla Scampia delle vele "sgarrupate", delle faide e delle fiction di camorra, questi quartieri un tempo dominati da boss come Giuliano, Misso o Mazzarella, sono tornati a far paura. È qui che ora si spaccia. E si spara: anche con i Kalashnikov. Alla Sanità, quartiere troppo frettolosamente dipinto come "risorto", domenica è stato ammazzato il diciassettenne Gennaro Cesarano. Ieri i funerali. Mille persone in piazza, padre Alex Zanotelli che dice: "Dobbiamo far qualcosa per cambiare le cose", e uno striscione con la scritta: "La camorra ci ha ucciso" strappato con protervia e portato via. I tre vizi capitali Napoli riannoda dunque i fili della sua storia peggiore. E riaffiorano tre vizi capitali. Il primo. Eludere il problema della repressione. Guai a parlare di "militarizzazione" dei quartieri di camorra. Una parte dell’opinione pubblica non gradisce. Eppure, ecco cosa dice Ernesto Albanese, dell’associazione "L’Altra Napoli", che da dieci anni collabora con padre Antonio Loffredo proprio alla Sanità. "Cerchiamo di valorizzare talenti, ad esempio con l’orchestra giovanile Sanitansamble, o con la scuola di teatro. O con le visite guidate alle catacombe di San Gennaro: 60 mila turisti paganti in 4 anni, 20 ragazzi occupati. Ma la cosa che sconforta è che ancora manca un costante presidio del territorio". Il secondo. Cantare troppo presto vittoria. A giugno ci sono stati sessanta arresti a Forcella. Sgominata la paranza dei bambini, titolarono i giornali, perché molti di quelli presi erano giovanissimi. "Adesso bisogna occupare gli spazi che noi abbiamo liberato e riconsegnarli alle persone oneste", commentò nell’occasione il procuratore Colangelo. Liberato? Pochi giorni dopo, il 4 luglio, viene ammazzato il baby boss Emanuele Sibillo, e si ricomincia daccapo. Il terzo. Concepire la camorra solo in relazione alla corruzione politica. Come se senza questa non potesse esserci quella. Un errore già commesso da Bassolino, quando divenne sindaco negli anni 90, e ora ripetuto da de Magistris, quando rimprovera a Saviano di identificare Napoli con Gomorra, o quando dice che "Napoli non è meno sicura di Milano". È vero: i dati del Viminale elaborati dal Sole 24Ore dicono che nella classifica del rischio la prima è Milano. Napoli è quarantunesima. Qui si commettono 4.370 reati ogni 100 mila abitanti. A Milano 8.345. A Roma 6.400. Ma allora perché, a sparatorie avvenute, dichiarare l’emergenza e chiedere sostegno al governo? I giovani. Come è ormai evidente, la camorra sfugge non solo allo Stato e ai calcoli statistici, ma anche alle semplificazioni e alle strumentalizzazioni politiche. Jason Pine, antropologo newyorkese autore di The art of making do in Naples, l’ha studiata sul campo per dieci anni. Risultato: "Ogni volta che pensavo di avere capito qualcosa - confessa - qualcuno contraddiceva la mia idea, anche magari la stessa persona che aveva affermato quel che credevo di aver capito". E infatti Alessandra Clemente, giovane assessore comunale che si occupa dei giovani, non si dà pace. Nel 1997, nel corso di una sparatoria, la camorra le uccise la mamma, Silvia Ruotolo. Allora Alessandra andava alle elementari. Era appena tornata da scuola, sentì un rumore secco proveniente dalla strada, si affacciò e vide la madre accasciarsi abbandonando lentamente la mano di Francesco, suo fratello. "Spero non accada mai più", scrisse Alessandra in un tema. Macché. Oggi la Campania conta 100 clan camorristici, solo Napoli ne ha 50. "La ragione - spiega Alessandra - è semplice. Mia nonna, a vent’anni, cuciva i guanti alla Sanità. Lavorava. Ora fabbriche non ce ne sono. E in più si è allentato il rapporto con la scuola per effetto dell’abbandono e della dispersione. Il risultato è un esercito di ragazzi ombra: io li chiamo così. Non più a scuola, non ancora in carcere. Nessuno sa quanti siano veramente, dove siano, e cosa facciano". E allora? "Io - risponde - mi impegno notte e giorno, il sindaco de Magistris mi ha voluto per questo. Ma se posso dirlo, spero ne arrestino molti e il prima possibile, perché molti di questi ragazzi sono morti che camminano. Almeno l’arresto gli salva la vita". Anche per Raffaele Cantone, presidente dell’Anticorruzione, il punto centrale è l’evasione scolastica. "L’abbiamo fatta dilagare a livelli che non sono da città italiana, mentre è qui che si forma il serbatoio della camorra". Il nodo delle scuole Nella top ten delle scuole italiane in cui si boccia di più, elaborata dal sito Skuola.net, ce ne sono ben cinque napoletane. Al primo posto svetta l’Istituto professionale De Sanctis, con oltre il 58% di bocciati. Metà bocciati e metà promossi, invece, all’Istituto tecnologico Elena di Savoia, che si qualifica a mezza classifica anche per l’indirizzo turistico. Ottavo e nono posto, infine, per gli istituti professionali Bernini e Colosimo. Cinque su dieci. Uno scandalo nazionale. Ma era così anche l’anno scorso. Rossella Grasso, praticante giornalista, ne fece una video inchiesta. Le hanno dato anche un premio, ma a Milano, il Sara Bianchi. Punto. In quell’inchiesta, un prof raccontava di un ragazzo con troppe bocciature e troppe assenze non più accettato come iscritto a scuola. Lo stesso ragazzo, l’anno successivo, si è presentato, per giorni e giorni, davanti ai cancelli dell’istituto. Si faceva vedere, e se ne andava. I ragazzi in cura, o in osservazione, presso il nucleo operativo distrettuale di Rione Traiano, diretto dal neuropsichiatra infantile Camillo De Lucia, sono 7.757, più di un contingente europeo in un teatro di guerra. Hanno problemi di adattamento o gravi ritardi nell’apprendimento. Li segnalano i genitori o, più spesso, le scuole. Davide Bifolco, ucciso a settembre nel corso di un inseguimento da un militare dell’Arma, era in cura da De Lucia. Poi c’è il problema degli stranieri. Nelle scuole di Napoli, scrive Il Mattino, i figli degli immigrati sono 3.500: quanti a Udine e meno che a Piacenza, mentre a Roma sono 39 mila, a Milano 35 mila, a Torino 23 mila. La fuga degli abitanti. Ma a Napoli non si svuotano solo le scuole. Si svuota la città. Vanno via le giovani coppie in cerca di fitti meno cari, vanno via i disoccupati in cerca di lavoro, vanno via gli studenti in cerca di scuole e università migliori, e ora vanno via anche i professori in cerca di stabilità: secondo la Cgil sono tremila in Campania, almeno 1.600 nel capoluogo. Napoli, ormai scesa sotto il milione di abitanti, è la città con la più alta percentuale di spopolamento in Italia. Nel decennio 1982-1991 ha perso 129 mila abitanti, più del 10% dell’intera popolazione. C’era stato il terremoto, è vero. Ma il fenomeno è continuato anche nel decennio successivo. Negli anni tra il 1991 e il 2002, la perdita è stata di 83.330 unità. E l’emorragia non si è fermata neanche quando ovunque c’è stata una inversione di tendenza. Tra il 2002 e il 2011 Roma ha aumentato la sua popolazione di oltre 200 mila abitanti; Milano di quasi 70 mila, Torino di circa 45 mila. Napoli ne ha persi altri 45 mila. Il vuoto più clamoroso, però, è quello di Bagnoli. Un quarto di secolo fa la dismissione dell’Italsider. Poi più nulla. Ora c’è il commissario alla bonifica, Salvo Nastasi. C’è voluto un anno solo per nominarlo. E manca ancora l’atto ufficiale da notificare al sindaco, pronto a respingerlo con la bandana in testa. Gli industriali napoletani implorano de Magistris perché collabori con Renzi. Lui non vuole saperne. Con Renzi sarà guerra, dice. Di carte bollate, in questo caso. Giustizia: Antigone "sul reato di tortura una legge annacquata, meglio non approvarla" di Leonardo Rosa estense.com, 12 settembre 2015 Alla quattro giorni della festa Pd di via Bologna viene affrontato un tema dibattuto e quanto mani delicato, specie nel decennale della morte di Federico Aldrovandri, come l’introduzione del reato di tortura nel nostro ordinamento. I relatori sono il senatore democratico Sergio Lo Giudice e Stefano Anastasia (Presidente onorario Antigone) mentre a moderare il dibattito è stato chiamato il consigliere di Sel Leonardo Fiorentini. E proprio quest’ultimo introduce l’incontro "Quando sono stato contattato per questo appuntamento non ho avuto dubbi sulla data - confessa Fiorentini, l’11 settembre ha visto svolgersi fatti storici particolarmente significativi per questo tema. Nel 1973 il golpe di Pinochet mise fine al governo di Salvador Allende e per il Sudamerica si aprì il periodo più tragico dal dopoguerra in avanti in termini di torture e repressioni per decine di migliaia di attivisti di sinistra. Poi è arrivato il 2001, l’attentato delle Torri Gemelle a cui seguirono, nel corso della gestione Bush, i casi di Abu Ghraib e di Guantánamo, recentemente chiuso. La Convenzione Onu contro la tortura risale addirittura al 1984, ratificata dal nostro Paese nel 1989, seppure non sia mai entrata nel nostro ordinamento una legge per disciplinare questo reato. In mezzo numerosi casi eclatanti, cominciando da Federico Aldrovandri, dato che siamo a Ferrara, senza dimenticare Bolzaneto e la vicenda Cucchi, tornato di cronaca in questi giorni per le novità processuali. Il disegno di legge sull’introduzione del reato è fermo al Senato per le pressioni delle forze dell’ordine e per una certa ignavia della politica. E visti gli ultimi emendamenti comincio a pensare se non sia meglio ritirare il disegno di legge piuttosto che avere una norma totalmente annacquata e priva del suo intento iniziale". Parere molto simile a quello del senatore Sergio Lo Giudice che ripercorre il difficile iter della legge. "Quando si passa più volte da una Camera all’altra e ciascuna apporta modifiche, spesso si arriva a un testo accidentato, come per questa proposta di legge che ora è ferma al Senato. È bene però ricordare che la tortura non disciplina le ferite o la morte di un prigioniero, perché per quello esistono già altre norme. Il nocciolo è il rapporto tra lo Stato e i cittadini. Si tratta - spiega il senatore democratico - della difesa del diritto all’incolumità del cittadino nel momento in cui è affidato nelle mani dello Stato, cioè nel momento in cui dovrebbe ricevere la massima tutela. Nelle prime bozze il ddl aveva come destinatari solamente i pubblici ufficiali, quindi gli esponenti delle forze dell’ordine. Poi è stato esteso ad altre figure che detengono autorità o potere su persone indifese, tra cui gli operatori di strutture di case di riposo, giusto per fare un esempio. E se anche sono previste aggravanti per i membri delle forze dell’ordine, ciò ha sviato lo spirito della legge. Così come l’emendamento che prevede "atti di violenza gravi e reiterati". A volte - sottolinea Lo Giudice - una tortura può essere tale senza bisogno di essere reiterata. Più in generale questa legge che tenta di nascere ha dei forti limiti. Il primo è dato dal fatto che in Parlamento ci sono maggioranze composte da partiti che hanno sensibilità diversissime sui diritti umani. La seconda è per via delle forti resistenze delle forze dell’ordine. Nel corso dell’audizione in Senato il capo della Polizia Pansa, insieme al pari grado della polizia penitenziaria, hanno fortemente contestato il testo inizialmente proposto definendolo un attacco diretto alle forze dell’ordine anche se sappiamo bene che lo spirito è ben altro, oltre al fatto che è la comunità internazionale a chiederci di prevedere questo reato nel nostro ordinamento. Al momento quindi non sappiamo che tipo di proposta emergerà dai successivi passaggi parlamentari". È poi il turno di Stefano Anastasia che sottolinea come "nessuno in Italia abbia avuto il coraggio di definire legittima la tortura, cosa invece che è capitata in America. Nel nostro Paese però avviene un processo diverso che è quello dell’insabbiamento. Non dimentichiamo che nella Costituzione è presente un solo richiamo diretto alla punizione, è quello dell’articolo 13, relativo alle violenze sulle persone comunque sottoposte a restrizione della libertà, perché molti dei costituenti avevano subito torture in carcere. Il problema italiano - rincara la dose Anastasia - è che non si vuole dire che questo è un reato contro le forze dell’ordine, perché non si ammette che dentro le forze dell’ordine esistono singoli che possono fare errori, commettendo dei reati. È per questo motivo che un disegno di legge su questo reato non è ancora stato approvato dal 1989. Senza contare il fatto che tutti i ddl presentati su questo punto sono stati di iniziativa parlamentare, mentre la ratifica di convenzioni internazionali spetterebbero al Governo". Giustizia: caso Cucchi, indagare sui carabinieri si può, si appuri la verità senza pregiudizi di Luigi Manconi e Valentina Calderone Il Manifesto, 12 settembre 2015 E dunque avevano ragione Ilaria Rita e Giovanni Cucchi a chiedere nuove e più rigorose indagini sulla morte di Stefano. Innanzitutto per l’esistenza di un dato enorme che più che taciuto - perché tacerlo sarebbe stato impossibile - è stato quasi completamente rimosso: ed è il fatto che ben due sentenze hanno affermato che Stefano Cucchi ha subito violenze e abusi, pur senza poter individuare i responsabili, ma appunto avendo accertato che violenze e abusi ci sono stati, inequivocabilmente. Lo scoramento e la frustrazione suscitati da quei verdetti, e derivanti tanto dalla vista delle foto del corpo straziato di Stefano (non è necessario essere un medico legale per spiegarsi cosa gli sia accaduto) quanto dalle parole di impotenza scritte dai giudici (insufficienza di prove, impossibile accertare oltre ragionevole dubbio i responsabili delle violenze), non possono essere facilmente cancellati. Nonostante questo, oggi abbiamo almeno due elementi sui quali riflettere. Il primo, è che l’inchiesta bis sulla morte di Stefano Cucchi offre una conferma importante: concorda nel dire che non si è fatto abbastanza e quel che si è fatto non si è fatto bene, e afferma la necessità di continuare a indagare. Sia chiaro: non è ancora una svolta decisiva, ma è un passo avanti. La seconda evidenza è che oggi si indaga all’interno di un altro corpo dello Stato. Stefano Cucchi, nei suoi sei giorni di detenzione, ha compiuto quella che noi abbiamo ribattezzato una vera e propria via Crucis: ha attraversato una lunga serie di luoghi istituzionali, incontrando uomini in divisa, medici e infermieri, operatori e volontari. È stato portato due volte nella caserma Appia, in quella di Tor Sapienza, nelle celle di sicurezza del tribunale di Piazzale Clodio e poi nell’ambulatorio, nel carcere di Regina Coeli, nell’ospedale Fate Bene Fratelli, poi nuovamente in carcere, questa volta in infermeria, e infine nel reparto detentivo dell’Ospedale Sandro Pertini. Molte tappe, che hanno rappresentato il suo calvario. Sappiamo le condizioni in cui Stefano Cucchi ha cominciato questo percorso: in salute, dopo aver lavorato tutto il giorno ed essere andato in palestra. Sappiamo anche come questo percorso sia finito: in un letto d’ospedale, cadavere da ore senza che nessuno se ne fosse accorto, con molti chili in meno attaccati alle ossa e il ventre gonfio di urina per via di un catetere posizionato male. Nel corso di questa agonia, molte persone hanno permesso che quell’ingranaggio, con una incredibile e colpevole inerzia, girasse fino a far sì che Stefano si "spegnesse" (così in un atto ufficiale). E ancora, fuori dall’ospedale, un medico rivolto a Rita Cucchi: "Signora, suo figlio si è spento". Ed ecco perché è tanto importante apprendere che la procura di Roma ha deciso di indagare tra i carabinieri perché, di quei molti passaggi, questo è stato l’unico a essere ignorato. Si è realizzata una sorta di cecità selettiva, grazie alla quale si è ostinatamente deciso, per anni, che quella parte della storia non meritasse di essere indagata. Chiedere di valutare la posizione di alcuni carabinieri non significa "avercela con i Carabinieri" (e non che non ve ne sia qualche ragione). Ma purtroppo, finora, ha prevalso il pregiudizio esattamente speculare, quello prontamente e fieramente proclamato dall’allora ministro della Difesa, Ignazio La Russa, che qualche giorno dopo la morte di Cucchi dichiarava: "Non sono in grado di accertare cosa sia successo ma di una cosa sono certo: del comportamento assolutamente corretto da parte dei carabinieri in questa occasione". Che Dio lo perdoni. Giustizia: Stefano Cucchi, la perizia che riapre il caso di Eleonora Martini Il Manifesto, 12 settembre 2015 Riscontrate, nelle nuove analisi, lesioni "recenti" e "traumatiche" su due vertebre. Gli ultimi esami medici voluti dai familiari del giovane morto nel 2009 smentisce i tecnici della procura e della Corte d’Assise. Quando Stefano Cucchi è morto aveva la terza vertebra lombare e la quarta vertebra sacrale fratturate "di recente" e in modo "assolutamente contestuale". A rivelarlo è una nuova perizia medica firmata dal professore Carlo Masciocchi, presidente della Società italiana di radiologia e direttore dell’Unità operativa di radiologia dell’Asl 1 di Avezzano - Sulmona - L’Aquila, consegnata ieri mattina alla procura di Roma da Ilaria Cucchi, la sorella del giovane morto il 22 ottobre 2009 nel reparto penitenziario dell’ospedale Pertini, e dal legale della famiglia, Fabio Anselmo. "Lesioni traumatiche", "determinate con alta verosimiglianza da un trauma compressivo", che non compaiono nel referto dei super periti della Corte d’Assise e dunque sono il grande tassello mancante di due processi finiti con l’assoluzione di sei medici, tre infermieri e tre agenti di polizia penitenziaria imputati, e ben sei anni di indagini e dibattimenti. Un altro tassello di "verità", questo, secondo i familiari, che si aggiunge alla testimonianza dei due carabinieri, un uomo e una donna, raccolta dal pm Giovanni Musarò che coordina l’inchiesta bis aperta dal procuratore capo Pignatone. Grazie alle rivelazioni dei due militari che hanno spontaneamente contattato la famiglia. "Non hanno assistito ai fatti, ma sanno come andarono le cose quella notte", riferisce Ilaria Cucchi - gli inquirenti hanno potuto approfondire anche un aspetto misterioso dell’arresto per spaccio di stupefacenti di Stefano Cucchi, avvenuto la notte del 15 ottobre ad opera di una pattuglia di carabinieri della stazione Appia: la mancanza della fotosegnalazione e del rilevamento delle impronte. Una procedura che inspiegabilmente venne omessa durante il fermo, malgrado Cucchi rimase una notte intera in una cella di sicurezza della stazione dei carabinieri di Tor Sapienza, e venne espletata soltanto il giorno successivo, quando, dopo l’udienza di convalida, il giovane arrestato entrò nel carcere di Regina Coeli. Nel registro degli indagati sarebbero così finiti un maresciallo, ex comandante della stazione Appia, e due carabinieri, accusati di falsa testimonianza e false attestazioni davanti ai pm che hanno condotto le precedenti indagini. La nuova perizia ora potrebbe accertare definitivamente ciò che la stessa Corte d’Appello aveva dato per assodato, cioè che Stefano Cucchi era stato picchiato selvaggiamente, verosimilmente in più occasioni, come peraltro hanno sempre sostenuto anche i familiari. Il professor Masciocchi che l’ha firmata smentisce le due relazioni stese dai periti della Procura, durante la prima fase delle indagini, e in seguito dall’Università Statale di Milano incaricata dalla Corte d’Assise per il primo grado del processo: "Le fratture traumatiche a livello di L3 e S4 riscontrate - scrive Masciocchi - sembrano essere assolutamente contestuali e possono essere definite, in modo temporale, come "recenti"" ovvero comprese in "una "finestra temporale" che, dal momento del trauma all’esecuzione dell’indagine radiologica o di diagnostica per immagini, è compresa entro i 7-15 giorni". Ma come sarebbe stato possibile omettere o trascurare tali lesioni nei referti ufficiali? "Ho la forte sensazione - scrive il presidente della Società italiana di radiologia - che sia stato esaminato un tratto di colonna che include solo metà soma di L3 fino alla limitante somatica superiore di L5. In altri termini penso che sia stato tagliato il soma di L3 includendo solo la porzione più distale e quindi la sola limitante somatica inferiore". In sostanza, i tecnici incaricati da procura e tribunale non avrebbero esaminato proprio quella parte lesionata della terza vertebra lombare di Stefano Cucchi. Il sito di informazione Altraeconomia ha chiesto spiegazioni sul punto ad uno dei tecnici, la radiologa ausiliaria Beatrice Feragalli dell’Università di Chieti e Pescara che esaminò la colonna vertebrale del cadavere: "La L3 non era valutabile nel nostro esame - afferma Feragalli - proprio perché era già stato sezionato l’osso, non era intera la vertebra". Giustizia: Scattone no, i terroristi sì… la strana morale dei forcaioli di Antonio Rapisarda Il Tempo, 12 settembre 2015 L’omicida di Marta Russo ha rinunciato alla cattedra. Dalla quale non sono mai scesi Curcio, Negri e gli altri. In Italia non tutti i "cattivi maestri" hanno la stessa sorte. Giovanni Scattone, ad esempio, non insegnerà più. Dopo le polemiche scatenate per l’assegnazione della cattedra di liceo (dove avrebbe dovuto tenere lezioni di Psicologia), l’ex assistente di Filosofia del Diritto condannato per l’omicidio di Marta Russo - e sempre proclamatosi innocente - alla fine ha scelto di rinunciare a insegnare per mancanza di serenità e per chiudere una polemica, come ha spiegato ieri il nostro direttore Gian Marco Chiocci, animata da una "gogna popolare che ha sancito la fine dello stato di diritto". Vale per tutti i "condannati" lo stesso ragionamento? Tutti hanno subito la stessa "gogna" di Scattone? Non proprio. In Italia, si sa, una cattedra - reale o virtuale - non si nega a nessuno: ci sono finiti ex terroristi, ex fiancheggiatori, condannati di tutti i tipi. Molti di questi la sinistra italiana - così veloce nell’invocare censure e limitazioni per Casa Pound in queste ore - si è ben guardata dall’isolarli o dall’osteggiare quando sono, letteralmente, saliti in cattedra o alla ripreso la ribalta con tesi non proprio in linea con la socialdemocrazia. Quella che vi proponiamo allora non è ovviamente una lista di proscrizione - lungi appunto dallo spirito del Tempo - ma un promemoria del doppiopesismo della sinistra all’italiana sì. "In Italia insegnano altri condannati - ha spiegato non a caso lo stesso Giovanni Scattone - e sono stati riabilitati tanti ex detenuti che hanno avuto condanne perfino più pesanti della mia. Penso ad ex brigatisti a cui è stata data la ribalta dell’università, a intellettuali stimati e ben retribuiti, ai cosiddetti "cattivi maestri" eletti". In cattedra, più volte, è finito appunto Renato Curcio, il fondatore delle famigerate Brigate Rosse. Lui ha messo in chiaro: "Io parlo solo del mio lavoro di ricercatore, il resto non mi interessa. Non salgo in cattedra e non sono un cattivo maestro". Se non sale metaforicamente in cattedra, resta il fatto che l’ideologo delle Brigate Rosse è stato invitato qualche anno fa, tra le altre, all’Università di Lecce in merito al suo libro "Il carcere speciale" e all’Università del Salento. E alle vibrate proteste del centrodestra - nel silenzio delle forze di centrosinistra - il professore e autore dell’invito replicava ai tempi: "Criticare l’invito di Renato Curcio a Lecce è un atto di intolleranza". E confermava: "Alza la voce solo certa politica". Decano della "cattedra" è anche Toni Negri, tra gli animatori di Potere Operaio, filosofo ed ex parlamentare eletto nelle liste radicali. Bene, il teorico dell’autonomia, che può "vantare" una condanna a dodici anni nel processo "7 aprile", è stato un habitué dei seminari della gauche negli atenei parigini e continua a essere un guru della sinistra no-global italiana. Più volte ospite della trasmissione L’Infedele di Gad Lerner in prima serata come "docente di Harvard", c’era chi ricordava al presentatore icona della sinistra televisiva che forse era necessario completare la descrizione dell’ospite con l’articolo di Potere operaio dove si invitano i proletari a colpire "il corpo fisico del potere" (Lerner ha replicato che "Negri ha da tempo saldato per intero i suoi conti, scontando fino all’ultimo la sua condanna detentiva"). Per alcuni dei protagonisti della stagione della contestazione, poi, se non ci sono stati ricollocazioni accademiche o mediatiche, il rientro nella scena non ha scatenato scandalo tra i benpensanti. Che dire, ad esempio, di Oreste Scalzone? Il capo di Autonomia Operaia è stato più volte invitato a tenere incontri dagli studenti universitari dei collettivi (incontri finiti spesso in "scontri") e anche di assemblee, come quelle tenute nel 2007 a La Sapienza dove fu invitato per ricordare la cacciata del leader della Cgil Lama. Anche un omicida pluricondannato come Cesare Battisti continua ad avere - tra Brasile e Francia - adulatori e sostenitori tutti di impronta rigorosamente progressista. Altri "ex" invece hanno avuto un vero e proprio posto di lavoro, altro che strali dalla sinistra di governo. È il caso di Franco Piperno, il fondatore di Potere Operaio nominato - dopo la condanna per banda armata e associazione sovversiva - nel 1998 assessore ai Vigili urbani a Cosenza dall’allora sindaco socialista Giacomo Mancini. Ma la ciliegina sulla torta è ciò che è successo nella giunta di Giuliano Pisapia (il censore della manifestazione di CasaPound) con Maurizio Azzolini "promosso" capo di gabinetto del vicesindaco di Milano Guida. Azzolini è rimasto nell’immaginario per alcune foto che lo ritraggono con la P-38 in mano il 14 maggio 1977 a Milano, giorno in cui morì l’agente Antonio Custra. Bene, per Pisapia Azzolini ha espiato la pena (non è suo il colpo che ha ucciso l’agente) e pertanto oggi può ricoprire "incarichi di responsabilità". In questo caso "l’opportunità politica" tanto sbandierata dal sindaco di Milano per giustificare il divieto imposto alla festa di CasaPound - associazione legalmente riconosciuta - non vi era. Altro peso, altra misura. Lettere: caro Orlando, trasformiamo le carceri in vere e proprie aziende di Riccardo Polidoro (Responsabile Osservatorio Carceri dell’Ucpi) Il Garantista, 12 settembre 2015 Il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha incontrato, a Roma, i direttori degli istituti di pena e i provveditori regionali per promuovere il necessario cambiamento dei modelli di detenzione e trattamento. L’imponente riunione, che ha visto coinvolte centinaia di dirigenti, s’inserisce nel percorso degli Stati generali dell’esecuzione penale, ai quali stanno lavorando moltissimi esperti suddivisi in 18 Tavoli tematici, ciascuno dei quali vede impegnate dieci persone. Una grande mobilitazione, dunque, voluta dal ministro per quella che ha definito una vera e propria "rivoluzione culturale", nel rispetto dei principi costituzionali e delle direttive europee. È la prima volta che un ministro incontra tutta la dirigenza dell’amministrazione penitenziaria . Se non rivoluzionaria, la scelta di Orlando è senz’altro innovativa. Un ulteriore segnale di una reale volontà di cambiamento. Ha preferito avere un contatto diretto e personale, anziché affidare i suoi propositi a sterili circolari. L’incontro non ha avuto un dettagliato resoconto mediatico, in quanto non aperto alla stampa. Possiamo comunque immaginare che l’amministrazione penitenziaria abbia chiesto maggiori risorse economiche e umane e che il ministro abbia assicurato, pur nei limiti della crisi attuale, il suo impegno personale per l’aumento dei mezzi a disposizione, invertendo la tendenza di questi ultimi anni che ha visto diminuire costantemente quanto destinato alla gestione delle carceri. Ma quello che maggiormente interessa è conoscere quanto Orlando ha detto nel suo discorso ai direttori. Se abbia illustrato gli elementi necessari per il non più procrastinabile cambio di rotta. Se abbia indicato la strada effettivamente percorribile con quanto oggi il governo può mettere a disposizione. Ci piace pensare che il ministro abbia riferito che gli istituti di pena, comprese le strutture regionali e il Dipartimento, andrebbero gestiti in maniera diversa, con parametri assolutamente nuovi, capaci di trasformare in energia positiva e dinamica le risorse immobili e immobilizzate del carcere, per giungere ad una vera e propria "autogestione" dell’istituto. Vi sarebbe un enorme risparmio per lo Stato e si darebbe un senso alla pena scontata. Che abbia fatto comprendere come il carcere, volendo, rappresenti una grande risorsa. E vada visto con occhi diversi. Quanto viene svolto dentro le mura deve essere proiettato verso l’esterno, per un diverso approccio con l’opinione pubblica, che deve conoscere l’attività degli istituti, senza alcuna diffidenza e/o pregiudizio. L’Osservatorio Carcere dell’Unione Camere Penali Italiane visita costantemente gli istituti di pena e ha potuto verificare che molte potenzialità sono azzerate, non solo per la mancanza di risorse, ma anche per l’assenza di quel piglio manageriale necessario per avviare un vero e proprio impianto produttivo che possa offrire lavoro ai detenuti e, allo stesso tempo, le risorse economiche. In altri casi, vi è la produzione - e quindi il lavoro per i detenuti - ma manca il mercato esterno, con il risultato che l’attività deve necessariamente fermarsi. L’Amministrazione Penitenziaria è praticamente quasi l’unica committente delle lavorazioni effettuate all’interno del carcere, con risultati di gestione in forte passivo. Eppure, nell’istituto di Pescara i detenuti fabbricano ottime scarpe da lavoro, a Pozzuoli viene torrefatto un caffè eccellente, ma questi prodotti non riescono ad avere un mercato esterno. In molti istituti vi sono spazi all’aperto inutilizzati e abbandonati (per esempio a Sollicciano) che potrebbero essere sfruttati per lavori agricoli. Pochissimi gli esempi virtuosi. Occorre, dunque, una mentalità diversa. Questo è quello che ci piacerebbe fosse stato detto ai direttori. Gli istituti non devono essere visti esclusivamente come luoghi di punizione, dove hanno la prevalenza solo la custodia e la sicurezza, ma come delle realtà che vanno autogestite. Piccole imprese che devono offrire trattamento e lavoro ed essere competitive sul mercato. Per raggiungere lo scopo c’è bisogno di veri e propri manager. Il Governo da parte sua dovrà impegnarsi a far conoscere meglio all’esterno le potenzialità del carcere, coinvolgendo il mondo imprenditoriale, offrendo nuovi vantaggi e pubblicizzando meglio quelli già esistenti. Dovrà soprattutto abbattere gli ostacoli normativi che impediscono all’istituto di pena dove viene effettuata la lavorazione il recupero dei costi di produzione e il ricavo delle eventuali quote di utile calcolate sul prodotto finito. Se questi sono stati i temi dell’incontro e se questi argomenti troveranno un’effettiva realizzazione, non sarà stato vano il viaggio dei direttori a Roma, né le spese che lo Stato ha dovuto sostenere per il loro viaggio. Lo stesso lavoro degli Stati generali sull’esecuzione penale se ne avvantaggerà, perché troverebbe terreno fertile per le sue proposte. Lettere: carceri italiane al collasso, la situazione è al limite. Quali soluzioni? di Giovanni Paratore lavoce.be, 12 settembre 2015 Ieri, vi abbiamo riferito di una detenuta 58enne che si è suicidata, impiccandosi nella sua cella, alle 10,30 del mattino, nel carcere di Pagliarelli, a Palermo. Cosa strana, è cha la detenuta è stata tradotta nell’istituto alle 3 di notte, orario in cui non sarebbe consentito; ad ammetterlo è stato lo stesso segretario generale del Sappe, Donato Capece. Carceri dunque poco controllate, poco seguite, mal tenute e sempre più sovraffollate. Il problema del sovraffollamento, ovviamente ne fa conseguire degli altri. Primo fra tutti, le condizioni in cui sono tenute le carceri; a livello igienico, non tutte le norme sono rispettate, per usare un eufemismo. Secondo dei dati Istat, risultano detenute nelle carceri italiane 62.536 persone. Il numero è di gran lunga superiore alla capienza regolamentare, fissata a 47.709 posti. Il 61,5% dei detenuti ha una condanna definitiva; il 36,6% è in attesa di un giudizio definitivo e l’1,9% è sottoposto a misure di sicurezza. La maggior parte dei detenuti entrati nelle carceri dal 2000 ad oggi (59.330), è in attesa di giudizio (85%). Quest’ultimo dato, ci fa capire come uno dei problemi del sovraffollamento carcerario, sia dovuto alla lentezza della macchina della giustizia, che va troppo a rilento. Dunque, ci vorrebbero forse più giudici; bisognerebbe creare nuovi posti di lavoro, proprio nella giustizia perché con l’attuale "staff", proprio non ce la si fa. Ma questa, non è l’unica soluzione: forse, ci sono anche altre vie. Un modo, potrebbe essere quello di usare molti degli edifici sprecati, costruiti e poi abbandonati alle intemperie, come istituti carcerari. Certo, andrebbero ristrutturati laddove siano stati danneggiati e incrementati di maggiori misure di sicurezza, ma costerebbe sempre meno che costruirli ex novo. Infine alcuni reati, quelli minori, per intenderci, quelli che non comprendono omicidio o associazione a delinquere, potrebbero essere scontati per intero ai domiciliari; penso ai furtarelli, o a piccoli giri di spaccio. Sicuramente non si può più andare avanti in questo modo, perché anche un detenuto, anche chi ha sbagliato, va tenuto in condizioni di vita accettabili, altrimenti un istituto che dovrebbe servire alla riabilitazione, si trasformerebbe in una sporca, puzzolente e sovraffollata macchina di tortura che, in casi limite e di disperazione più totale, come quello citato ieri, può portare al suicidio. Dunque, che l’ennesimo episodio non rimanga semplicemente un servizio di cronaca, che apre il dibattito per qualche giorno, ma che serva come monito per provare a cambiare le cose. Un detenuto è un essere umano che ha sbagliato; gli si può togliere la libertà quindi, per non renderlo più un pericolo per la società, ma non la dignità. Venezia: il carcere cade a pezzi, si vive tra muri sconnessi camminamenti pericolanti Il Garantista, 12 settembre 2015 La denuncia del consigliere Stefano Casali: a Santa Maria Maggiore si vive tra muri sconnessi camminamenti pericolanti, ambienti comuni fatiscenti, pieni di infiltrazioni e muffe, il tutto in una situazione di sovraffollamento. La regione più ricca d’Italia ha carceri degni del terzo mondo. Lo ha denunciato senza giri di parole Stefano Casali, capogruppo della Lista Tosi alla regione Veneto. Ecco prendere carta e penna e far sapere: "Come si vive nelle carceri venete? Male. Anzi, malissimo, soprattutto se la struttura detentiva è stata edificata nel 1926 e mai più rinnovata e ristrutturata, costringendo detenuti e polizia penitenziaria ad una convivenza insalubre, pericolosa e a tratti degradante". Già in passato le associazioni che si occupano di detenzione e i rappresentanti della polizia giudiziaria avevano messo in luce le criticità del sistema. Ma adesso arriva il campanello d’allarme lanciato da Casali, che è sbottato dopo aver visitato la casa circondariale di Santa Maria Maggiore a Venezia insieme con una delegazione sindacale della Uil-Penitenziari formata da Leonardo Angiulli, Mauro Girelli e Umberto Carrano. Ha spiegato, infatti, il consigliere regionale: "La situazione che ho verificato di persona grazie alla disponibilità del direttore Immacolata Mannarella è davvero preoccupante. In questo carcere si vive tra muri sconnessi, camminamenti pericolanti, ambienti comuni fatiscenti, pieni di infiltrazioni e muffe, il tutto in una situazione di sovraffollamento che vede 260 detenuti in una struttura che al massimo ne può contenere 160, con un corpo di polizia penitenziaria ridotto a sole 100 unità, quando dovrebbero essere 180. Sono rimasto allibito, preoccupato e sconcertato, pensando ai mille proclami del premier Renzi, che ogni giorno sbandiera i successi del suo governo, ma che poi è incapace di farsi carico di problemi autentici come quello della vivibilità di un ambiente come questo". Casali ci ha tenuto a sottolineare che le mancanza delle istituzioni non vanno imputate agli operatori del settore. I sindacalisti che hanno accompagnato Casali nella visita, per esempio, sono da tempo impegnati a nome dei lavoratori per portare nei luoghi deputati le incertezze della categoria e le enormi difficoltà in cui a Venezia la polizia penitenziaria è costretta a svolgere il proprio servizio. Proprio per questo Leonardo Angiulli, segretario Triveneto della Uil, ha fatto notare: "Alla casa di Santa Maria Maggiore i lavoratori sono in stato di agitazione sindacale dal 1 agosto la situazione lavorativa quotidiana ha ormai superato i livelli di sicurezza e di incolumità, visto che abbiamo già registrato solo nel periodo estivo già 11 infortuni legati ad atti violenti provocati da detenuti che circolano liberamente nei corridoi di Santa Maria Maggiore con un solo agente di sorveglianza ogni sessanta reclusi. Crediamo che ormai solo chiare azioni di tipo politico possano contribuire a risolvere queste situazioni che sembrano andare sempre più alla deriva, dopo che anche la spending review si è abbattuta sul sistema carcerario nazionale mettendo la parola fine su ogni ipotesi di rinnovamento di struttura e servizi". Secondo Casali anche la situazione contingente - leggi migrazioni di massa - rende ingestibile una situazione già insostenibile. "È da sottolineare", sottolinea il consigliere regionale, "anche il fatto che dei 262 detenuti presenti a Venezia, solo 91 sono italiani: gli altri - in massima parte provenienti da Tunisia, Marocco, Albania e Romania - potrebbero essere rimpatriati, assicurando una differente vivibilità della struttura detentiva, che sconta anche l’onerosità del servizi, visto che ogni detenuto costa alla collettività circa 300euro al giorno: con i rimpatri probabilmente nessun carcere italiano vivrebbe più nel sovraffollamento". Il capogruppo del movimento di Tosi al Consiglio Regionale da ha voluto dare la sua disponibilità a proseguire la sua visita alle strutture di detenzione del Veneto, confermando l’attenzione verso la vita quotidiana nelle carceri, che diverrà per lui tema di incontri politici a Roma. Eccolo promettere: "Mi impegno a fissare degli incontri nei prossimi mesi con il ministero di Grazia e giustizia e con il ministero degli Interni, affinché la polizia penitenziaria possa godere finalmente di maggior attenzione governativa ed affinché le strutture detentive venete possano ottenere quelle ristrutturazioni che sono necessarie ad una vita quotidiana dignitosa". Lecce: sovraffollamento in carcere, lo Stato condannato a risarcire un detenuto di Monica Serra Il Giornale, 12 settembre 2015 Per la prima volta in Italia il giudice di un Tribunale civile ha condannato il ministero di Giustizia a risarcire con oltre 9mila euro un detenuto costretto in una cella troppo piccola. Il ministero della Giustizia è stato condannato a risarcire con oltre 9mila euro un detenuto costretto a vivere in una cella troppo piccola. Per la prima volta in Italia il giudice di un Tribunale civile ha pronunciato una sentenza di questo tipo. È accaduto a Lecce, in Puglia. L’avvocato Alessandro Stomeo che, col collega Salvatore Centonze, è da tempo in prima linea sul fronte del rispetto dei diritti dei detenuti, si dice soddisfatto del risultato ottenuto: "Con l’introduzione della legge 117/2014 e la sua applicazione - afferma - finalmente si chiude una battaglia che va avanti da 4 anni". Il giudice Federica Sterzi Barolo, come previsto dalla legge, ha accertato che, nel caso in questione, sia stato violato l’articolo 3 Cedu (Corte europea dei diritti dell’uomo), sulla base della ristrettezza dello spazio vivibile all’interno della cella. Spazio che deve necessariamente essere superiore a tre metri quadrati per recluso. Nel caso in questione il detenuto è stato costretto a dividere con altri due una prigione di circa 11,50 metri quadri, con una sola finestra, un bagno cieco senza acqua calda, il riscaldamento in funzione d’inverno per una sola ora al giorno, e le grate chiuse per ben 18 ore. Non solo, il terzo dei letti a castello presenti nella cella si trovava inoltre a soli 50 centimetri dal soffitto. La causa è arrivata inizialmente davanti al magistrato di Sorveglianza che, per primo, aveva quantificato il danno subito. Di lì a poco, però, la Cassazione penale, su istanza dall’avvocatura dello Stato, ha stabilito che il magistrato di Sorveglianza può accertare la violazione, ma non quantificare o liquidare il danno derivato, indicando il Tribunale civile come l’unico competente a stabilirlo. Anche la Corte europea nel frattempo si è pronunciata, e ha imposto all’Italia di eliminare la condizione di sovraffollamento e di prevedere una norma che consenta, a chi ha subito il trattamento disumano, di ottenere un risarcimento. È entrata così in vigore la legge 117/2014 che, recependo l’imposizione di Strasburgo, ha introdotto l’articolo 35 ter della legge 354/1975. La norma prevede che il magistrato di Sorveglianza, accertata l’eventuale violazione dell’articolo 3 Cedu, risarcisca con lo sconto di un giorno di pena (ogni 10 espiati) i detenuti. Se il soggetto che ha subito il danno al momento della pronuncia è già in libertà, invece, gli spetteranno 8 euro al giorno. In questo secondo caso, quando il detenuto è libero, l’istanza deve essere proposta al Tribunale civile che deve accertare la violazione dell’articolo 3 e quindi risarcire nella misura indicata. Da qui la sentenza del giudice del Tribunale civile di Lecce che, accogliendo il ricorso dell’avvocato Stomeo, ha condannato lo Stato a risarcire un detenuto italiano con 9.328 euro per un periodo di 1166 giorni scontati tra il dicembre 2006 e il giugno 2013. Dopo l’entrata in vigore della legge a questa pronuncia ne seguiranno molte altre. Rovigo: il senatore Bartolomeo Amidei (Fi) chiede tempi certi per il nuovo penitenziario rovigooggi.it, 12 settembre 2015 Bartolomeo Amidei, senatori di Forza Italia, ha presentato un’interrogazione in parlamento per avere delucidazioni circa la riapertura del nuovo carcere di Rovigo. Il prefetto Francesco Provolo aveva recentemente presso dubbi su un imminente avvio della sua funzionalità e anche il deputato del Pd Diego Crivellari aveva annunciato la presentazione di un’interrogazione al ministro della Giustizia di Andrea Orlando. Alla ripresa dei lavori parlamentari dopo la pausa agostana, il senatore Bartolomeo Amidei ha infatti presentato immediatamente un’interrogazione sul nuovo carcere di Rovigo. Nel documento, il coordinatore provinciale di Forza Italia ripercorre le tappe che hanno portato alla consegna del nuovo manufatto completato due anni fa e costato la bellezza di euro 29 milioni, 9 in più rispetto a quanto previsto per il primo dei due stralci. Tra le preoccupazioni evidenziate da Amidei, il fatto che per consegnare l’opera servono almeno altri venti milioni, necessari per gli arredi interni della struttura e degli appartamenti riservati ai secondini. E proprio il personale è anche uno dei nervi scoperti della questione: come rilevato infatti dall’ex sindaco di Loreo, le attuali cinquanta unità in servizio nella vecchia struttura di via Verdi (risale addirittura al lontano 1933) appaiono decisamente insufficienti per far fronte ai 408 detenuti per cui è stato pensato l’istituto. "Peccato però che dei 120 agenti da affiancare all’attuale presidio non si sia mai nemmeno iniziato a parlare" afferma il senatore. Il rischio, più che concreto, è che il nuovo carcere di Rovigo, una delle quaranta strutture realizzate ex novo nel nostro Paese, diventi una vera e propria cattedrale nel deserto: nè più nè meno la sorte che ha già seguito il sito di Codigoro, nel ferrarese, realizzato secondo gli standard più moderni ed efficienti ma chiuso poco dopo aver aperto i battenti. Ma c’è di più, come sottolinea il senatore polesano: nelle ultime settimane, di fronte all’emergenza profughi, si è iniziato anche a parlare di strutture come caserme e carceri per ospitare i richiedenti asilo. Un’eventualità, questa, della quale Amidei non vuol sentir parlare anche perché, se a Rovigo il rapporto tra popolazione carceraria e posti a disposizione è in sostanziale pareggio, a livello veneto, nonostante i vari provvedimenti "svuota carceri", si soffre ancora di una carenza cronica di celle che strutture come questa possono contribuire a risolvere. Da Amidei oltre a un impegno preciso anche un accorato appello al Governo: "Il suo silenzio ancora una volta appare colpevole, occorrono notizie ma soprattutto tempi certi altrimenti questo capolavoro dell’ingegneria civile diventerà un monumento allo sperpero di denaro pubblico". Il senatore si dice infine pronto a fare sistema con gli altri parlamentari polesani sull’argomento, raccogliendo quindi indirettamente l’invito rivolto a mezzo stampa dal sindaco Massimo Bergamin che ha auspicato un vertice d’urgenza a Palazzo Nodari con i tre rappresentanti eletti a Roma. Torino: la Garante dei detenuti "alloggi e contatti Skype per garantire gli affetti" di Vera Schiavazzi La Repubblica, 12 settembre 2015 Un ufficio sempre aperto, anche alle famiglie dei detenuti e a chi in carcere ci è già stato. È il primo obiettivo di Monica Gallo, da poco nominata dal Comune come Garante per i detenuti del Lorusso e Cutugno, del minorile Ferrante Aporti, del Cie e del repartino delle Molinette dove vengono curati i reclusi. Gallo sostituisce Maria Pia Brunato, che aveva svolto il compito per dieci anni. Signora Gallo, lei conosce bene il carcere, dove si è impegnata fin dal 2008. "Sì certo, grazie a Fumne, il progetto di design e sartoria delle detenute. Per diventare garante ho lasciato questo incarico. Ma sono sicura che Fumne continuerà". Che cosa ha fatto fino ad oggi? "Ho imparato a conoscere l’ufficio, in piazza Palazzo di Città, dove lavorano quattro addette, e ho iniziato i colloqui con detenuti e detenute, avvisando nei diversi padiglioni e ricevendo chi voleva vedermi. Molte persone perlopiù con i problemi consueti: famiglia lontana, difficoltà nei colloqui, problemi di salute, la carenza di spazi comuni". Sono temi su cui lei interverrà? "Spero di poter dare una mano. Intanto aprendo l’ufficio e ascoltando anche gli ex carcerati, poi, grazie anche al buon rapporto con la direzione, cercando rimedi concreti, per esempio i colloqui via Skype. Molti reparti carcerari del Nord sono stati chiusi e i detenuti trasferiti a Torino. Hanno bambini piccoli e chiedono di poterli al meno vedere via computer, mi sembra una richiesta più che ragionevole". Il suo obiettivo è assistere i detenuti? "No. È, piuttosto, difendere i loro diritti e migliorare la vita detentiva, con l’aiuto anche del grande popolo invisibile di volontari che in carcere lavorano già. Per fare questo credo che sarebbe bene contribuire a togliere il carcere dall’infantilismo del proprio linguaggio. La domandina, la spesina, lo scopino, il portavitto, sono tutti termini coniati molti decenni fa e non hanno senso di esistere, visto che sottintendono anche un rapporto che non dovrebbe esserci. Mi piacerebbe dare una mano anche in questo senso". Il lavoro e lo studio sono davvero una possibilità per i detenuti? "Lo sono, ma bisogna fare di più. Per il liceo artistico mancano i soldi. Per il lavoro, spero di stabilire un buon contatto con le confederazioni artigiane e di portare ancor di più il carcere all’interno della città" La spiritualità di chi è in carcere è garantita a sufficienza? "In generale sì, ma a volte mancano le informazioni. Ora al "Lorusso e Cutugno" è stato istituito uno spazio per le preghiere dei musulmani, in attesa dell’approvazione degli imam. Intantoil23settembreci sarà una festa del sacrificio con un pranzo a base di cuscus e montone. Mancano invece spazi più laici, per meditare o fare yoga" E l’affettività? Arriverà un giorno nel quale anche i detenuti potranno averla? "Se ne sta parlando molto nei Tavoli degli Stati generali dell’esecuzione penale, voluti dal ministro Orlando. Credo che sarebbe bello allestire un piccolo appartamento dove i detenuti possano passare almeno quarantott’ore con la famiglia" Sondrio: i pizzoccheri benefici per sistemare i pavimenti dei laboratori in carcere di Nello Colombo Il Giorno, 12 settembre 2015 L’iniziativa della direttrice della Casa circondariale Una serata all’insegna della solidarietà, ma anche della consapevolezza e dell’accoglienza cittadina, alla Casa circondariale di Sondrio, dove autorità e operatori del mondo giudiziario e delle Forze dell’Ordine hanno partecipato ad una cena benefica che aveva lo scopo di sensibilizzare l’opinione pubblica verso il mondo carcerario e per raccogliere fondi per il rifacimento dei pavimenti dei locali interni per le attività di reinserimento delle persone detenute. "La vita in carcere è adeguata il più possibile agli aspetti positivi della vita all’esterno del carcere?", era il tema declinato in un incontro conviviale fortemente voluto dal direttore Stefania Musso che ha accolto con garbo i numerosi intervenuti, tra cui Carla Cioccarelli numero 1 del Bim, il sindaco cittadino Alcide Molteni, Gionni Gritti presidente di Confartigianato, il Garante per i diritti dei detenuti Francesco Racchetti, il cappellano delle carceri don Ferruccio Citterio, Claudio Gittardi, procuratore della Repubblica del Tribunale di Sondrio, Paolo Pomi della cooperativa Ippogrifo, Silvia Buzzoli dell’Università di Milano nell’ambito di "Bicocca for Expo 2015". Immancabile la presenza delle scarellatrici telline della prestigiosa Accademia del Pizzocchero che ha fornito la materia prima per una serata spensierata allietata dalla band jazz composta da Alfredo Ferrario al clarinetto, Sandro Di Pisa alla chitarra, Roberto Piccolo al contrabbasso e Massimo Caracca alla batteria. All’opera in cucina anche 3 detenuti che hanno imparato l’arte del vero pizzocchero servendo con altri ai vari tavoli. nella vita dei detenuti", ha detto Rezio Donchi, anima dell’accademia del Pizzocchero. Vino doc per l’occasione offerto dalla casa vinicola Nera. Un modo singolare della città di approcciarsi con la realtà carceraria di Sondrio che è una Casa di pena modello, attiva e riabilitativa, orientata al futuro reinserimento nella comunità sociale dei detenuti (una trentina a Sondrio, condannati per reati comuni, di cui alcuni già a fine pena, mentre solo due anni fa erano almeno una sessantina). All’interno della struttura circondariale di Via Caimi sono state allestite due aule didattiche pronte per alcuni laboratori che potrebbero investire proprio sul mondo della cucina. Una settantina le presenze alla cena benefica con i ringraziamenti di rito del direttore Musso e gli interventi del procuratore della Repubblica Claudio Girardi, Paolo Pomi della cooperativa Ippogrifo, e Silvia Buzzelli dell’università Bicocca di Milano. Il carcere apre le porte con una serata speciale, di Alberto Gianoli (La Provincia) Il cortile di passeggio di un carcere può evocare alla memoria la scena di un film. Quell’unico spazio in cui i detenuti possono stare all’aria aperta è presente anche nella casa circondariale di via Caimi, seppur quasi tutti i sondriesi non abbiano la minima idea di quanto sia angusto. Di recente tinteggiato con colori vivaci e parzialmente coperto da pensiline per ripararlo dalla pioggia, mercoledì sera ha ospitato, grazie ad un’attenta disposizione geometrica dei tavoli, una cena a base di pizzoccheri, allietata da musica jazz. Un evento speciale, voluto per aprire la casa circondariale alla città, "permettendo - come ha spiegato la direttrice della struttura, Stefania Mussio - a settanta persone di farvi ingresso e condividere un momento conviviale con i detenuti". Accanto a quanti vivono quotidianamente in carcere, affiancati dal personale amministrativo e di Polizia Penitenziaria, c’erano i numerosi volontari, il sindaco Alcide Molteni e diversi rappresentanti delle autorità civili e militari, il cappellano don Ferruccio Citterio e diversi preti della città, oltre che comuni cittadini. A tutti la direttrice ha spiegato che "il carcere di Sondrio ha una fortuna, come ancora pochi in Italia: anche se la struttura è vecchia, si trova nel cuore della città e non si può quindi fare a meno di guardare alle persone che sonò qui a scontare la loro pena. Questa - ha aggiunto - vuole essere un’occasione per favorire la relazione, anche se non è facile andare incontro a chi ha commesso un reato". Cibo e cultura. Allietata dalle note di Alfredo Ferrario, Sandro Di Pisa, Roberto Piccolo e Massimo Caracca, la cena curata dall’Accademia del pizzocchero di Teglio ha offerto lo spunto per il tema della serata: "Cibo, cultura e società". Ad illustrarlo la docente Silva Buzzelli dell’Università degli studi di Milano-Bicocca. "Il cibo che arriva sulle nostre tavole - ha affermato - proviene spesso da coltivazioni. La cultura è. invece, coltivazione di idee. E come è bassa la terra, così dovrebbe essere per la cultura, accessibile a tutti, ma non sempre lo è. Allora è necessaria la solidarietà, l’essere compagni, cioè il dividere il pane". Sul tema della povertà culturale si è soffermato anche Claudio Gittardi, procuratore capo del tribunale di Sondrio, individuandola come una delle cause che determinano la custodia in carcere anche per chi sconta pene relative a reati minori. Umanità della pena. "Chi ha la possibilità di una difesa adeguata o un sostegno familiare - ha spiegato -può evitare di andare in carcere, che punisce chi commette reati particolarmente gravi o chi non riesce ad avere un giusto sostegno". Il procuratore capo ha sottolineato l’importanza della funzione della pena, "che è rieducativa e non punitiva". ed ha ripreso il filo conduttore degli interventi, la quinta norma delle Regole Penitenziarie Europee ("La vita in carcere deve essere il più vicino possibile agli aspetti positivi della vita nella società libera"). Così Gittardi ha aggiunto che "non può esserci l’applicazione della detenzione in carcere se questa non è conforme ad un principio di umanità. Invece - ha puntualizzato il procuratore di Sondrio -, spesso i detenuti scontano una pena aggiuntiva, non in termini di anni, ma per la tipologia di struttura in cui si trovano o per il sovraffollamento". Perché possano essere recuperati nella società, secondo il procuratore devono sussistere due condizioni fondamentali: "Deve esserci una serietà dello Stato, nell’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge, e la società deve accogliere il detenuto". Come questo possa avvenire lo ha illustrato Paolo Pomi, presidente della cooperativa sociale Ippogrifo, descrivendo i progetti pensati per chi giunge a fine pena. "Così aiutiamo chi ha sbagliato a reinserirsi", la serata in carcere per 120 persone Erano circa 120 le persone che hanno preso parte l’altra sera al momento conviviale in carcere. Tra loro i 24 detenuti, seduti qua e là nei diversi tavoli. Anche loro hanno ascoltato Paolo Pomi, presidente della cooperativa sociale Ippogrifo, descrivere i progetti pensati in collaborazione con l’area pedagogica del carcere per favorire la dimensione relazionale e migliorare la qualità della vita di chi vive l’esperienza della detenzione e a causa di questa ha visto legami spezzati che è necessario ricostruire. Durante la serata Pomi ha presentato i percorsi di accompagnamento e reinserimento sociali rivolti ai detenuti che sono a fine pena o a quelli che possono accedere all’affidamento in prova ai servizi sociali. Progetti definiti con un lavoro propedeutico che in carcere viene svolto tra educatore e detenuto per individuare le priorità che questo ha e definire un contratto di corresponsabilità tra le parti per l’esperienza da vivere all’esterno. Un’opportunità finalizzata a reinserire chi lascia la casa circondariale nel mondo del lavoro, favorendo piccole esperienze lavorative dipendenti o l’apertura di una partita Iva. Oltre a questo è però necessario - ha spiegato ancora Pomi a questo proposito - "che i detenuti facciano esperienze concrete di formazione e acquisiscano competenze". Una possibilità ora concreta con diversi spazi che negli ultimi mesi sono stati riqualificati in carcere. E i lavori, grazie anche a quanto offerto dagli ospiti alla cena di mercoledì, proseguiranno. "Sono tante le cose da fare e che si potrebbero ancora fare - ha affermato la direttrice, Stefania Mussio: partiamo da un pavimento che quantomeno ci ricorda di tenere ben saldi i piedi per terra". La stessa direttrice non ha perciò mancato di ringraziare i presenti, quindi il personale per il lavoro particolare svolto durante la serata, i detenuti che hanno preparato una macedonia di mele e offerto il caffè, infine il cappellano don Ferruccio per la collaborazione nella realizzazione dell’evento, reso possibile grazie anche al generoso impegno dell’Accademia del pizzocchero di Teglio e della Casa Vinicola Nera. Eboli (Sa): padri dentro… due iniziative presso l’Istituto a Custodia Attenuata cilento.it, 12 settembre 2015 Il ruolo genitoriale dei detenuti è il tema, spesso sottovalutato dai più, posto al centro di due iniziative che si svolgeranno, rispettivamente, il 12 e il 19 settembre prossimo presso l’Istituto a Custodia Attenuata di Eboli. Messa fortemente in discussione dall’esperienza della reclusione, quello della genitorialità è un aspetto ancor più delicato sia per chi si vede privato del contatto col proprio papà sia per l’esclusione del genitore dalla funzione paterna, nel caso specifico dei detenuti dell’Icatt. In continuità con le linee ministeriali adottate sul tema e con l’attenzione che la direzione della casa di reclusione ebolitana, con la dottoressa Rita Romano, ha da sempre posto su questo argomento, sabato 12 settembre padri e figli saranno protagonisti di un piccolo evento loro dedicato. I bimbi dei detenuti insieme ai loro papà dovranno allestire un piccolo party nel giardino del castello Colonna, sede dell’istituto carcerario, avendo così l’occasione di fare oltre che di stare insieme, inserendo piccoli tasselli a una relazione importantissima per la crescita emotiva e psicologica dei piccoli ma fondamentale anche per il recupero del detenuto. Un momento di condivisione e di festa trascorrendo ore spensierate in cui i bimbi con i loro papà prepareranno da mangiare e vivranno insieme momenti di gioco e svago grazie all’animazione di volontari ebolitani. L’obiettivo è quello di favorire un rapporto che si sedimenti oltre i "freddi" momenti di colloquio, unico punto di contatto del detenuto con il proprio mondo relazionale. A rendere più armoniosi gli incontri con i figli degli ospiti dell’Icatt punta l’evento del 19 settembre e la serata di beneficenza a sostegno del progetto "Genitori senza Barriere" portato avanti sin dal maggio scorso all’Icatt grazie al lavoro, a titolo volontario, della psicologa e criminologa clinica Angela Mastrolorenzo, la sociologa e counsellor Raffaella Terribile, l’educatrice e counsellor Enza La Padula. Il gruppo musicale BandeAmì ha organizzato un concerto i cui proventi finanzieranno l’acquisto di giochi per attrezzare l’area del carcere dove si svolgono gli incontri familiari. Questo contribuirà a rendere meno pesanti per i bambini le lunghe ore di viaggio per raggiungere i loro padri, la forzosa attesa e la perquisizione cui anche loro sono sottoposti per l’ingresso nell’istituto penitenziario. I BandeAmí nascono come gruppo di amici con la passione per la musica e la forte intenzione di proporre brani dai temi e sentimenti forti, poco scontati e privi di convenzioni dominanti, brani che descrivono figure apparentemente senza tempo e che restano ai margini. Da qui l’avvicinarsi della band alla musica di Fabrizio De Andrè e alla sua intramontabile poesia. Il concerto prevede in scaletta 15 canzoni scelte tra il vastissimo repertorio del mitico Faber. L’idea nasce dalla voglia dei componenti del gruppo di sostenere il percorso alla genitorialità intrapreso all’Icatt riflettendo sulle esigenze dei bambini figli di detenuti con raccolta fondi spontanea per l’acquisto di attrezzature e giochi con cui si allestirà l’area degli incontri genitori-figli. L’ingresso alla serata è gratuito ma con prenotazione obbligatoria indicando i propri dati anagrafici necessari per l’accesso all’area penitenziaria. Per prenotarsi, rivolgersi al 3397488366. L’evento del 19 settembre sarà presentato presso il comune di Eboli nell’ambito della conferenza stampa che si terrà il 15 settembre alle ore 11,30. Alessandria: Sappe; detenuto aggredisce un agente della Polizia penitenziaria cuneooggi.it, 12 settembre 2015 Sembra senza fine la spirale di violenza che da alcuni mesi ormai caratterizza drammaticamente la quotidiana delle carceri del Piemonte. Alta tensione nella Casa circondariale di Alessandria, dove nella serata di mercoledì un detenuto straniero, appena giunto in carcere, durante le procedure di ingresso ha improvvisamente colpito al volto con un pugno un Assistente Capo del Corpo di Polizia Penitenziaria. A darne notizia è Donato Capece, segretario generale Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, il primo e più rappresentativo della Categoria. "Sono stati momenti di alta tensione, gestiti al meglio dal personale di Polizia Penitenziaria che con grande professionalità ha impedito conseguenze più gravi all’interno della Casa Circondariale di Alessandria, che alla data del 31 agosto scorso risultava affollata da 235 detenuti. Ed è grave che non è stato possibile rintracciare il Direttore dell’Istituto, cercato più volte telefonicamente dall’Ispettore di Sorveglianza per notiziarlo del grave evento. È uno stillicidio costante e continuo: i nostri poliziotti penitenziari continuano a essere picchiati e feriti nell’indifferenza delle autorità regionali e nazionali dell’amministrazione penitenziaria, che sono per altro costrette a confermare l’aumento delle violenze contro i Baschi Azzurri del Corpo nonostante il calo generale dei detenuti ma che nonostante ciò non adottano alcun provvedimento concreto perché queste folli aggressioni abbiamo fine, ad esempio sospendendo quelle pericolose vergogne chiamate vigilanza dinamica e regime penitenziario aperto" denuncia il leader nazionale del Sappe, che rivolge al poliziotto ferito "la solidarietà e la vicinanza del primo Sindacato dei Baschi Azzurri". Capece ricorda che il Sappe aveva reso pubblico, nelle scorse settimane, il dato allarmante delle aggressioni contro i poliziotti in Piemonte nei primi sei mesi del 2015: 184 atti di autolesionismo, 3 tentati suicidi, 99 colluttazioni e 24 ferimenti che, alla data di oggi, sono lievitati ulteriormente. Vicente Santilli, segretario Regionale Sappe del Piemonte, evidenzia infine "la professionalità, la competenza e l’umanità che ogni giorno contraddistingue l’operato delle donne e degli uomini della Polizia Penitenziaria con tutti i detenuti per garantire una carcerazione umana ed attenta pur in presenza ormai da anni di oggettive difficoltà operative, le gravi carenze di organico di poliziotti, le strutture spesso inadeguate. Attenti e sensibili, noi poliziotti penitenziari, alle difficoltà di tutti i detenuti, indipendentemente dalle condizioni sociali o dalla gravità del reato commesso. Ma che corrono rischi e pericoli ogni giorno, in carcere, ad Alessandria e nelle altre strutture detentiva campane, per il solo fatto di essere rappresentanti dello Stato che garantiscono sicurezza e per questo pagano anche prezzi altissimi in termini di stress e disagi". Rifugiati: l’Europa nella confusione di Anna Maria Merlo Il Manifesto, 12 settembre 2015 Piano Juncker. Lunedì potrebbe non esserci nessun accordo definitivo sulle quote, nuovo Consiglio Interni l’8 ottobre. L’Onu fa pressione sulla Ue. Il gruppo Visegrad ribadisce il "no" alle quote (come la Danimarca). Il governo francese riprende coraggio, mentre la destra affonda (anche nell’ignominia). Malumori della Csu bavarese. La confusione continua in Europa. L’appuntamento di lunedì dei ministri degli Interni della Ue potrebbe non essere decisivo per trovare un accordo a 28 sulla redistribuzione dei rifugiati. Bisognerà probabilmente aspettare l’8 ottobre, cioè un altro mese e un altro Consiglio Interni per una definizione della ripartizione dei 120mila profughi (che si aggiungono ai 40mila di giugno) del piano Juncker. Il presidente del Consiglio Ue, Donald Tusk, si spazientisce: senza accordo, afferma, bisognerà convocare un vertice straordinario dei capi di stato e di governo, come già ipotizzato dalla Germania. La Ue è sotto pressione: l’Alto Commissariato Onu per i rifugiati chiede a Italia e Grecia di creare "immediatamente" dei centri di accoglienza di grandezza sufficiente e a Bruxelles di "assicurarsi che tutti gli stati membri partecipino" alla ripartizione chiesta dal piano Juncker. E intanto gli arrivi continuano e sono destinati ad aumentare. L’Organizzazione mondiale per l’immigrazione ha rivelato ieri che 432.761 persone hanno attraversato il Mediterraneo quest’anno, il doppio che nel 2014 e 2748 sono annegati. Il direttore generale dell’Unicef per il Medioriente e l’Africa del nord, Peter Salama, afferma che "potrebbero esserci milioni di rifugiati siriani in Europa" nel prossimo futuro. Ieri, si è riunito a Praga il gruppo di Visegrad (Ungheria, Repubblica ceca, Polonia, Slovacchia), con la presenza del ministro degli esteri tedesco Frank-Walter Steinmeier, che ha insistito sulla necessità di "mettersi d’accordo sulla ripartizione giusta di coloro che sono ancora in viaggio", e ha affermato che almeno "40mila nel week-end" sono attesi in Germania, "una sfida storica". Ma i paesi Visegrad hanno ribadito il "no" al piano Juncker delle quote. Per la Repubblica ceca, "dobbiamo mantenere il controllo nazionale su chi entra". L’Ungheria ha inviato dei carcerati per accelerare la costruzione del muro al confine con la Serbia, dove sono dislocati ormai 3800 soldati. Il premier Viktor Orban afferma che dal 15 settembre tutti coloro che tenteranno un passaggio illegale saranno arrestati. Orban, che ha incontrato il capogruppo del Ppe Manfred Weber, accusa i rifugiati di "ribellione" e il ministro degli esteri, Peter Szijjarto (della Fidesz) si allarma su arrivi previsti quest’anno di 400-500mila persone (per il momento in Ungheria si sono registrati in 170mila). Orban ha chiesto alla Ue di "fare in fretta" e inviare delle forze "ai confini della Grecia per far applicare la legislazione europea", che per il primo ministro ungherese è di bloccare le entrate alle frontiere esterne. Intanto, l’Austria ha chiuso l’autostrada con l’Ungheria e sospeso la linea ferroviaria dal confine ungherese verso Vienna. Budapest si è rivolta alla Ue per chiedere un aiuto della protezione civile, mentre dovrebbe ricevere dall’Alto Commissariato dell’Onu per i rifugiati dei prefabbricati per alloggiare circa 300 famiglie. L’Onu ha stanziato anche un aiuto di emergenza per 95mila persone, devoluto a Ungheria, Serbia, Macedonia e Grecia. Budapest sta inoltre pensando di rifiutare la proposta di Bruxelles sul ricollocamento dei profughi entrati in Ungheria (con Italia e Grecia, il paese sarebbe sollevato dal piano Juncker), perché preferisce fare da sola e chiede una conferenza Ue-Balcani. No alle quote è stato ribadito ieri anche dalla Danimarca, che ricorrerà all’opt out di cui dispone (assieme a Gran Bretagna e Irlanda). Finlandia, Lituania e Spagna, invece, accettano le quote, ma per Helsinki (che deve accogliere 2400 persone) "in futuro dovranno essere solo volontarie". In Francia, governo e Ps hanno finalmente preso coraggio e difendono chiaramente l’accoglienza di 24mila profughi. La destra, invece, affonda nella confusione e nell’ignominia di alcuni (per il deputato ed ex ministro Patrick Devedjian "i tedeschi ci hanno preso i nostri ebrei e adesso ci mandano i loro arabi", mentre Sarkozy si avvita nella richiesta di modificare Schengen e di stabilire uno statuto di "rifugiato di guerra", meno favorevole dell’asilo, che già esiste). Malumori anche in Germania. Per la Csu bavarese l’accoglienza è "un grande errore" di Angela Merkel e presto "la situazione sarà fuori controllo". Da Budapest a Madrid, i veri interessi in campo nella partita Ue sulle quote dei rifugiati La Repubblica, 12 settembre 2015 Ciascuno degli attori chiave del negoziato che va avanti da mesi sa soprattutto quello che pretende dagli altri. Nelle sue ore più drammatiche e alla vigilia del vertice straordinario di lunedì, l’Unione Europea implode nelle sue contraddizioni, si divide come mai si era divisa, mostra il paradosso della nozione del suo "libero spazio". Quello per cui ogni cittadino europeo o immigrato regolare può liberamente circolare nell’area Schengen, ma ciascun Paese membro continua ad avere il controllo dei propri confini, delle proprie politiche di immigrazione. In un riflesso pavloviano di difesa delle sovranità nazionali, l’Europa si mostra insieme feroce e solidale, misurandosi con la parola chiave di questa crisi senza precedenti - " Quote" - e declinandola in domande non più eludibili. Chi deve sostenere il peso della solidarietà? In che misura? Sulla base di quali parametri? In cambio di quali garanzie? Non più tardi di aprile, le capitali europee erano state percorse da fremiti di indignazione per la proposta di Jean Claude Juncker di trovare una "chiave di distribuzione" in grado di ridislocare, in via eccezionale, 5 mila migranti richiedenti asilo arrivati sulle coste del Mediterraneo. A giugno, quel numero era salito a 40 mila, convincendo gli Stati Membri ad un accordo che consentisse la "redistribuzione" su base volontaria. Ora, siamo a 160 mila. E alla vigilia del vertice, sotto la spinta di Berlino, Roma, Parigi e dell’esecutivo europeo il meccanismo di divisione delle quote perde ogni tratto di "volontarietà" ed "eccezionalità" per assumere quello della "obbligatorietà" e "permanenza". Nella geografia dell’Unione divisa, il cosiddetto gruppo di Visegrad (Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia) ritiene di non dover pagare alcun prezzo aggiuntivo alla solidarietà europea. E se è vero che Berlino ha finito per stringere intorno a sé l’Italia e il blocco dei Paesi scandinavi e convincere Parigi a considerare il meccanismo delle quote, dalla partita resteranno comunque fuori - perché non verrà richiesto di applicarle - Irlanda, Regno Unito e Danimarca. La verità è che al tavolo del vertice ciascuno degli attori chiave sa innanzitutto e soprattutto quel che pretende dagli altri. La Francia, per la quale si prevede un afflusso di 100-120 mila richiedenti asilo l’anno e già alle prese con una media di 50 mila clandestini "illegali" nell’arco dei 12 mesi, chiede, come del resto la Germania, che la precondizione di ogni accordo sulle quote sia la creazione di "hot spot" ai cancelli meridionali dell’Europa - Italia e Grecia - che garantiscano un’identificazione certa dei richiedenti asilo e un rapido screening di chi abbia o meno diritto a restare in Europa. Oltre all’ampliamento della lista di Paesi verso i quali poter espellere i migranti la cui richiesta di asilo non venga accolta. L’Italia è pronta a dire "si" agli hot spot (dei cinque ipotizzati a Pozzallo, Agusta, Lampedusa, Trapani e Taranto, tre potrebbero entrare a regime già a fine settembre) con la presenza di funzionari di Frontex e dell’Easo (Ufficio europeo di sostegno all’asilo), ma a due condizioni. La prima: solo dopo che sarà stato avviato il piano obbligatorio di redistribuzione con quote superiori ai 32 mila trasferimenti. La seconda: solo dopo l’avvio delle procedure per la revisione del trattato e regolamento di Dublino. "Hot spot" è anche la parola chiave dell’agenda del governo di centro-destra belga. Ma in un Paese che ha sperimentato in luglio qualcosa che le era sconosciuto (4.961 richiedenti asilo, 55 per cento in più rispetto a giugno e 192 per cento rispetto ad agosto 2014), Theo Francken, membro del partito nazionalista fiammingo, sostenitore del ripristino dei controlli al confine e segretario di Stato per le richieste di asilo, ha spiegato che la solidarietà, alla fine, è questione di "scambio". "Alcuni Paesi hanno tratto vantaggio dalle politiche comunitarie agricole e dai fondi europei. Se non si dimostreranno solidali in questa crisi, chiederò che li perdano". Le parole di Francken invitano a guardare a Madrid che con le sue 6.202 richieste di asilo l’anno è di fatto l’unico Paese mediterraneo dell’Unione rimasto immune alle dimensioni materiali della crisi. Il governo di Rajoy, ancora nelle scorse settimane, era convinto che l’offerta di accogliere volontariamente 2.749 richiedenti asilo fosse ragionevole e solo dopo l’incontro del premier con la Merkel al castello di Meseberg e la richiesta da parte della Commissione europea di portare quel numero a 14.931 ha cominciato a elaborare l’idea che quel numero a quattro cifre dovrà necessariamente essere alzato. Anche se "le quote - spiega al Lena una fonte di governo - incoraggeranno i migranti a bussare alla porta dell’Europa". È un fatto che la posizione della Spagna, come gli esiti del vertice del 14, molto dipenderanno dalla capacità di persuasione e dagli argomenti di Angela Merkel, capace di capovolgere dopo la crisi greca, l’immagine del suo governo e del Paese agli occhi dell’Europa. Mostrando Berlino come il laboratorio di una politica diversa e possibile dell’accoglienza. Non fosse altro, perché le risorse esistono. Ne è convinto Michael Moller, direttore dell’ufficio delle Nazioni Unite a Ginevra e voce del Palazzo di vetro in Europa. "Il problema delle migrazioni è globale - dice al Lena - ma l’Europa è comunque dotata di sistemi e ricchezze che rendono sostenibile il peso di questa crisi". Del resto, a sostegno di queste considerazioni e della crescita di un sentimento europeo "solidale", è un sondaggio condotto da Gallup nel 2013 in 160 Paesi del mondo per conto dell’Organizzazione internazionale delle Migrazioni (Iom), i cui esiti saranno resi noti a ottobre e di cui il Lena ha ottenuto alcune anticipazioni per quanto concerne l’Europa. In Germania, per esempio, il 61 per cento degli intervistati è convinto che i migranti facciano lavori che nessuno sarebbe disposto a fare e il 66% che nessuno vuole. "Un dato - dice al Lena Frank Laczko, capo del centro di analisi dati all’Iom - che è condiviso nella maggior parte dei Paesi europei". Come dimostrano, del resto, anche i segnali che arrivano dalla Svizzera. Alla fine di agosto, un sondaggio indicava come il 61 per cento della popolazione fosse favorevole a che il Paese assuma un ruolo di leadership nella soluzione umanitaria della crisi. E se è vero che solo il 26,5 per cento sarebbe disposto ad ospitare "quote" di 40 mila migranti l’anno, è altrettanto vero che al vertice del 14, parteciperà Simonetta Sommaruga, consigliere federale socialista delegato alle richieste di asilo, per esprimere una posizione di pieno appoggio alla Merkel e ad una "politica europea condivisa sui rifugiati". In marcia con i piedi scalzi, l’Italia che accoglie i migranti di Virginia Spada Il Garantista, 12 settembre 2015 In questi mesi l’arrivo di migliaia di uomini e donne in fuga da guerre e povertà ha diviso in due la scena politica: chi è a favore dell’accoglienza e chi li vorrebbe respingere senza pietà. Ma c’è una terza via che, fuori dalle polemiche di bassa lega, è cresciuta fino a riempire le piazze italiane. Sono le donne e gli uomini "scalzi" che non condividono le parole di odio di Matteo Salvini e che rispondono ogni giorno alle sue provocazioni non con comunicati stampa, ma con i fatti. È quell’Italia che si è fatta carico, spesso insieme alla Chiesa, di assistere coloro che arrivano le nostro Paese e hanno bisogno di cibo, vestiti, di un posto dove dormire. Hanno bisogno di un sorriso che li accolga. Ieri in concomitanza con Venezia, dove ha marciato anche la leader della Cgil Susanna Camusso, sessanta città italiane hanno raccontato quest’Italia che spesso resta invisibile ma che rappresenta il futuro più di ogni altra teoria o ideologia. Le richieste condivise da tutte le piazze sono molto precise e radicali: certezza di corridoi umanitari sicuri per vittime di guerre, catastrofi e dittature; accoglienza degna e rispettosa per tutti; chiusura e smantellamento di tutti i luoghi di concentrazione e di detenzione dei migranti; creazione di un vero sistema unico di asilo in Europa con il superamento del regolamento di Dublino. Alle manifestazioni ha partecipato un popolo variegato che va al di là delle tradizionali appartenenze politiche. Accanto a sigle come Amnesty International tantissime piccole associazioni, gruppi, rappresentanti del mondo cattolico, singoli che vedono nell’aiuto degli altri che arrivano dal mare non un sacrificio ma una possibilità per rendere migliore la società italiana. L’Organizzazione mondiale per le migrazioni ieri ha spiegato che nel corso del 2015 il numero dei migranti in Europa è raddoppiato rispetto al 2014: in tutto quasi mezzo milione. Ma è raddoppiata se non di più anche l’Italia solidale. Il premier ungherese Orbán "manette per chi sconfina illegalmente" di Massimo Congiu Il Manifesto, 12 settembre 2015 Ungheria. In stato di fermo l’italiano di 52 anni accusato di traffico di esseri umani. L’uomo era alla guida di un furgone e durante il suo viaggio verso la Germania è stato fermato dalla polizia nelle vicinanze del lago Balaton. All’interno del veicolo c’erano trentatré migranti, tra essi due donne siriane. Non si ferma il flusso di migranti che arrivano in Ungheria. Si apprende da fonti locali che due giorni fa sono entrati nel paese altri 3.601 migranti, un numero superiore a quello registrato il giorno precedente. La loro provenienza è sempre la stessa: Siria, Afghanistan, Iraq e Pakistan. Ieri qualche media ungherese ha pubblicato online le foto dei lavori in corso al confine ungaro-serbo con nelle vicinanze agenti di polizia e soldati armati. Si temono nuovi record per ciò che riguarda gli arrivi in un giorno. I lavori fervono per portare a termine al più presto la barriera metallica e di filo spinato posta a difesa del territorio ungherese dal flusso continuo di gente in fuga dal suo paese di origine. Il nuovo ministro della Difesa István Simicskó ha annunciato l’aumento dei militari destinati a rafforzare la sorveglianza della linea di confine: si parla di 3.800 uomini. La situazione è sempre delicata: ieri si è saputo che i migranti che si erano rifugiati alla stazione di Szeged, nel sud dell’Ungheria, sono stati fatti salire su bus e minivan civili diretti, secondo fonti locali, in Austria. Le persone portate a bordo di questi mezzi non sono dovute passare attraverso la fase dell’identificazione personale. Prima stavano al campo di Röszke che le forti piogge hanno trasformato in una distesa di fango. Così i migranti, tra essi donne e bambini, hanno cercato riparo alla stazione da pioggia e freddo prima di poter salire sui mezzi messi a loro disposizione. In precedenza, però, era stata diffusa la notizia della decisione delle autorità austriache di bloccare i treni da e per l’Ungheria per un imminente sovraccarico dovuto all’ingente afflusso di migranti. La compagnia austriaca OeBB comunica che i collegamenti ferroviari fra i due paesi resteranno sospesi per tutto il fine settimana. Il premier Orbán è sempre più orientato al mantenimento della linea dura: manette per chi supera il confine illegalmente, pene esemplari per i trafficanti di esseri umani e rigorosa tutela dei confini. Alla conferenza dei ministri degli esteri del Gruppo di Visegrád e di quelli di Germania e Lussemburgo, Ungheria, Slovacchia e Repubblica Ceca hanno confermato la loro indisponibilità ad accettare il sistema delle quote mentre, secondo fonti Ue, sembra che la Polonia stia ammorbidendo la sua posizione su tale argomento. Alla riunione degli ambasciatori Ue che si incontreranno anche domenica, l’Ungheria ha chiesto di essere cancellata dalla lista dei paesi che possono contare sui 120mila ricollocamenti proposti dall’Unione europea, tra essi anche l’Italia e la Grecia. Il governo di Budapest ha anche proposto una conferenza tra l’Ue e i Paesi balcanici sull’emergenza immigrazione. Il suo punto di vista è sempre che al momento il modo più realistico ed efficace di fronteggiare la situazione di emergenza nella quale si trova il Continente è un’attenta difesa delle frontiere di Schengen attraverso un consapevole e responsabile impegno comune. Per Orbán ne va della sopravvivenza dell’Europa. Intanto è sempre in stato di fermo l’italiano di 52 anni accusato di traffico di esseri umani. L’uomo era alla guida di un furgone e durante il suo viaggio verso la Germania è stato fermato dalla polizia nelle vicinanze del lago Balaton. All’interno del veicolo c’erano trentatré migranti, tra essi due donne siriane. Il protagonista della vicenda si è discolpato dicendo di aver preso in macchina i migranti mosso da compassione perché erano infreddoliti. Sono in corso le verifiche dell’ambasciata d’Italia a Budapest che ha chiesto massimo riserbo sul caso. Muro anti-migranti in Ungheria: Orban non si ferma, anche i detenuti al lavoro di Ginevra Sorrentino Il Secolo d’Italia, 12 settembre 2015 Muro anti-migranti, Orban recluta anche i detenuti per la sua costruzione: da adesso in poi la barriera eretta per arginare il flusso degli arrivi dei profughi istituzionalizza il pugno duro di Orban mirato a contenere il flusso massiccio e ininterrotto degli arrivi. Così, anche i detenuti sono stati mobilitati per terminare la costruzione di quello che è diventato il simbolo dell’immane ondata di profughi che ha messo a dura prova sistemi e codici della Ue, costringendo ad aggiornare limiti e contorni deglia accordi in vigore, rivelatisi inefficaci e non conformi alle eclatanti necessità del momento. Anche in questi giorni, infatti, e senza interruzione, lo scenario che si presenta in Ungheria è quello di migliaia di profughi in marcia per chilometri che si accalcano per salire sui bus diretti non si sa dove. Il girone infernale di Rozske, al confine meridionale dell’Ungheria, è sempre più inquietante, e i migranti si danno alla fuga nei campi di granturco per evitare di essere identificati e venire bloccati dagli agenti disseminati sul territorio per cercare di stringere il cerchio della sicurezza intorno a una situazione che rischia di degenerare di nuovo da un momento all’altro. Un marasma che Orban crede evidentemente di risolvere anche erigendo il muro della discordia che tante polemiche ha suscitato nell’ultimo periodo. I carcerati ungheresi erano entrati nella vicenda del muro anti-migranti di Viktor Orban già a luglio: a loro era stato chiesto di produrre i materiali necessari per costruire la barriera anti-migranti: pali, reticolato e filo spinato. Da 24 ore i detenuti vengono fatti radunare davanti a due tende a pochi metri dal muro. Lì ricevono le indicazioni operative. Sono una cinquantina, tutti in uniforme grigia. Un gruppo viene inquadrato in linee da dieci e inviato a piedi verso l’area dove la barriera non è stata ancora ultimata. Avanzano tra due ali di poliziotti, seguiti da militari armati di Ak47 e da due camion per il trasporto di materiali e persone. Marciano e avanzano. A un centinaio di metri scorre la linea ferroviaria, da settimane interrotta, da cui passano i profughi. In molti, quando vedono i blindati della polizia nei pressi de campo di raccolta organizzato dai volontari, si danno alla fuga nei campi per evitare identificazione e fotosegnalazione. Corrono, nonostante il terreno sia stato trasformato in una pista di fango dalle piogge di questi giorni. Si annidano sotto gli alberi. Alcuni si accampano al coperto, altri sfilano a testa bassa. Ma, muro anti-migranti o meno, i profughi sono arrivati lì da Horgos, in Serbia, dopo aver sostato in un campo di transito. A un crocevia scendono a decine e decine da ogni mezzo disponibile messo a disposizione dalle autorità serbe, che hanno più volte sottolineato che per loro "i profughi non rappresentano un problema, né tantomeno una minaccia". Il flusso di mezzi carichi di migranti è impressionante, con una cadenza di pochi minuti uno dall’altro. La polizia serba monitora la situazione, e i migranti ringraziano calorosamente gli agenti prima di mettersi in cammino sui binari. Poi iniziano a marciare sotto la pioggia. L’afflusso record dalla Serbia all’Ungheria delle ultime ore scatena una nuova calca per salire sugli autobus diretti nei centri di accoglienza. E di lì a poco, domina una sola certezza: tra poco si ricomincerà tutto da capo. Austria: privati e ferrovie, l’accoglienza non si è mai fermata di Angela Mayr Il Manifesto, 12 settembre 2015 "Facciamo il massimo possibile, ma anche il massimo possibile non è più sufficiente" hanno dichiarato le ferrovie austriache (Oebb), che nella notte tra giovedì a venerdì hanno sospeso per sovraccarico i trasporti da Nickelsdorf, al confine con l’Ungheria, a Vienna. Intasata anche il Westbahnhof, la stazione ovest, dove un migliaio di rifugiati hanno passato la notte. Altre migliaia hanno dormito nelle vicinanze, finalmente in un letto. Negli ultimi 10 giorni 60mila rifugiati hanno attraversato l’Austria, tra giovedì e venerdì sono arrivate circa 15 mila persone. "Ho visto tanti con scarpe bagnate, i piedi pieni di piaghe, i legamenti rotti, in queste condizioni hanno continuato a marciare, per giorni - ha raccontato un’infermiera della Croce rossa -. Molti quando arrivano al confine tracollano". A Nickelsdorf, dove cresce il numero di rifugiati in attesa, ieri mattina l’esercito ha allestito 40 tende di campo per 2000 persone, per l’emergenza. La Croce rossa ha richiesto 10mila coperte. Non rimangono lì al confine, al posto dei treni ora sono in funzione una trentina di autobus, in servizio ininterrotto. Anche per i pendolari, molto numerosi in questa regione a est di Vienna, il Burgenland, ci sono gli autobus sostitutivi, per non intasare treni e stazioni. Sospesi anche i treni da Vienna a Budapest , chiusa l’autostrada A4 Budapest-Vienna per motivi di sicurezza, essendo le corsie piene di persone che si sono messe in marcia a piedi. Tuttavia ieri oltre ai treni regolari sono partiti 6 treni speciali verso la Germania, più uno polacco portato dalla Oebb per mancanza di vetture proprie. "Lo spirito umanitario cammina in treno" ha scritto su volantini e manifesti la Oebb chiedendo comprensione ai cittadini per eventuali disservizi: "I clienti per noi sono in primo piano, ma gli esseri umani (Menschen) sono al centro, e ognuno è un essere umano". Ieri sera, il governo austriaco ha deciso l’impiego anche dell’esercito per risolvere il problema del trasporto dei rifugiati. Stupisce pertanto che ieri La Repubblica abbia voluto attribuire alle ferrovie austriache, o al governo austriaco, l’intenzione di un blocco dell’esodo di profughi dall’Ungheria, come dichiarava il titolo di prima pagina ("Austria, un altro no") francamente fuorviante. Per carità, lo stato di eccezione e di provvedimento straordinario dei confini finalmente aperti può in qualunque momento finire, ma ancora non è successo. Al momento anzi aumenta lo sforzo logistico austriaco: il transito verso la Germania - solo in circa 300 chiedono giornalmente asilo in Austria- è sempre meno un semplice stop and go, i tempi di attesa e permanenza sono aumentati. La sfida è di trovare per tutti e subito un posto letto: "Servono posti letto dove le persone possano riposare e riprendersi per alcune ore o per la notte" ha detto il coordinatore per i rifugiati del comune di Vienna che sta reperendo e allestendo alloggi a tappeto tra case per pensionati o case dello studente in edifici dismessi o vuoti, costruttori, persino banche. Una buona notizia: L’ impegno a favore dei rifugiati del comune di Vienna fa recuperare consensi nei sondaggi al sindaco socialdemocratico (Spoe) Michael Hauepl. a scapito della xenofoba Fpoe di H.C. Strache che pretende di poter vincere le comunali di Vienna, bastione "rosso" da quasi 100 anni (eccetto il periodo 1934-45), che si svolgeranno l’11 ottobre. Continua intanto ininterrotto il coinvolgimento concreto welcome refugees di cittadini comuni e Ong. Ogni giorno dal Prater di Vienna partono convogli di macchine per recapitare aiuti al campo di Roszke, a tre ore e mezzo di macchina dalla città e verso Gyor, e per trasportare i rifugiati a Vienna. Droghe: Radicali: Parlamento e Governo facciano tesoro di Relazione annuale dipendenze radicali.it, 12 settembre 2015 Dichiarazione di Marco Perduca, Membro di giunta dell’Associazione Luca Coscioni e Rappresentante all’Onu del Partito Radicale: "È finalmente stata presentata alle Camere la "Relazione 2015 al Parlamento sullo stato delle tossicodipendenze in Italia", si tratta di un lavoro immane (quasi 700 pagine!) che offre al legislatore un contesto presentato laicamente con abbondanza, forse eccessiva, di particolari in netta discontinuità col passato quando i numeri venivano utilizzati per provare la presunta efficacia della legge e delle politiche. Positivo anche il fatto che si tratti un gruppo di lavoro che include soggetti extra-istituzionali, meno utile forse l’avere delle stime ancora ferme al 2009. Il dato che balza maggiormente agli occhi è che il 10% degli italiani ha rapporti con le sostanze proibite, che il giro d’affari stimato supera i 23 miliardi di euro e che il costo della repressione penale del fenomeno va oltre il miliardo di euro e che, a fronte di tutto ciò, non si registri alcuna diminuzione del consumo e dello spaccio. Come sappiamo la relazione non verrà discussa dalle Camere e, mancando un sottosegretario deputato alla questione, non vi è stata, ne pare vi sarà, una presentazione da parte del Governo di questo prezioso lavoro. Affinché questo sforzo non resti materiale per scaffali o portali e il legislatore possa farne tesoro, occorre finalmente prendere in considerazione la possibilità di modificare il meccanismo di presentazione del documento e istituire un meccanismo formale e istituzionale che preveda una discussione politica almeno nelle commissioni salute e giustizia di Camera e Senato. Il titolo della relazione potrebbe inoltre suggerire al Governo un cambio di denominazione del dipartimento stesso, d’altronde anche Il Coordinatore del Dipartimento, Patrizia De Rose, ha tenuto a sottolineare che il documento "si sofferma sul fenomeno delle ‘dipendenzè nell’accezione più generale del termine, piuttosto che sulla sola ‘dipendenza da drogà, e cioè dipendenze anche da alcol, fumo e gioco d’azzardo patologico". Infine, siccome dalle 700 pagine della relazione risulta sempre più evidente che le politiche "anti-droga" abbiano miseramente e patentemente fallito e che resti invece necessario rafforzare la parte relativa al governo degli effetti problematici del loro uso potrebbe esser utile e opportuno modificare denominazione e scopo del Dipartimento. L’occasione della sesta conferenza nazionale sulle droghe sarebbe il luogo appropriato per affrontare il problema. A proposito, non guasterebbe che il Governo annunciasse anche le date per questo importante appuntamento atteso da oltre tre anni". Cuba: per la visita del Papa approvato un indulto per oltre 3.500 detenuti di Geraldina Colotti Il Manifesto, 12 settembre 2015 In occasione della visita di Papa Bergoglio, il 19 settembre, a Cuba saranno rilasciati 3.522 detenuti. L’indulto, esecutivo a 72 ore dalla decisione, riguarderà soprattutto ultrasessantenni e minori di 20 anni senza precedenti penali, malati, donne, reclusi in libertà condizionale o in misure alternative e detenuti stranieri "sempreché il paese d’origine ne garantisca il rimpatrio". Salvo "specifiche eccezioni per ragioni umanitarie" sono esclusi i condannati per omicidio, stupro, pedofilia violenta, corruzioni di minori, uccisione illegale e tortura di bestiame, traffico di droga, rapina con violenza e attentati alla sicurezza dello Stato. Intanto, è in corso la prima riunione della Commissione bilaterale Cuba-Usa, annunciata il 14 agosto dal ministro degli Esteri cubano Bruno Parrilla e dal segretario di Stato Usa, John Kerry durante la riapertura dell’ambasciata statunitense all’Avana. Si cerca di trovare un’intesa su punti spinosi, all’interno di un processo "lungo e complesso" e a partire da "due diverse visioni". Sul tavolo, il tema dell’immigrazione "sicura, ordinata e legale"; la cooperazione in tema ambientale, la questione della sicurezza, il sostegno di Washington agli attentatori anticastristi come Luis Posada Carriles e le ingerenze. Carriles, uomo della Cia, ha organizzato l’attentato in cui hanno perso la vita 73 passeggeri di un aereo cubano. Avendo agito anche su territorio venezuelano, Caracas ne ha chiesto l’estradizione. Ma gli Usa vogliono la testa di alcuni rifugiati, come la ex militante delle Pantere nere Assata Shakur, che vive a Cuba dall’84. L’Avana chiede l’abolizione della Ley de Ajuste Cubano, promulgata nel 1966, che agevola e favorisce l’entrata di cubani dissidenti e consente di ottenere permesso di lavoro e residenza dopo un anno e un giorno di permanenza negli Usa. Una misura che favorisce l’immigrazione illegale e il traffico di persone. Uno scoglio ulteriore sul piatto diplomatico, che vede al primo posto la necessità per Cuba di rimuovere il blocco economico, commerciale e finanziario imposto dal 1962 che le impedisce di procurarsi beni e risorse necessarie. In 55 anni, Cuba ha perso 129 mila milioni di dollari e ora chiede di essere risarcita. Inoltre, l’Avana chiede la restituzione di Guantánamo, che gli Usa occupano illegalmente con la Base militare, diventata luogo di tortura e violazioni dei diritti umani dal 2002. La chiusura di Guantánamo fu una delle prime promesse di Obama. Le resistenze interne, trasversali ai due schieramenti politici nordamericani, indicano però che la prospettiva non sarà per domani. Cuba, intanto, lavora all’"attualizzazione del modello socialista", fidando anche sui dati che indicano una crescita del Pil. Un percorso - ribadisce l’Avana - tutto interno alle nuove alleanze solidali messe in campo nel continente latinoamericano, e fuori dalle logiche impositive del Fondo monetario. Intanto, proseguono a Cuba, con un nuovo capitolo, i dialoghi tra la guerriglia Farc e il governo colombiano. Stati Uniti: nuove carte sulle torture della Cia bloccate dall’amministrazione federale di Lucio Di Marzo Il Giornale, 12 settembre 2015 I legali chiedono che i resoconti scritti da un prigioniero di Guantánamo siano pubblici. "Il materiale è classificato". Il nome di Abu Zubaydah, cittadino saudita rinchiuso nel carcere di Guantánamo, è indissolubilmente legato a un rapporto sull’utilizzo della tortura da parte della Cia che mesi fa fece scalpore alla pubblicazione negli Stati Uniti. L’uomo, accusato per piani criminosi di matrice terroristica, è stato sottoposto a lungo a tecniche di interrogatorio che applicavano metodi assimilabili alla tortura, dalla privazione del sonno al water-boarding, che gli è stato più volte praticato. La sua storia è finita in un rapporto di oltre mille pagine, di cui solo poche sono state rese pubbliche. Ora si torna a parlare della sua detenzione perché i legali che ne seguono il caso lamentano come le autorità statunitensi siano restie a concedere la pubblicazione di più di cento pagine di materiale, che contengono il racconto da parte di Zubaydah delle torture subite in carcere. Si tratta, nello specifico, di 116 pagine, di cui gli avvocati hanno chiesto la pubblicazione in dieci occasioni diverse. "Il governo le ha dichiarate tutte come classificate", ha spiegato Joe Margulies, il capo del team legale che cura il caso di Abu Zubaydah. Dopo la pubblicazione a dicembre del rapporto sulla tortura del Senato, il governo americano aveva approvato la pubblicazione di ventisette pagine di note compilate da un altro detenuto, Majid Khan. Nel caso di Zubaydah hanno preferito agire diversamente. La decisione ha stupito gli avvocati non solo per questo precedente, ma pure perché le pagine di cui vorrebbero la pubblicazione - a suo dire - non conterrebbero nulla che non possa essere reso noto. Le regole prevedono che le carte non possano rivelare l’identità del personale della CIA o la posizione delle "carceri" dove la tortura avveniva. Venezuela: il leader dell’opposizione Leopoldo Lopez condannato a 13 anni e 9 mesi Corriere della Sera, 12 settembre 2015 Una sentenza che chiude un processo di 19 mesi additato da gran parte del mondo come un atto di persecuzione politica da parte del governo di Nicolas Maduro. Tredici anni e nove mesi: il giudice Susana Barrientos ha inflitto al dirigente oppositore venezuelano Leopoldo Lopez la più dura delle pene possibili per i delitti dei quali è stato ritenuto colpevole, con una sentenza che chiude un processo di 19 mesi additato da gran parte del mondo come un atto di persecuzione politica da parte del governo di Nicolas Maduro. Lopez è rinchiuso nel carcere militare di Ramo Verde, a nord di Caracas, dal 18 febbraio dell’anno scorso, quando si è consegnato alle autorità che lo indicavano quale responsabile degli incidenti scoppiati al termine di una manifestazione studentesca svoltasi 6 giorni prima nel centro della capitale venezuelana. Secondo la tesi dell’accusa, Lopez sarebbe stato responsabile della violenza di piazza di quella giornata, durante la quale manifestanti oppositori hanno affrontato la polizia, bruciato automobili ed attaccato la sede della Procura centrale di Caracas. In un primo momento l’imputazione comprendeva anche il delitto di omicidio, riferito alle tre persone - due manifestanti e un dirigente chavista - morte durante gli scontri, ma queste accuse sono state ritirate dopo che un’inchiesta giornalistica ha dimostrato che erano state uccise da agenti della polizia. Lopez, un economista di 44 anni, leader del partito Volontà Popolare, ha sempre respinto le accuse che gli erano rivolte, insistendo sul fatto che il suo appello alla protesta è sempre stato non violento e che è stato arrestato e processato solo perché si oppone al governo di Maduro. "Se mi condanna, avrà più paura lei leggendo la sentenza che io ricevendola, perché lei sa benissimo che sono innocente", ha detto il leader antichavista al giudice Barrientos durante l’udienza di oggi, dopo che il magistrato gli ha proibito di far vedere un video preparato dalla sua difesa per dimostrare che le accuse contro di lui erano senza fondamento. L’intero processo è stato contrassegnato da ogni sorta di irregolarità: tutte le testimonianze e le prove ammesse dal tribunale provenivano esclusivamente dall’accusa - quelle della difesa sono state respinte - le udienze non sono mai state pubbliche e le condizioni di detenzione di Lopez sono state denunciate da gruppi di difesa dei diritti umani, secondo le quali il dirigente oppositore deve essere considerato un prigioniero politico. L’arresto e il processo di Lopez sono stati denunciati come arbitrari anche da organismi internazionali, come la Commissione Interamericana per i Diritti Umani e la Commissione delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, Ong di difesa dei diritti umani come Amnesty International e Human Rights Watch e soggetti politici come il presidente Barack Obama e l’Europarlamento di Strasburgo. Nigeria: calcio e lezioni di Corano, così si de-radicalizzano gli ex terroristi di Boko Haram di Leone Grotti Tempi, 12 settembre 2015 Ecco come si cerca di rieducare i terroristi in prigione. Uno dei detenuti dichiara: "Quando ho capito che avevo rovinato la mia vita mi sono messo a piangere". In una prigione della Nigeria, di cui non può essere rivelata l’esatta località per motivi di sicurezza, tutte le mattine si giocano partite di calcio da sei contro sei, verdi contro gialli. Non è per far svagare i detenuti ma per aiutarli a de-radicalizzarsi dopo aver militato nei ranghi di Boko Haram. All’inizio, pochi dei 45 detenuti speciali del carcere partecipavano, perché il gruppo jihadista che devasta dal 2009 la Nigeria e che ha appena rapito un altro sacerdote, padre Gabriel Oyaka, bandisce ogni tipo di sport. "Dopo aver visto gli altri che tornavano eccitati e soddisfatti, però, hanno cominciato a partecipare", dichiara alla Bbc Emmanuel Osagie, membro del team incaricato di recuperare alla società gli ex terroristi. Il portiere della squadra gialla sta cominciando a cambiare visione del mondo. "Quando sono arrivato qui, non accettavo ordini dai miei carcerieri. Litigavo sempre con loro. Non li consideravo come esseri umani". L’uomo, arrestato a un check-point quattro anni fa, rivela: "Amavo la mia religione e quando Mohammed Yusuf (ex leader di Boko Haram, a cui è succeduto Abubakar Shekau, ndr) è venuto a predicare nel mio villaggio l’ho seguito". Pur affermando di non aver mai usato un’arma, insiste di aver sempre desiderato combattere il jihad e la guerra santa. Ora, dopo aver parlato con diversi imam in carcere, afferma di essere cambiato: "Quando gli imam venivano in prigione, pensavo fossero degli ipocriti e li insultavo. Ma loro hanno perseverato, ho iniziato a rispettarli perché mi rispettavano: mi hanno fatto capire che mi stavo sbagliando. Quando ho capito che avevo rovinato la mia vita mi sono messo a piangere. I miei fratelli hanno moglie e figli. Anch’io adesso voglio rifarmi una vita". Le visite in cella di imam e sacerdoti servono a dare una diversa idea di religione ai prigionieri. "È importante insegnare loro la religione, anche il cristianesimo. Un sacco di bambini imparano a memoria il Corano e basta, invece bisogna capire il senso di ciò che si impara. Bisogna anche insegnare loro a tollerare le altre fedi", spiega la psicologa Fatima Akilu. Alcuni dei detenuti hanno una militanza più recente in Boko Haram e hanno conosciuto l’attuale leader, Shekau: "È un uomo davvero ostinato. Anche se un uomo porta una maglietta nera, lui può dire che è bianca e tu non riuscirai mai a fargli cambiare idea. È sotto la sua leadership che il movimento è diventato così violento ed estremista, non hanno alcun rispetto per la vita umana. Io, da parte mia, volevo solo combattere le bugie e l’oppressione del governo".