Quando la Giustizia sa essere crudele di Ornella Favero Ristretti Orizzonti, 11 settembre 2015 Mostra del Cinema di Venezia, in concorso c’è anche un film francese, L’Hermine (L’Ermellino), protagonista un giudice togato, presidente di Corte d’Assise, soprannominato "il magistrato a due cifre", perché è difficile che le "vittime" dei suoi verdetti scontino meno di dieci anni di reclusione. Un uomo con poca umanità, una macchina da guerra senza pietà, finché nella sua vita, e nei suoi processi, non entra una donna che invece di umanità ne ha da vendere, tanto che riesce a trasmetterne anche a lui, e a umanizzare anche quel processo dove lei è giudice popolare. Ecco, guardando quel film ho pensato a quel detenuto della mia redazione, Roverto Cobertera, che della Giustizia italiana ha conosciuto solo la faccia maligna, e invece avrebbe avuto bisogno di un po’ di umanità, o anche solo di un po’ di VERITÀ. Avrebbe avuto bisogno di un giudice come quello del film, capace a un certo punto di fermarsi e di capire finalmente che ogni essere umano è comunque migliore del suo reato. Roverto Cobertera sta facendo uno sciopero della fame e della parola che è senza speranza, uno sciopero PER MORIRE. E tutti noi della redazione ci sentiamo del tutto impotenti. Mi ricordo che quando Roverto è arrivato per la prima volta in redazione, era arrabbiato con il mondo intero, e soprattutto con chi, a suo dire, lo aveva condannato ingiustamente. Lui non ha mai detto, però, di essere "innocente", lui ha sempre riconosciuto di aver fatto il trafficante di droga, ma di non aver commesso l’omicidio che gli è costato in primo grado una condanna a 24 anni, e in appello all’ergastolo. E noi abbiamo cominciato a credergli, per quella sua rabbia e quel senso di impotenza che ogni giorno apparivano più veri e sinceri, ma anche perché abbiamo letto le carte, e visto approssimazioni e stranezze in quella condanna così pesante, in quell’ergastolo così crudele. Ora lui si sta lasciando morire per disperazione, sta perdendo la famiglia, le figlie, ancora bambine, che non possono accontentarsi, dalla Spagna in cui vivono con la madre, dei dieci miserabili minuti di telefonata a settimana (a Padova ci sono due telefonate in più al mese, ma sono ugualmente briciole), e quando la telefonata si interrompe la bambina più piccola gli urla "Ti odio, papà" perché non può accettare che un padre lontano abbia tutta questa "fretta" e non voglia parlare con lei. Noi non chiediamo di credere all’innocenza di Roverto, ma di capire che se una persona si lascia morire pur di affermare quella innocenza, forse merita almeno ASCOLTO e UMANITÀ. A breve gli avvocati di Roverto presenteranno la richiesta di revisione del processo, perché ci sono elementi nuovi a sostegno della tesi della sua innocenza, noi speriamo che i tempi non siano lunghi come sempre lo sono nel nostro Paese, e che qualcuno abbia il coraggio di credere in Roverto, e nella sua sete di Giustizia, e ci aiuti a convincerlo a fermarsi: questo nostro Paese non deve in nessun modo permettere che una persona debba morire per affermare la sua innocenza. E non può fare a finta di non vedere che Roverto sta davvero morendo, che non ha più voglia di vivere, che non sopporta di buttare la sua vita scontando una pena senza speranza come l’ergastolo. A chi poi è convinto che l’ergastolo comunque sia una pena accettabile, chiedo di provare a immaginare che cosa vuol dire veder scorrere la propria vita senza un filo di speranza, senza niente in cui credere e niente da sognare: è una condizione insopportabile per qualsiasi essere umano, ma se quell’essere umano sa di essere stato condannato ingiustamente, è una condizione mostruosa, che nemmeno è possibile immaginare. Credo che Roverto sia davvero in questa condizione, e credo che dobbiamo fermarlo ridandogli in qualche modo quel FILO DI SPERANZA senza il quale vivere diventa inutile. Giustizia: l’arcivescovo Fisichella "il Papa non ha chiesto l’amnistia" di Cesare Maffi Italia Oggi, 11 settembre 2015 E quindi gli entusiasmi di Pannella e le preoccupazioni del governo sono senza fondamento. Lo ha spiegato a Tempi, il destinatario della lettera. A oltre una settimana dalla lettera del pontefice all’arcivescovo Rino Fisichella sul Giubileo della misericordia è giunta l’interpretazione autentica di un passo che era finora stato letto in maniera ben diversa rispetto all’intendimento di Bergoglio. Si tratta dell’amnistia. Subito dopo la pubblicazione della missiva, si era assistito, da parte di chi propugna un provvedimento di clemenza (in primis i Radicali), a un’appropriazione del pensiero papale, al punto che, come si è scritto ieri su queste pagine, "Papa Francesco ha convertito anche i Radicali". La faccenda sta un po’ diversamente. Rileggiamo le parole di Bergoglio: "Il mio pensiero va anche ai carcerati, che sperimentano la limitazione della loro libertà. Il Giubileo ha sempre costituito l’opportunità di una grande amnistia, destinata a coinvolgere tante persone che, pur meritevoli di pena, hanno tuttavia preso coscienza dell’ingiustizia compiuta e desiderano sinceramente inserirsi di nuovo nella società portando il loro contributo onesto. A tutti costoro giunga concretamente la misericordia del Padre che vuole stare vicino a chi ha più bisogno del suo perdono". Luigi Amicone, direttore di Tempi, intervistando monsignor Fisichella gli ha chiesto: "Non solo Pannella, noi qui e perfino il governo Renzi ha inteso le parole di Francesco sulla grande amnistia come un messaggio rivolto allo Stato". L’arcivescovo, destinatario del messaggio papale, ha con chiarezza risposto subito: "Sbagliato". Ha spiegato come sia "il Giubileo stesso a costituire la grande amnistia, una formula che si richiama alla storia biblica". Quanto al teorico appello alle autorità civili, Fisichella è secco: "Non c’è nessuna intenzione di rivolgersi al governo e agli Stati". L’arcivescovo non chiude la porta a un futuro intervento del papa per chiedere atti di clemenza (se vorrà, "troverà le forme perché abbia ad essere un messaggio rivolto ai governi e agli Stati"), ma precisa senza equivoci: "non certamente in una lettera scritta a me per il giubileo". Dunque, le disquisizioni avanzate dall’inizio del mese a proposito dell’amnistia richiesta da Bergoglio sono state vane. Il papa voleva riferirsi ai carcerati soltanto per consentire loro di lucrare l’indulgenza (come un tempo si diceva) pur nelle loro condizioni afflittive. Non ha lanciato alcun appello pubblico. Potrà farlo: per ora, no. A questo punto è arduo smentire l’arcivescovo Fisichella, il quale potrebbe essere intervenuto anche per un invito giunto in tal senso dall’alto. I fautori della clemenza ci proveranno, però le parole del monsignore e il suo ruolo nella Santa Sede (è a capo del Pontificio consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione e responsabile dell’organizzazione del giubileo) non lasciano molto spazio a una diversa lettura. Giustizia: l’impero della legge è crollato da tempo di Roberta De Monticelli Il Fatto Quotidiano, 11 settembre 2015 La disperazione più grande che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile", ha scritto Corrado Alvaro. Non sono d’accordo. Non è la più grande. Ancora più grande fonte di disperazione è il dubbio che nessuna istituzione, nessuna legittima autorità, nessuna giurisdizione custodisca le norme dell’onestà, difendendoci dalle loro violazioni ma soprattutto, all’occorrenza, giudicandole. Distinguendo ciò che è onesto da ciò che non lo è - che sia punibile o no. Che si sia cancellata la grammatica e la logica del parlare onesto, cioè chiaro e distinto, dalla mente di tutte le maestre di scuola. Che non ci siano più affatto giudici, né a Berlino né a Roma. Che niente e nessuno custodisca il patto fondamentale che ci lega gli uni agli altri in una società attraverso l’assunzione dei nostri doveri e dei nostri diritti, il patto fondamentale di cittadinanza. Insomma, la disperazione più grande che possa impadronirsi di una società è il dubbio che l’impero della legge sia crollato da un pezzo, e per questo il messaggio dell’imperatrice non ci è mai arrivato. Questo dubbio sta diventando certezza nell’Italia di oggi. Forse era questo che intendeva Corrado Alvaro? Ma le parole sono importanti. Vivere onestamente è certamente inutile in moltissimi casi, anzi positivamente svantaggioso per l’onesto. Ma questa non è una buona ragione per rinunciare a esserlo, dal momento che è ingiusto, cioè lesivo di ciò che è dovuto agli altri. Anzi: la speranza è salva ogni volta che è salva la legge, cioè la sua idealità: l’ideale non è il reale, e ogni violazione della norma, se è riconosciuta come tale, nutre la nostra riserva di idealità, cioè di speranza nella possibilità di una società più giusta. Ma ogni volta che la norma, metro di misura di ciò che è disonesto, si adatta al fare disonesto, un po’ dell’idea di giustizia si cancella dalla nostra coscienza, la nostra riserva di idealità si riduce, e la nostra speranza cala. Se l’autorizzazione a una modica quantità di frode fiscale diventa legge. Se un candidato ineleggibile a norma di legge esercita il potere con il beneplacito dell’autorità designata a far rispettare la legge. Se un decreto legislativo sulla certezza del diritto (!!) consente, purché rientri il capitale, "di mantenere la fedina penale immacolata, anche in presenza di ipotesi di reato comparabili a ricettazione e frode fiscale, con pene intorno ai 10 anni"(Corriere della Sera, 29 agosto 2015). Se un presidente del Consiglio irride a un’Istituzione della Repubblica, chiamata a tutelare il patrimonio artistico e paesaggistico, le Sovrintendenze. Se esprime disprezzo nei confronti dei cittadini che esercitano il loro dovere di critici nei confronti di chiunque sostituisca il proprio arbitrio al governo della legge, perché "bloccano il Paese". In tutti questi casi e innumerevoli altri un pezzo della riserva di idealità su cui si regge il rule of law è consumato, e una congrua porzione di speranza, erosa. Ebbene: con le riforme costituzionali in corso un enorme, ulteriore pezzo di idealità viene sacrificato a vantaggio della realtà, o della Realpolitik, o del "non ci faremo fermare da nessuno", comunque vogliate chiamare l’es p r es s i on e dell’arbitrio dell’u omo, anzi dei molti piccoli uomini interessati ai loro particolari vantaggi, invece che al bene pubblico. Attraverso una riforma del Senato che riduce a un "camerino" di interessi locali quella che la Costituzione italiana pensava come la Camera Alta (il suo Presidente è attualmente colui che esercita le funzioni di Presidente della Repubblica "in ogni caso in cui egli non possa adempierle", art. 86). Ma che, in combinazione con la legge elettorale approvata, riduce in modo drastico tanto la rappresentatività del Parlamento quanto la sua autonomia nei confronti dell’esecutivo, ed erode ulteriormente il fragile fondamento istituzionale della democrazia - la divisione dei poteri, il check and balance. Perché attraverso i meccanismi di elezione del Presidente della Repubblica e la riduzione di indipendenza della Corte costituzionale rimette nelle mani dei piccoli arbitri dei piccoli uomini di fatto al potere la quasi totalità della decisione su ciò che "deve" essere. No, non ripeteremo con parole vaghe le obiezioni fulminanti e inascoltate che i migliori rappresentanti del Diritto e della sua scienza hanno rivolto al testo della riforma governativa, dove la forma è sostanza, e la forma, ahimè, è "sgrammaticata". Ci limiteremo a concludere questa riflessione, che speriamo condivisibile dal maggior numero di cittadini. È la giustizia, non l’utilità, la misura della nostra disperazione. Meglio di Corrado Alvaro lo dice Kant: quando l’idea di giustizia ha finito di scomparire dalle nostre coscienze, non vale più nulla la vita di nessun uomo, su questa terra. Giustizia: caso Cucchi; l’avvocato accusa "due Carabinieri testimoniano contro i colleghi" di Eleonora Martini Il Manifesto, 11 settembre 2015 "Ci sono due nuovi testimoni, due carabinieri che accusano i loro colleghi". Potrebbe esserci una svolta clamorosa nell’inchiesta bis aperta dal procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone, sulla morte di Stefano Cucchi, il 32enne romano morto nel reparto penitenziario dell’ospedale Pertini sei giorni dopo essere stato arrestato per possesso di stupefacenti, nella notte del 15 ottobre 2009. "Uno dei due carabinieri un paio di mesi fa ha contattato il mio studio chiedendo di parlarmi - racconta al manifesto il legale della famiglia Cucchi, l’avvocato Fabio Anselmo - abbiamo raccolto la loro versione dei fatti e abbiamo portato la trascrizione delle loro dichiarazioni al procuratore Pignatone, il quale successivamente li ha convocati e ascoltati. Anche sul piano medico-legale - aggiunge l’avvocato - abbiamo raccolto contributi che potrebbero sciogliere alcuni nodi importanti. Ma la procura sicuramente è andata molto oltre, acquisendo elementi che aprono una visuale diversa su tutta la vicenda". La richiesta di riaprire le indagini fu avanzata dalla famiglia Cucchi all’indomani della sentenza del processo d’Appello che il 31 ottobre scorso, ribaltando il primo grado, assolse i sei medici, i tre infermieri e i tre agenti di polizia penitenziaria imputati. L’inchiesta bis, affidata da Pignatone al pm Giovanni Musarò, venne aperta però a gennaio, dopo un formale esposto presentato dai legali di famiglia e dopo che la stessa Corte d’Appello, nel motivare la sentenza, riconobbe che senza dubbio Stefano Cucchi "fu sottoposto ad un’azione di percosse" e invitò perciò la procura a indagare ulteriormente proprio sui carabinieri. La famiglia infatti ha sempre sostenuto che il giovane fosse stato picchiato in più occasioni, forse anche durante il tragitto dal carcere di Regina Coeli, dove era stato rinchiuso dopo l’arresto compiuto dai carabinieri, fino al tribunale dove la mattina dopo venne trasferito per l’udienza di convalida d’arresto. D’altronde lo stesso presidente della Corte d’Appello, Mario Lucio D’Andria, scrive nelle motivazioni della sentenza che "già prima di arrivare in tribunale Cucchi presentava segni e disturbi che facevano pensare a un fatto traumatico avvenuto nel corso della notte", e che non è da ritenersi "astratta congettura l’ipotesi prospettata in primo grado, secondo cui l’azione violenta sarebbe stata commessa dai carabinieri che lo hanno avuto in custodia nella fase successiva alla perquisizione domiciliare". Ieri il Corriere della Sera ha pubblicato l’indiscrezione secondo la quale sarebbero già tre i militari finiti sotto la lente degli inquirenti. In particolare un maresciallo dei carabinieri sarebbe indagato per falsa testimonianza. I nomi degli altri due militari riportati nell’articolo, invece, "non figurano - riferisce ancora Anselmi - nemmeno nei verbali di arresto di Stefano, il che sarebbe molto inquietante, se la notizia venisse confermata". "Finalmente la verità sta venendo a galla - commenta con soddisfazione Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano - In questi anni non ci siamo mai fermati, né io né il mio avvocato. Incontreremo lunedì il procuratore capo. Questa è la prima delle novità che ci saranno sul caso della morte di mio fratello. Io l’avevo detto: non era finita". Giustizia: caso Cucchi "è successo un casino, hanno massacrato di botte un ragazzo" di Silvia D’Onghia e Valeria Pacelli Il Fatto Quotidiano, 11 settembre 2015 "È successo un casino, hanno massacrato di botte un ragazzo". È quanto avrebbe detto ad alcuni colleghi Roberto Mandolini, nel 2009 Maresciallo dei Carabinieri alla stazione di Roma Appia. Il 15 ottobre 2009 compilò il verbale di arresto di Stefano Cucchi, che morì una settimana dopo. Per anni, chi ha sentito queste parole ha taciuto. Fino a due mesi fa quando i due carabinieri della vicina stazione Tor Vergata, hanno rivelato questa circostanza al procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone e al pm Giovanni Musanò. Nuovi dettagli dell’inchiesta bis sulla morte del giovane, che per la prima volta mette nel mirino i carabinieri, e non gli agenti di polizia penitenziaria. I due nuovi testimoni, indagato dall’avvocato Fabio Anselmo che assiste i Cucchi, sono militari, un uomo e una donna che erano di turno a Tor Vergata quando hanno visto arrivare Mandolini, ora indagato per falsa testimonianza. Secondo quanto riferito dal Tg1 ieri sera, la donna avrebbe detto ai pm: "Durante la mattinata è arrivato un collega, che non conoscevo. Il maresciallo Mandolini, si è presentato così. Era in uno stato agitato e disse, del fatto di Cucchi, che lo avevano massacrato di botte i carabinieri. (...) Disse che dei carabinieri, non facendo nomi, genericamente quelli che io penso abbiano operato l’arresto, non si erano regolati a livello fisico. E l’avevano massacrato e cercavano di scaricarlo". La dichiarazione di sei anni fa Rivelazioni sulle quali la Procura sta lavorando: decine di interrogatori sono stati fatti nei mesi scorsi. Allo stesso modo verranno verificate le parole del collega di Tor Vergata. il militare secondo il Tg1 avrebbe detto ai pm: "Ricordo che arrivò lui con un passo veloce, con una faccia abbastanza tesa e preoccupata. Mi disse: ‘È successo un casino, i ragazzi hanno massacrato di botte un ragazzo’". Con Mandolini rischiano altri due carabinieri: Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, ai quali secondo quanto riportato dal Corriere della Sera potrebbe essere contestato il reato di lesioni colpose. I loro nomi erano già noti. Proprio Mandolini li indicò nel 2009, senza muovere accuse, ma dicendo che erano in "un’autovettura civile" che seguiva quella in servizio durante la perquisizione, con esito negativo, a casa della mamma di Cucchi. La deposizione è del 29 ottobre 2009, quando Mandolini viene sentito come persona informata sui fatti nel primo filone dell’inchiesta che si è concluso con l’assoluzione in appello di medici, infermieri e agenti penitenziari. Al pm Vincenzo Barba dice di essere in servizio alla stazione dei carabinieri Appia. E aggiunge: "Cucchi è stato portato dagli operanti Tedesco, Aristodemo e Bazzicalupo intorno a mezzanotte. Non ho ritenuto di provvedere al foto-segnalamento dell’arrestato in quanto si opponeva non risultando affatto collaborativo, ma soprattutto perché era in possesso di due documenti". Sullo stato di salute del ragazzo dice: "Si presentava in normali condizioni per una persona dichiaratasi tossicodipendente e anoressica e con epilessia. Non presentava particolari segni di sofferenza se non le occhiaie ed un colore del viso olivastro, che collegai evidentemente alle patologie dallo stesso dichiarate". "Il cancello di casa forzato dopo la morte" Poi i dettagli sulla perquisizione: "Cucchi (...) è stato portato a casa per la perquisizione con la nostra auto di servizio, a bordo della quale vi erano Speranza, Nicolardi, Aristodemo e Tedesco, tutti in divisa. La nostra auto era seguita da altra autovettura civile appartenente ad un militare, occupata da D’Alessandro e Di Bernardo, in abiti civili". Questa novità suscita l’immediata reazione di Ilaria Cucchi: "L’allora ministro della Difesa La Russa disse che i carabinieri non c’entravano nulla. Non si sente in colpa?". I pm stanno verificando altre circostanze. Come quella che qualcuno abbia forzato dopo la morte di Stefano e secondo quanto riportato da Ilaria Cucchi, il cancello della casa in cui il giovane viveva a Morena (Roma). Sulla morte di un ragazzo si comincia a fare luce solo sei anni dopo. Giustizia: caso Meredith. L’avvocato di Guede "Rudy è innocente, ma non può fare nulla" di Sandra Amurri Il Fatto Quotidiano, 11 settembre 2015 Rudy Guede, l’ivoriano, dal carcere Mammagialla di Viterbo, dove è rinchiuso da 8 anni che valgono 10 per buona condotta, è l’unico condannato, con rito abbreviato, a 16 anni per omicidio in concorso con altri due soggetti e violenza sessuale su Meredith Kercher. Amanda Knox e Raffaele Sollecito sono stati assolti. La sentenza Rudy spiega che vi è stata violenza sessuale di gruppo sfociata in omicidio ma lui non è l’autore materiale del delitto. Dunque, chi materialmente ha impugnato il coltello e ha ucciso la studentessa inglese è ancora in libertà? "Esattamente - risponde l’avvocato Valter Biscotti, penalista di Perugia difensore di Guede - nella sentenza di condanna i giudici scrivono che Rudy non è l’autore materiale dell’omicidio. E nella sentenza Sollecito-Knox i giudici scrivono che la violenza sessuale che gli è stata riconosciuta potrebbe essere ingiusta perché il rapporto potrebbe essere stato consensuale in quanto non vi è prova del contrario", risponde. Dunque chiederà la revisione del processo? "No. La sentenza non lascia spazio, la Cassazione ha detto: dobbiamo fermarci qui, non si può proseguire nelle indagini perché il materiale non esiste più seppure abbia dato come certa, nella casa del delitto, la presenza di Amanda e fortemente probabile quella di Sollecito. Rudy ha sempre detto di essere entrato in casa con Meredith, appuntamento preso la sera prima. "Di essere andato in bagno dopo aver scambiato con lei momenti intimi da dove ha sentito suonare alla porta e di essersi tranquillizzato dopo aver sentito la voce di Amanda. Poi di aver udito un urlo, di essere uscito dal bagno e di aver visto una sagoma maschile che fuggiva. Ha preso l’asciugamano e ha cercato di tamponare le ferite sul corpo di Meredith, poi ha udito un forte rumore ed è scappato per la paura. Non si perdona di non aver chiamato il 118 che avrebbe salvato la ragazza, morta per soffocamento con il suo stesso sangue". Se non aveva ucciso Meredith perché scappò in Germania dove fu arrestato? "Temeva di non essere creduto. È stato condannato per violenza sessuale seppure la prima perizia lo escludesse. C’era una macchia sul cuscino di Meredith che non è stata analizzata nonostante lo avessi richiesto". Perché? "Non lo so. Questa storia insegna che le sentenze di primo grado non dovrebbero essere impugnate dal pm in caso di assoluzione. La condanna deve avvenire oltre ogni ragionevole dubbio tant’è che i giudici hanno detto che non vi erano elementi per giudicare né la colpevolezza né l’innocenza di Sollecito e Knox". La Cassazione che li ha condannati non ha applicato questo principio? "Abbiamo avuto due versioni opposte da due sezioni della Cassazione: per una c’erano le prove, per l’altra non erano sufficienti. Il processo mediatico è il peggior nemico della verità processuale perché spesso accade che le Procure si pieghino alle esigenze dei mass media. Guede non ha parenti in Italia". Chi va a trovarlo? "Le sue maestre delle elementari. Trascorre il tempo studiando, si sta per laureare. Gli restano 6 anni da scontare con i benefici uscirà presto. "Non abbiamo fatto richiesta". Giustizia: caso Marta Russo; Scattone rinuncia alla cattedra "non sono più sereno" Corriere della Sera, 11 settembre 2015 Condannato per l’omicidio di Marta Russo, avrebbe dovuto insegnare Psicologia in una scuola di Roma. "Se la coscienza mi dice di poter insegnare, la mancanza di serenità mi induce a rinunciare all’incarico": lo ha annunciato Giovanni Scattone, al quale nei giorni scorsi è stata assegnata una cattedra di psicologia all’Istituto professionale Einaudi di Roma. Condannato per l’omicidio di Marta Russo - la studentessa uccisa da un colpo di pistola il 9 maggio del 1997 mentre passeggiava nei cortili dell’università La Sapienza - Scattone ha scontato la pena, ma la notizia diffusa dal Corriere della Sera ha suscitato forti polemiche. Dolore era stato espresso dalla madre di Marta, Aureliana: "È una notizia che ci fa ripiombare nel dolore, lo acuisce ancora di più. È assurdo che una persona come quella possa insegnare", aveva detto. Oggi la donna si dice "contenta per gli studenti". È una decisione di "buonsenso", ha commentato Aureliana Russo: ha fatto l’unica cosa giusta da farsi non perché non debba lavorare ma non può educare. E mentre si trincera dietro al silenzio la dirigente dell’istituto professionale Einaudi, cui il professor Scattone era destinato, il ministro dell’Istruzione, Stefania Giannini, ha minimizzato la vicenda: "Sarei tranquilla se mia figlia fosse nella scuola dove insegna il professor Scattone", ha detto. "Il caso Scattone risale a 17 anni fa, il professor Scattone da allora ha insegnato come supplente, e adesso fa parte di graduatorie da cui è stato attinto, ha espiato la condanna che non prevedeva l’interdizione dai pubblici servizi. Semmai è lui che ora deve prendere posizione, è un problema della sua coscienza", ha spiegato il ministro. "Con grande dolore ed amarezza - ha detto l’ex assistente universitario - ho preso atto delle polemiche che hanno accompagnato la mia stabilizzazione nella scuola con conseguente insegnamento nell’oramai imminente anno scolastico. Il dolore e l’amarezza risiedono nel constatare che, di fatto, mi si vuole impedire di avere una vita da cittadino "normale"". "La mia innocenza, sempre gridata - aggiunge - è pari al rispetto nei confronti del dolore della famiglia Russo. Ho rispettato, pur non condividendola, la sentenza di condanna. Quella stessa sentenza mi consentiva, tuttavia, di insegnare. Ed allora sarebbe stato da Paese civile rispettare la sentenza nella sua interezza". "Ho sempre ritenuto - spiega Scattone - che per essere un buon insegnante si debba anzitutto essere persona serena. Oggi, in ragione di queste polemiche, non ho più la serenità che mi ha contraddistinto nei dieci anni di insegnamento quale supplente: anni caratterizzati da una mia grande soddisfazione anche e soprattutto legata al costruttivo rapporto instauratosi con alunni e genitori. Ed allora - annuncia - se la coscienza mi dice, come mi ha sempre detto, di poter insegnare, la mancanza di serenità mi induce a rinunciare all’incarico per rispetto degli alunni che mi sono stati affidati". "Così - prosegue il docente - questo Paese mi toglie anche il fondamentale diritto al lavoro. Dopo la tragedia che mi ha colpito, solo la speranza mi ha dato la forza di andare avanti. Anche oggi - conclude - vivrò con la speranza che un giorno la parte sana di questo Paese, che pure c’è ed è nei miei tanti ex alunni che in questi giorni mi sono stati vicini e nella gente comune che mi ha manifestato tanta solidarietà, possa divenire maggioranza". Il suo difensore, Giancarlo Viglione spera che ci sia un ripensamento: "La situazione è molto dolorosa e molto triste: Scattone, dopo anni di precariato, ha deciso di fatto di finire in mezzo a una strada per le polemiche che lo hanno travolto. Spero che vivamente ci ripensi", ha detto i legale. "Mi auguro che alle parole positive espresse dal ministro dell’Istruzione seguano quelle di altri e che a questa vicenda si possa trovare una soluzione". Giustizia: per Giovanni Scattone il tribunale ha detto 5 anni… il popolo ha detto ergastolo di Angela Azzaro Il Garantista, 11 settembre 2015 Da ieri possiamo dormire sonni meno tranquilli. In Italia la condanna non viene decisa da un tribunale, con tre gradi di giudizio, la valutazione delle prove, un’accusa e una difesa. Viene decisa dal popolo che dello Stato di diritto se ne frega. E così che Giovanni Scattone, dopo le polemiche per l’assegnazione di una cattedra, ha deciso di lasciare. Ha rinunciato al posto e - parole del suo avvocato - si trova ora in mezzo a una strada: "Se la coscienza - ha scritto all’Ansa - mi dice di poter insegnare, la mancanza di serenità mi induce a rinunciare all’incarico". Scattone insieme a Ferraro è stato condannato a 5 anni e 4 mesi per l’omicidio colposo di Marta Russo, uccisa da un colpo di pistola nei giardini della Sapienza. Era il 1992. Scattone si è sempre dichiarato innocente. Ma ha comunque pagato i suoi conti con la giustizia e ha poi cercato di rifarsi una vita. Come è normale. Come è giusto che sia. Come, soprattutto, recita la Costituzione all’articolo 27, quando indica nella pena non uno strumento di vendetta ma di rieducazione. Scattone c’ha creduto, ha vinto il concorso per avere una cattedra e grazie alle nuove assunzioni ha ottenuto il posto. Ma non aveva fatto i conti con qualcosa che la Costituzione non dice, che la civiltà dovrebbe ostacolare. Non ha fatto i conti con la vendetta, l’idea che se hai sbagliato non potrai mai e o poi mai ritornare nel consesso umano e civile. Scattone nella lettera in cui rinuncia alla cattedra ha scritto parole durissime. Ha detto che gli si vuole impedire una vita da cittadino normale e che quello che è accaduto non è degno di un Paese civile. La sua decisione di lasciare è di fatto una sconfitta di tutti noi, la sconfitta di chi davvero pensa che la società, la civiltà che abbiamo costruito, siano abbastanza forti da permettere a una persona, che ha sbagliato, di pagare il suo debito e di riprendere a vivere. Qui sta l’ipocrisia. Perché in realtà questa idea non vale più. Si applicano le norme, ma poi vince ormai la cultura della vendetta, dell’occhio per occhio, dente per dente. Se una persona ha sbagliato, è bollata a vita, è condannata a vita. Il processo che ha condannato Scattone e Ferraro è stato uno dei primi basati principalmente su indizi e non su prove. È stato cioè uno dei primi grandi processi mediatici, dove ha contato più la pressione popolare che lo Stato di diritto. Da qui quella sentenza a metà, quei 5 anni e 4 mesi per omicidio colposo come se i giudici avessero, nel dubbio, deciso di infliggere il minimo indispensabile. Nel dubbio, si sa, si dovrebbe assolvere. Ma erano troppe le pressioni, troppa l’attenzione di giornali e tv per non dare loro in pasto un colpevole. Comunque sia andata, la Cassazione nel 1997 ha deciso per una condanna definitiva a 5 anni e 4 mesi. La condanna è stata scontata. Il popolo urlante, però, dice che non basta. L’obiezione più diffusa è che così si manca di rispetto ai genitori di Marta Russo. Loro hanno perso una figlia, mentre Scattone può insegnare. Confutare questo discorso è centrale. Dirimente. Perché se ci affidiamo a questo ragionamento davvero possiamo chiudere i tribunali, stracciare il codice penale, dare fuoco alla Costituzione. La terzietà del giudice rispetto al dolore dei parenti della vittima o della vittima stessa è fondamentale per non ricadere nella vendetta, in una società che non ha fiducia nel cambiamento delle persone. Non dando una seconda possibilità a Scattone è come se dicessimo che l’essere umano non cambia, che la rieducazione è una utopia, che l’unico modo che abbiamo per garantire il rispetto della vita è quello di vendicarci contro chi sbaglia. Non dando una seconda possibilità a Scattone, non stiamo dando una possibilità a noi, alla società di cui facciamo parte per uscire dal clima di odio e di livore che si stanno affermando. Ecco perché sarebbe bello che Scattone, come auspicato anche dal suo avvocato, Giancarlo Viglione, cambiasse idea e non si facesse intimorire da chi oggi lo perseguita. Giustizia: un paio di osservazioni non di pancia sullo "scandalo" del professor Scattone di Leone Grotti Tempi, 11 settembre 2015 Scattone ha diritto a insegnare perché ha scontato la sua pena per omicidio e ha vinto un concorso. Se proprio bisogna indignarsi, non è lui il bersaglio giusto. La notizia, diffusa ieri dal Corriere della Sera, ha scatenato un mare di polemiche e un fiume di indignazione. Ed è in parte comprensibile. L’omicidio e la pena. Scattone, infatti, nel 2003 è stato condannato in via definitiva a 5 anni e tre mesi di carcere per omicidio colposo. Nel 1997 l’uomo, che non ha mai riconosciuto la sua colpevolezza, era assistente di Filosofia del diritto alla Sapienza di Roma e uccise a colpi di pistola una studentessa di 19 anni, Marta Russo. Dopo aver scontato la pena, Scattone ha ripreso a svolgere la sua attività di docente e nel 2012 ha vinto il concorso per insegnare Filosofia e Scienze umane nei licei. La rabbia dei genitori. Quest’anno, dopo aver svolto alcune supplenze, in forza del concorso vinto e delle assunzioni in ruolo previste dalla Buona Scuola (ma sarebbe entrato comunque per il turnover), tornerà a insegnare. I genitori di Marta Russo, Aureliana e Donato, sono comprensibilmente addolorati e perplessi: "Ai miei tempi per diventare di ruolo bisognava presentare il certificato del casellario giudiziale e bisognava fosse pulito", afferma Donato al Corriere della Sera. "Ma oggi a quanto pare è cambiato tutto. Oggi anche un assassino può fare l’educatore". "La legge è la legge". Delusa anche la madre Aureliana: "Se Scattone ha vinto un concorso ha diritto a ricoprire quel ruolo ed è giusto pure che dopo aver scontato la sua condanna si sia rifatto una vita, ma di certo era meglio se avesse fatto un altro lavoro ed era anche meglio se la Cassazione non gli avesse revocato l’interdizione dai pubblici uffici. Ma la legge è la legge e noi la osserviamo". Nelle parole della mamma di Marta Russo viene data voce a due concetti molto importanti per affrontare e circoscrivere l’indignazione profusa a piene mani da tutti i giornali e le televisioni. Problema giuridico. Il primo è di carattere giuridico. Giovanni Scattone è stato condannato per assassinio, ha scontato la sua pena e per la società è riabilitato. Di conseguenza, ha tutto il diritto di lavorare, anche nella scuola pubblica. I genitori sono arrabbiati perché non "ci ha mai chiesto perdono", e questa rabbia è più che comprensibile, ma non basta per impedirgli di cercarsi un impiego, come del resto la stessa mamma di Marta Russo con grande coraggio afferma: "È giusto che si sia rifatto una vita". Al limite, ci sono problemi che afferiscono alla moralità del soggetto, ma non sta allo Stato né alla legge farsene carico. Problema pratico. Il secondo problema è di natura pratica. Quale genitore vorrebbe che suo figlio avesse come insegnante un uomo condannato per l’assassinio di una studentessa? Probabilmente nessuno. E quale preside, se potesse scegliere, assumerebbe un professore con i precedenti penali di Scattone? Quasi certamente nessuno. Non sta certo a noi giudicare Scattone, al massimo si può discutere sulle ragioni che lo hanno spinto a non cambiare mestiere. Ma non è questo il punto. Sistema scolastico. Il sistema scolastico italiano, incessantemente difeso da politici, giornali e sindacati, non permette ai presidi di scegliere i propri insegnanti. Tutto deve essere formale, procedurale e rigorosamente "neutrale". I test approntati dal Miur per vincere i concorsi non prevedono in alcun modo la selezione del personale e non valutano le attitudini e motivazioni del docente, o altre qualità, ma solo la sua preparazione teorica. Ogni volta che qualcuno ha provato a cambiare questo sistema è stato subissato di insulti e attaccato con le peggiori accuse. Risposta sbagliata. Ecco perché l’indignazione fomentata dagli organi di informazione è indirizzata nel canale sbagliato. Scattone ha vinto un concorso e ha il diritto di insegnare. Se proprio bisogna indignarsi, non è Scattone il bersaglio giusto: "Dicono che è uno scandalo che faccia l’educatore?", ha dichiarato lui stesso sempre dal Corriere. "La verità è che un altro lavoro, diverso dall’insegnante, io lo farei volentieri. Solo che a quasi 50 anni faccio fatica a trovarlo". E ancora: "Però sono stufo di queste polemiche, ogni anno è la stessa storia e ormai sono dieci anni che insegno nei licei". Condannare per tutta la vita un uomo per gli errori che ha commesso, e per i quali ha già pagato, è la risposta sbagliata al problema sbagliato in un sistema scolastico sbagliato. Giustizia: Casamonica è un boss sebbene incensurato, in Campidoglio le oche starnazzano di Pino Nicotri Italia Oggi, 11 settembre 2015 Nell’incauta terminologia si è avventurato, con Casamonica, persino il prefetto Gabrielli. Il tormentone dell’estate continua. Quando si pensava che finalmente del funerale romano di Vittorio Casamonica non si parlasse più, ecco che le polemiche riprendono con violenza degna di miglior causa grazie al botto di Porta a Porta che, ospitando la figlia Vera e il nipote Vittorino del caro estinto, ha totalizzato più telespettatori anche di quando l’ospite del salottino di Bruno Vespa è stato il primo ministro Matteo Renzi. Il presidente del Pd, Matteo Orfini, il Pd romano, l’assessore alla Legalità del Campidoglio Alfonso Sabella, Beppe Grillo, il coordinatore nazionale di Sinistra Ecologia Libertà (Sel) Nicola Fratoianni, il sindaco di Roma Ignazio Marino e anche il suo angelo custode e controllore per conto del governo, vale a dire il prefetto di Roma Franco Gabrielli: tutti appassionatamente prima contro il funerale e ora contro Vespa, reo di avere fatto bene il proprio mestiere, che è quello del giornalista e non del propagandista contro o a favore di qualcuno. Il funerale di Casamonica è diventato una sorta di marcia su Roma, la sua famiglia e il suo numeroso clan di "romanì", cioè di rom o zingari che dir si voglia, sembrano novelli Galli che, guidati da Brenno, hanno invaso Roma. Le oche del Campidoglio si sono scatenate di nuovo per impedire la nuova invasione. Il prefetto Gabrielli è arrivato di dire che i Casamonica "la pagheranno" e non ha saputo resistere alla tentazione di definire boss il neo defunto. Poiché però questi è morto incensurato, chiamarlo boss equivale a dire che, per farla sempre franca, si è comprato qualcuno in polizia, carabinieri, guardia di finanza e magistratura giudicante. Beh, ma allora fuori i nomi degli uomini in divisa e dei magistrati corrotti! Processarli subito e licenziarli in tronco. Altrimenti siamo alla notte nera in cui tutti i gatti sono neri e tutti possono insinuare qualunque cosa contro chiunque. Il prefetto Gabrielli non si rende conto che, per esempio, così legittima ex post chi sulla sola base delle carte del dossier Mitrokhin, accusava i vertici dell’allora Partito Comunista Italiano di essere spie dell’allora Unione Sovietica? Per non parlare di Massimo D’Alema e Telekom Serbia, ecc. Ma è serio che un banale funerale, pacchiano ma celebrato comunque in modo ordinato, senza incidenti né morti né feriti, tenga banco per settimane e settimane come se si trattasse di uno tsunami? Funerale scandaloso, ma scandaloso perché? Scandaloso perché gli zingari Casamonica hanno usanze diverse dalle nostre e celebrano un funerale molto più chiassoso dei nostri? Funerali con il cocchio a 6, 8 e anche 10 cavalli sono stati celebrati anche a Milano, Torino, ecc., e nessuno ha mai reclamato. Forse per Casamonica non dovevano essere usati cavalli, ma asini o muli? Scandaloso perché un elicottero ha lanciato sulla folla petali di rosa, accolti dal coro dei moralisti e salvatori della Patria come se fosse napalm? Mentre si strillava contro i petali di rosa piovuti dal cielo ci sono state in Europa altre due o tre stragi dovute alle solite e inutili acrobazie di aerei militari: ma nessuno ha reclamato. Scandaloso perché il defunto è stato accompagnato dalla musica della colonna sonora del film Il Padrino? Ma come? Il film Il Padrino è sempre stato acclamato come un capolavoro nonostante una certa glorificazione della mafia, e dei suoi omicidi, e ora si accusano di mafiosità i Casamonica perché, per accompagnare il loro capo (non boss, please) verso l’Aldilà ne hanno scelto la musica che tanto piaceva al loro capo clan? Il Tg1 ha affermato che la chiesa di don Bosco dei funerali di Casamonica "è la stessa dove sono stati celebrati i funerali del boss della banda della Magliana, Enrico De Pedis", peraltro morto anche lui incensurato. Ma i funerali di De Pedis sono stati celebrati in tutt’altra chiesa, quella di S. Lorenzo in Lucina: a non meno di 10 chilometri dall’altra. Botte in testa a Vespa e silenzio su errori così clamorosi? L’effetto aggravante può impedire la messa alla prova di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 11 settembre 2015 Corte di cassazione, Sesta sezione penale, sentenza 10 settembre 2015 n. 36687. Più difficile ottenere la messa alla prova. Il limite di pena per potere usufruire del beneficio alternativo alla detenzione può essere superato anche per effetto di un’aggravante. Può non contare cioè il rispetto del tetto dei 4 anni di pena massima edittale quando è contestata la circostanza. Lo sostiene la Corte di cassazione n. 36687 depositata ieri, con la quale prende corpo un differente orientamento rispetto a quanto affermato dalla stessa Cassazione solo pochi mesi fa. In febbraio, infatti, la sentenza n. 6453 precisò che, per la definizione dei reati compresi nel perimetro della probation, l’unico riferimento è al massimo della pena prevista per la fattispecie base. "prescindendo dal rilievo che nel caso concreto potrebbe assumere la contestazione di qualsivoglia aggravante, comprese quelle ad effetto speciale". Una linea da cui però adesso la pronuncia dichiara di volersi discostare perchè poco rispettosa del principio di sistematicità definito dagli articoli del Codice di procedura penale in materia di determinazione della pena (articoli 4, 278, 379 e 550). Criteri che devono trovare applicazione anche per quanto riguarda la messa alla prova. In questa prospettiva, determinante è la necessità di applicare, se si vuole rispettare il criterio quantitativo, soprattutto l’articolo 550, richiamato dalla norma che disciplina la messa alla prova (articolo 168 bis del Codice penale), che a sua volta richiama l’articolo 4 dove si prevede che si fa riferimento alla pena stabilita dalla legge per ciascun reato consumato o tentato, cioè alla pena edittale. Viene però contestualmente stabilito che non si tiene conto della continuazione, della recidiva e delle circostanze del reato, colmando in questo modo una lacuna determinante per l’applicazione dell’istituto, ma poi stabilendo che si deve tenere conto, sempre per la determinazione della pena, delle aggravanti per le quali la legge prevede una specie di pena diversa da quella ordinaria e di quelle a effetto speciale. "Il sistema - osserva la Corte - ha così una sua completezza e coerenza, rispettando la logica complessiva della legge di rendere applicabile la messa alla prova per tutti quei delitti per i quali si procede a citazione diretta a giudizio davanti al giudice unico. In conclusione, afferma la sentenza, l’articolo 168 bis sulla messa alla prova riproduce integralmente il "perimetro normativo" previsto dall’articolo 550, commi 1 e 2, del Codice di procedura penale per individuare i delitti per quali può essere richiesta la sospensione del giudizio. In questo senso, il criterio qualitativo viene caratterizzato nella direzione di stabilire con la norma i delitti per i quali non rileva che la pena sia stabilita anche da aggravanti con pena diversa da quella ordinaria e da quelle a effetto speciale. Respinto così il ricorso di un extracomunitario imputato di "lesioni aggravate commesse al fine di eseguire il delitto di resistenza aggravata": avere commesso le lesioni per eseguire il reato di resistenza configura proprio, nella lettura del tribunale di Rimini, poi confermata dalla Cassazione, un’aggravante a effetto speciale. L’uomo aveva chiesto di accedere alla messa alla prova, ma il tribunale, considerando che, con l’aggravante, la pena avrebbe raggiunto i 4 anni e 6 mesi di reclusione e dunque superato il tetto fissato dalla legge, aveva rigettato la sua istanza. Il licenziamento successivo non esonera dal "mantenimento" di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 11 settembre 2015 Corte di cassazione - Sezione VI penale - Sentenza 10 settembre 2015 n. 36669. Il licenziamento e la limitazione della libertà personale del coniuge obbligato al mantenimento non gli evitano la condanna per violazione degli obblighi di assistenza familiare se sopravvenuti alle violazioni. Lo ha stabilito la Corte di cassazione con la sentenza 36669 bocciando il ricorso di un uomo già ripetutamente condannato per il medesimo reato. La Corte di appello. La Corte di appello di Palermo, in particolare, aveva evidenziato che dopo la separazione del 2003, sebbene il coniuge continuasse a svolgere l’attività di carpentiere, "aveva totalmente omesso di corrispondere gli importi dovuti alla ex a titolo di contribuzione per il mantenimento suo e della figlia minore", costringendola a ricorrere all’aiuto economico dei genitori. Mentre, nessun rilievo rivestiva il fatto che l’imputato era stato licenziato e sottoposto a detenzione domiciliare, "trattandosi di fatti accaduti in periodi successivi a quelli oggetto di contestazione". Il ricorso in Cassazione. Questi i motivi riproposti dall’ex marito nel ricorso in Cassazione laddove ha sostenuto che "fin quando aveva conservato il posto di lavoro, aveva sempre provveduto a versare la somma pattuita in sede di separazione, cessando di fare fronte all’obbligo soltanto allorché aveva perso il lavoro ed era stato sottoposto a restrizione della libertà personale". Per i giudici di Piazza Cavour, però, per un verso il ricorrente non ha fornito alcuna prova della regolarità dei versamenti fino al momento del licenziamento; per l’altro, decisivo, "le condizioni addotte a giustificazione dell’inosservanza degli obblighi - il licenziamento e la sottoposizione a provvedimento limitativo della libertà personale - sono sopravvenute rispetto alle accertate inottemperanze, di tal che non ricorrono le condizioni per configurare validamente l’esimente dell’impossibilità assoluta di fare fronte al pagamento dell’assegno". Terzo creditore in buona fede tutelato dalla confisca per mafia di Redazione Norme Il Sole 24 Ore, 11 settembre 2015 Corte di cassazione, Sesta sezione penale, sentenza 10 settembre 2015 n. 36690. L’articolo 52 del Codice antimafia va interpretato, per quanto riguarda la tutela dei terzi creditori in materia di misure di prevenzione patrimoniali, nel senso che solo quando è dimostrato che il credito del terzo è strumentale rispetto all’attività illecita, quest’ultimo per potere fare valere il proprio diritto deve dimostrare l’ignoranza in buona fede del nesso di strumentalità. Lettere: per comprendere chi fa del male serve tempo di Lucia Annibali Io Donna, 11 settembre 2015 In occasione del Giubileo, il Papa chiede al Governo un atto di clemenza verso i carcerati. Lui fa bene. Ma per chi è stato vittima di violenza, non è facile. Qualche giorno fa stavo pranzando con i miei genitori, quando i titoli del telegiornale hanno annunciato la seguente notizia: Papa Francesco auspicava un intervento del Governo sulla concessione dell’amnistia a tutti i carcerati. Panico. Che cosa significa, che tutti i detenuti presto usciranno di galera? Devo forse aspettarmi che i responsabili della mia aggressione vengano liberati prima di quanto previsto? Non può essere. È troppo presto. Non sono pronta. Non è giusto. È inammissibile. Ho paura! Ho deciso di cercare le parole esatte pronunciate dal Papa e sono queste: "Il mio pensiero va anche ai carcerati, che sperimentano la limitazione della loro libertà. Il Giubileo ha sempre costituito l’opportunità di una grande amnistia, destinata a coinvolgere tante persone che, pur meritevoli di pena, hanno tuttavia preso coscienza dell’ingiustizia compiuta e desiderano sinceramente inserirsi di nuovo nella società portando il loro contributo onesto." L’idea che mi sono fatta è che queste parole non possano interpretarsi come una vera e propria richiesta di amnistia, né che si tratti di un appello di natura giuridica rivolto al Governo italiano. A ogni modo, poco importa. In fondo è giusto che il Papa parli di benevolenza e di misericordia verso il prossimo: esortarci a essere persone migliori, per sé e per gli altri, è il suo compito. Il punto è: che cosa ne penso io, vittima di un reato? Che effetto ha questa sua esortazione su di me? Una volta di più, ho ripensato a quello che mi è successo, e alla mia vita da quella notte in poi. Ho capito che essere la vittima di un reato, tanto devastante per la propria esistenza che per quella dei propri cari, è una cosa davvero complicata. Richiede una quantità incredibile di energia fisica e vitale, di ottimismo, di speranza, di forza interiore, di capacità di sopportazione e accettazione per riuscire a dire ogni giorno: andiamo avanti! Ti insegna a fare i conti con la cattiveria altrui, che purtroppo esiste in grande quantità. Spesso ti costringe a tacere di fronte alle offese, alla superficialità delle persone, alla loro mancanza di empatia. Ti impone di superare il senso di solitudine, di accettare l’alternarsi, in una stessa giornata, di pensieri e sentimenti contrastanti. Devi saper aspettare, con pazienza, che il trascorrere dei giorni aiuti testa e cuore a fare chiarezza. Devi confidare nella giustizia e attendere che faccia il suo corso. Mentre fai e pensi a tutto questo, devi anche tornare nel mondo e starci al meglio possibile. Può esserci posto anche per la benevolenza? È giusto chiederci di essere comprensivi per il male subito? Parlo a me stessa, ma è come se stessi parlando per tutte le persone che, come me, hanno sofferto a causa di altri. La mia risposta è sì. Sono convinta che la benevolenza serva, eccome. È l’ingrediente indispensabile per riuscire a superare la rabbia nei confronti della vita, per sostenere la fatica di essere vittime, per essere migliori di chi ci ha ferito. La comprensione verso chi ci ha fatto del male, invece, è più difficile da raggiungere. Per quella occorre tempo. A noi, per superare la paura e farci sentire di nuovo al sicuro. A chi ci ha fatto del male, per capire la gravità delle loro azioni. Dateci il tempo di cui abbiamo bisogno e un giorno, forse, riusciremo a essere comprensivi anche verso chi ci ha ferito. Ora è ancora presto per farlo. Lettere: so che il mio cliente è innocente, ma farà l’ergastolo di Maria Brucale Il Garantista, 11 settembre 2015 Un giudice distratto della Cassazione ha deciso così. Non sapeva niente di questo caso, era stanco, aveva altro da fare. Ha distrutto la vita di un brav’uomo. In viaggio. Vado da un mio assistito a cui voglio bene. Innocente! Devo dirgli che la Cassazione ha consacrato a verità giudiziaria una sentenza di condanna all’ergastolo. Devo dirglielo io che lo difendo da sempre. Devo dirgli che un relatore assonnato che sbagliava nomi e circostanze, in pochi minuti ha cancellato la sua vita onesta, la serenità dei suoi familiari. Ha distrutto delle persone e le loro speranze. La sentenza di condanna di secondo grado aveva stravolto una assoluzione in modo subdolo con l’utilizzo strumentale di collaboratori...di giustizia... La non colpevolezza era evidente leggendo gli atti... tantissimi... corposi. Ma avevano tempo questi giudici? Avevano voglia di sottrarre spazio alle loro cose per occuparsi di una vita chiusa in carcere ingiustamente... per sempre? Il ragionevole dubbio... Il superamento del dubbio evidente, marcato, scritto e la sensazione di un giudizio che si vuole sottrarre ad ogni responsabilità nell’idea malsana che... meglio un innocente in carcere che un colpevole fuori. Rispetto per le sentenze definitive? No, questa volta no. Contenendo a forza impeto e parole, auguro a questi giudici che i carabinieri li strappino al sonno, di notte, per portarli in galera svegliando le loro famiglie, i loro figli. Che non sappiano, non capiscano perché questo accade. Che da uno scranno un giudice indifferente alla vita spezzi la loro, per sempre, per noia, per incompetenza, per mancanza di coraggio. Lettere: quel rispetto che merita anche Scattone di Marco Plutino (Costituzionalista) huffingtonpost.it, 11 settembre 2015 Sulla vicenda Scattone il paese ha perso l’ennesima occasione per maturare. E la sanzione sociale qui scatta con criteri imperscrutabili, ma che non di rado paiono infami. Resta molto cammino da fare sulla civiltà del diritto e sulla "laicizzazione" della società. Che vuol dire rispettare e adoperarsi per reintegrare chi ha saldato il conto con la giustizia. O, più in generale, sospendere il giudizio del senso comune per chi è indagato (non era questo il caso) salvo che non vi siano schiaccianti indizi di colpevolezza, emergenti da una scrupolosa lettura degli atti processuali da parte di giornalisti di giudiziaria adeguatamente sostenuti nella valutazione degli elementi da una diagnosi critica di studiosi. L’Italia sa essere grande e generosa, ma talvolta è piccola e meschina. Alla nostra società manca una Marina Militare e la sua legge del mare, per cui l’uomo in mare va salvato prima e poi viene tutto il resto. O voi che vedete solo realpolitik dietro qualunque passo della Germania, ascoltate bene. Lì da alcuni anni, se le carceri non consentono una permanenza dignitosa il detenuto viene rilasciato, interrompendo e rinviando l’esecuzione della pena. Vi pare poco? Lì, ancora da prima, seguendo l’esempio della Norvegia esistono delle liste di attesa per far scontare la pena ai condannati, affinché l’esecuzione della pena sia compatibile con la tutela della dignità umana. Immaginate? Ragazzi vi saluto, domani è il mio turno, vado a scontare quattro anni di carcere. Ci vediamo. In Italia, invece, non basta aver scontato tutta la pena e fare bene il proprio lavoro per conservare il posto, e con esso la dignità, se il circo mediatico ti accende un riflettore addosso. A quel punto neanche quello che andava bene ieri va più bene per l’oggi. E pilatesco è stato il ministro Giannini a dire che avrebbe mandato senz’altro il figlio nella classe di Scattone affermando al contempo che sarebbe spettato a lui di valutare in coscienza la propria posizione. Coscienza? Non si valuta in coscienza il godimento di un diritto fondamentale per il quale si hanno tutte le carte in regola. Il ministro avrebbe dovuto pubblicamente chiedergli di andare in classe a insegnare, che il paese sarebbe stato con lui, come con qualunque altro insegnante. E così oggi dovrebbe chiedergli scusa, a nome degli italiani, per non averlo saputo tutelare. Un cittadino italiano, una persona. Campobasso: detenuto muore all’Ospedale Cardarelli, la Procura apre un fascicolo cblive.it, 11 settembre 2015 È deceduto questa mattina all’ospedale Cardarelli di Campobasso, per cause da accertare, il detenuto di Campomarino, C.S. le iniziali del nome, che da qualche giorno era ricoverato al nosocomio del capoluogo. Sulla vicenda la Procura di Campobasso ha aperto un fascicolo. L’uomo di 56 anni, già noto alle Forze dell’ordine, era finito in manette lo scorso 10 agosto quando, dopo aver danneggiato un’auto nel parcheggio di un distributore di benzina sulla statale 16 aveva iniziato a inveire contro la donna al volante della vettura. All’arrivo della Polizia l’uomo aveva cercato di fuggire, ma la sua corsa era finita contro il guardrail della statale. Da quel momento il 56enne era rimasto chiuso nella sua auto da dove gettava materiale vario contro i poliziotti, brandendo un punteruolo. Lo stesso, prima di finire in manette, si era anche denudato e masturbato dinanzi alla Polizia. Rinchiuso nel carcere di Larino, era stato successivamente trasferito nella casa circondariale di Campobasso e da qualche giorno si trovava nel nosocomio del capoluogo, a seguito di alcuni malori. Ora, per accertare le cause del decesso è probabile che la Magistratura disponga l’autopsia sul corpo dell’uomo. Tempio Pausania: 200 detenuti e organici ridotti, mancano sia amministrativi sia poliziotti di Angelo Mavuli La Nuova Sardegna, 11 settembre 2015 Il segretario generale della Cisal Fpc, Paola Saraceni di Sassari, (la Federazione dedicata ai lavoratori delle così dette Funzioni Centrali), ha indirizzato una nota alla Direzione generale e al Provveditorato regionale dell’Amministrazione Penitenziaria per denunciare le gravi criticità presenti nella Casa di reclusione di Nuchis a causa della carenza del personale. "Occorre ricordare - scrive la Saraceni, (che lamenta anche una mancata risposta ad una segnalazione analoga di tre mesi fa), che il personale amministrativo, in particolare l’area contabile, della Casa di reclusione di Tempio, vive una condizione non più tollerabile che si fa carico di qualsivoglia servizio, lavorando quotidianamente oltre il normale orario di servizio. Non si può accettare - scrive ancora il segretario Saraceni, (che ricorda anche che il carcere ospita circa 200 detenuti quasi tutti con un lontano fine pena), che soltanto due persone debbano farsi carico di tutti gli adempimenti amministrativi contabili dell’ istituto, molti dei quali non rientrano neanche nelle loro attribuzioni". La carenza denunciata dalla Cisal Fpc di Sassari non è purtroppo l’unica nella Casa di reclusione di Nuchis. classificato di Alta sicurezza, "ma, a tutti gli effetti, un carcere di Massima sicurezza", come affermano l’Ugl e l’Uil-Pa sindacati della Polizia penitenziaria. A mancare in maniera notevole, infatti, sono proprio gli agenti della Polizia penitenziaria "costretti - secondo i sindacati - a turni massacranti e a doppi incarichi che alla lunga logorano non poco". La denuncia era già stata fatta il 14 giugno dall’anno scorso dalla Ugl con i suoi quadri regionali riuniti a Tempio ed era stata reiterata, esattamente il 12 marzo scorso, dai quadri i dell’Uilpa. Ultima a denunciarlo in ordine di tempo infine, Rita Bernardini, segretaria dei Radicali italiani ed ex deputata, che lunedì scorso, su richiesta della direttrice del carcere Carla Ciavarella, ha presieduto nel Carcere di Nuchis un tavolo di lavoro per la riforma carceraria. "In questo carcere - ha detto la Bernardini, lodando l’altissima professionalità del personale -, c’è una carenza di agenti del quaranta per cento. Oggi ho incontrato un agente che doveva stare in servizio per dodici ore. Qui - denuncia la Bernardini, si tratta di mancanza di rispetto dei diritti umani dei lavoratori". Lecce: "condizioni disumane in cella", il ministero condannato a risarcire un detenuto di Andrea Morrone lecceprima.it, 11 settembre 2015 Per la prima volta un giudice del Tribunale civile ha condannato, accogliendo il ricorso di un detenuto assistito dall’avvocato Alessandro Stomeo, il ministero della Giustizia a risarcire un detenuto con oltre novemila euro per i danni patiti per effetto della detenzione subita in violazione dell’articolo 3 Cedu (Corte europea dei diritti dell’uomo), determinato dalla ristrettezza dello spazio vivibile all’interno della cella detentiva. Una sentenza, quella emessa dal giudice Federica Sterzi Barolo della prima sezione civile del Tribunale di Lecce, che traccia una nuova era e fa da punto di chiusura nell’ambito della vicenda che ha visto al centro di una battaglia legale la condizione di sovraffollamento degli istituti di pena italiani. Una lunga e complessa vicenda giudiziaria iniziata nel 2011, quando un giudice del Tribunale di sorveglianza di Lecce (chiamato per la prima volta a esprimersi in materia) aveva condannato, con una sentenza definita epocale, l’amministrazione penitenziaria a risarcire un detenuto tunisino, recluso nel carcere di Borgo San Nicola, con una cifra pari a 220 euro (sulla base di una sentenza della Cedu), affermando che la violazione dell’articolo 3 comporta per lo Stato un obbligo risarcitorio. "Lesioni della dignità umana, intesa anche come adeguatezza del regime penitenziario, soprattutto in ragione dell’insufficiente spazio minimo fruibile nella cella di detenzione". Queste le motivazioni con cui Il giudice aveva accolto il ricorso del legale del detenuto, l’avvocato Alessandro Stomeo, che aveva evidenziato le condizioni disumane e degradanti in cui i carcerati erano costretti a vivere, dividendo in tre una cella di circa 11,50 metri quadri, dotata di una sola finestra ed un bagno cieco sprovvisto di acqua calda, con il riscaldamento in funzione d’inverno per una sola ora al giorno, e le cui grate sono chiuse per ben 18 ore. Il terzo dei letti a castello presenti nella cella si trovava inoltre a soli 50 centimetri dal soffitto, privando di ogni possibilità di movimento il detenuto. La novità assoluta era rappresentata dal fatto che il magistrato di Sorveglianza riteneva di poter quantificare e liquidare il danno a titolo di indennizzo. Successivamente la Cassazione penale, su istanza dall’avvocatura dello Stato, ha stabilito che il magistrato di Sorveglianza, pur potendo accertare la violazione, non può quantificare o liquidare il danno derivato, indicando il tribunale Civile come competente al risarcimento per violazione dell’articolo 3 Cedu. Sul fronte normativo la Corte europea ha imposto all’Italia di eliminare la condizione di sovraffollamento e di prevedere una norma che consenta, a chi ha subito il trattamento disumano, di ottenere un risarcimento. La legge 117/2014 ha introdotto l’articolo 35 ter della legge 354/1975, recependo l’imposizione di Strasburgo. La norma prevede che il magistrato di Sorveglianza, accertata l’eventuale violazione dell’articolo 3 Cedu, risarcisca con un giorno di sconto pena (ogni 10 espiati) i detenuti, ovvero con 8 euro al giorno per i soggetti liberi che non hanno pena da espiare. Nel secondo caso, quando il detenuto è libero, l’istanza deve essere proposta al Tribunale civile che deve accertare la violazione dell’articolo 3 e quindi risarcire nella misura indicata. Da qui la decisione dell’avvocato Stomeo di avviare in sede civile alcuni procedimenti. La sentenza pronunciata nei giorni scorsi è la prima in materia. Prima d’ora mai un Tribunale civile si era pronunciato sulla vicenda, quindi mai vi era stato l’accertamento della condizione di violazione dell’art. 3 e il conseguente risarcimento. Il giudice ha condannato lo Stato a risarcire un detenuto italiano con 9.328 euro per il periodo tra il dicembre 2006 e il giugno 2013 (1166 giorni per 8 euro). Una sentenza cui presto potrebbero seguirne molte altre. Pisa: ai detenuti del Don Bosco la manutenzione dei giardini dell’ospedale di Pontedera di Luca Calò La Nazione, 11 settembre 2015 I carcerati di Pisa cureranno il verde dell’ospedale di Pontedera I carcerati di Pisa cureranno il verde dell’ospedale di Pontedera. La manutenzione dei giardini dell’ospedale di Pontedera - e di tutti gli altri edifici di proprietà dell’Asl 5 situati in Valdera - sarà effettuata per i prossimi due anni dai detenuti del carcere Don Bosco di Pisa. A vincere l’appalto, indetto la scorsa primavera dell’azienda sanitaria, è stata infatti la cooperativa sociale Don Bosco, che fa capo proprio alla casa circondariale pisana e che si occupa dell’inserimento dei detenuti nel mondo del lavoro attraverso la presa in carico di appalti pubblici. La Don Bosco, che già si occupa della manutenzione degli spazi verdi dell’ospedale di Cisanello, si è aggiudicata la gara grazie ad un ribasso del 3, 50% e percepirà dall’Asl 5, per i prossimi due anni, poco più di 115.400 euro. Una cifra che naturalmente comprende tutto: logistica, attrezzatura, assicurazione e naturalmente stipendi. "Si tratta di un piccolo appalto ma per noi è molto significativo - dice Sandro Bigarella, presidente della cooperativa - perché recentemente avevamo perso l’incarico per la manutenzione di alcune scuole superiori a Pisa. Ora invece, grazie a questa nuova opportunità, possiamo impiegare due detenuti per la cura del verde di tutti gli edifici di proprietà dell’Asl 5 in Valdera". Entrando nello specifico, un detenuto lavorerà a tempo pieno per 40 ore settimanali, mentre l’altro sarà impegnato part-time per 20 ore alla settimana. "Abbiamo già fatto un sopralluogo all’ospedale di Pontedera - precisa sempre Bigarella - e abbiamo visto che solo per il Lotti si tratta di un bell’impegno". Impegno che sarà esteso a tutti gli altri comuni dell’Asl 5 ricadenti nella zona Valdera. Ogni distretto sanitario, casa della salute e poliambulatorio avrà come custode del verde un detenuto del carcere Don Bosco. "Per i detenuti - dice ancora Bigarella - si tratta non solo di un’opportunità per un graduale reinserimento nella società e nel mondo del lavoro ma anche di un modo per restituire qualcosa alla collettività. Da parte nostra ci stiamo impegnando per partecipare ad altre gare di appalto del genere". La cooperativa Don Bosco comincerà a lavorare con tutta probabilità nel mese di ottobre, anche se l’Asl 5 ha già deliberato l’efficacia dell’esito di gara. Per la manutenzione del verde saranno impiegati detenuti in semilibertà o autorizzati al lavoro esterno come previsto dall’articolo 21 della legge sulle carceri. La Don Bosco, come cooperativa sociale, è attiva dal 1997 ed è nata per volontà di varie associazioni e della Provincia di Pisa. Viterbo: maxi rissa al carcere di Mammagialla, 36 i detenuti a processo, ma tra due anni tusciaweb.eu, 11 settembre 2015 In 36 a processo. Ma tra due anni. I detenuti che parteciparono alla mega rissa al carcere Mammagialla, il primo gennaio 2014, sanno già che avranno un impegno il 20 novembre 2017: il decreto di citazione a giudizio è arrivato in questi giorni, con largo anticipo sulla data della prima udienza. La rissa scoppiò il primo dell’anno, nella sala socialità del reparto penale D2. Da una discussione partita da un piccolo gruppo di persone si arrivò a una contesa armata di coltelli tra più di trenta detenuti, tra italiani e rumeni. Bilancio: dodici feriti, con prognosi dai dieci ai venti giorni. A Belcolle furono portati a scaglioni, bloccati dalla polizia penitenziaria e soccorsi dai sanitari. In tre sono arrivati al pronto soccorso in codice rosso. Nessuno è mai stato in pericolo di vita. In sei furono dimessi subito. Gli altri sono rimasti per più giorni in osservazione a Mammagialla. Sui motivi, l’ipotesi più accreditata, sarebbe quella del regolamento di conti tra due diversi gruppi di detenuti. Ma gli interrogatori degli indagati non hanno chiarito granché. Un episodio di difficile ricostruzione non solo per la scarsa collaborazione con gli inquirenti, ma anche per la cronica carenza di polizia penitenziaria. Gli agenti, quel giorno, il giorno di Capodanno, erano presenti a ranghi ancor più ridotti del solito: per bloccare i detenuti fu necessario chiudere la sala e aspettare i rinforzi. Gli unici testimoni del fatto sono i partecipanti alla rissa. Pisa: Sappe; detenuto non vuole essere trasferito a Milano e picchia i poliziotti pisatoday.it, 11 settembre 2015 Aggressione da parte di un 23enne di nazionalità marocchina che ha dato in escandescenza al momento del suo temporaneo trasferimento nel capoluogo lombardo per presenziare ad un processo. "A Pisa i poliziotti sono davvero stanchi e stufi di subire la violenza di certi detenuti" dicono dal Sappe. Una nuova aggressione da parte di un detenuto ai danni dei poliziotti penitenziari nel carcere di Pisa. A rendere noto l’episodio il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe. "Il detenuto, 23 anni e con fine pena marzo 2018, all’atto dell’espletamento delle formalità burocratiche finalizzate al suo temporaneo trasferimento nel carcere di Milano per presenziare a un processo, ha iniziato a colpire i poliziotti penitenziari con violenza, tanto che tre di loro hanno dovuto ricorrere alle cure del pronto soccorso - spiega il segretario generale del Sappe Donato Capece - siamo alla follia. Calci e pugni ai poliziotti da parte di un delinquente che non voleva andare a Milano ad un processo. Ma ci rendiamo conto? Questi inaccettabili atti di violenza andrebbero puniti con estrema severità: non sono più tollerabili". Il Sappe rinnova al Ministro della Giustizia Orlando e ai vertici dell’Amministrazione centrale l’invito "di adottare efficaci strumenti di tutela per i poliziotti penitenziari, che a Pisa cono davvero stanchi e stufi di subire la violenza di certi detenuti. Cosa si aspetta ad assumere adeguati provvedimenti per garantire la sicurezza e la stessa incolumità fisica degli Agenti di Polizia Penitenziaria che lavorano in carcere a Pisa?". Saluzzo (Cn): minacce e bombolette del gas lanciate contro un agente, detenuto a processo targatocn.it, 11 settembre 2015 Lui si difende: "Ero dentro la cella, non ho fatto nulla". Una protesta in carcere da parte dei detenuti che sarebbe sfociata nelle minacce rivolte ad un agente della polizia penitenziaria al quale sarebbero state tirate addosso anche bombolette per il fornelletto a gas, che sono in dotazione per ogni carcerato. Per i fatti del gennaio 2012 nella casa circondariale di Saluzzo dove sta scontando una lunga pena, è comparso davanti al tribunale di Cuneo D.V., imputato per minacce e violenza a pubblico ufficiale. L’agente ha testimoniato: "Era l’orario in cui i detenuti rientrano nelle celle, hanno iniziato una protesta collettiva, urlando e facendo rumore. Uno di loro ha iniziato a farmi il verso, l’ho redarguito, ma D.V. lo incitava urlando "ammazzalo ammazzalo", mentre era già dentro la cella. Ha preso delle bombolette di gas e me le ha lanciate addosso". "Quella sera c’era stata una protesta cui mi sono aggregato urlando e battendo contro l’inferriata", ha raccontato l’imputato, cicatrice in volto e mani tatuate. "Nella confusione ho sentito che l’agente gridava con un altro detenuto, ma io ero già dentro, non l’ho minacciato e non gli ho tirato nessuna bomboletta. Quando siamo stati chiamati dal direttore ho chiesto di verificare nella cella se mancavano bombolette ma non hanno verificato. E segni per terra non c’è ne erano, se erano scoppiate qualche traccia la dovevano lasciare". D.V. ha aggiunto che l’episodio sembrava chiarito, tanto che lo stesso agente lo avrebbe rassicurato che non avrebbe fatto rapporto e che la cosa era finita lì. Invece "mi hanno dato 5 giorni di isolamento". Discussione del processo rinviata a 31 marzo. Padova: Trofeo "Pallalpiede", i detenuti giocano a contro il Padova Calcio e il Cittadella Il Mattino di Padova, 11 settembre 2015 Una selezione del carcere Due Palazzi sfiderà le formazioni Beretti delle due società padovane per inaugurare il campionato di terza categoria. Si svolgerà mercoledì 23 settembre alle ore 14.30 all’interno del campo sportivo del Carcere Due Palazzi di Padova la prima edizione del trofeo Pallalpiede che vedrà la partecipazione delle formazioni Berretti di Padova e Cittadella. L’occasione sarà quella di festeggiare l’inizio del campionato di terza categoria, che verrà disputato dalla squadra Polisportiva Pallalpiede per il secondo anno consecutivo. Pallalpiede è la selezione dei detenuti del carcere Due Palazzi, che tentano un riscatto sociale tramite il calcio. Lo scorso anno Pallalpiede ha vinto la Coppa Disciplina e ha ottenuto risultati molto buoni, mantenendo per diverse giornate la testa della classifica distinguendosi per correttezza, realtà e disciplina. L’evento sarà eccezionalmente aperto al pubblico grazie alla collaborazione con la Polizia Penitenziaria e con una capienza massima di 100 spettatori. È la prima volta che si tenta un esperimento simile, nonostante tutte le difficoltà che questo comporta: "Quando sono stata coinvolta nel progetto Palla al Piede - spiega l’assessore allo sport del comune di Padova Cinzia Rampazzo - sono rimasta entusiasta perché si dava la possibilità ai ragazzi di reintegrarsi nella società. Il direttore del carcere Due Palazzi ci ha dato una grossa mano e il fatto che nello scorso campionato di terza categoria la Pallalpiede abbia vinto la Coppa disciplina è un bel traguardo che denota come lo spirito sia quello giusto. Ringraziamo il Calcio Padova e l’As Cittadella per la sensibilità dimostrata. La struttura carceraria in questa circostanza potrà. ospitare un massimo di 100 persone. Invito più persone a partecipare a questa partita in programma il 23 settembre alle 14.30, sperando che venga colto il senso di questa iniziativa". Raggiante anche il presidente della Polisportiva Pallalpiede Paolo Mario Piva: "Quello che stiamo tentando - spiega - non potrebbe essere messo in piedi senza il supporto di tutta una serie di persone e degli agenti della polizia penitenziaria che si adoperano per la buona riuscita del progetto. Anche la Lega Nazionale dilettanti ha collaborato per la buona riuscita di questo triangolare e per aprirli, in modo ovviamente limitato, al pubblico. Non è semplice entrare all’interno di un carcere e noi stiamo cercando di far capire ai nostri detenuti la realtà culturale nella quale vivono". Immigrazione: nell’Unione europea ognuno va per conto suo di Carlo Lania Il Manifesto, 11 settembre 2015 Divisa su come accogliere i profughi, l’Europa si prepara al vertice di lunedì. La presidenza lussemburghese spinge su rimpatri e immediata ricollocazione dei profughi e valuta una possibile flessibilità del patto di stabilità. Solo dieci giorni fa parlando del modo in cui gli Stati europei affrontano l’emergenza profughi, il commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa Nils Muizniesks ha definito "isteriche" le risposte date dai vari governi alla crisi. Viste le cose accadute solo ieri, Muizniesks aveva ragione. Nell’ordine: la Danimarca ha riaperto i collegamenti ferroviari con la Germania che aveva bloccato mercoledì a tempo indeterminato. Nel frattempo però l’Austria ha fermato i treni da e per l’Ungheria, scelta spiegata da Vienna come una conseguenza del "sovraccarico" di migranti in arrivo da quel paese. A sera invece la Macedonia ha annunciato di voler costruire anche lei un muro, questa volta al confine con la Grecia, non escludendo la possibilità di schierare anche l’esercito. Con il rischio di provocare una crisi con Atene che va ben oltre quella riguardante i profughi. Infine la Polonia, Paese leader del blocco "no profughi" fino a ieri mattina, sarebbe invece pronta ad accettare il meccanismo delle quote proposto dal presidente della Commissione Ue Jean Claude Juncker, meccanismo che sempre ieri la Romania ha invece detto di voler rifiutare. Se questa non è isteria, di certo è il segno inequivocabile di come ognuno vada per conto suo. In questo clima ieri il parlamento europeo ha approvato il piano presentato da Juncker e si prepara al vertice dei ministri degli Interni di lunedì, primo vero scoglio all’avvio della distribuzione dei profughi. A Bruxelles circola una bozza della nota che la presidenza di turno lussemburghese presenterà al vertice e basata essenzialmente su due punti: rimpatri dei migranti non riconosciuti come aventi diritto all’asilo, e avvio della divisione dei primi 40 mila profughi arrivati in Grecia e Italia dal 15 agosto scorso. Non è esclusa anche la possibilità di valutare una flessibilità del patto di stabilità per i Paesi che hanno sostenuto le spese per rifugiati e migranti. La questione dei rimpatri, che preoccupa non poco le organizzazioni che si occupano di migranti, punta soprattutto sul ruolo svolto da Frontex. Viene proposta la creazione "immediata di un ufficio europeo per i rimpatri" senza escludere la possibilità di creare nei paesi maggiormente coinvolti dagli sbarchi e insieme all’Ufficio europeo per l’asilo, centri di accoglienza co-finanziati dal budget europeo dove esaminare le richieste di asilo. C’è poi la questione ricollocamenti. Se il consiglio del 14 approverà il piano, potrebbero essere avviati già dal 16 settembre e riguarderanno 24 mila profughi sbarcati in Italia e 16 mila in Grecia. Gli Stati membri "devono cominciare subito a ricollocare" si legge nella bozza, nella quale però si sollecita ancora una volta Italia e Grecia ad aprire gli hotspot: "Priorità va alle infrastrutture per le identificazioni, registrazioni, raccolta impronte". Per i richiedenti asilo devono essere avviate "subito le procedure", è scritto ancora, mentre le registrazioni dei migranti devono essere collegate a "efficaci politiche di rimpatri". Da notare che per ora si parla di soli 40 mila profughi (cifra ridotta a luglio a 32.256 per le resistenze di alcuni Paesi), e non si fa invece parola degli ulteriori 120 mila previsti da Juncker. Silenzio anche sull’intenzione di rendere il meccanismo dei ricollocamenti obbligatorio. Tutti argomenti su cui la divisioni all’interno della Ue sono pesanti e di cui si parlerà sicuramente oggi a Praga, dove è previsto un vertice dei Paesi del gruppo Visegrad (Polonia, Ungheria, Repubblica ceca e Slovacchia) al quale parteciperanno anche il ministro lussemburghese Jean Asselborn, in qualità di rappresentante della presidenza di turno, e il ministro tedesco Frank-Walter Steinmeier. Se sono vere le indiscrezioni circolate ieri, che danno la Polonia disponibile ad accettare il meccanismo delle quote, anche il gruppo di Visegrad avrebbe perso l’unità mostrata finora. Intanto qualcosa si muove oltreoceano con gli Stati uniti che annunciano di voler prendere diecimila profughi siriani. Immigrazione: Renzi "il Trattato di Dublino ora va cambiato". Usa: sì a 10 mila profughi di Alberto D’Argenio La Repubblica, 11 settembre 2015 Oggi prevertice europeo in vista del summit dei ministri degli Interni Ue E anche l’Austria ha deciso di bloccare i treni. Lunedì si darà il via libera al ricollocamento dei 40mila migranti sbarcati in Italia e Grecia a giugno La Danimarca ha riaperto i confini. L’Ungheria trasferisce verso Vienna anche i migranti non identificati. "Occorre superare la logica dell’egoismo nazionale". In una lettera Matteo Renzi risponde all’appello con il quale ieri tredici giornali europei, tra i quali Repubblica, hanno chiesto ai leader dell’Unione coraggio nell’affrontare la crisi dei migranti. Il premier italiano insiste sulla necessità- ora che i governi devono approvare il pacchetto presentato dalla Commissione Ue - di "superare Dublino", ovvero di cancellare la norma che impedisce una spartizione permanente dei richiedenti asilo tra i paesi europei. "Giusto - prosegue il presidente del Consiglio - che gli hotspot (i centri per registrare i migranti chiesti a Italia Grecia in cambio delle quote, ndr) siano gestiti a livello europeo, ma ciò sarà possibile solo se ogni Paese accoglierà un certo numero di ospiti (quote) e i rimpatri per chi non ha diritto di asilo verranno organizzati dall’Unione Europea, non dai singoli Stati". Si tratta di misure comprese nella proposta di Bruxelles che lunedì prossimo sarà esaminata dai ministri degli Interni dei Ventotto. Al momento si dà per scontato che i ministri daranno il via libera formale al ricollocamento, che partirebbe mercoledì prossimo, dei primi 40 mila migranti sbarcati in Italia (24mila) e Grecia (16mila) deciso a giugno. L’ok alla ripartizione di altri 120mila persone e le altre misure tra cui l’emendamento del regole di Dublino richiederà tempi più lunghi. Polonia, Slovaccha, Repubblica Ceca e Ungheria (che pure verrebbe alleggerita di 54mila migranti) sono contro la ripartizione obbligatoria dei 120mila. Proprio oggi i ministri degli Esteri dei quattro paesi del gruppo di Visegrad si riuniscono a Paraga con la presidenza di turno dell’Unione, il Lussemburgo, e il capo della diplomazia tedesca Frank-Walter Steinmeier per cercare un compromesso che permetta, con qualche modifica cosmetica al piano Juncker, di venire incontro ai paesi ribelli ed approvare il testo senza strappi. Se così non sarà i 4 verranno comunque messi in minoranza anche se c’è ottimismo sulla possibilità di evitare la rottura almeno con il Paese politicamente più pesante vi- sto che la Polonia, spiegano da Bruxelles, sta virando ed è pronta a cedere. A quel punto Budapest, Praga e Bratislava si troverebbero isolate. Per questo ci si aspetta che lunedì arriverà un accordo politico al ricollocamento dei 120mila che verrà formalizzato dopo il voto del Parlamento europeo. Per le modiche a Dublino, con la trasformazione delle quote in un meccanismo permanente, bisognerà invece aspettare ottobre. Se la diplomazia è al lavoro per cercare di tenere l’Unione compatta dopo la drammatica spaccatura registrata a giugno, arriva la notizia - comunicata dal ministro degli Esteri Nikola Poposki - che la Macedonia sta esaminando la possibilità di erigere una "barriera difensiva" alla frontiera con la Grecia simile a quella ungherese. In alternativa verrà dispiegato l’esercito al confine. Ieri intanto la Danimarca ha riaperto le linee ferroviarie da e verso la Germania, un blocco pensato per impedire ai migranti di attraversare il suo territorio per raggiungere la Svezia, Paese che concede l’asilo a tutti i siriani. L’Austria invece, paladina della solidarietà insieme alla Germania, ha dovuto chiudere il transito dei treni in arrivo dall’Ungheria a causa di un sovraccarico dovuto all’afflusso di migranti. Proprio l’Ungheria ha registrato un livello record di arrivi: 3.321 persone hanno varcato le sue frontiere in 24 ore, mentre 2.800 hanno raggiunto l’Austria e sono stati subito assistiti dalle autorità locali prima di essere trasportati a Vienna. E in serata è arrivata notizia che per la prima volta da settimane la polizia ungherese ha deciso di aiutare i profughi a raggiungere l’Austria: quattro autobus e tre minivan sono arrivati alla stazione di Szegeb, assediata dai migranti in cerca di riparo da freddo e pioggia, per portare oltreconfine anche le persone non identificate. Intanto il presidente Usa Barack Obama ha dato ordine ai suoi di prepararsi ad ospitare 10mila siriani nel 2016. L’Isis invece nella sua rivisita (Dabiq) pubblica un macabro anatema accompagnato dalla foto del piccolo Aylan: i migranti che "volontariamente abbandonano la casa dell’Islam per recarsi nelle terre degli infedeli compiono un grave e pericoloso peccato e mettono a rischio la vita e le anime dei loro figli". Immigrazione: Gabriel (Spd) svela l’arcano "i rifugiati ci servono come manodopera" di Jacopo Rosatelli Il Manifesto, 11 settembre 2015 "Se riusciamo a integrare in fretta i profughi nel mondo del lavoro, risolviamo uno dei maggiori problemi per il futuro economico del nostro paese: la mancanza di personale qualificato". Nelle parole del vicecancelliere e ministro dell’Industria Sigmar Gabriel, pronunciate ieri di fronte al Bundestag, c’è l’importante risvolto economico dell’accoglienza dei richiedenti asilo: i migranti possono fornire alla Germania quei circa 6 milioni di lavoratori che mancheranno entro il 2030. La popolazione invecchia, il tasso di natalità è basso, e senza il contributo della persone che arrivano "da fuori", "è in pericolo non solo il sistema delle imprese, ma anche il benessere generale della società", sostiene il leader del partito socialdemocratico. A preoccupare sono, in particolare, le proiezioni sulla parte orientale del Paese: tra quindici anni nei Länder della ex Repubblica democratica tedesca un terzo degli abitanti sarà oltre i 64 anni, contro l’attuale 24%. Nel 2060 la popolazione complessiva dell’Est si sarà ridotta di un quarto rispetto ad oggi: da 12,5 a 8,7 milioni. All’Ovest le variazioni sono inferiori, ma il trend è lo stesso: più anziani in una popolazione che nel suo insieme decresce. Risultato: se oggi il 66% dei tedeschi è in età da lavoro, tra vent’anni lo sarà soltanto il 58%. L’istituto dell’economia tedesca (Institut der deutschen Wirtschaft), centro di ricerche di area confindustriale con sede a Colonia, calcola che già nel prossimo decennio potrebbero mancare al sistema produttivo fino a 390mila ingegneri. Il ministro dell’Industria Gabriel prende sul serio questi rischi e si erge a paladino del matrimonio d’interessi fra richiedenti asilo e datori di lavoro. Quella del leader Spd è una posizione pragmatica, di buon senso, che contribuisce a favorire il clima di accoglienza. Concentrandosi sull’utilità dei profughi per l’economia tedesca, però, Gabriel perde di vista un elemento fondamentale: i siriani che in questi giorni arrivano nel suo paese sono persone che fuggono da una guerra. E la Germania è fra i maggiori esportatori mondiali di armi: nella prima metà di quest’anno il volume d’affari è di circa 6,5 miliardi. Lo ha ricordato, ieri nell’aula del Bundestag, Roland Claus della Linke, che ha sottolineato come l’export di armi sia autorizzato dal ministero che guida lo stesso Gabriel: "C’è un modo per contrastare davvero le cause delle fughe di massa, e cioè negare quelle autorizzazioni". Anche la capogruppo in pectore della Linke, Sahra Wagenknecht, allarga lo sguardo: "Perché nessuno dice il motivo che costringe le persone a lasciare la propria terra? In Medioriente non c’è alcuna catastrofe naturale: all’origine dell’esodo c’è una politica di guerra e destabilizzazione di cui sono responsabili la Germania, l’Europa e soprattutto gli Stati Uniti". Le risorse per l’emergenza andrebbero dunque chieste anche a Washington: "Mi piacerebbe che il governo tedesco avesse il coraggio di farlo", afferma Wagenknecht. Assai improbabile che Angela Merkel ascolti il consiglio dell’esponente dell’opposizione. Piuttosto la cancelliera, che ieri ha visitato un centro di accoglienza a Berlino e si è concessa anche per qualche selfie, continua nella sua "operazione-ottimismo" all’insegna dello slogan "la Germania ce la farà". Incurante delle grida d’allarme che si levano da più parti: i 6 miliardi messi a disposizione dal governo federale sono troppo pochi. Immigrazione: il nuovo muro è macedone di Teodoro Andreadis Synghellakis Il Manifesto, 11 settembre 2015 Il ministro degli Esteri di Skopje: "Ci sarà bisogno o di soldati o di una barriera". Il ministro degli Esteri dell’ex Repubblica jugoslava di Macedonia (Fyrom), Nikola Poposki, in una intervista al settimanale ungherese Figyelo, ha annunciato che il suo paese, sul modello dell’Ungheria, sta valutando la possibilità di costruire "una barriera" sul confine con la Grecia, per fermare i migranti in arrivo dal Sud. Poposki ha aggiunto che il paese avrà bisogno di "un qualche tipo di difesa materiale", anche se questa non rappresenterebbe una soluzione definitiva. "Se prendiamo seriamente ciò che l’Europa ci sta chiedendo, ce ne sarà bisogno. O di soldati, o di una barriera, o una combinazione di questi due elementi". Nella giornata di lunedì hanno attraversato i confini meridionali della ex Repubblica jugoslava di Macedonia settemila siriani, il più alto numero registrato sinora nell’arco di ventiquattro ore. I migranti affrontano un cammino quasi interminabile, con condizioni meteorologiche che in queste ore sono tutt’altro che favorevoli: piove senza sosta, la temperatura ha registrato un forte calo e il fango ostacola notevolmente gli spostamenti. Nelle settimane scorse, decine di migliaia di profughi avevano oltrepassato il confine, dalla zona greca di Kilkìs, attraversando la Fyrom, e arrivando in Serbia e infine in Ungheria. La stessa ministra responsabile per la gestione dei flussi migratori del governo Tsipras, Tassia Christodulopulu, aveva dichiarato recentemente al manifesto che la Grecia non incoraggia la partenza dei profughi, "ma non può certo militarizzare tutti i suoi confini di terra, che sono estremamente estesi". Ufficialmente Atene non commenta la notizia, anche perché la Grecia, come è noto, è in campagna elettorale e almeno fino al 21 settembre rimarrà in carica il governo ad interim, presieduto dalla presidente della corte di cassazione Vasilikì Thanou. L’unico che potrebbe esprimersi, a massimo livello, è il presidente della Repubblica, Prokopis Pavlopoulos, che non intende, tuttavia, alimentare alcun tipo di tensione. È chiaro, tuttavia, che se il progetto di Skopje dovesse essere realmente attuato, andrebbe inevitabilmente a influenzare negativamente i rapporti tra i due paesi. Da una parte la Grecia si tramuterebbe nuovamente in un limbo per decine di migliaia di profughi e migranti. I tentativi, seppur difficili e informali, di superare di fatto Dublino 2, e dare libertà di movimento ai profughi, verrebbero bruscamente bloccati. Atene, alle prese con la ben nota crisi economica, non riesce a fornire assistenza a lungo termine a centinaia di migliaia di "disperati del mare". Parallelamente, si incrementerebbero gli affari dei trafficanti che cercano di offrire speranze a chi lascia dietro di sé guerre e disperazione, promettendo approdi in Italia, con nuove, rischiosissime traversate dell’Adriatico. Già il 21 agosto il governo dell’ex Repubblica jugoslava di Macedonia aveva mandato l’esercito ai confini con la Grecia, per cercare di evitare il passaggio dei profughi. E i mezzi di informazione greca avevano sottolineato che "ai confini con Skopje l’aria inizia a puzzare di polvere pirica". La Serbia, al contrario, desiderosa di entrare a far parte dell’Ue, ha fatto sapere che non intende erigere nessun tipo di muro al fine di "impedire l’entrata dei migranti nel suo territorio". Il ministro degli esteri Poposki, conscio delle critiche che pioveranno sul suo paese, ha anche dichiarato che "ogni volta che il suo governo prende sul serio quello che gli chiede l’Europa, cercando di controllare i confini e fermare le persone, arriva subito una reazione internazionale negativa". Resta agli atti che Budapest e Skopje mostrano di non riuscire a comprendere che l’Europa- finalmente - sembra decisa a cambiare rotta sulla questione dei flussi migratori, privilegiando il dialogo e l’integrazione, e non la costruzione di nuovi muri, che creano "profughi prigionieri" e alimentano nuove e imprevedibili tensioni. Immigrazione: ridisegnare le città dell’accoglienza di Alberto Ziparo Il Manifesto, 11 settembre 2015 Altro che Cie: il flusso di profughi è destinato a modificare l’assetto urbano europeo. Quanto sta finalmente succedendo - sia pure con molte difficoltà e contraddizioni - sul fronte delle migrazioni verso l’Europa, la ancora incerta "svolta", spinge a considerare dinamiche e processi in atto non tanto come emergenze contingenti, ma quali fenomeni di fase destinati a segnare e probabilmente a trasformare strutturalmente l’organizzazione sociale e ambientale europea e occidentale. È il caso forse di assumere che l’enorme flusso di immigrazione dai sud del mondo è destinato in tutto o in parte a caratterizzare, connotare, i futuri assetti delle città e dei sistemi insediativi del Vecchio Continente, e non solo. Tra coloro che "stanno arrivando" ci sono certamente i futuri italiani, francesi, tedeschi, spagnoli ecc., che costituiranno una componente rilevante, al pari degli altri che, con mobilità crescente, sono destinati a trascorrere periodi più o meno lunghi, ma contingenti, nella nostra penisola come in altri paesi, in attesa di destinazioni diverse, anche extraeuropee; o di possibili "ritorni a casa". Pure oggi così difficili da intravedere. È allora il caso che si pensi alla chiusura - abbandono definitivo - delle strutture di accoglienza temporanee: le tristi sigle di questi anni, Cie, Cat, Cae, Cdt, ecc.; e si assuma l’accoglienza come tema foriero di meccanismi funzionali ad una nuova domanda aggiuntiva di cittadinanza, di abitanza. Che può contribuire ad orientare i nuovi programmi di riuso e di rigenerazione urbana, quanto mai necessari; al di là dell’arrivo dei migranti (per cui in ogni caso nel breve periodo appare inutile la distinzione tra le varie tipologie di migrazione). Va tenuto conto in questo quadro che su tale terreno, la situazione delle strutture è, almeno quantitativamente, assai meno drammatica di quanto ogni giorno ci prospetta la vulgata politica e mediatica. Anzi tale tipo di domanda aggiuntiva può fornire senso ed utilità sociale ad un’offerta esuberante da iperproduzione edilizia che, non solo nel clamoroso caso italiano, costituisce un monumento allo spreco economico e ambientale, vista l’enorme realizzazione di case (spesso vuote) e di cemento che ha contraddistinto le ultime fasi. Il vuoto o sottoutilizzato non interessa solo le città italiane o dell’Europa occidentale: per citare solo casi molto noti, i comparti deserti nelle città dell’Europa orientale (quella dei nuovi muri) assomigliano ai centri interni collinari e montani italiani; per dieci mesi all’anno la Costa del Sol, come quelle siciliane e calabresi, presenta centinaia di migliaia di case e villette vuote; in molte sub regioni del continente i centri rurali sono stati svuotati dal gigantismo della città diffusa. I dati relativi al nostro paese ci forniscono un patrimonio edilizio impressionante quanto sovrabbondante, in cui un decimo degli edifici ed un quarto degli alloggi esistenti sono vuoti o sottoutilizzati. Le dimensioni del fenomeno sono tali per cui oggi è consistente il rapporto abitanti/edificio, laddove ieri si contavano gli abitanti/alloggio e ancora prima l’abitante/stanza. Nelle metropoli le stanze vuote di contano a centinaia di migliaia; nelle città medio-grandi a decine di migliaia. Ma anche i piccoli comuni sono segnati da palazzine e ville vuote o semiabbandonate, una circostanza che caratterizza molti centri interni. Certo va considerato che la gran parte di questo patrimonio - più dell’80% - è privato. E specie negli ultimi anni à stato costruito non per rispondere alla domanda sociale né alle dinamiche economiche del settore, ma soprattutto per realizzare le basi di meccanismi di speculazione finanziaria; ovvero per riciclare capitali illegali. La riprova è fornita dalla presenza di aree di forte disagio abitativo locale, a fronte di una domanda inevasa totale nazionale pari a poco più del 10% dell’offerta inutilizzata (circa 850 mila nuclei, per lo più monofamiliari, a fronte di circa 8 milioni di alloggi vuoti o sottoutilizzati). Ricerche come Riutilizziamo l’Italia, condotta dal Wwf insieme a diverse università, o gli "Osservatori" della Società dei Territorialisti illustrano, oltre all’urgentissima esigenza di messa in sicurezza del territorio, quella di rigenerare e riusare la città a partire dal blocco del consumo di suolo e dal riuso dell’enorme mole di vuoto o inutilizzato; nonché dalla domanda di riqualificazione eco-paesagistica e di valorizzazione del patrimonio storico culturale presente. Queste elaborazioni hanno colto come l’innovazione sociale - oltre che tecnologica - espressa da nuove soggettività, stia contribuendo a riqualificare i luoghi delle città a partire dalla particolarità delle istanze espresse in tali situazioni urbane: si pensi ai processi di riciclo e ristrutturazione "leggera" promossi da associazionismi artistici e culturali o alle stesse "occupazioni spontanee" come segnalazione di forte disagio sociale e di soluzione "diretta" dei problemi. A questi temi utili al ridisegno ecologico e socialmente innovativo della città - che ritessono tessuti urbani in sparizione- si può aggiungere oggi l’accoglienza; da assumere anche come nuova ricchezza rappresentata dalle culture espresse dalle molte, diverse, soggettività provenienti dall’esterno. Si impone però per questo l’esigenza di politiche urbane differenti dal passato e autenticamente innovative; che le istituzioni attuali, incrostate e spesso dominate da interessi speculativi, che aggravano sovente una sistematica riluttanza all’innovazione, difficilmente possono proporre. Questo tipo di azione può muovere dal censimento del patrimonio vuoto o inutilizzato di ciascun comune: un dato di cui spesso l’amministrazione è ben consapevole o che può facilmente e rapidamente acquisire. Da questo e dalle più evidenti emergenze di riqualificazione urbanistica può muovere un efficace e utile "Piano casa sociale", che integra appunto rigenerazione urbana e accoglienza. Anzi ne è connotato. È necessaria l’azione dal basso, di comitati e associazioni, perché si diffondano i pochi esempi virtuosi esistenti (vedi il comune di Riace in Calabria), di capacità di acquisizione del patrimonio vuoto anche privato, e del suo riutilizzo anche con opzioni di "comodato d’uso di pubblica utilità", perché nella nuova qualità ecologica e civile delle nostre città, oltre alla risposta a bisogni già emersi, non può mancare la ricerca di soddisfacimento delle domande dei "nuovi abitanti". Droghe: un italiano su 10 ne fa uso, fra gli studenti uno su 4. Giro d’affari da 23 miliardi Il Messaggero, 11 settembre 2015 Le droghe hanno ancora una forte valenza seduttiva sugli italiani. Milioni ne fanno uso, spesso in modo occasionale. Si stima che circa il 10% della popolazione in Italia (15-64 anni), quasi 4 milioni, ha assunto almeno una volta nell’ultimo anno una sostanza illegale. Cannabis e cocaina sono le droghe più diffuse. Lo afferma l’ultima Relazione annuale al Parlamento sulle dipendenze (2015) del Dipartimento delle politiche antidroga. Un fenomeno che stima un giro di affari annuo di 22,96 miliardi di euro; e spese per la repressione di circa un miliardo. Quali sostanze si consumano. Il 32% ha provato cannabis (consumi in ripresa) almeno una volta nella vita, poco più di 12 milioni e mezzo di persone (la prevalenza è pari quasi al 40% nella fascia 15-34 anni, oltre 5 milioni di sperimentatori tra i giovani); si stima che la cocaina (uso in calo) è assunta da 3 milioni di italiani almeno una volta nella vita (7,6%); il consumo di eroina (oppio, morfina, metadone), la cui assunzione sta risalendo, almeno una volta nella vita ha coinvolto quasi 800mila italiani tra i 15 e i 64 anni (2%); le sostanze stimolanti (come amfetamine ed ecstasy) sono state consumate da un milione e mezzo di italiani (4,1%) almeno una volta nella vita; più o meno stessa dimensione (3,7%) per gli allucinogeni (lsd, funghi allucinogeni, ketamina). L’87% dei consumatori ha assunto una sostanza, il 13%, due o più. consumatori sono per lo più maschi. Per ogni consumatrice ci sono quasi 2 assuntori (maschi 12,5%; femmine 7,1%). In calo i decessi. In un anno sono diminuiti del 10,32%. Sale il numero dei sequestri, diminuiscono le denunce. Lo scorso anno sono stati sequestrati 152.198,462 chilogrammi di droga (+111% rispetto all’anno precedente). Sono state denunciate all’ autorità giudiziaria 29.474 persone (-13,25%); di questi 10.585 stranieri (-9,55%) e 1.041 minori (-18,35%). Le operazioni antidroga sono state 19.449 (-11,47%); a livello regionale spicca la Lombardia (2.795 operazioni in totale), seguita dal Lazio (2.479), dalla Campania (1.871), dall’Emilia Romagna (1.659), dalla Puglia (1.581) e dalla Sicilia (1.454). I valori più bassi sono stati registrati in Molise (115) e in Valle d’Aosta (36). Record aumento sequestri hashish. Registrano +211,29%. In aumento anche il sequestro di marijuana (+15,93%) ed eroina (+5,30%) mentre calano quelli della cocaina (-21,90%) e degli anfetaminici in polvere (-42,92%). Fra studenti cresce consumo cannabis. Dal 24,6% del 2013 al 26,7% del 2014. Gli allucinogeni sono stati sperimentati almeno una volta nella vita dal 2,9% degli studenti. L’uso di tranquillanti o sedativi, senza prescrizione medica e senza indicazione dei genitori, è maggiormente diffuso fra le femmine. Il consumo almeno una volta nella vita è stato indicato dal 4,8% delle studentesse contro il 2,9% degli studenti maschi Un detenuto su tre è in carcere per reati legati alla droga. Un terzo di tutti questi detenuti è tossicodipendente (-5,5%). Dal 1992 al 2014 è raddoppiata la popolazione detenuta straniera, dal 15,3% al 32,6%. Lo scorso anno sono stati entrati nelle carceri 13.679 persone; di queste, 7.140 italiani, 6.539 stranieri, 916 donne. Segnalazioni al sistema nazionale di allerta precoce. Nel 2014 sono state 229, il 52,8% provenienti dalle forze dell’ordine. Undici i nuovi casi di intossicazione acuta. Guinea Equatoriale: interrogazione parlamentare "il Governo tuteli tre italiani detenuti" tazebaonews.it, 11 settembre 2015 "Conoscere se e quali iniziative il Governo italiano ha già intrapreso ed intende assumere per accertarsi delle condizioni di salute e processuali dei tre connazionali attualmente detenuti in Guinea e affinché vengano garantite condizioni detentive e processuali rispettose dei diritti civili e delle convenzioni internazionali". È quanto chiede una interrogazione al ministero degli Esteri presentata alla Camera dal deputato del Partito democratico Michele Anzaldi e al Senato dai senatori dem Roberto Cociancich, Andrea Marcucci e Laura Cantini, in merito alla detenzione in Guinea equatoriale di Fabio Galassi, del figlio Filippo e di Daniel Candio, incarcerati da marzo nel Paese che aveva detenuto per due anni e mezzo l’imprenditore Roberto Berardi, liberato lo scorso luglio. "Fabio Galassi, esperto di servizi informatici, - è scritto nell’interrogazione - dopo essere stato messo in mobilità dall’azienda per la quale lavorava in Italia, nel 2010 si è trasferito insieme al figlio Filippo in Guinea Equatoriale per curare un progetto di informatizzazione della Tesoreria di quel Paese. Nel corso di cinque anni ha scalato le posizioni all’interno della società General Work, nella quale accanto a capitali italiani esiste una rilevante presenza del governo, guidato dal presidente Teodoro Obiang Nguema Mbasogo, fino a diventarne Ceo. Il 21 marzo 2015, i signori Fabio e Filippo Galassi sono stati arrestati con l’accusa di voler lasciare il Paese portando con sè fondi della General Works. Con i Galassi è tuttora detenuto anche un altro italiano, Daniel Candio, di 24 anni, amico di Filippo Galassi e anche lui dipendente della General Work". "La detenzione dei nostri connazionali - scrivono ancora i parlamentari Pd nell’interrogazione - ormai protratta da oltre cinque mesi in condizioni durissime, presenta numerosi profili di ingiustizia. Le accuse contro i tre risulterebbero non essere state ancora formulate, contrariamente ai principi più elementari del diritto e alle leggi della stessa Guinea, che, prevedono un termine di 72 ore. Le condizioni delle carceri della Guinea equatoriale - come ha potuto testimoniare un altro nostro connazionale, l’imprenditore pontino Roberto Berardi, liberato e tornato in Italia lo scorso luglio dopo una detenzione di due anni e mezzo - sono terribili, e in esse viene praticata spesso la tortura. Considerati i tempi fin qui trascorsi in carcere senza che siano state neppure formulate le accuse, vi è ragionevolmente da temere tempi processuali lunghissimi, tali da far temere seriamente per le condizioni di salute dei due Galassi e di Manuel Candio". Iran: appello per salvare 13 prigionieri in procinto di essere giustiziati da Segretariato del Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana ncr-iran.org, 11 settembre 2015 La Resistenza Iraniana lancia un appello per salvare le vite di 13 detenuti nelle prigioni di Ghezel-Hessar a Karaj e di Bandar Abbas, che sono stati trasferiti in isolamento in attesa di essere giustiziati ed esorta le organizzazioni internazionali in difesa dei diritti umani ad intraprendere un’azione urgente per fermare queste esecuzioni criminali. Domenica 6 Settembre, undici detenuti nel braccio della morte della prigione di Ghezel-Hessar e altri due nella prigione di Bandar Abbas, sono stati trasferiti in isolamento per essere giustiziati. Il giorno precedente un detenuto di 45 anni, padre di sei figli, era stato impiccato nella prigione centrale di Zabol. Intanto le squadre anti-sommossa della prigione centrale di Karaj, hanno barbaramente aggredito i detenuti per la seconda volta nelle ultime settimane distruggendo e saccheggiando i loro effetti personali. Oltre ad impiegare ogni tipo di tortura e di pressione e ad imporre condizioni durissime ai detenuti, il regime teocratico colpisce costantemente i detenuti con aggressioni, pestaggi e umiliazioni. Gli ultimi ripetuti raid nelle sezioni 7 e 8 della prigione di Evin, nella sezione 3 e nella sala 12 della sezione 4 della prigione di Gohardasht (Rajai Shahr), sono solo alcuni di questi casi. Il fascismo religioso al potere in Iran, ribattezzato dal popolo iraniano "Il Padrino dell’Isis", ha trovato come unico modo per affrontare le molte e crescenti crisi interne ed internazionali seguite all’accordo sul nucleare, quello di intensificare la repressione e le esecuzioni.