Roverto Corbetera sta morendo di fame e di giustizia di Carmelo Musumeci Ristretti Orizzonti, 10 settembre 2015 "Nella vita talvolta è necessario lottare, non solo senza paura, ma anche senza speranza". (Sandro Pertini). Tempo fa avevo letto una statistica ufficiale ministeriale che diceva che tra il 2003 ed il 2007 ci sono stati circa 20 mila casi di errori giudiziari. Un numero impressionante. In questi giorni sta facendo discutere la conferma della sentenza di assoluzione definitiva di Amanda Knox e Raffaele Sollecito per l’omicidio di Meredith Kercher da parte dei giudici della Corte di Cassazione. Sta facendo soprattutto discutere la motivazione che arriva a parlare di "amnesie investigative" e di "colpevoli omissioni". Il Corriere della Sera dell’otto settembre 2015 arriva addirittura a scrivere "un’attività seria e accurata avrebbe acconsentito di raggiungere la verità su quanto accadde la notte del primo novembre 2007 nella villetta di via della Pergola a Perugia. E così rendere giustizia a lei e alla sua famiglia". Sono fortemente convinto che Roverto Cobertera sia stato condannato innocentemente (a volte capita) alla pena dell’ergastolo per un delitto che non ha commesso, soprattutto perché straniero con la pelle nera, pregiudicato (insomma, il colpevole perfetto). Forse anche perché non ha potuto permettersi i bravi, famosi avvocati di Raffaele e Amanda. Roverto per tentare di dimostrare la sua innocenza da settimane sta affrontando un digiuno a oltranza perché non può fare altro che morire di fame (e ha scelto anche di non parlare più, tanto nessuno lo ascolta). L’altro giorno l’ho guardato negli occhi e mi sono accorto dal suo sguardo che sta andando nel nulla. E penso che presto se nessuno farà qualcosa non avrà più la forza di tornare indietro. Oggi mi è arrivato un suo biglietto che mi ha commosso (a volte capita anche ai cattivi come me): Carmelo, penso che ne ho ancora per poco non riesco a muovermi come i primi giorni. Mi sento sempre più stanco. Mi fanno male i muscoli. Mi si addormentano le gambe. Riesco appena a leggere qualche riga e poi mi viene sonnolenza, ma la mia anima è ancora più forte di quando avevo iniziato lo sciopero della fame. E mi sento abbastanza debole da essere forte. Non cederò fin quando non sarà riconosciuta la mia innocenza. Carmelo, ti confido che non ho neppure più la forza di avere fame. Ormai ho solo la forza di non aver paura di morire. Roverto sta morendo, ormai è l’ombra se stesso. Non ha più forza né energia, né rabbia. E mi domando se là fuori, nel mondo dei vivi, c’è qualcuno che possa fare qualcosa per salvargli la vita. Non credo, a chi interessa la vita di "un povero negro", oltretutto con il coraggio di dichiararsi colpevole di essere innocente? Per questo gli ho proposto di prendere il suo posto proseguendo io il suo sciopero della fame. Spero che Roverto accetti, ma non credo perché mi ha confidato che vuole morire da innocente piuttosto che vivere da colpevole perché forse solo con la sua morte i suoi giudici crederanno alla sua innocenza. Giustizia: l’amnistia secondo Papa Francesco e l’attenzione alla persona di Adriano Sansa Famiglia Cristiana, 10 settembre 2015 In una lettera interna alla Chiesa, il Papa ha affermato che il Giubileo "ha sempre costituito l’opportunità di una grande amnistia, destinata a coinvolgere tante persone che, pur meritevoli di pena, hanno tuttavia preso coscienza dell’ingiustizia compiuta e desiderano inserirsi di nuovo nella società". Sono seguite diverse prese di posizione nell’ambiente politico italiano, ma non sembra che il termine papale di amnistia sia stato adoperato in senso tecnico-giuridico, quanto in quello più ampio di remissione delle colpe in vista del recupero. Il testo parla di coscienza delle ingiustizie commesse, mentre nel nostro ordinamento l’amnistia non ne fa menzione. Ma è vero che l’ammonimento a tener conto dell’umanità dei condannati e della necessità del recupero è sancito nella Costituzione. Esiste sempre il sovraffollamento delle carceri, seppur in parte ridotto. Resta acuto il bisogno di misure rieducative. Alternative al carcere, messa alla prova, non punibilità per tenuità del fatto, detenzione domiciliare e stretta sul carcere preventivo stanno cambiando il nostro sistema. Resta l’eccessiva lunghezza dei processi, l’insufficienza delle carceri. Le nostre responsabilità sono state gravi per decenni e non sono risolte. Un richiamo come questo, che viene dalla Chiesa, può giovare alla comunità civile, lontana ancora dalla fedeltà alle sue stesse leggi e a quelle universali dei diritti dell’uomo. Il Cappellano di Rebibbia "Anche in queste celle cristo c’è" (di Roberto Zichittella) Trentasette anni a Regina Coeli. E, prima ancora, tre anni a Rebibbia. Sembra la condanna di un criminale incallito, invece è la missione di padre Vittorio Trani, cappellano del carcere romano di via della Lungara. Originario della provincia di Latina, francescano conventuale, 72 anni, padre Vittorio confida: "Quella del carcere è una realtà che chiede un impegno continuo. Non c’è giorno in cui uno può dire: beh, ho risolto. Perché domani questo risolto non si addice più alle situazioni nuove che uno trova". Padre Vittorio, si aspettava le parole del Papa dedicate ai detenuti? "Sì, perché il Papa pensa alle persone più svantaggiate e non ha voluto lasciare indietro nessuno nell’onda di grazia che la Chiesa si appresta a vivere con il Giubileo della misericordia". Colpiscono le parole del Papa sul passaggio della porta della cella, che richiama il passaggio della Porta Santa. Come le interpreta? "La cella dove si entra e si esce mille volte al giorno può essere un richiamo a un passaggio che riguarda il cuore della persona. Francesco già lo aveva detto a noi cappellani nell’ottobre del 2013: dite ai detenuti che quando si chiude la porta della cella, Cristo è con loro. Quindi già aveva valorizzato questo segno, la cella, per dare un tocco di speranza molto forte: Cristo sta chiuso con voi. Lo spazio di sofferenza, visto con occhio di fede, è uno spazio dove si vive la presenza di Cristo". Il Papa scrive che la misericordia di Dio può trasformare le sbarre in esperienza di libertà. Come crederci? "Durante la Messa ho raccontato ai detenuti la storia di un pilota venezuelano che una volta fu usato come corriere della droga. Arrestato, fu messo in carcere in Sudamerica. Lì si convertì e cominciò a fare apostolato come detenuto fra i detenuti. Scontata la pena, quell’uomo ha chiesto di restare in carcere a compiere il suo ministero. Il carcere era stata una scoperta di libertà. Le sbarre non avevano più valore, lui era dentro, libero". Il carcere è luogo di conversione? "Il Signore sa sempre quando allungare la mano per farla incontrare con quella dell’uomo. In genere, nell’esperienza detentiva l’uomo si trova solo, senza le sue abituali sicurezze. Così si ripensa anche al rapporto con il Signore. Nessuno può dire se è un ritorno autentico o dettato dalla necessità del momento, ci vuole un grande rispetto per tutti i gesti religiosi". I detenuti cosa pensano del Papa? "È il loro idolo, così come lo era Giovanni Paolo II. Anche i musulmani guardano a lui con affetto e simpatia". Il Vaticano dista poche centinaia di metri da via della Lungara. Papa Francesco verrà a Regina Coeli? "Sì, l’invito c’è già. Siamo così vicini che io mi aspetto dì vederlo, una mattina, davanti al portone di via della Lungara. L’ho sempre sognato". Giustizia: Orlando incontra i direttori delle carceri "siate protagonisti del cambiamento" Adnkronos I direttori delle carceri sono "attori essenziali" del processo di riflessione sull’esecuzione penale. A sottolinearlo è stato il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, che oggi per la prima volta li ha incontrati nell’ambito del lavoro avviato con gli Stati Generali dell’esecuzione penale, un confronto ampio tra tutti i protagonisti del mondo del carcere, che dovrà portare a definire un nuovo modello di esecuzione della pena e una diversa fisionomia della detenzione. "Siate protagonisti del cambiamento" è stato l’invito rivolto ai direttori degli istituti dal guardasigilli, che ha dato loro un indirizzo mail al quale inviare suggerimenti che, ha assicurato, leggera tutti personalmente. Da parte loro i direttori, che hanno accolto con un grande applauso l’iniziativa del ministro di organizzare questo incontro, hanno espresso soddisfazione per il loro coinvolgimento dopo un lungo periodo in cui il loro ruolo non era stato valorizzato. Francesco Cascini nominato capo giustizia minorile Il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha nominato Francesco Cascini nuovo capo dipartimento della Giustizia minorile di comunità. La funzione di vice Capo di gabinetto vicario, viene da ora affidata a Gemma Tuccillo. Cascini, vice Capo di gabinetto dal 2014, è entrato in magistratura nel novembre del 1996 con funzioni di sostituto procuratore presso la procura di Locri; successivamente trasferito a Napoli, nel 2005 entra a far parte della Direzione Nazionale Antimafia. Nel luglio del 2013 viene nominato vice Capo dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria. Francesco Cascini - si legge ancora in una nota del ministero della Giustizia - si troverà ad affrontare un dipartimento della giustizia minorile rinnovato dal recente regolamento di organizzazione del ministero, in vigore dal 14 luglio 2015, le cui competenze sono state ampliate con l’assegnazione dell’esecuzione di tutte le misure alternative e le sanzioni sostitutive alla detenzione in carcere: una struttura moderna di controllo della cosiddetta probation secondo i più avanzati modelli europei. Giustizia: altro che ferie ridotte alle toghe, i tribunali sono ancora vuoti di Patricia Tagliaferri Il Giornale, 10 settembre 2015 La riforma tanto contestata dai magistrati si rivela un flop. A Roma aule deserte, salve solo le udienze con detenuti. Partiamo da una immagine del corridoio al piano terra del Tribunale di Roma. Non è stata scattata di notte, quando il palazzo di giustizia è deserto, ma ieri nel bel mezzo della mattinata, alle 11 del 9 settembre, una data in cui ormai in città tutti hanno ripreso da un pezzo i ritmi di sempre. Non a piazzale Clodio. Qui non si può certo dire che l’attività ferva. Anzi, tutte le aule sono chiuse, non ci sono udienze a ruolo. E lo stesso vale per il piano di sopra, dove ci sono anche le aule gip. È un’immagine significativa dei reali effetti di una delle ultime leggi in materia di giustizia del governo Renzi, quella che auspicando una maggiore produttività ha ridotto le ferie dei magistrati e la sospensione estiva delle udienze. O forse è meglio usare il condizionale, perché almeno nella capitale la nuova norma non sembra aver cambiato di molto le cose. Questo naturalmente non vuol dire che le toghe non lavorino, ma fa riflettere su una categoria che può regolarsi come vuole, a seconda dei singoli uffici giudiziari, riuscendo a dribblare le nuove disposizioni volute dal premier per velocizzare la giustizia. A sentire gli avvocati sono loro gli unici ad aver risentito degli effetti di questi tagli, soprattutto di quello della sospensione dei termini processuali nel periodo feriale che ha accorciato i tempi per le impugnazioni dei provvedimenti. Sul decreto legge che ha ridotto la sospensione dei termini dall’1 al 31 agosto (prima era di due mesi) e le ferie da 45 a 30 giorni annuali c’è sempre stata un po’ di confusione, a partire dal fatto che nel provvedimento firmato dal Guardasigilli non è stato cancellato l’articolo che assegna 45 giorni di ferie ai magistrati con funzioni giudiziarie, e questo per qualcuno, anche per il Csm che è intervenuto con due circolari, renderebbe vana l’aggiunta dell’articolo bis che invece riduce a 30 i giorni di ferie di "magistrati ordinari, amministrativi, contabili e militari". Approfittando anche del fatto che la legge è scritta male alcuni Tribunali hanno deciso di tagliare, altri no, adeguandosi al parere del Csm e di fatto sfidando il governo. Altra cosa è la questione della sospensione dei termini, che scadeva il 30 agosto. E qui veniamo all’immagine scattata ieri. Chi si aspettava che con le nuove norme il Tribunale sarebbe tornato in piena attività il primo settembre a quanto pare si sbagliava. Tranne i processi con i detenuti, che vengono comunque celebrati, e qualche dibattimento di particolare rilevanza, a Roma le udienze non hanno ancora preso il via dopo l’estate, al collegiale come al monocratico, mentre in Corte d’Appello l’attività sta lentamente riprendendo. La stessa desolazione a piazzale Clodio, del resto, si era registrata gli ultimi dieci giorni di luglio. Perché, visto che per legge la feriale va dal 1 al 31 agosto? Nel Palazzo ognuno ha la sua idea. Per qualcuno sono i magistrati che continuano a mantenere lo status quo ignorando le nuove disposizioni semplicemente fissando le udienze quando vogliono, per altri è una questione di calendari delle udienze già stabiliti da tempo. Altri ancora fanno riferimento ad una circolare del Csm che - dopo le lamentele dei giudici i quali sostengono di usare parte delle vacanze per scrivere le sentenze - ha indicato ai capi degli uffici giudiziari di non fissare udienze 15 giorni prima e dopo il periodo di ferie, un periodo "cuscinetto" aggiuntivo per far sì che i tempi di vacanza siano effettivi. A questo punto il cittadino potrebbe domandarsi quale altra categoria professionale ha il privilegio di potersi autogestire aggirando leggi dello Stato a cui dovrebbe teoricamente sottostare? Giustizia: terrorismo, i genitori di Fatima restano in carcere "consapevoli di obiettivi Isis" Il Giorno, 10 settembre 2015 Secondo il gip Maria Vicidomini i genitori di Maria Giulia Sergio, foreign fighter in Siria, erano consapevoli delle finalità dell’Isis, perciò devono restare in carcere. Sergio Sergio e la moglie Assunta, i genitori di Maria Giulia "Fatima", devono restare in carcere. Lo ha deciso il gip di Milano Maria Vicidomini che ha respinto l’istanza della difesa dei due coniugi, arrestati lo scorso primo luglio a Inzago (Milano) e accusati di essere in procinto anche loro di partire per la Siria per mettersi al servizio dell’Isis come la figlia. Sergio Sergio e la moglie sono detenuti da oltre due mesi nel carcere milanese di San Vittore nell’ambito dell’inchiesta del procuratore aggiunto Maurizio Romanelli e del pm Paola Pirotta che ha portato anche all’arresto della sorella di Fatima, Marianna, e di altre due persone, gli zii di Aldo Kobuzi, marito albanese della foreign fighter italiana. Fatima, il marito e altre tre persone sono, invece, tuttora latitanti. Gli stessi pm avevano dato parere negativo all’istanza di scarcerazione presentata dall’avvocato Erika Galati e il gip Vicidomini, in sostituzione del giudice Ambrogio Moccia che aveva emesso la misura cautelare, ha bocciato la richiesta ritenendo ancora sussistenti i gravi indizi di colpevolezza e le esigenze cautelari. Ai coniugi Sergio viene contestato il reato di organizzazione di un viaggio per finalità di terrorismo, mentre Marianna, così come Fatima, è accusata anche di associazione con finalità di terrorismo internazionale. Come si legge negli atti dell’inchiesta, "nessun dubbio può sussistere sulla consapevolezza" dei due genitori di Fatima "di organizzare un viaggio per raggiungere l’organizzazione terroristica Stato Islamico, con pacifica conoscenza delle attività e degli obiettivi dell’organizzazione stessa". Secondo il gip Moccia, infatti, i coniugi Sergio, assieme a Marianna, erano "in partenza per la Siria" e stavano "adottando efficaci strategie per cercare di impedire l’azione di contrasto delle forze dell’ ordine". La difesa della coppia, però, da quanto si è saputo, sta già lavorando per presentare una nuova istanza di scarcerazione sulla base di nuovi elementi acquisiti nelle indagini difensive. Giustizia: Napoli, quei "bravi ragazzi" che non credono in niente e nulla hanno da perdere di Maurizio Braucci La Repubblica, 10 settembre 2015 Il mio amico mi dice: "In questo momento ci sono giovani nella nostra città che compiono azioni criminali e dicono a se stessi: tanto l’ergastolo già me l’hanno dato! Ci pensi? Noi viviamo in una città dove c’è gente che pensa questo". La faida che da mesi insanguina le zone centrali della città di Napoli ricorre esattamente 10 anni dopo quella di Scampia iniziata nell’autunno 2005, quella che ha portato alla ribalta la famiglia dei Di Lauro e l’edilizia pubblica della periferia nord. Nulla sembra essere cambiato da allora, tranne il fatto che Scampia oggi non è più oppressa da quel fatidico e capillare controllo criminale ma appunto per questo mostra più visibili le piaghe della povertà, della disoccupazione e dell’ignoranza. L’attuale e bruciante episodio di storia criminale nel Centro storico vede dei giovanissimi scontrarsi sanguinosamente per accaparrarsi il controllo delle piazze di spaccio e quindi delle fonti di guadagno che consentano a qualcuno di loro di primeggiare sugli altri. Questo perché, decimati dagli arresti, dalle morti e dalle rivelazioni di boss che sono diventati collaboratori di giustizia, i vecchi clan Mazzarella, Misso e Giuliano hanno lasciato il campo. Ecco che i più giovani, riallacciandosi alle rivalità e alle epiche dei loro padri, si sono organizzati in bande basate su singole personalità, come i fratelli Sibillo che rivendicano la vecchia supremazia dei Giuliano contro gli eredi dei Mazzarella, cioè contro i nipoti e i cognati di un clan che agì sempre nell’ombra e che fu alleato, e poi nemico, di quello di Forcella, prima di crollare come un colosso dai piedi d’argilla. Pezzi di epica criminale intorno a cui oggi navigano bande di ventenni che arruolano ragazzini e che vogliono il denaro delle lucrose attività commerciali del centro (del decantato sviluppo turistico) e il monopolio della vendita di droghe per il divertimentificio delle notti decumane. Giovani boss che si alleano con i clan dell’area della periferia est per ottenere droga dove i traffici portuali e su gomma sono più fitti e dirottabili al narcotraffico e vendere così, a prezzi più convenienti dei fornitori rivali, a una distribuzione fatta di piazze controllate da altre piccole bande, le quali a loro volta attingono da una manovalanza estesa di giovani disoccupati. Ma non è solo l’epica a farla da padrona nelle menti di questi nuovi boss, sebbene sia un’epica che si riscrive allorché un fratello viene assassinato e l’altro pur di vendicarlo arriva a far uccidere degli innocenti che non vogliono parlare o dei ragazzini che si guadagnano 50 euro nella piazza di spaccio sbagliata apertasi sotto casa loro. Non è l’unica causa quest’epica di giovani che se non si aggregassero in bande sarebbero invisibili, insignificanti grazie all’esclusione da una società che non li raggiunge su nessun piano, né istruttivo, né lavorativo e nemmeno culturale (nel senso vero di cultura, non intrattenimento), bande nichiliste, violente e disperate dentro le quali il mondo arriva solo come possibilità di farci denaro sfruttandone le contraddizioni e le iniquità e le viltà, bande dentro cui tutti i discorsi edificanti e speranzosi della democrazia (quale democrazia?) perdono di ogni senso e diventano vuoto rumore, bande che hanno regole e dinamiche autarchiche e incomprensibili agli esterni, ai cittadini delle fasce superiori, ma che sono il riflesso delle loro assurdità morali ed economiche e della loro non reale volontà ad affrontare la questione criminale giovanile. No, questa ricerca disperata di un’epica non basta a giustificare tutto questo, malgrado il sangue e le grida di morte che allarmano gli abitanti quando provengono da vittime innocenti con cui ci si identifica e da cui si inizia a temere anche per la propria incolumità. Se i clan sono ora in mano a dei ragazzini, e chissà ancora per quanto lo saranno vista la vasta scala di disperati e di senza futuro napoletani, è anche perché l’azione istituzionale di questi anni è rimasta mera competenza del ministero dell’Interno (ci avete fatto caso? È il solo ministro che prende parola in casi del genere) ed essa non si è fatta questione anche del Lavoro e delle Politiche sociali, dell’Economia e della Cultura, dai dicasteri fino agli assessorati. E siccome da qualche anno andare in carcere per associazione mafiosa è sempre più facile e le condanne sono sempre più dure (ergastoli e 41 bis), allora quel meccanismo di schiavismo criminale, che sottostà alla camorra, e che è incarnato nella figura del boss padrone di vita e di morte, ha riempito da un po’ le carceri di folli sprovveduti, acquisibili, ricattabili, manipolabili, i quali, appunto come ha detto il mio amico, recitano il mantra "Tanto a me l’ergastolo già me l’hanno dato" e sono disposti a tutto, perché l’esclusione dal resto della società e il fallimento di ogni offerta alternativa hanno spezzato in loro ogni legame tra le cause e le considerazioni sugli effetti, rendendoli, inevitabilmente e comprensibilmente, nichilisti. Fanno quasi ridere queste nuove misure di sola militarizzazione del territorio mentre al Rione Traiano, dopo Mugnano e Caivano, si riorganizzano piazze di spaccio per sostituire quelle di Scampia e in una medesima condizione di disagio sociale affidata all’azione di pochi volenterosi, fanno quasi ridere l’assenza di altri e parimenti responsabili ministeri quando bisogna affrontare un dramma che riguarda non solo la disoccupazione ma l’ancor più grande inoccupabilità di tanti giovani che non vengono formati a niente perché la formazione è un business in mano agli enti locali che lascia ai boss il compito di occuparsi dei ragazzi. Tutto questo farebbe ridere, se non facesse piangere. Perchè la politica non da fondo alle sue risorse e ai suoi obblighi verso la città di Napoli e il Sud del Paese (che purtroppo sono fatti per la maggioranza di gente mansueta che altrimenti andrebbe tutti i giorni sotto i palazzi del potere a chiedere giustizia sociale) e i potenti sono così poco disposti a sacrificare i loro privilegi e i loro pregiudizi per portare un vero attacco al crimine. Serve un attacco serio, completo, intelligente, affidato al meglio delle risorse umane in campo investigativo, economico, culturale ed educativo, un’azione fondata su una reale intenzione etica e non su operazioni di facciata e su giochi delle parti. Ma se questo non accade, allora avranno avuto ragione loro, quei ragazzi che non credono più in niente e che niente più hanno da perdere. Giustizia: per quelle strade serve un esercito di operatori sociali di Luigi Cancrini (Psichiatra e psicoterapeuta) L’Unità, 10 settembre 2015 Il mese di agosto del 1987, Leoluca Orlando, sindaco della primavera palermitana, mi chiese di predisporre un progetto per la prevenzione delle tossicodipendenze. Quello che fu possibile allora, in una città estremamente debole dal punto di vista dei servizi, fu la messa in campo di 130 operatori (assistenti sociali, psicologi e medici) giovani ed entusiasti che cominciarono a lavorare per assicurare un sostegno sociale ai bambini, ai ragazzi ed ai giovani dei quartieri più poveri e più disgregati della città. Un passaggio chiave di questa esperienza fu la guerra condotta contro l’evasione scolastica. Andammo casa per casa partendo dalle liste dei bambini e dei ragazzi che non frequentavano la scuola dell’obbligo per riportarli in classe: riuscendoci al cento per cento coi bambini delle elementari ed al settanta per cento con i ragazzi delle medie. Utilizzammo il volontariato dei giovani coinvolti nelle cooperative finanziate con la legge sulla occupazione giovanile per sostenere quelli di loro che non ce la facevano da soli ad utilizzare il ritorno a scuola. Aiutammo le famiglie ad accogliere 500 minori chiusi in istituti fatiscenti. Riprendemmo in mano una dopo l’altra le richieste che il Tribunale dei Minori aveva inutilmente rivolto da anni al Comune per l’assistenza dei ragazzi che avevano commesso reati offrendo a loro e alle loro famiglie un intervento alternativo alla carcerazione o all’abbandono. Ci occupammo infine in modo più specificamente terapeutico delle famiglie in difficoltà, dei minori che subivano maltrattamenti e abusi, delle situazioni che non riuscivano a trovare risposte adeguate, delle situazioni già dichiarate di alcolismo, di tossicodipendenza, di disturbo psichiatrico. A quel progetto straordinario che andò avanti fino ai primi mesi del 1993 e da cui sono nati i servizi che hanno permesso a Palermo di uscire dall’emergenza infanzia ho ripensato leggendo l’articolo di Claudia Fusani sulle bande giovanili dei quartieri Forcella e Sanità e sulla assenza dello stato sociale che rende possibile l’emergere di queste bande. Dicono gli investigatori della Dia che, variamente associandosi fra loro, questi ragazzi stanno riempiendo il vuoto lasciato dalle organizzazioni criminali ridimensionate o sconfitte dai magistrati e dalle forze dell’ordine. Il vero problema sollevato, tuttavia, è quello dell’assenza totale di risposte altre, coerenti e propositive per il bisogno di vivere di tutti questi ragazzi. Pur in presenza di realtà straordinarie come la palestra di Maddaloni a Scampia e di altre generose iniziative dal basso quello che manca, infatti, è un impegno forte, intelligente, concreto dello Stato. Il ministro Alfano ha parlato in questi giorni di 50 poliziotti da inviare nelle zone in cui si sono prodotte le morti inutili di persone tremendamente giovani. Quello di cui ci sarebbe bisogno a mio avviso, invece, è un piccolo esercito di operatori sociali reclutati sul territorio e ben coordinati da professionisti capaci cui si dovrebbe affidare il compito fondamentale di offrire in modo sistematico e capillare occasioni di impegno sportivo e ricreativo oltre che il recupero scolastico e formativo a tutti i ragazzi e le ragazze di questi quartieri. Coinvolgendo le madri e i padri, paralizzati oggi dalla paura e dall’incapacità di creare prospettive credibili per il loro figli. Con l’assistenza, certo, anche delle forze dell’ordine la cui presenza potrebbe essere necessaria soprattutto in una prima fase e all’interno, tuttavia, di un intervento di cui deve essere chiaro soprattutto il valore etico. Uno stato che non ha dato a tutti questi ragazzi quello cui loro avevano diritto, deve avere il coraggio di chinarsi verso di loro: chiedendo scusa e offrendo nuove occasioni. Un progetto di questo tipo chiede un finanziamento non eccezionale e potrebbe avere risultati straordinari anche dal punto di vista economico. Dicono gli economisti moderni che 1 euro speso nel sociale di oggi ne fa risparmiare almeno 7 negli anni successivi. Sostenere il comune di Napoli con un finanziamento ad hoc per il recupero dei bambini e dei ragazzi che vivono in condizioni di disagio tanto grave potrebbe essere un modo semplice di affrontare un’emergenza che ci riguarda tutti. L’Italia, penso, deve saper ripartire anche da qui. Giustizia: caporalato; la denuncia della Cgil "in Puglia nei campi 40mila donne in nero" di Nicola Lavacca Avvenire, 10 settembre 2015 Morto ieri dopo un mese il bracciante in coma. Si allunga la schiera dei braccianti morti per il duro lavoro nelle campagne di Puglia e Basilicata. Dopo oltre un mese in coma è deceduto Arcangelo De Marco, colpito da un malore a Metaponto il 5 agosto durante l’acinellatura dell’uva. Ma sono soprattutto le donne a essere impiegate in maniera irregolare nelle aziende agricole: si calcola siano 40mila nella sola Puglia. Paola Clemente, 49 anni, che ha perso la vita il 13 luglio dopo essersi semita male mentre lavorava tra i vigneti in contrada Zagaria ad Andria. Due casi analoghi sui quali è intervenuta la magistratura. Le inchieste stanno facendo il loro corso per stabilire la cause del decesso ed eventuali responsabilità. Tuttavia, resta la drammatica e inquietante la realtà dello sfruttamento nei campi, delle condizioni durissime in cui operano i braccianti che spesso finiscono nelle grinfie dei caporali. Le morti bianche che hanno lasciato il segno riaprendo uno squarcio sul fenomeno del reclutamento illecito e del bieco sistema ricattatorio. Sono soprattutto le donne, si calcola all’incirca 40mila, ad essere impiegate in maniera irregolare nelle aziende agricole della Puglia. Dati allarmanti che hanno messo in stato di allerta i sindacati specie in questo periodo in cui, oltre all’acinellatura, nell’intera regione comincia la vendemmia, uno dei momenti in cui il fenomeno dello sfruttamento dei braccianti assume proporzioni molto elevate facendo emergere con particolare gravità l’utilizzo irregolare della manodopera femminile. Non sono soltanto italiane ma anche lavoratrici straniere (ben 18.000 impiegale irregolarmente nei campi della Puglia, secondo la Cgil), provenienti soprattutto dall’Est europeo. "Il 60-70 per cento del lavoro nero femminile - sottolinea il segretario regionale della Flai-Cgil, Peppino De Leonardis - si concentra nelle campagne delle province di Brindisi e Taranto e riguarda la raccolta di diversi prodotti, a partire dalie fragole a maggio, passando per le ciliegie, le pesche, l’uva che, in alcune zone, si raccoglie fino a novembre". La maggior parte delle braccianti - secondo il sindacato - è gestito da caporali, sia italiani che stranieri, ai quali viene versata una parte delle somme corrisposte a ogni donna. Per la raccolta dell’uva la paga si aggira intorno ai 25 euro al giorno. Soprattutto dopo la morte sospetta di Paola Clemente si sono intensificati i controlli e le ispezioni nelle campagne e nelle aziende agricole da parte dell’ispettorato del lavoro e della forze dell’ordine. Ma, facendo un passo indietro il quadro preoccupante emergerebbe sin dallo scorso anno: nel 2014 è risultato che su 1818 ditte controllate ben 1299 si trovavano in situazioni di illegalità. "A quante pare le irregolarità sono state riscontrate finora in un’azienda su due controllale - fa notare De Leonardis. È indispensabile incrementare anche la lotta all’evasione contrattuale, verificando la retribuzione di tutte le giornate lavorate, l’applicazione dei contratti, l’effettiva corresponsione del salario". Secondo il segretario della Piai, in Puglia circa il 70 per cento delle aziende agricole, in particolare quelle nate negli ultimi anni dedite anche alla trasformazione dei prodotti, utilizzano manodopera in nero. "Esistono 600 aziende dell’ortofrutta- conclude De Leonardis - che lavorano tutto l’anno, ma assumono solo stagionali, molti dei quali in maniera irregolare. Nel Barese, per esempio, caporalato e sfruttamento sono fenomeni che riguardano soprattutto le aziende di trasformazione e le lavoratrici italiane. La Puglia era all’avanguardia nella legislazione ma ora è in ritardo nella sua applicazione". Sulla necessità di applicare la legge 10/2014 interviene anche il segretario generale della Cisl di Puglia e Basilicata, Giulio Colecchia: "È indispensabile premiare le buone prassi e penalizzare le aziende che operano in maniera irregolare per restare all’interno di un sistema di legai ita. Sarebbe fondamentale far capire ai datori che chi viola la legge perde i finanziamenti acquisiti e non ha diritto ad averne altri". Al massimo entro ottobre, secondo i ministri della Giustizia Andrea Orlando e dell’Agricoltura Maurizio Martina, partirà un poker di misure che prevede, in primo luogo, la confisca dei beni: terreni e prodotti, frutto del reato, saranno espropriali, così come quelli nelle disponibilità del condannato per il valore equivalente alla ricchezza generata. A seguire, i ministri intendono introdurre la stessa azione di confisca anche sul patrimonio di quelle aziende che commettono il reato per interposta persona. AI terzo punto, Orlando e Martina inseriscono la responsabilità in solido delle aziende che sfruttano spesso costituite in forme associative. Infine l’inserimento delle vittime del caporalato nell’elenco di coloro cui lo Stato riconosce un indennizzo. Giustizia: da gioielli a colonie penali e ritorno, lo strano destino delle più belle isole d’Italia di Claudio Visani La Repubblica, 10 settembre 2015 Montecristo e Ponza, Pantelleria e la Gorgona, Favignana e Pianosa. Molte tra le nostre perle interamente circondate tra le acque hanno un passato da luogo di reclusione in molti casi tristemente famoso. Una storia sulla quale in qualche caso non è ancora stata messa del tutto la parola fine. Le isole più belle d’Italia? Quelle delle ormai ex colonie penali. Una decina in tutto, da Pantelleria a Ponza, dall’Asinara a Favignana, per arrivare a quasi tutte le isole dell’arcipelago toscano: Elba, Pianosa, Capraia, Montecristo, Gorgona. Isole bellissime, poco o niente urbanizzate, spesso incontaminate, con una natura selvaggia e una macchia mediterranea rigogliosa, circondate da mari blu e da acque cristalline. Perfino la Cnn, in una recente inchiesta, le ha classificate tra le mete turistiche italiche da non perdere. Isole dove un tempo venivano mandati in esilio i nemici politici, da Napoleone a Sandro Pertini tanto per citarne due, ma anche i detenuti malati di tubercolosi prima di scoprire che l’aria salmastra li uccideva invece di guarirli, e i condannati comuni che dopo aver scontato metà della pena e per buona condotta venivano premiati con la possibilità di poter lavorare nei campi dell’azienda agricola della prigione, all’aperto invece che tra quattro mura dietro le sbarre, con vista mare e spesso con la possibilità di fare anche il bagno in quelle splendide acque. Poi, negli anni più recenti, nelle isole carcere sono stati rinchiusi terroristi rossi e neri, boss e spietati killer mafiosi assieme ad altri poco raccomandabili personaggi. Le isole sono diventate ancora più inespugnabili, al loro interno sono sorte sezioni di massima sicurezza, fortezze nelle fortezze, dove i secondini erano più dei detenuti e dove le pene venivano scontate in regime di carcere duro, col 41 bis. Ma quell’isolamento ai capi mafiosi proprio non piaceva, rendeva loro difficile, quasi impossibile, continuare a dirigere da lì traffici illeciti e affari. Così, secondo la magistratura inquirente, sono cominciati gli attentati bombaroli (Milano, Firenze, Roma) a cui sarebbe seguita la trattativa con lo Stato, fino alla chiusura di gran parte di quei penitenziari, alla fine degli anni Novanta. E da allora, paradossalmente ma poi neanche tanto, con l’esaurimento dell’industria carceraria è cominciata per alcune di quelle isole, Asinara e Pianosa in testa, il declino economico che è compensato solo in minima parte dall’inserimento di quelle isole nel circuito dei parchi e delle aree naturalistiche, vuoi per mancanza di risorse, vuoi per i limiti che il loro permanere sotto l’amministrazione penitenziaria impone allo sviluppo delle attività turistiche. Pianosa, una storia per tutte. Una storia emblematica e che racchiude un po’ tutte le altre, sotto questo punto di vista, è quella di Pianosa, una delle bellissime ex isole carcere dell’arcipelago toscano. Usata per quello scopo fin dai tempi più antichi (Agrippa, nipote dell’imperatore Augusto, fu incarcerato e condannato a morte proprio qui), Pianosa diventò colonia penale nel 1857 per volontà dell’ultimo granduca d’Austria, Leopoldo II. L’idea di far lavorare i detenuti nei campi e costituire un’azienda agricola che producesse reddito anziché le perdite della prigione, col passare degli anni diventò vincente e fece di Pianosa un modello che venne esportato anche alle altre isole dell’Arcipelago. Verso la fine dell’Ottocento sull’isola c’erano un migliaio di carcerati. Dal 1860 cominciò ad ospitare anche detenuti malati di Tbc. I medici, allora, erano divisi tra chi pensava che facesse meglio l’aria di montagna e chi quella di mare. Prevalsero questi ultimi. Prima che si capisse che l’aria salmastra peggiorava e non migliorava le condizioni dei malati passò quasi un secolo. Tra il 1860 e il 1946 a Pianosa morirono 2.350 malati di Tbc. Poi negli anni del fascismo Pianosa divenne carcere-esilio degli antifascisti, il più illustre dei quali fu Sandro Pertini, che rimase prigioniero sull’isola dall’inizio del 1932 al settembre 1934. Risale agli anni Settanta il primo progetto di fare dell’isola un parco naturale. Ma verso la fine di quel tragico decennio si decise di trasformare la "diramazione Agrippa", poi ex Sanatorio, in un carcere di massima sicurezza per i brigatisti rossi (ospitò capi Br come Curcio, Senzani, Franceschini e Moretti). E dopo i terroristi arrivano i capi della camorra, i boss della mafia e il regime del 41bis. È in quegli anni che, per dimostrare la potenza dello Stato, venne eretto dietro ai bellissimi e antichi muri a secco costruiti per fare i terrazzamenti agricoli sull’isola, un lungo e alto muto di cemento armato, grigio, brutto e del tutto inutile (si poteva agevolmente aggirare), per dividere la parte abitata dai civili e dalle guardie carcerarie da quella dei detenuti. Alla fine degli anni Ottanta, dopo che era stata accantonata una prima ipotesi di chiusura della colonia penale, c’erano sull’isola 500 agenti e mille detenuti. Dopo gli attentati a Falcone e Borsellino il governo decise di trasferire lì i boss della mafia e il numero delle guardie aumentò ancora. Pianosa diventò una fortezza inaccessibile, vigilata giorno e notte da agenti di custodia, carabinieri, polizia, con rigidissimi divieti di sorvolo e di navigazione nelle acque circostanti. Le guardie furono costrette ad alloggiare nei container resi incandescenti dal caldo e dal sole, finché il governo decise di stanziare 60 miliardi di vecchie lire per costruire nuove caserme, che però furono ultimate quando l’isola carcere per i mafiosi era già stata chiusa, nel 1998. L’emergenza, infatti, si protrasse fino al luglio 1997, quando l’ultimo detenuto per mafia venne trasferito sul continente, e per il carcere di Pianosa si ricominciò a parlare di chiusura. Intanto, nel 1996, Pianosa era stata inserita nell’Ente Parco dell’arcipelago toscano. Tre anni dopo sarebbero cominciate le prime visite guidate dei turisti a quell’isola piatta e affascinante, dove i rintocchi del tempo sono scanditi dalla natura, il mare è splendido e l’isolamento è come una vertigine per chi vive circondato dal cemento. Oggi collegamenti con le motobarche da Piombino e dall’Elba - la bellissima isola dove all’inizio dell’Ottocento era stato esiliato Napoleone e che ancora oggi ospita nel forte di San Giacomo a Porto Azzurro un penitenziario con oltre 250 detenuti e quasi 200 agenti di custodia - portano i turisti a Pianosa (massimo 250 al giorno), che si può visitare a piedi, in mountain-bike o in barca solo se accompagnati da una guida. La balneazione è consentita solo sulla spiaggia vicina al paese, Cala San Giovanni, che è abbastanza ampia, in sabbia. Splendide ma vietate le numerose calette, così come i fondali. Nel frattempo però l’isola ha perso gran parte delle sue attività e quasi tutta la popolazione civile. Un tempo ospitava vita, lavoro, cittadini. Oggi c’è un solo residente fisso, 10 abitanti stagionali, un’associazione Onlus di cittadini elbani che cerca di tenere viva la memoria e la speranza di rinascita dell’isola e una cooperativa di volontari e detenuti in regime di semilibertà (a Pianosa, come succursale di Porto Azzurro, ci sono ancora 26 detenuti) che gestisce il bar ristorante e un piccolo albergo stagionali. Il resto è case vuote, decrepite e pericolanti, agonia per il tempo. Chi arriva si trova di fronte a una sorte di Pompei moderna dove la vita e le attività umane sembrano essersi fermate. Le altre isole carcere dell’arcipelago toscano L’isola di Capraia, più vicina alla Corsica che alle coste italiane, è un’isola vulcanica bellissima e selvaggia, con un unico piccolo e delizioso centro abitato e circa 400 abitanti. Il porto, sede di una piccola marina che lo rende allegro e vivace durante i mesi estivi, è collegato al paese soprastante da una strada lunga 800 metri e da una strada panoramica di origine napoleonica percorribile solo a piedi. Capraia è stata colonia penale agricola dal 1873 fino al 1986, e durante il fascismo fu luogo di confino politico. Dal 1989 è entrata a far parte del Parco Nazionale dell’Arcipelago Toscano. Ha un bellissimo monumento, il forte di San Giorgio che difendeva la popolazione dai pirati e la si può esplorare soltanto a piedi e in barca. Capraia è il risultato di una doppia eruzione vulcanica: una antichissima, risalente a circa 9 milioni di anni fa ed una più recente, datata "appena" un milione d’anni or sono. Ha coste scoscese a picco sul mare, rocce dai colori intensi e contrasti cromatici impressionanti. Le coste sono state scolpite dalla lava e levigate dall’erosione del mare e del vento. La vegetazione è rigogliosa, i profumi che si respirano sono intensi. È anche al centro del "santuario dei cetacei", fulcro e perla del Parco Nazionale dell’Arcipelago Toscano che vanta l’area marina protetta più grande d’Europa, e durante le traversate in motonave dall’Elba, da Piombino o Livorno non è raro osservare i salti dei delfini. Montecristo, l’isola che ha ispirato Alexander Dumas nella stesura del celebre romanzo "Il conte di Montecristo", è un altro gioiello dell’arcipelago toscano. È selvaggia e incontaminata, interamente montuosa con diverse sporgenze rocciose a picco sul mare, e rappresenta una riserva della biodiversità per l’Unione Europea. Dal 1988 è stata istituita una zona di tutela biologica intorno all’isola per una estensione di mille metri dalla costa. È stata colonia penale solo per una trentina d’anni, dal 1860 al 1889, nel periodo in cui era passata al Demanio. È stata proprietà di diversi signorotti e nobili, poi riserva di caccia della famiglia Savoia e anche meta del viaggio di nozze tra Vittorio Emanuele III di Savoia ed Elena del Montenegro. Sull’isola vivono stabilmente, alternandosi ogni due settimane, due agenti della Forestale più una coppia di guardiani. Solo 1000 visitatori all’anno ottengono il permesso di visitarla e c’è una lunga lista d’attesa. Il permesso rilasciato dal Corpo Forestale di Follonica può essere di accesso o di visita. Nel primo caso si deve rimanere a Cala Maestra ed è possibile visitare solo la Villa Reale, l’orto botanico e il Museo. Il tempo di attesa per ottenere l’accesso è nell’ordine dei mesi. Per quanto riguarda la visita il tempo medio di attesa per l’autorizzazione è di 3 anni (viene data precedenza a spedizioni scientifiche, associazioni, scolaresche). Le visite guidate si svolgono solo entro i tre sentieri esistenti, tutti molto impegnativi. Non è possibile pernottare e sono vietate la pesca, la balneazione e la navigazione entro 1.000 metri dalla costa. L’isola di Gorgona si trova di fronte a Livorno ed è la più piccola dell’Arcipelago Toscano. È l’unica dell’Arcipelago in cui si trova un carcere ancora in piena attività. La colonia penale, inizialmente succursale di Pianosa, è un carcere "verde" per settanta detenuti, che vivono all’aperto, fuori dalle celle quasi tutte a uno o due posti, lavorando in vigna o nell’orto, curando gli animali, producendo formaggi e miele, facendo gli addetti a manutenzione e cucina. "Restituire persone migliori", è scritto su un cartello che accoglie i visitatori di Gorgona, l’ultima isola-penitenziario italiana. I detenuti, qui come accadeva a Pianosa, arrivano su richiesta dopo aver scontato più della metà della pena. Hanno la possibilità, oltre a vivere in un contesto di "libertà", di imparare un mestiere. Le statistiche su Gorgona parlano di una recidiva "attestata sul 20%" contro quella dell’80% tra i detenuti di altri istituti che non lavorano. L’isola si può visitare partendo ogni giorno da Livorno e grazie a gite incentrate sul trekking. La visita dell’isola è consentita in genere ogni martedì dei mesi estivi a piccoli gruppi che vengono prelevati da una motovedetta dal traghetto in servizio tra Livorno, Capraia ed Elba. Almeno quindici giorni prima del viaggio è necessario comunicare alla Direzione del Carcere gli estremi di un documento di identità di ogni visitatore. Per la gestione delle formalità ci si può rivolgere alla Lipu. Il tour, a cura della Cooperativa del Parco naturale, tocca i punti più suggestivi delle coste, tra cui Cala Scirocco e Cala Martina, e i rilievi coperti di macchia mediterranea che offrono rifugio a conigli selvatici, gabbiani, rondini di mare e uccelli di passaggio. È un’isola molto bella, tra le più verdi dell’arcipelago, ricca di pini, lecci, macchia mediterranea e pure una varietà autoctona di olivo, "Bianca di Gorgona". Il suo centro civile è il paese degli antichi pescatori, oggi composto da 67 residenti, di cui solo 7 vivono stabilmente nell’antico borgo. Suggestive insenature e baie come la Cala Scirocco dove si apre la Grotta del Bove Marino, un tempo rifugio di foche monache, caratterizzano l’isola. Ponza, Ventotene, Santo Stefano: le tre ex isole carcere del Lazio Ponza è una delle isole più belle del Mediterraneo. È quasi completamente collinare e si può raggiungere da Anzio e da Terracina. È la maggiore delle isole Ponziane (o Pontine) e ha più di tremila abitanti. La forma è stretta e allungata, l’origine è vulcanica, le sue spiagge sono frastagliate e per lo più rocciose. È ricca di grotte sottomarine e di scogliere che richiamano ogni anno migliaia di appassionati subacquei. I bagnanti "semplici" prediligono invece la celebre spiaggia di Chiaia di Luna (a sud-ovest), circondata da un’alta scogliera a picco sul mare. Famosi sono anche la Scogliera e i Faraglioni di Lucia Rosa. Nel 1935 venne avviato lo sfruttamento del giacimento di bentonite a Le Forna (miniera "Samip" -Società Azionaria Miniere Isole Pontine), che rimase attivo fino al 1975. La miniera diede lavoro per anni a 150 persone, oltre al traffico marittimo per il trasporto del minerale in continente, ma l’isola dovette pagare la devastazione di una delle sue cale più belle e non pochi casi di silicosi tra gli i minatori. Le isole Pontine sono state a lungo colonie penali. Restituite ai Borbone nel 1815 con il trattato di Vienna, Ponza, nel 1820, e Ventotene, nel 1825, divennero isole carcere. Dopo l’annessione al Regno d’Italia, il domicilio coatto venne abolito, ma a Ventotene continuarono a arrivare prigionieri fino a dopo la prima guerra mondiale. Il regime fascista ripristinò poi il confino a Ponza nel 1928 e, nel 1939, a Ventotene, da dove, nel 1942, Ernesto Rossi, Eugenio Colorni e Altiero Spinelli scrissero e diffusero clandestinamente il "Manifesto per un’Europa libera e unita". Tra gli oppositori del regime furono confinati a Ponza Giorgio Amendola, Lelio Basso, Pietro Nenni, Mauro Scoccimarro, Giuseppe Romita, Pietro Secchia e Umberto Terracini. L’isola carcere di Santo Stefano ebbe invece tra i suoi molti ospiti politici, Sandro Pertini, Camilla Ravera e Luigi Longo. Poi, per ironia della sorte, toccò anche a Benito Mussolini conoscere la carcerazione a Ponza, due giorni dopo la caduta del fascismo, dal 27 luglio al 7 agosto 1943, prima di essere trasportato al Gran Sasso. Al duce toccò la stessa stanza in cui era stato imprigionato precedentemente il Ras di Etiopia, Hailé Selassié, dove c’erano una sedia sfondata e un lettino di ferro senza materasso. I confinati dal fascismo giungevano a Ponza in piccoli gruppi, incatenati fra loro. L’impatto con la nuova vita era devastante: baracche sovraffollate, igiene disastrosa, cibo ed acqua scarsissimi, poche centinaia di metri per la passeggiata, controllo continuo anche di brevi conversazioni. Oltre alla promiscuità nei cameroni, c’erano le angherie delle camice nere, la mancanza di comunicazioni, la noia. Nonostante le privazioni, i confinati organizzarono biblioteche, mense autogestite, attività artigianali, corsi di studio. Solo l’umanità dei ponzesi li aiutò a rendere l’esilio meno duro, prima che il regime interrompesse anche quella catena di solidarietà. L’isola di Ventotene ("dove soffia il vento", 750 abitanti) vanta il carcere più antico, dove l’imperatore Nerone imprigionò la moglie Claudia Ottavia dopo averla accusata ingiustamente di adulterio. È a soli 2 chilometri a Est da Santo Stefano mentre Ponza è a 40 chilometri a Nord-Ovest. Il vecchio porto è ancora in attività, mentre il carcere è stato trasformato in case per le vacanze. Ma capofila dei penitenziari del carcere duro è stata per 170 anni la piccola isola di Santo Stefano, che ha forma circolare e meno di 500 metri di diametro, con un’estensione di appena 27 ettari, e come Ventotene è riserva naturale. Il penitenziario ha avuto ospiti illustri e comuni, molti dei quali vittima di durissime condizioni di detenzione e spesso di violenze che portavano alla morte. Il carcere, a forma a ferro di cavallo con 99 celle tutte uguali di 4,50 per 2,20 metri, distribuite a raggiera su tre piani, più numerosi edifici di servizio, sorge sulla cima dell’isolotto. Il penitenziario fu progettato secondo un modello panottico che prevedeva un controllo visivo totale e costante dei detenuti, per ottenere il "dominio della mente su un’altra mente", come teorizzato nel trattato "Panopticon" (1787) del filosofo inglese Jeremy Bentham. La struttura circolare si sviluppava intorno a un cortile ed era ispirata ai gironi dell’Inferno dantesco. Nel cortile avvenivano le punizioni corporali, vere e proprie torture che avvenivano sotto gli occhi di tutti i detenuti come ammonimento. Il penitenziario fu inaugurato il 26 settembre 1795 con i primi 200 detenuti, che presto divennero 600, il numero previsto a regime, e poi 900. È stato chiuso definitivamente il 2 febbraio 1965. L’isola è attualmente disabitata ma è possibile visitarla tramite imbarcazioni locali. L’unico edificio presente sull’isola è il carcere. Dalla chiusura a oggi è ancora vivace il dibattito sulla destinazione dell’antico e ormai storico manufatto, un unicum nel suo genere. L’isola è in vendita. L’Asinara, perla di Sardegna riaperta dopo 115 anni La bellissima e incontaminata isola sarda dell’Asinara ha una storia antica. Fino agli ultimi anni dell’Ottocento è stata abitata dai pastori sardi e dai pescatori liguri che l’avevano colonizzata. Poi, nel 1885, i 500 abitanti che si erano faticosamente ambientati sull’isola furono costretti a fare le valigie dalla legge firmata da Re Umberto che prevedeva l’esproprio dell’isola per la creazione di una colonia penale agricola e di una stazione sanitaria di quarantena. Durante la Prima guerra mondiale, l’isola fu utilizzata come campo di concentramento per migliaia di prigionieri serbi e austro-ungarici. Negli anni Ottanta la colonia penale fu trasformata in carcere di massima sicurezza e ospitò tra gli altri Raffaele Cutolo e Salvatore Riina. Dal 1997 è Parco Nazionale e dai primi anni Duemila, dopo 115 anni di chiusura totale, ha aperto alle visite. L’isolamento ha permesso la preservazione di gran parte dell’ambiente naturale dell’isola, evitando la cementificazione e permettendo la nascita del Parco protetto popolato da oltre 650 specie animali, che includono l’asinello bianco. Nei primi anni di apertura l’Asinara ha visto un flusso di circa 85mila presenze l’anno, che hanno permesso di sperimentare delle prime modalità di visita. Attualmente è abitata da poche persone che hanno l’alloggio per servizio e l’unico residente è Enrico Mereu, lo scultore dell’Asinara. È possibile raggiungere l’Asinara via mare da Stintino. Sull’isola ci si può spostare solo a piedi e in bicicletta, oppure sui fuoristrada dei tour organizzati. L’isola è montuosa, con coste alte e frastagliate, tra le quali si inframmezzano bellissime spiagge e cale (come cala Arena e cala Sant’Andrea). La vegetazione è caratterizzata dalla macchia mediterranea. L’accesso all’omonimo Parco è libero, con i servizi di visita effettuati da operatori autorizzati dal Parco stesso. Favignana, la "farfalla" che diventò carcere di massima sicurezza. L’isola di Favignana, la "Farfalla", come viene chiamata per le sue due "ali" che sembrano dispiegate sull’azzurro del mare, deve il suo nome attuale al vento Favonio, mentre nell’antichità veniva chiamata Aegusa. In tempi recenti la sua storia è legata alla grande tonnara della famiglia Florio, la cui imponente mole domina ancora il paesaggio, vicino al porto. Il carcere sull’isola ha una storia antica, tutta dentro al castello di San Giacomo. Il carcere è una componente storica dell’isola: a Favignana c’erano carcerati con i Borboni, con i Savoia, con Mussolini e ci sono ancora oggi. Centinaia di prigionieri furono portati qui quando l’Italia invase la Libia nel 1911. Volendo riassumere l’economia di Favignana si può dire che nei secoli si è basata sulla pesca, sul carcere, sul tufo e solo negli ultimi decenni sul turismo. Con la stagione del terrorismo armato, negli anni Settanta si decise di trasformare Castel San Giacomo in carcere di massima sicurezza. Nel 1975 i brigatisti reclusi organizzarono una rivolta asserragliandosi con degli ostaggi, fu chiamato il giovane giudice Giovanni Falcone ad affrontare e risolvere il problema. Vi fu anche un epico tentativo di fuga, alcuni prigionieri si nascosero all’interno del carcere e per alcuni giorni sparirono. Si pensò che fossero fuggiti, il super carcere fu messo in crisi, poi i fuggiaschi vennero ritrovati. La struttura carceraria era costituita da due blocchi, a pochi metri di distanza: la casa di reclusione (costruita intorno al castello di S. Giacomo) e il campo di lavoro. Due blocchi militarizzati in mezzo ad un pittoresco paesino turistico. Ultimamente si è deciso di smantellare il carcere vecchio. Favignana è l’isola maggiore dell’arcipelago delle Egadi. Attualmente conta 3407 residenti. L’isola è circondata da acque limpide e trasparenti, le spiagge, di sabbia e ciottoli, sono bellissime. Particolarmente famosa la Cala Rossa che offre sia rocce che sabbia incastonate in un mare che abbraccia le sfumature che vanno dal blu al celeste. Favignana si può raggiungere da Trapani o da Marsala. Pantelleria, la "Perla Nera" del canale di Sicilia l’Isola di Pantelleria, più vicina alle coste della Tunisia che a quelle dell’Italia, è nota anche come la "Perla Nera" del Mediterraneo per via della pietra lavica su cui sorge: costituisce infatti la parte emersa di un edificio vulcanico i cui ultimi eventi eruttivi risalgono a circa 9000 anni fa mentre gli ultimi eventi sismici rilevanti sono datati alla fine del 1800. Tra le sue attrazioni archeologiche spiccano i celebri "dammusi", antiche abitazioni rurali oggi trasformate in comodi e suggestivi alloggi. Le coste frastagliate, bagnate da un mare cristallino, la ricchezza dei fondali, i versanti scoscesi coperti di colture a terrazze racchiuse da muretti a secco, fanno di Pantelleria un’isola splendida, celebre anche per la produzione del suo vino Passito. Pantelleria fu un punto strategico nel Mediterraneo per i Romani, poi venne occupata dagli spagnoli, che la trasformarono in colonia penale. La si può raggiungere in aereo o via mare. Il Castello di Barbacane, che domina il porto, è stato adibito a carcere fino al 1975 e ora è destinato a museo. Un tempo era infatti circondato interamente dalle acque del mare a e dotato di un ponte levatoio per i collegamenti con l’esterno. Originariamente costituiva un baluardo a protezione dei traffici marittimi dell’isola. Giustizia: Giovanni Scattone, perché va rispettato il suo diritto di riscattarsi di Giovanni Valentini La Repubblica, 10 settembre 2015 A vent’anni dall’uccisione di Marta Russo, il rispetto per la sua memoria e per il dolore inconsolabile della famiglia non impedisce oggi di avere rispetto anche per il dramma umano di Giovanni Scattone, condannato come autore di quel delitto. Possiamo capire e giustificare la reazione della madre della vittima e di quanti ritengono "inopportuno" che ora l’ex assistente di Filosofia del Diritto torni a insegnare in un liceo romano. Ma non si può condividere l’ondata d’indignazione suscitata da questa notizia: né tantomeno le ambiguità o le ipocrisie di chi non se la sente di prendere posizione o comunque trova più conveniente pilatescamente non assumerla. Mettiamo da parte - allora - i sentimenti e le emozioni, per cercare di ragionare in termini civili, Cioè da cittadini consapevoli e responsabili. Al termine di un lungo e controverso processo, Scattone è stato condannato per omicidio colposo. Non volontario. Equiparabile a un incidente automobilistico, Un delitto per caso, accidentale, commesso per sbaglio o per errore. Se per la Giustizia è stato lui a uccidere, per quella stessa Giustizia non aveva l’intenzione di uccidere; se ha sparato, l’ha fatto maneggiando incautamente una pistola (mai ritrovata) e sporgendo il braccio da una finestra. Ormai Scattone ha scontato interamente la pena (cinque anni e quattro mesi), senza beneficiare di amnistie o condoni. Ed è quindi, a tutti gli effetti, un libero cittadino. Per di più, in considerazione della sua buona condotta, è stato formalmente riabilitato dal Tribunale di Roma. Agli studenti di Giurisprudenza non s’insegna, del resto, che la pena deve servire anche alla rieducazione del condannato e al suo reinserimento nella società? Quale altro lavoro dovrebbe trovare o inventarsi un ex assistente universitario? L’idraulico, l’elettrauto, il fruttivendolo? O quale materia dovrebbe insegnare al di fuori della sua preparazione, l’educazione fisica o la religione? Personalmente, avendo seguito a suo tempo il processo e avendone scritto a più riprese su questo giornale, non ho mai sostenuto e nemmeno pensato che Scattone e il suo complice Salvatore Ferraro fossero innocenti. Non lo penso né lo sostengo tuttora. Nell’esercizio del diritto di opinione e di critica, ho sempre ritenuto però che le prove-soprattutto per come sono state raccolte-fossero tardive e contraddittorie. E quindi, insufficienti per condannarli. Pur rispettando la sentenza definitiva della magistratura, continuo a pensarlo ancora oggi. Non credo neppure che i pubblici ministeri, o i giudici che hanno emesso i verdetti nei vari gradì del processo, abbiano ordito una macchinazione giudiziaria contro di loro. Penso, piuttosto, che sotto la pressione del sistema mediatico, dell’opinione pubblica e anche della politica, i magistrati si siano sentiti costretti a trovare a tutti i costi il colpevole nel più breve tempo possibile. E perciò, continuo a ipotizzare un errore giudiziario, uno dei tanti che costellano purtroppo l’amministrazione della nostra Giustizia. Tant’è che l’impianto accusatorio proposto dai pm non ha retto in nessuna sede di giudizio. Gli inquirenti non sono mai riusciti a dimostrare davanti a una Corte la tesi dell’omicidio volontario, pur avendo fatto ricorso alle teorie più fantasiose e disparate come quella del "delitto perfetto" o al mito nietzschiano del Superuomo. Alla fine, il reato è stato per cosi dire derubricato di fatto in omicidio colposo, confondendo prove, testimonianze, intercettazioni, perizie. È pure legittimo, allora, considerare "assurdo" che Scattone continui a insegnare. I timori o le preoccupazioni manifestate dai genitori di alcuni suoi futuri alunni sono più che comprensibili. Ma non si può fare giustizia sommaria o peggio scambiare la giustizia con la vendetta. E soprattutto, non si può condannare alla morte civile, all’esilio o all’ostracismo, un uomo condannato per un omicidio involontario di cui non ha riconosciuto la responsabilità. Nel suo dolore di madre, la signora Aureliana lamenta il fatto che Scattone non le abbia mai chiesto scusa. Ma è difficile dare torto al difensore dell’ex assistente, l’avvocato Francesco Petrelli, quando replica: "Di che cosa dovrebbe scusarsi se ha sempre professato la propria innocenza"? Chi conosce Giovanni Scattone, ricordando anche la sofferenza di suo padre che l’ha difeso fino all’ultimo giorno, ora può solo auguragli di riuscire a redimersi e a riscattarsi definitivamente con il lavoro, l’impegno e la responsabilità. Giustizia: "ha mentito sul caso Cucchi", a Roma un carabiniere sotto inchiesta di Ilaria Sacchettoni Corriere della Sera, 10 settembre 2015 Al vaglio la posizione di altri due militari per le botte al ragazzo. La deposizione del maresciallo Roberto Mandolini in conflitto con i fatti accertati dal pm. Tre carabinieri sono sotto inchiesta per la morte di Stefano Cucchi. Uno di loro, l’ex vicecomandante della stazione di Tor Sapienza dove il ragazzo fu portato la notte dell’arresto (il 15 ottobre 2009), è indagato per falsa testimonianza. Si tratta del maresciallo Roberto Mandolini la cui deposizione al processo d’appello contro medici e agenti della polizia penitenziaria è risultata in conflitto con i fatti accertati dai pm. Gli approfondimenti riguardano anche altri due militari: Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro. Nei loro confronti non è stata ancora formalizzata una contestazione, ma rischiano l’iscrizione al registro degli indagati per lesioni colpose: le percosse inflitte al ragazzo. Secondo i risultati del processo, Cucchi sarebbe stato malmenato più volte dal momento dell’arresto fino alla detenzione in carcere, passando per le mani degli agenti di custodia. Ma per la prima volta sarebbero coinvolti anche i carabinieri. La prima inchiesta - criticata pesantemente dal difensore della famiglia Fabio Anselmo - non aveva portato a risultati significativi su questo fronte, individuando invece responsabilità della penitenziaria e dei medici del Pertini che ebbero in custodia Cucchi durante la detenzione. Ora queste sono le prime novità dell’inchiesta bis della Procura di Roma. Dopo l’assoluzione in corte d’appello di medici e agenti della penitenziaria la Procura si è mossa, sollecitata in parallelo da un nuovo esposto della famiglia Cucchi e dalle indicazioni sulla falsa testimonianza di Mandolini fornite dal presidente della Corte d’appello. Il vice comandante di Tor Sapienza, caduto in contraddizione sulla propria partecipazione alle perquisizioni domiciliari eseguite nei confronti di Cucchi, ha spiegato senza convincere le ragioni del mancato foto-segnalamento. Ora il pubblico ministero Giovanni Musarò, al quale è affidata l’inchiesta bis, dovrà accertare anche eventuali omissioni dei militari. A quanto pare Di Bernardo e D’Alessandro quella notte avrebbero operato in borghese, come Cucchi avrebbe confidato a un altro detenuto di Regina Coeli. C’è però un mistero: né Di Bernardo né D’Alessandro risultano ufficialmente fra chi eseguì l’arresto di quella notte. E allora, come e perché lo avvicinarono? E perché mai, successivamente, non fu fatto il foto-segnalamento presso il comando provinciale dai carabinieri di Roma, come prevede la procedura? La spiegazione offerta in aula da Mandolini è stata la seguente: "Il signor Cucchi mi disse che non gradiva sporcarsi con l’inchiostro per gli accertamenti dattiloscopici (impronte, ndr) e foto-segnaletici. Dopo questa sua richiesta non ho ritenuto necessario farlo, visto che era una persona tossicodipendente, non l’ho voluto sforzare a fargli questa identificazione e non gli feci fare questi rilievi". Da questo passaggio, ora, bisognerà risalire per accertare la verità. Giustizia: Casamonica, polemiche contro Vespa perché fa il giornalista di Piero Sansonetti Il Garantista, 10 settembre 2015 Il presidente della commissione di vigilanza del Parlamento dice che è stata una pagina vergognosa per la Rai. Il Pd romano chiede che la Rai porga le sue scuse alla cittadinanza. Rosy Bindi vuole convocare la commissione antimafia, perché indaghi. Il sindaco Marino e il suo vice Clausi sono indignati e vogliono ricevere le scuse da Vespa. Un finimondo, un vero finimondo. Per non parlare di Grillo. Poi c’è la protesta del Codacons, e del suo presidente Rienzi (con la "i") che vuole sapere se la Rai ha pagato gettoni di presenza (Ma gli hanno risposto di no). Tutto questo perché? Beh, perché Bruno Vespa, visto che aveva deciso di fare un processo in Tv a Vittorio Casamonica (anzi al suo funerale), ha fatto un colpo do testa e ha invitato anche la difesa. Vespa ha una idea stranissima dei processi mediatici: pensa che - così come dovrebbe essere anche per i processi in tribunale - al processo in Tv debbano partecipare sia accusa che difesa E invece tutti sanno che un buon processo mediatico non solo non ha nessun bisogno di aprirsi alla difesa, ma, anzi, se chi lo organizza e lo conduce ha un minimo di senso etico ha il dovere morale di escludere la difesa. Ammettere la difesa a un processo è - oggettivamente - un atto di correità. E lo è anche se in alcuni casi (come nel caso specifico) manca il reato. Si può essere correi, e perciò colpevoli, anche di una persona alla quale non è stato contestato nessun reato. Insomma, è successo questo. Bruno Vespa ha deciso di dedicare il suo Porta a Porta al caso Casamonica. Cioè ai funerali scandalosi di Vittorio Casamonica, descritto da tutti i giornali come il "boss", il capomafia. Anche se nessun giudice mai lo ha accusato di mafia. Alla trasmissione ha chiamato due giornalisti tra quelli che si erano distinti, nei giorni scorsi, nel processo mediatico. E tutti e due molto autorevoli. Virman Cusenza, direttore del Messaggero, e cioè del giornale numero 1 della capitale; e Fiorenza Sarzanini, la numero 1 incontrastata dei giornalisti giudiziari italiani. E poi aveva invitato la figlia e il nipotino di Vittorio Casamonica ( insieme al loro avvocato) nel ruolo di difensori del loro parente. Lui stesso, cioè Vespa in persona, ha assunto il ruolo di Pm, spalleggiato da Sarzanini e Cusenza. Non si può dire che ci fosse equilibrio tra difesa e accusa: Sarzanini e Cusenza sanno bene come stare in Tv, fanno i giornalisti da molti anni, sono decisamente due persone colte, hanno molta dimestichezza con la polemica. Di Vespa è inutile dire. I due Casamonica sono due persone praticamente analfabete, parlano dialetto abruzzese, e non erano mai state prima in uno studio Tv né mai avevano parlato in pubblico. Però è successa una cosa strana: i Casamonica - soprattutto lei, la figlia di Vittorio - hanno decisamente sopraffatto gli accusatori e hanno vinto la sfida. Per una ragione abbastanza semplice. Mancava il reato. Non solo la signora e il ragazzo erano assolutamente incensurati, al pari di Cusenza, Sarzanini e Vespa, ma hanno spiegato - senza che glielo si contestasse - che il cosiddetto boss - loro padre e nonno - era stato condannato in gioventù per alcuni reati finanziari, e dal 1992 - ventitré anni fa - non aveva più subito nessuna accusa. Non nessuna condanna: nessuna accusa. Non è mai stato coinvolto, in tutta la sua vita, in fatti di droga, di spaccio, di violenza, e mai e poi mai accusato di mafia. Diciamo che la sua situazione giudiziaria era meno grave di quella di almeno 10 milioni di italiani. E allora? Perché chiamarlo boss? Perché pretendere che il parroco o il sindaco o chissà chi gli rifiutasse il funerale? Vespa - che ora è accusato di corrività e correità senza reato - è stato particolarmente forcaiolo e "sospettista". Continuava, spalleggiato da Sarzanini e Cusenza - a lanciare ipotesi di delinquenza. Contestava il fatto che era stata esposta una immagine di Vittorio Casamonica vestito tutto di bianco. E allora la signora Casamonica diceva: ma che c’è di male? Papà vestiva sempre di bianco. E Vespa lo accusava invece di aver cercato di paragonarsi al papa. E quella cadeva di nuovo dalle nuvole. E poi Vespa le diceva che non si può impunemente dichiarare un signore "re di Roma", perché è un atto di arroganza mafiosa (mi è tornata in mente una poesia di Jacopone da Todi, di mille anni fa, che diceva così: "Uomo che se fa rege, secondo nostra legge, contraddice al Senato…". In quel caso però i forcaioli ce l’avevano con Gesù… chissà che anche lui, in fondo in fondo, non fosse accusabile almeno di concorso esterno… la Bindi non ha mai indagato). E allora Vespa e gli altri due gli citavano un sacco di reati commessi da persone di nome Casamonica. E i due imputati spiegavano che non erano parenti loro e che non potevano rispondere di tutti i coloro che portano quel cognome. Insomma, un bel combattimento. Premiato da uno share molto alto. Ed è indubbio che Vespa, sebbene si sia poi comportato un po’ da giustizialista, sul piano giornalistico aveva fatto un bel colpo. Anche perché sin qui a nessuno era venuto in mente di far parlare la figlia di Casamonica. Forse neanche Vespa si aspettava quella valanga di insulti che si è preso. Un po’ bisognerà riflettere su questa sollevazione. Che segnala due tendenze, forse ormai inarrestabili, dell’intellettualità e del mondo politico e giornalistico italiano. La prima è una tendenza di tipo censorio, o forse addirittura fascista. Quella del minculpop (si chiamava così al tempo del duce il ministero della cultura popolare), che decide dove sta il bene e dove sta il male, stabilisce la direzione nella quale deve camminare l’opinione pubblica, e stronca chiunque cammini fuori da questo solco. Gran parte del Pd (renziano e antirenziano, finalmente unito) si è mosso ispirato da questa idea autoritaria della vita pubblica. La seconda tendenza è quella ad abolire lo Stato di diritto. È una idea ormai diffusissima, dilagante. Cavalcata e stimolata dal grillismo, dal travaglismo, dal leghismo ma anche da altre posizioni culturali di sinistra e di destra. L’idea è che il diritto vada organizzato dividendo la società in due grandi settori: il settore degli innocenti e il settore degli imputati. Gli imputati sono colpevoli fino a prova contraria. Anzi sono colpevoli finché un accusatore non stabilisca che non lo sono. La difesa, il diritto alla difesa, è abolita, e anzi è considerata un concetto sovversivo perché mette in discussione l’autorevolezza e l’onestà dei giudici. Si dice: se i giudici sono saggi e onesti - e lo sono per assioma - non solo non c’è bisogno di difesa alcuna, ma chiedere una difesa suona come vilipendio alla magistratura. E non solo alla magistratura - che in teoria dovrebbe svolgere i processi in tribunale - ma anche a tutti coloro che sono preposti al processo più importante, che è quello mediatico, e che tra le sue opzioni non prevede quella dell’assoluzione. Ecco: viviamo in una società così. E in una società così Bruno Vespa, beccato in flagrante a fare il giornalista, viene candidato al licenziamento. Dunque in Italia non è più permesso fare i giornalisti? Si è permesso, ma solo se il giornalista dimostra di essere agli ordini della magistratura. In questo caso, comunque, si va oltre: perché la magistratura non ha mai mosso nessuna accusa alla signora Casamonica e al suo figlioletto. Diciamo che è un eccesso di zelo. Ma nei regimi gli eccessi di zelo sono importantissimi. Sono l’assicurazione sulla vita. Un due, un due, un due: marsch! Giustizia: yoga in carcere, ritrovare la libertà interiore grazie alle asana e alla meditazione di Marta Albè greenme.it, 10 settembre 2015 Lo Yoga in carcere aiuta i detenuti a ritrovare la libertà a partire dall’introspezione, grazie alle asana e alla meditazione. Trascorrere un po’ di tempo praticando Yoga permette di allontanarsi da tutte le preoccupazioni e di rifugiarsi in uno spazio tranquillo che si trova dentro di sé, cosa non facile, soprattutto in carcere. I detenuti si trovano in carcere per scontare i propri reati ma spesso nello stesso tempo durante la loro vita sono stati vittime di povertà, abbandoni, violenza sessuale o domestica e di altri crimini. Lo Yoga in carcere viene praticato in molti luoghi del mondo. Tra gli esempi di questa iniziativa troviamo il progetto offerto da Charleston, in West Virginia, senza scopo di lucro. L’iniziativa Laotong Yoga - The Prison Project introduce le asana e la meditazione nel carcere femminile di West Columbia e nel carcere maschile di massima sicurezza di Mount Olive. Secondo Julian Sue Good, co-fondatore dell’iniziativa, la necessità di guarigione all’interno dell’ambiente del carcerario è molto profonda. Ecco allora che lo Yoga diventa uno strumento utile e molto potente per aiutare i detenuti a ritrovare la propria libertà interiore. I fondatori del progetto propongono una pratica dello Yoga fondata sul non-giudizio, sulla comprensione profonda di se stessi e sull’empatia verso gli altri. La convinzione è che tutti noi siamo collegati l’un l’altro e coinvolti nella guarigione di chi si trova attorno a noi, anche se non ne siamo consapevoli. I detenuti che partecipano agli incontri di Yoga ottengono benefici emotivi e spirituali. Inoltre, la loro frequenza alle lezioni di Yoga viene documentata in modo che possa entrare a fare parte di un attestato di buona condotta. Gli esercizi di respirazione e consapevolezza risultano utili in questo contesto per evitare scontri tra i detenuti e per aiutarli ad affrontare la rabbia e la depressione. Centinaia di partecipanti, in entrambe le strutture, hanno completato i propri corsi di Yoga e ne hanno tratto benefici evidenti. Lo Yoga in carcere viene proposto anche in Italia. Ad esempio, la scuola Sathya Yoga porta lo Yoga e la meditazione gratuitamente tutte le settimane presso l’istituto carcerario di Monza. I detenuti più costanti nella pratica hanno la possibilità di ottenere un attestato di Istruttore Yoga che potrà aiutarli nel reinserimento nella società e nel lavoro. È reato inveire contro gli agenti della Polizia municipale di Andrea A. Moramarco Il Sole 24 Ore, 10 settembre 2015 Corte d’Appello di Taranto - Sezione penale - Sentenza 10 marzo 2015 n. 172. Scagliarsi con parole violente e offese nei confronti degli agenti della Polizia municipale mentre formalizzano una violazione del codice della strada configura il reato di resistenza al pubblico ufficiale perché mira ad ostacolare la libertà di decisione e di azione della Pubblica amministrazione nell’espletamento dell’attività istituzionale. Nel caso di specie, la Corte ha respinto l’appello dell’imputato per aver minacciato con violenza due agenti che procedevano alla verbalizzazione dell’infrazione. Permesso di soggiorno, l’onere della prova grava sul lavoratore irregolare e non sulla Pa di Massimiliano Atelli Il Sole 24 Ore, 10 settembre 2015 Consiglio di Stato, sentenza 8 settembre 2015 n. 4207, sezione III. È da escludere l’onere in capo alla Pa di accertare l’effettiva sussistenza del rapporto di lavoro nel caso un lavoratore irregolare richieda il permesso di soggiorno. L’articolo 5 comma 11-bis del Dlgs n. 109/2012 autorizza l’Amministrazione ad assumere il mancato pagamento della contribuzione da parte del datore di lavoro come presunzione sufficiente a fondare un accertamento di insussistenza del rapporto. Presunzione ragionevole e logica, atteso che il versamento delle somme in questione da parte del datore di lavoro attiene strettamente al tempestivo perfezionamento degli stessi presupposti necessari per la regolarizzazione del rapporto di lavoro, in un’ottica di dovuta riconduzione alla legalità di assunzioni effettuate contra legem. Tale elemento presuntivo è superabile solo mediante l’apporto materiale o comunque informativo del lavoratore, sicuramente in possesso di conoscenze relative ai concreti elementi del rapporto di lavoro illegalmente intercorso (luogo di lavoro, tipologia di lavorazioni svolte, organizzazione del lavoro, orari di lavoro, numero e profilo professionale degli addetti, committenza del datore di lavoro, fornitori). La parte ricorrente chiedeva l’annullamento del provvedimento del dirigente dello Sportello unico per l’immigrazione della Prefettura di diniego di emersione dal rapporto di lavoro irregolare tra lo stesso ricorrente-lavoratore ed il datore di lavoro. L’emersione era stata negata per mancata apertura da parte della ditta della posizione Inps. La decisione del Consiglio di Stato persuade. Non possono addossarsi all’amministrazione oneri impropri di ricerca della prova della sussistenza del rapporto di lavoro in contestazione. Ciò anche se l’articolo 5, comma 11-bis, del Dlgs n. 109/2012 deve essere interpretato nel senso di consentire al lavoratore di dimostrare la sussistenza del rapporto di lavoro anche a fronte (e dunque indipendentemente da) del mancato versamento della contribuzione da parte del datore di lavoro. Si ricorda l’interpretazione del comma 11-bis citato in senso conforme alla Direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio 18 giugno 2009, n. 2009/52/Ce laddove al Considerando n. 17 sottolinea che il lavoratore dovrebbe anche avere l’opportunità di dimostrare l’esistenza e la durata di un rapporto di lavoro. Nei casi in cui la dichiarazione di emersione sia respinta per cause imputabili esclusivamente al datore di lavoro, deve ritenersi configurare una presunzione, normativamente prevista, di insussistenza del rapporto di lavoro, superabile dall’interessato mediante la deduzione e prova di ogni altro elemento utile e pertinente a tal fine, con la conseguenza che, una volta così dimostrata l’effettività dell’intercorso rapporto di lavoro quale presupposto essenziale per il conseguimento del titolo di soggiorno per attesa occupazione, solo il datore di lavoro resterà responsabile per il pagamento delle somme indicate. Immobile abusivo, l’ordine di demolizione si trasmette all’erede di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 10 settembre 2015 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 9 settembre 2015 n. 36383. L’ordine di demolizione di un immobile abusivo si trasmette a chi lo ha ereditato per successione mortis causa. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, sentenza 36383/2015, chiarendo che esso deve essere eseguito nei confronti di tutti i soggetti che "sono in rapporto col bene" e vantano su di esso "un diritto reale o personale di godimento", anche se dunque del tutto estranei alla commissione del reato. La vicenda - Dopo il rigetto da parte del tribunale di Torre Annunziata della domanda di revoca dell’ingiunzione, la ricorrente ha sostenuto, fra l’altro, che il provvedimento portava ancora il nome del de cuius e di non essere l’unica erede, in quanto usufruttaria. Per il procuratore generale della Cassazione, però, la circostanza che ella fosse in possesso dell’immobile la rendeva "il soggetto passivo legittimato a ricevere la notifica dell’ingiunzione". I precedenti - I giudici di Piazza Cavour, ripercorrendo una serie di casi simili, ricordano che l’esecuzione non è esclusa neppure "dall’alienazione del manufatto a terzi, anche se intervenuta anteriormente all’ordine, atteso che esso continua ad arrecare pregiudizio all’ambiente" (n. 22853/2007). Mentre l’acquirente è comunque tutelato potendo rivalersi nei confronti del venditore (n. 37120/2005). Neppure la donazione, in epoca successiva alla sentenza di condanna, è capace di arrestare l’ordine di abbattimento in quanto il donatario riceve il bene "nelle condizioni giuridiche in cui si trova al momento dei perfezionamento dell’atto di liberalità" (n. 38941/2013). E, proseguendo nella rassegna dei casi, i giudici rammentano che l’esecuzione non è impedita neanche dall’esistenza un diritto di comproprietà sul bene (n. 45301/2009). La motivazione - Così, tornando al caso specifico, la Cassazione afferma che il tribunale campano ha giustamente dato seguito al "costante dictum" per cui l’ordine di demolizione del manufatto abusivo, disposto con la sentenza di condanna per reato edilizio, "non è estinto dalla morte del reo sopravvenuta alla irrevocabilità della sentenza, non avendo natura penale ma di sanzione amministrativa accessoria". E citando un altro precedente, chiarisce che in questi casi ha preminenza l’"interesse paesaggistico o urbanistico", rispetto a quello "privatistico", alla conservazione del manufatto, mentre passa in secondo piano l’aspetto "afflittivo della sanzione" e, quindi, il carattere personale della stessa (n. 3720/1999). In ultimo, come sostenuto dal Pg, l’effettivo possesso dell’immobile, la rendeva il soggetto legittimato a ricevere la notifica. Lettere: strumenti di misura e… metodi di tortura di Matilde Baroni Ristretti Orizzonti, 10 settembre 2015 Esistono norme europee che indicano il numero minimo di metri cubi di spazio di cui ogni persona detenuta in cella ha diritto. Al disotto di quel numero la detenzione viene considerata inumana e degradante, una vera forma di tortura. Gli stati europei che infrangono questa legge vengono sgridati e multati. L’Italia è uno di questi. Non per far vivere meglio le persone detenute ma per non pagare le grandi multe che l’Europa ci impone e non continuare a fare figuracce proprio durante il semestre italiano al Consiglio d’Europa il ministro di Giustizia ha ridistribuito sul territorio nazionale le persone detenute mandando quelle in sovrannumero dove c’era più spazio, spesso lontanissimo dal luogo di residenza rendendo la vita delle persone, dei familiari e degli Avvocati molto peggiore di prima. Colloqui, inoltro di pacchi viveri, colloqui con figli e familiari (soprattutto donne) diventati difficilissimi. Questo per quanto riguarda la questione vivibiltà/non vivibilità valutata con il metro. Ora propongo un altro strumento di misura della vivibilità/nonvivibilità (tortura) del vivere in cella: il termometro. Quest’estate (2015) è stata molto calda ma niente fa pensare che la prossima non possa esserlo altrettanto. Quindi introdurre tra i parametri che indicano la vivibilità/nonvivibilità di una cella la temperatura dell’ambiente. Quando di giorno e di notte in una cella si misurano 38-40 gradi e scarsissimo ricambio di aria è da considerarsi situazione di detenzione illegale al pari del mancato spazio? (si dice che la cella di Totò Riina sia dotata di aria condizionata). Ma il termometro può servire anche per misurare l’invivibilità di alcune celle poste nei sotterranei dove di inverno si gela. Lettere: dalle celle di Sollicciano un appello dei detenuti al Papa Corriere Fiorentino, 10 settembre 2015 I detenuti di Sollicciano scrivono a Bergoglio in occasione della sua prossima visita a Firenze: "Qui lottiamo per restare umani, fai sentire la nostra voce". Pubblichiamo la lettera scritta dai detenuti del carcere di Sollicciano a Papa Francesco in occasione della visita che il Pontefice farà a Prato e Firenze il prossimo 10 novembre. Caro Papa Francesco, ci perdonerai se ti diamo del tu, ma la tua storia, il tuo modo semplice eppur efficace di comunicare, le cose importanti che hai fatto pur nel breve periodo della tua residenza romana, ci inducono a sentirti vicino più di chiunque altro. Talmente vicino da poterti attribuire il ruolo di fratello, padre, amico, compagno di strada, oltre che pastore universale della Chiesa Cattolica. Ti scriviamo dal carcere da dove - detenuti e cappellano - abbiamo sentito il bisogno di esprimerti la nostra angoscia, la nostra solitudine ed il bisogno di una tua presenza. Ci rivolgiamo a te perché tu sai cosa sono la povertà, la sofferenza, gli abusi di ogni tipo dell’uomo sull’uomo. Abbiamo tentato ogni strada in questa lotta per la sopravvivenza che pratichiamo quotidianamente. Ma sempre abbiamo registrato e registriamo tradimento e abbandono, a volte deliberatamente provocatori, altre volte per mancanza di cura. Finiamo sempre per essere strumentalizzati con finalità ignobili, talvolta anche da chi ci dovrebbe aiutare. Siamo terreno di speculazione per tutti. Caro Papa Francesco, chiediamo a te di farti interprete della nostra voce soffocata. Ti chiediamo di dare voce alla nostra "rinascita" che per noi significa il superamento della non-vita per non-persone che siamo costretti a subire. Noi non abbiamo sindacati, non abbiamo partiti, nessuno che sia in grado effettivamente di urlare un’atrocità che si ripete ogni giorno sulla nostra pelle, sulle nostre ossa senza soluzione di continuità. Chiediamo a te di urlare per noi ad un Paese la cui sete di vendetta sembra essere l’unica risposta. Un Paese che sembra addormentato, o piuttosto avvinghiato negli interessi personali incamminati per sentieri di solitudine e smarrimento collettivi. Una sorta di follia che vede noi ultimo anello di una catena che tocca tutti i cittadini e quelli più fragili in modo particolare. Qui ogni giorno è una lotta per restare umani, per non perdere noi stessi e la nostra dignità. Le necessità sono quelle primarie: cibo, acqua calda, igiene, il semplice spazio vitale, il contatto con gli affetti, la maggior parte di noi non ha casa, né lavoro; molti non hanno istruzione; altri sono affetti da malattie mentali o fisiche; qualcuno non vede i propri figli per anni; quasi nessuno ha un futuro semplice; siamo gli ultimi degli ultimi. Il carcere funziona come una discarica, dove nascondere i problemi sociali. Ci siamo anche convinti che essere poveri è una colpa! Infatti, queste celle non vedono "ospiti" economicamente ricchi e questo non può essere una coincidenza. E che dire quando si riesce a sopravvivere alla condanna? Cosa ci aspetta fuori da qui? Quale accoglienza, quale accompagnamento, quale aiuto, fosse solo quello di trovare un lavoro? La risposta noi la sappiamo, ce l’abbiamo sotto gli occhi ogni giorno coi rientri quotidiani in carcere: ergastolani a rate, colpevoli per sempre! Non soffriamo solamente la privazione della libertà e la perdita della dignità, ma anche la perdita del futuro. Caro Papa Francesco, tu hai l’autorevolezza per far sentire a tutti la nostra voce. Fallo, Papa Francesco, e anche noi ci avvieremo per quel sentiero che ci vedrà "ri-nascere". Per altre vie la nostra voce si ferma in gola, ci abbiamo provato, continueremo a provarci, ma è da te, dalla tua credibilità, dalla tua coerenza che ci aspettiamo un segnale concreto capace di rompere il circolo vizioso della consuetudine che vuole i poveri sempre colpevoli. Fallo, se non per noi, per i piccolissimi cuccioli d’uomo che senza colpe sono nati e crescono reclusi. Per i bambini che vivono (si fa per dire) i loro primi sei anni di vita in cella con la propria mamma! Se questo non merita un urlo forte e chiaro, allora vuol dire che non c’è speranza, né di vita e tanto meno di "ri-nascita" e che questo mondo è votato ai soli riti mortali! Aiutaci, tu che sai e che puoi! Abbiamo bisogno di un Tuo forte richiamo alla società. Siamo sicuri che non lascerai alle speculazioni i sentimenti che animano i segni rinsecchiti di questa paginetta che ti affidiamo. Non ti chiediamo di venirci a trovare perché ti sappiamo alle prese con mille problemi, che non si risolveranno in un giorno. Abbiamo bisogno di sapere che condividi le nostre angosce, perché questo ci darà la forza di sperare. Abbiamo bisogno di un Tuo forte richiamo alla società civile, come hai fatto alcuni giorni fa perché faccia fronte alle sue responsabilità e non volti la faccia dall’altro lato. E anche un tuo invito alle cinquantamila parrocchie perché ciascuna si faccia carico di un detenuto, magari a fine pena, non sarebbe poca cosa. Grazie Papa Francesco, ti vogliamo bene assai. Lettere: su Pianosa troppe fantasie mediatiche, pensiamo al recupero i con detenuti di Luigi Coppola (consigliere Parco Nazionale Arcipelago Toscano) tenews.it, 10 settembre 2015 Le questioni inerenti l’accoglienza dei profughi in un preciso territorio sono di competenza dei Prefetti, dei sindaci ed anche dei residenti, ma la querelle che vede protagonista Pianosa con la proposta di renderla una "Ellis Island" del terzo millennio sta assumendo contorni mediatici che rischiano di stimolare oltremodo la fantasia. Le discussioni su certi temi talvolta hanno risvolti strettamente strumentali che vanno oltre la focalizzazione concreta dei problemi, infatti da una semplice battuta a livello locale si è creato un caso nazionale. A mio avviso, pur apprezzando lo sforzo di chi cerca una soluzione per i profughi, il che dimostra sensibilità ed umanità che sono caratteristiche che vanno oltre le rispettive appartenenze, su Pianosa andrebbe fatta una riflessione più consona alle caratteristiche storiche, amministrative e strutturali dell’isola, che non possono certo corrispondere a stravolgimenti demografici insostenibili. Casomai, a fronte delle oggettive difficoltà in cui vertono le carceri italiane, visto il sovraffollamento che mette seriamente a rischio tutto il sistema penitenziario, eventualmente si potrebbe pensare ad un sensibile aumento di detenuti rispetto a quelli presenti attualmente. Ovviamente si dovrebbe tener conto delle condizioni in cui si trova l’isola e soprattutto gli immobili, pertanto è evidente che non vi potrebbe essere un incremento troppo elevato, a fronte anche del fatto che comunque si tratta di un territorio ad alto valore ambientale e pertanto scientifico. Il supporto di un progetto di rieducazione e di reinserimento potrebbe permettere il recupero ed il restauro di alcune strutture in muratura, restituendole alla fruibilità là dove fosse possibile. Pianosa è un patrimonio insulare di inestimabile valore naturalistico e come tale deve essere preservato adeguatamente, evitando ingerenze incontrollabili che potrebbero compromette irreparabilmente l’ecosistema esistente. Calabria: detenuto malato chiede di avvicinarsi alla famiglia, invece lo mandano a Vibo di Emilio Quintieri (Radicali Italiani) Il Garantista, 10 settembre 2015 Sono tanti anni che i Radicali Italiani e pochi altri sostengono che la legalità prima di pretenderla bisognerebbe darla e che le nostre carceri, che dovrebbero essere il regno del diritto, siano i luoghi più illegali del Paese ove non esiste alcuna effettiva tutela giurisdizionale dei diritti dei detenuti sanciti dall’Ordinamento Penitenziario. In Calabria, come nel resto delle altre Regioni d’Italia, viene sistematicamente violato il principio di umanità e di territorialità della pena. Negli scorsi mesi Giuseppe Macrì, 47 anni, di Delianuova in Provincia di Reggio Calabria, ristretto nella Casa Circondariale "Ugo Caridi" di Catanzaro in espiazione di una condanna a 6 anni di reclusione per detenzione abusiva di arma da sparo, durante una visita ispettiva esperita il 16/06/2015 dal Magistrato di Sorveglianza di Catanzaro Angela Cerra, rappresentava di avere seri problemi di salute e che voleva essere trasferito a Reggio Calabria, perché la vicinanza ai suoi figli lo avrebbe fatto stare meglio. Dalle informazioni acquisite presso la Direzione della Casa Circondariale di Catanzaro emergeva che, effettivamente, il condannato, era affetto da numerose patologie e che aveva bisogno di cure e controlli periodici, soprattutto neurologici, psichiatrici ed otorino-laringoiatrici. Per cui, l’avvicinamento al proprio nucleo familiare, poteva sicuramente giovare al miglioramento del tono dell’umore e dello stato psicologico del detenuto con probabile riduzione degli episodi critici. Le doglianze del detenuto, a cui resta da espiare ancora qualche anno, hanno trovato riscontro durante l’istruttoria espletata e lo stesso Dirigente del Servizio Sanitario Penitenziario ha segnalato l’opportunità di un trasferimento del predetto in altro Istituto il più possibile vicino alla residenza del suo nucleo familiare. Per tale motivo, il Magistrato di Sorveglianza Angela Cerra, in accoglimento del reclamo, disponeva che l’Amministrazione Penitenziaria (Prap e Dap), provvedesse con sollecitudine ad adottare le determinazioni di competenza in merito a quanto indicato nella parte motiva del decreto del 07/07/2015 e cioè di trasferire il detenuto richiedente in un Istituto Penitenziario il più vicino possibile al luogo di residenza dei propri familiari. L’Amministrazione Penitenziaria, nei giorni scorsi, in esecuzione di quanto disposto dall’Ufficio di Sorveglianza di Catanzaro, disponeva l’assegnazione e la traduzione del detenuto Macrì dalla Casa Circondariale di Catanzaro (distante 134 km) a quella di Vibo Valentia (distante 79 km) mentre lo stesso aveva richiesto di essere trasferito in uno degli Istituti di Reggio Calabria (distante 65 km) o, comunque, per come disposto dal Giudice Cerra, in altro Istituto più vicino alla residenza del nucleo familiare (ad esempio la Casa Circondariale di Palmi, distante 31 km oppure quella di Locri, distante 69 Km). Tra l’altro, secondo quanto denunciato ai Radicali dai familiari del Macrì, nel nuovo Istituto di Vibo Valentia, il proprio congiunto, non avrebbe più assicurate le cure necessarie per la tutela della sua salute e non avrebbe nemmeno più la possibilità di avere un altro detenuto piantone in cella che gli presti assistenza quando ne abbia la necessità. L’Ordinamento Penitenziario (Legge nr. 354/1975) all’Art. 42 dispone che i trasferimenti dei detenuti siano disposti per gravi e comprovati motivi di sicurezza, per esigenze dell’Istituto, per motivi di Giustizia, di salute, di studio e familiari e che nel disporre detti trasferimenti debba essere favorito il criterio di destinare i soggetti in Istituti prossimi alla residenza delle famiglie. Non si comprende, per quale motivo, l’Amministrazione Penitenziaria, abbia individuato e tradotto il detenuto presso la Casa Circondariale di Vibo Valentia, Istituto come Catanzaro lontano dal luogo di residenza del nucleo familiare, quando invece vi sono tanti altri Carceri nella zona di Reggio Calabria, sicuramente più vicini alla famiglia dello stesso. Eppure il provvedimento disposto dalla Magistratura di Sorveglianza, Autorità preposta al controllo della legalità dell’esecuzione della detenzione le cui decisioni sono vincolanti per l’Amministrazione Penitenziaria, è abbastanza chiaro perché parla di "altro Istituto il più possibile vicino al suo nucleo familiare". Nel caso in questione, si registra ancora una volta, l’ennesima violazione del principio di umanità e di territorialità della pena e quindi dei diritti fondamentali dei detenuti nonché l’inottemperanza, da parte dell’Amministrazione Penitenziaria centrale e periferica, delle determinazioni assunte dalla Magistratura di Sorveglianza che priva la tutela giurisdizionale dei diritti dei detenuti di ogni effettività e che, contestualmente, lede gravemente le attribuzioni costituzionalmente riconosciute al potere giudiziario ed in particolare alla Magistratura di Sorveglianza quale titolare della giurisdizione in materia di diritti dei detenuti e di eventuali loro violazioni ad opera dell’Amministrazione Penitenziaria. Ci si aspetta che, con cortese sollecitudine, il Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria della Calabria, provveda con urgenza a riesaminare nuovamente il caso del detenuto Giuseppe Macrì disponendo il suo trasferimento in altro Istituto Penitenziario più vicino alla residenza del nucleo familiare così come disposto dal Magistrato di Sorveglianza e come sancito dall’Ordinamento Penitenziario che assegna grande rilevanza al mantenimento ed al miglioramento delle relazioni familiari. Rovigo: sul nuovo carcere, costato 29 milioni e mai aperto, è scaricabarile tra ministeri di Marco Bonet Corriere del Veneto, 10 settembre 2015 La Giustizia incolpa le Infrastrutture: "Non ci hanno consegnato l’opera". Se il nuovo carcere di Rovigo è chiuso, a due anni dal termine dei lavori costati finora 29 milioni di euro, la colpa non è del ministero della Giustizia ma di quello delle Infrastrutture. A dirlo, in un rimpallo di responsabilità tutto interno al governo, è il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (che dipende dal ministero della Giustizia), interessato del caso dal ministro Andrea Orlando, cui il Corriere del Veneto ha sottoposto la questione durante la sua recente visita alla festa del Pd di Padova, lunedì. La nota del Dap è stata diramata nella mattinata di ieri e anticipa di fatto la risposta alle tre interrogazioni già annunciate dai deputati Diego Crivellari (Pd) e Francesca Businarolo (M5s), e dal senatore Antonio De Poli (Udc): "In riferimento alle notizie di stampa circa la mancata apertura del nuovo carcere di Rovigo - si legge - attribuita a un disinteresse dell’Amministrazione della Giustizia, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria chiarisce che il complesso della nuova casa circondariale di Rovigo non è stato ancora consegnato dal ministero delle Infrastrutture, che ha curato la realizzazione dell’opera, al Demanio dello Stato (proprietario del bene) e in uso governativo all’Amministrazione Penitenziaria per gli usi istituzionali". Il cantiere alle porte del capoluogo polesano, che si estende su un’area di 26 mila metri quadri a ridosso della tangenziale, è stato aperto nel luglio del 2007 dall’allora Guardasigilli Clemente Mastella e all’epoca il cronoprogramma fissava la fine dei lavori 3 anni più tardi, nel 2010. Ce ne sono voluti il doppio, un po’ per le consuete modifiche in corso d’opera un po’ per le difficoltà attraversate in quel periodo dalla ditta costruttrice, la Sacaim. Tant’è, oggi, e siamo nel 2015, risultano completati il corpo principale, (con le 408 celle), il cortile e i locali a servizio dei detenuti, cui si aggiungono le palazzine con i 90 alloggi destinati agli agenti e i due attici da 160 metri quadri a disposizione del direttore e del comandante. Stando a quanto riferito dal Dap, pare occorrerà ancora un po’ di tempo prima che la struttura possa essere inaugurata e i motivi del ritardo, come quelli dell’empasse che dura da due anni, sono da domandare al ministero guidato da Graziano Delrio. Il Corriere del Veneto lo ha fatto ed è in attesa di una risposta: un (nuovo) dossier è stato aperto al Mit, dopo quello in via Arenula. Il Dap, in ogni caso, assicura che chiuso il cantiere, aprirà il carcere. Nessun rischio, come paventato dal sindaco di Rovigo Massimo Bergamin, che si trasformi in una cattedrale nel deserto rifugio per sbandati, "o peggio in un hub per i profughi". Continua infatti la nota: "In previsione della consegna dell’edificio il Dipartimento ha già avviato le attività ricognitive e amministrative di propria competenza per procedere, non appena la nuova struttura sarà resa disponibile, alla messa in funzione del nuovo istituto penitenziario". Il Dap chiude con un riferimento all’ex carcere di Codigoro, ricordato in questi giorni perché lontano solo 50 chilometri da Rovigo, costato 3 milioni e abbandonato da 15 anni, dopo che nel 1989 rimase aperto solo un anno e mezzo. "Si tratta di complesso carcerario dismesso da molti anni, nell’ambito della politica di razionalizzazione delle risorse immobiliari demaniali penitenziarie. Tale azione prevede, coerentemente con la sopravvenuta spending review, la soppressione dei piccoli complessi carcerari caratterizzati da scarsa efficienza, efficacia e rilevanti problemi di economicità di gestione". Un problema che evidentemente non si presentava quando sono stati costruiti. Vicenza: progetto "Aromaticum", formazione in agricoltura bio per le persone detenute Adnkronos, 10 settembre 2015 Lo scorso maggio l’associazione Nova Terra (Progetto Jonathan) ha dato il via al progetto " Aromaticum", per il recupero di persone detenute, con la collaborazione dell’Ufficio di esecuzione penale esterna, Engim Veneto, Forum Agricoltura Sociale Vicenza e dell’assessorato alla comunità e alle famiglie del Comune di Vicenza. Il progetto, che si concluderà l’11 settembre, ha previsto l’avvio di un corso di formazione sull’agricoltura biologica di 250 ore presso l’Associazione Nova Terra (Progetto Jonathan) con sede a Vicenza in strada della Paglia 135, dove sono stati oggi in sopralluogo l’assessore alla comunità e alle famiglie Isabella Sala insieme ad Alberto Visonà, direttore dell’Ufficio di esecuzione penale esterna, sede di Vicenza, a Lorenzo Tona, operatore dell’associazione Nova Terra, ai docenti laureati in agraria Davide Primucci e Jaco Bonaguro e ad alcune persone che partecipano al corso. "La sfida che ci poniamo è dare un futuro di lavoro alle persone una volta uscite dal carcere, una prospettiva diversa di vita - spiega l’assessore alla comunità e alle famiglie Isabella Sala. Il lavoro oggi sta cambiando e la prospettiva di un lavoro dipendente, preconfezionato, è sempre più difficile e rara, in particolare per persone che a volte trovano ancora una società stigmatizzante. Ecco quindi la grande e nuova prospettiva di un ritorno alla terra, e in particolare ad uso non invasivo del suolo, che dia possibilità di autoproduzione in assenza di reddito, e soprattutto di costruzione di nuove occasioni di lavoro per sé e per gli altri. Per questo il progetto è stato sostenuto da noi convintamente perché riassume i valori in cui crediamo: nuove possibilità per le persone, creatività, sostenibilità ambientale, socialità. Inoltre è dimostrato che l’apprendimento di un mestiere e il coinvolgimento in progetti come quello che presentiamo oggi riducono sensibilmente il rischio di recidive che è pari al 70% per persone in carcere mentre scende al 30% se è prevista una misura alternativa". Il corso è rivolto a persone soggette a provvedimenti dell’autorità giudiziaria in carico agli uffici di esecuzione penale esterna dell’amministrazione penitenziaria. La formazione è stata affidata a due esperti in materia affiancati, per una parte delle ore, dagli operatori dell’associazione Nova Terra con funzioni di tutoraggio e supporto dei detenuti nel percorso formativo. Il corso, predisposto per formare una decina di persone, è stato suddiviso in una parte teorica e una pratica; la parte teorica ha trattato l’agronomia di base con un approfondimento delle tecniche di produzione biologica; la parte pratica, grazie alla Congregazione delle Suore della Divina Volontà che ha messo gratuitamente a disposizione circa 700 metri quadri di terreno, ha previsto la messa a dimora di piante orticole a partire dalla stagione primaverile-estiva fino alla successiva stagione autunnale. Il corso, avviato nel mese di maggio, garantisce ai partecipanti la possibilità di seguire l’intero ciclo produttivo stagionale. Gli obiettivi sono stati molteplici: fornire nuove competenze professionali per aumentare le capacità di reinserimento nel mondo del lavoro; avviare un’attività semi gestita dai detenuti per favorire lo sviluppo delle capacità progettuali, gestionali e organizzative; abbattere i costi di gestione della casa eliminando la spesa relativa agli ortaggi; attivare tirocini o inserimenti lavorativi in aziende agricole; avviare un percorso per valutare la potenziale realizzazione di una vera e propria azienda agricola che inserisca detenuti al suo interno. A conclusione del percorso formativo, Engim Veneto (ente formatore accreditato presso la Regione) rilascerà ai partecipanti un attestato direttamente spendibile nel mondo del lavoro. Inoltre, la collaborazione del Forum Agricoltura Sociale Vicenza garantirà il supporto nel divulgare il progetto tra i propri associati nell’ottica di sensibilizzare le aziende agricole locali al fine di includere i soggetti beneficiari del progetto in inserimenti lavorativi all’interno delle aziende agricole vicentine. L’assessorato alla comunità e alle famiglie del Comune di Vicenza ha garantito la collaborazione dei propri funzionari per supportare la fase progettuale, assicurare la connessione con le altre attività dell’amministrazione nell’ambito delle progettualità rivolte alle persone detenute, collaborare alla valutazione degli esiti del progetto garantendone visibilità e conoscenza. Il progetto si concluderà l’11 settembre con una festa aperta alla cittadinanza: a partire dalle 19 saranno offerte degustazioni preparate con i prodotti dell’orto. Aromaticum è stato avviato grazie al finanziamento di 10 mila euro ottenuto con la partecipazione a un bando della Regione Veneto relativo ai progetti in materia penitenziaria e per il recupero di persone soggette a provvedimenti dell’autorità giudiziaria. Il finanziamento è stato integrato con 2 mila euro dell’associazione Nuova Terra e 500 euro del Comune di Vicenza. L’Associazione "Nova Terra" opera da oltre 25 anni a Vicenza nell’ambito della promozione sociale e gestisce più che una comunità vera e propria una casa che accoglie detenuti in pena alternativa (in affidamento, semilibertà, permessi premio e in tutte le altre modalità consentite dalle leggi) e si pone come ponte tra la difficile situazione carceraria e la complessa realtà sociale. Verona: lavori socialmente utili per cinque detenuti, ripareranno il porfido in Brà veronasera.it, 10 settembre 2015 Nell’ambito di un progetto per il reinserimento sociale dei condannati, cinque detenuti a Montorio hanno iniziato oggi l’attività di restauro del porfido sconnesso in Piazza Brà. Sono cinque le persone detenute che hanno iniziato oggi mercoledì 9 settembre le operazioni per il rifacimento e restauro del porfido sconnesso in Piazza Brà, nell’ambito di un progetto per il reinserimento sociale dei condannati attraverso lavori di pubblica utilità. Nei loro confronti ha voluto rivolgere i suoi personali auguri il Sindaco di Verona Flavio tosi, così come emerge da una nota diffusa dal Comune. Primo giorno di lavoro questa mattina in piazza Bra per cinque persone, detenute nel carcere di Montorio, impegnate in un percorso di sostegno volto al reinserimento sociale dei condannati attraverso progetti di lavoro socialmente utili. Ai cinque detenuti, che saranno occupati tutti i giorni, per tre mesi, a sistemare le parti sconnesse della pavimentazione in porfido della piazza, ha fatto gli auguri di buon lavoro il Sindaco Flavio Tosi. Il progetto si svolge nell’ambito dell’accordo sottoscritto da Comune di Verona, Direzione della Casa Circondariale di Verona, Tribunale di Sorveglianza - Ufficio di Verona, Progetto Esodo Caritas Verona e Garante dei Diritti delle persone private della libertà personale, finalizzato a promuovere attività lavorativa non remunerata, a favore della collettività, da parte di persone in esecuzione penale. Verona: Rems di Nogara; si cambia progetto, i pazienti psichiatrici in una corte rurale di Riccardo Mirandola L’Arena, 10 settembre 2015 La diversa destinazione decisa dal Comune di Nogara e dall’Ulss 21. Entro fine anno 12 ex ricoverati arriveranno però all’ex nosocomio. Non sarà più costruito un nuovo edificio per i pazienti provenienti da ex ospedali psichiatrici giudiziari. Cambia il progetto per la realizzazione della nuova Rems (la residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza), destinata ad accogliere i 40 pazienti provenienti da ex ospedali psichiatrici giudiziari. Dopo una serie di colloqui tra l’Ulss 21 e il sindaco Luciano Mirandola è stato deciso che la struttura non sarà più costruita ex novo sui terreni adiacenti all’ex ospedale Francesco Stellini, ma troverà posto nella vecchia corte agricola e nel palazzo vicini all’ex nosocomio, utilizzando in modo razionale tutti i volumi già esistenti. La novità è emersa nei giorni scorsi, con l’esigenza di trovare uno spazio adeguato per una cosiddetta "Rems provvisoria" in grado cioè di accogliere in tempi rapidissimi almeno 12 pazienti che hanno necessità di essere spostati dalle strutture di Reggio Emilia e di Castiglione delle Stiviere. "Ci sarà un utilizzo di tutti i volumi esistenti", spiega il sindaco Mirandola, "alcuni edifici rurali saranno abbattuti per far posto ad una struttura che ospiterà poi la Rems definitiva. La corte agricola manterrà la sua architettura originale e sarà ristrutturata e lo stesso si farà con l’edificio costruito nei primi del 1900. Non si andrà, quindi, a costruire nuovi edifici, com’era stato ipotizzato in precedenza, ma si cercherà di trovare gli spazi necessari all’interno di quelli che già esistono". Per la Rems provvisoria, invece, è stato stabilito che troverà la propria sede al piano terra dello Stellini, nell’ala recentemente ristrutturata e che ospitava la Radiologia "I tempi saranno strettissimi", continua il primo cittadino, "entro fine settembre ci sarà la presentazione da parte dell’ufficio tecnico dell’Ulss 21 del progetto della Rems provvisoria e anche di quello della Residenza definitiva, con tutte le ristrutturazioni da effettuare. Per fine anno contiamo di far partire la prima parte della Rems, mentre nel 2016 saranno ristrutturati tutti gli edifici rurali, con alcune demolizioni, per far posto a una struttura di collegamento tra il vecchio ospedale e la corte agricola. Il finanziamento di 12 milioni di euro sarà utilizzato, quindi, non più per fare nuovi edifici ma in gran parte per recuperare volumetrie esistenti. I campi adiacenti potranno poi essere destinati a coltivazioni florovivaistiche, magari con l’appoggio dell’associazione Florovivaisti Veneti". Una soluzione, quella di utilizzare gli immobili già esistenti, che era stata caldeggiata dal consigliere comunale del Movimento 5 Stelle Mirco Moreschi e che ora potrebbe diventare una realtà. La nuova Rems non sarà comunque l’unico progetto che sarà realizzato allo Stellini. Per fine 2015, la casa di riposo San Michele conta di poter trasferire al primo piano della struttura tutti gli ospiti non autosufficienti in una nuova Rsa che avrà circa 80 posti letto. La diagnostica specialistica potrebbe invece trovare posto nell’ala sud dell’edificio. In vista della partenza dei lavori per la ristrutturazione del vecchio ospedale, i servizi per l’Alzheimer e di Psichiatria saranno trasferiti in altri locali dello Stellini, attualmente inutilizzati. Lo sblocco della Rems è arrivata dalla nuova Giunta regionale che ha praticamente recepito i principi sanciti dalla precedente legislatura in tema reperimento di spazi per ex detenuti psichiatrici. Avellino: la Fp-Cgil denuncia; aggressione in carcere, è colpa della cattiva organizzazione orticalab.it, 10 settembre 2015 La nota del Segretario Responsabile Polizia Penitenziaria, Licia Morsa. Un’agente della Polizia Penitenziaria in servizio presso la casa circondariale di Avellino è stato aggredito da un detenuto. Il fatto è accaduto lunedì pomeriggio. Si tratta dell’ennesima aggressione tanto violenta da indurre l’appartenente al corpo di polizia penitenziaria a ricorrere alle cure dei medici dell’Ospedale Moscati. Non si può più nascondere che all’interno della casa circondariale di Avellino si stanno vivendo momenti di grave disagio da parte degli operatori della polizia penitenziaria che si ritrovano a lavorare tutti i giorni sotto organico con un numero di detenuti che risultano essere ben al di sopra di quello previsto e che lo stesso istituto potrebbe ospitare. Al momento sono ristretti oltre 600 detenuti all’interno della casa circondariale di Avellino. Tutto questo avviene sotto gli occhi indifferenti dell’autorità Dirigente e del Comandante di reparto il quale è stato più volte esortato dalla Fp Cgil ad avviare un tavolo di confronto per discutere la riorganizzazione del lavoro all’interno dell’istituto. Ancora oggi stiamo aspettando una convocazione che il Direttore della casa circondariale avrebbe dovuto da tempo indire, convocando le Organizzazioni Sindacali. Ma tutto tace. La Fp Cgil non può che lodare il comportamento, la professionalità e la competenza che contraddistingue gli uomini e le donne della polizia penitenziaria che si trovano ogni giorno in prima linea per consentire che anche i ristretti possano essere messi in condizioni vivere una carcerazione che favorisca il reinserimento nella società pur in presenza ormai di oggettive difficoltà operative. Lecce: porta la marijuana al compagno in carcere, arrestata donna 32enne leccesette.it, 10 settembre 2015 È stata arrestata per il reato di spaccio marijuana, aggravato dalla circostanza di aver commesso il fatto all’interno della Casa circondariale di Borgo San Nicola, la 32enne fermata nel pomeriggio di ieri dal personale del reparto di Polizia Penitenziaria di Lecce. A finire nei guai la 32enne C.M. residente a Cavallino. L’arresto è avvenuto ad opera degli addetti alla vigilanza del settore colloqui: testimoni del passaggio della sostanza fra la donna ed il proprio convivente, B.E., 40enne originario anche esso di Cavallino, detenuto nel reparto "alta sicurezza" in applicazione di una ordinanza di custodia cautelare per associazione a delinquere di stampo mafioso e per associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti. La sostanza, una modica quantità di marijuana protetta da un involucro termosaldato, era stata infatti accuratamente nascosta dalla donna nelle parti intime superando il primo controllo all’ingresso dell’istituto. I poliziotti penitenziari, anche avvalendosi delle immagini di videosorveglianza, hanno colto il momento in cui il detenuto era riuscito, con un gesto repentino, a prelevare dalla compagna la sostanza e ad occultarla, a sua volta, in un foro praticato negli indumenti intimi. Senza mai perdere di vista il detenuto, al termine del colloquio gli operatori non hanno dovuto fare altro che recuperare la sostanza ed a fermare la convivente. Nella vettura con la quale la donna aveva raggiunto il carcere, i poliziotti hanno ritrovato un ulteriore quantitativo di marijuana e di un piccolo involucro contenente probabilmente cocaina ovvero sostanza da taglio. All’atto dell’arresto la donna ha nominato quale legale di fiducia l’avvocato Luigi Rella del Foro di Lecce, mentre gli atti sono stati trasmessi alla locale Procura della Repubblica: il sostituto procuratore Francesca Miglietta ha disposto gli arresti domiciliari. Pochi giorni addietro era avvenuto il ritrovamento, ad opera del personale addetto ai servizi di accettazione e casellario, di un cospicuo quantitativo di sostanza stupefacente abilmente occultata nel tacco e nel sotto suola delle scarpe di un soggetto trasferito in carcere per violazione legge sugli stupefacenti. Immigrazione: "Marcia degli scalzi", porteremo in corteo anche i rifugiati di Antonio Sciotto Il Manifesto, 10 settembre 2015 Domani a Venezia. Gara di solidarietà per coinvolgere i migranti nella "marcia degli scalzi". Gli organizzatori della manifestazione: "Costruire subito corridoi umanitari". Portare anche i rifugiati e i richiedenti asilo al corteo di Venezia. Gli organizzatori della Marcia delle donne e degli uomini scalzi hanno deciso di rendere ancora più forte la loro manifestazione, e per questo ieri hanno anche lanciato una sottoscrizione per sovvenzionare le trasferte. L’Iban è IT37Z0359901899050188529276, intestato a Associazione Upgrade, causale "sostegno marcia donne uomini scalzi". L’estratto conto delle donazioni e la lista completa delle spese verrà pubblicata sul sito web della manifestazione. D’altronde, lo spirito della marcia è proprio questo, e ieri gli organizzatori lo hanno spiegato in una conferenza stampa a Montecitorio: pretendere certamente dalla politica un diverso sistema di accoglienza e di asilo, sia per l’Italia che per l’Europa, ma riaccendendo la partecipazione e la "cittadinanza attiva" di ciascuno di noi. Tutti possiamo andare in piazza, domani, ma dal giorno dopo si può fare volontariato per i rifugiati, si può accoglierli nelle nostre case, donare quanto necessario. La società civile, insomma, si deve riattivare. Intanto la Marcia si amplia e si moltiplica: la "madre" veneziana (ricordiamo l’appuntamento domani alle 17 a Santa Maria Elisabetta al Lido) ha già prodotto 74 marce locali in altrettanti comuni, grossi e piccoli, italiani. Tantissime le adesioni di artisti, politici, giornalisti e personalità della cultura. Giulio Marcon (parlamentare di Sel), uno degli ideatori della Marcia, ha spiegato ieri che ci sono almeno quattro obiettivi da realizzare: "Chiudere i centri di detenzione; porre il problema del diritto di cittadinanza e di voto; accogliere tutti, senza se e senza ma; integrare". Ma soprattutto, concordano le associazioni aderenti, si devono creare immediatamente dei corridoi umanitari per i rifugiati, evitando gli hotspot voluti dalla Ue e già fatti propri dal governo italiano, che rischiano di diventare nuovi centri di identificazione e di selezione, con l’effetto quasi certo di dar luogo a discriminazioni e a violazioni dei diritti umani. A sottolineare l’urgenza dell’apertura di corridoi umanitari per i profughi è il regista Andrea Segre, che spiega come alla Marcia si potrà vedere "un Veneto che le cronache di solito non raccontano, quello della solidarietà e dell’accoglienza". Dall’altra parte dell’Italia, si marcerà a Pozzallo, luogo simbolo della tratta dei migranti e delle tragedie del Mediterraneo. Gianni Ruffini, di Amnesty, spiega che la Marcia "chiederà il rispetto della Convenzione sullo status di rifugiato", e ricorda che "il 70-75% delle persone che attraversano i confini per raggiungere l’Europa potrebbero farlo legalmente, perché hanno tutti i requisiti per la richiesta del diritto di asilo". "No all’ipocrisia dell’"aiutiamoli a casa loro" - conclude Amnesty - quando l’Europa ha già esaurito i fondi per l’assistenza. Creiamo piuttosto dei percorsi sicuri, protetti". Loris De Filippi, di Medici senza frontiere, porta l’esperienza di lavoro sul campo. E, proprio per evitare che tutto si concluda in chiacchiere o passerelle, invita a "disobbedire": "Prendiamo esempio da chi in questi giorni non ha aspettato le disposizioni o i tempi delle autorità, si è messo in macchina e ha accolto i rifugiati. Andiamo a Lesbo, dove ci sono già 16 mila persone, prendiamoli con noi, portiamoli a Monaco, a Roma, a Parigi". "È giusto e sacrosanto rivendicare miglioramenti dalla politica, e guardiamo con preoccupazione al vertice europeo del 14 - dice Grazia Naletto, di Sbilanciamoci - ma è fondamentale non delegare. Dobbiamo accogliere tutti, non solo i siriani, ma anche gli africani". Don Armando Zappolini, di Cnca, sottolinea che "i rifugiati scappano da guerre che noi abbiamo portato nelle loro terre per l’acqua e il petrolio". E invita a camminare "scalzi", ma in più "arrabbiati". Filippo Miraglia, dell’Arci, segnala il pericolo dei cinque hotspot che il governo vuole aprire in Italia, su impulso della Ue: "Non sono Cie, quindi non potrà esserci intervento del magistrato. Si verrà detenuti quasi certamente più di 48 ore, e per questo il rischio di violazione dei diritti umani è alto. Sarà importante perciò vigilare". In piazza anche Cgil, Cisl, Uil, la Fiom. A Venezia sfilerà Susanna Camusso. Si terranno manifestazioni anche a Parigi e Lipsia. Sabato 12 altri cortei in tante città europee. La presidente della Camera Laura Boldrini ha ricevuto una delegazione della Marcia: "L’Europa 2.0 dovrà necessariamente guardare agli Stati Uniti d’Europa - ha detto - Serve un sistema condiviso di asilo. La marcia è importante: aggrega e dà modo di partecipare". Immigrazione: la sfida di Copenaghen "stop ai profughi", chiuse strade e ferrovie di Daniele Mastrogiacomo La Repubblica, 10 settembre 2015 Dopo l’Ungheria, un’altra nazione si ribella alla redistribuzione. E i migranti vanno a Stoccolma. È la Danimarca, dopo l’Ungheria di Orbán, l’altra nazione europea che si ribella alla svolta sull’emergenza rifugiati e sceglie di chiudere le porte. Il governo di centro-destra danese ha deciso ieri di sospendere a tempo indeterminato il traffico ferroviario con la Germania e ha chiuso anche una superstrada, nel nord del Paese, utilizzata da alcune centinaia di profughi siriani che, a piedi, stavano cercando di raggiungere la Svezia. Niente Danimarca infatti. I profughi non si fidano. Meglio la Svezia, perfino la Finlandia. Allora puntano al nord, oltre il mare, il canale che divide, in quel tratto, l’Europa dalla penisola scandinava. Escono in strada, puntano alle stazioni dei treni; gli altri si dirigono verso l’autostrada, a piedi, per poi prendere un autobus, un camion, magari qualche auto di passaggio disposta a trasportare donne e bambini. Camminano insieme, compatti, come hanno sempre fatto. La polizia crea il vuoto. Attorno e sopra questo popolo di migranti e rifugiati. Vieta il sorvolo dell’autostrada da parte degli elicotteri delle Tv. Riesce anche a motivare questa scelta. Vuole proteggere i profughi. "Molti", spiega, "hanno paura di aerei e elicotteri". Tra loro ci sono anche molte donne e bambini. La polizia, via twitter, ha annunciato che lascerà comunque passare i rifugiati che si trovano sull’autostrada. Più complicata è la situazione nei punti di accesso ferroviari tra Germania e Danimarca: nel porto di Rodby, nel sud del Paese, i rifugiati siriani si sono rifiutati di scendere dai treni perché non vogliono essere registrati dalla polizia danese e vorrebbero soltanto proseguire verso la Svezia. Così da ieri a causa dell’afflusso "di centinaia di migranti - si legge in un comunicato delle ferrovie danesi - il traffico ferroviario è sospeso". Fra Amburgo e Copenaghen viaggiano ogni giorno, nelle due direzioni, cinque treni. Mentre nell’altro collegamento, fra Flensburg (nella tedesca Schleswig-Holstein) e Padborg (nello Jutland) sono operativi circa nove treni al giorno. La maggior parte dei profughi non vogliono rimanere in Danimarca: del migliaio già arrivati meno di 200 hanno chiesto asilo. Ma se non si fanno registrare la polizia di Copenaghen li rimanda in Germania. A Rodby i rifugiati sono stati alloggiati in alcune strutture pubbliche. E in uno degli ostelli sono stati presi a sassate da gruppi xenofobi, ha detto la polizia locale senza precisare altri dettagli. La Danimarca, dove il partito xenofobo di Kristian Thulesen Dahl, ha conquistato il 21% dei voti nelle ultime elezioni proprio facendo della battaglia contro l’immigrazione la sua bandiera, aveva già lanciato una campagna sui giornali libanesi per dissuadere i rifugiati siriani a raggiungere Copenaghen. Negli spazi pubblicitari, acquistati sui giornali libanesi dal ministero per l’immigrazione danese, si spiegava che in Danimarca sono stati drasticamente ridotti - del 50% - i fondi destinati all’asilo e si avvertiva per esempio - che il riavvicinamento familiare è vietato per il primo anno a chi ha ottenuto un permesso temporaneo e che è obbligatorio, per chi riesce a restare, imparare la lingua danese. Misure molto restrittive che hanno a che fare con le ultime elezioni vinte dalla destra grazie alla lotta all’immigrazione. Spinto dall’opinione pubblica il governo danese ha ristretto le maglie del suo sistema di accoglienza e ha fatto appello alla clausola di esclusione che, come Irlanda e Gran Bretagna, le permette di non ospitare i rifugiati. Droghe: tossicodipendenze e carceri, il governo si è reso conto che c’è un problema? di Susanna Marietti Il Fatto Quotidiano, 10 settembre 2015 Nei giorni scorsi il governo ha relazionato al Parlamento sullo stato delle tossicodipendenze in Italia. È stata infatti presentata l’annuale relazione sulle droghe curata dal Dipartimento Politiche Antidroga della Presidenza del Consiglio dei Ministri. E cosa è uscito da questa relazione? Che trattare la tossicodipendenza come un problema criminale invece che sociale costa tanti soldi e non aiuta a risolvere la questione. Pensate un po’. Nel 2013 - ultimo dato disponibile, poiché per il 2014 non è dato conoscere il costo giornaliero dei detenuti - tutti noi abbiamo speso 1.096.646.858 euro per mantenere in galera le 24.273 persone che vi stavano per aver violato la normativa sulle tossicodipendenze. Un’enormità. Per non parlare ovviamente dei costi di polizia e dei tribunali, che pure si possono trovare nel rapporto. Nel 2008, si legge ancora nella relazione, i detenuti per la legge sulla droga erano pochi di meno, vale a dire 23.505 (d’altra parte l’indulto del 2006 non era troppo lontano). La cifra spesa era tuttavia maggiore, pari a 1.304.486.366 euro, e dunque tale decremento, come viene spiegato, "non corrisponde a un calo dei detenuti per droga, bensì a una riduzione del costo giornaliero per detenuto". Al picco del 2010, quando i reati di droga riguardavano 28.199 detenuti, tutti noi spendevamo 1.200.841.725 euro. E non mi pare che questi soldi abbiano minimamente aiutato a risolvere il problema. Il carcere costa. Ed è questo solo uno dei motivi per cui andrebbe utilizzato con assai maggiore parsimonia di quanto non si sia fatto in Italia negli ultimi decenni. In quel picco del 2010 che abbiamo appena citato - quando fu dichiarato dal governo lo stato di emergenza penitenziaria, quando il numero dei detenuti era così elevato e le condizioni detentive così degradanti da farci condannare tre anni dopo dalla Corte di Strasburgo con l’accusa di trattamenti inumani - i detenuti nel loro complesso ci sono costati 2.888.084.181 euro. I detenuti per droga erano interessati dal 41,6% di tali costi. Negli anni passati la percentuale era ancora maggiore, andando invece a calare fino al 36,8% del 2013 grazie alla sentenza della Corte Costituzionale che ha dichiarato illegittima la legge Fini-Giovanardi. Ma possibile che tutti i cambiamenti debbano introdurli i magistrati, senza che i politici - gli unici da noi votati - se ne sappiano prendere la responsabilità? In ogni caso: è questo il primo anno in cui, nella propria relazione, il Dipartimento si prende la briga di calcolare il costo dei detenuti per droga. Eppure non mi pare irrilevante. Che se ne stiano rendendo conto anche loro? Che anche il governo italiano si sia accorto che il vento sta cambiando in tutto il mondo, perché tutto il mondo si è accorto che la war on drugs ha fallito ogni suo obiettivo, da quello politico a quello sociale a quello economico? Il proibizionismo ci costa oltre 1 miliardo l’anno Oltre un miliardo di euro l’anno. Ben oltre i dieci miliardi di euro spesi negli ultimi dieci anni. È il costo indiretto della guerra alla droga nel nostro paese. Queste cifre, infatti, sono quelle che spende ogni anno lo Stato Italiano per tenere in carcere persone condannate per fatti di droga. Persone che nella grande maggioranza dei casi non hanno nessuno tipo di pericolosità sociale. Nella maggior parte dei casi si tratta infatti di consumatori, piccoli coltivatori e piccoli spacciatori. Ovvero di coloro che più di altri finiscono nelle reti della giustizia penale. Nel solo 2014 delle 29.474 segnalazioni all’autorità giudiziaria, 26.692, tra queste la maggior parte per cannabis, sono state per violazione dell’art. 73 DPR 309/90 (che colpisce consumatori e piccoli spacciatori), solo 2.776 quelle per violazione dell’art 74 (che colpisce l’associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti). "Sono i frutti avvelenati del proibizionismo e delle leggi che, negli ultimi 30 anni, sono state applicate nel nostro paese, per ultima la Fini-Giovanardi che, dal 2006 alla sua abrogazione per incostituzionalità nel febbraio 2014 ha portato ad una vera e propria incarcerazione di massa, con oltre 200.000 ingressi in carcere per reati in violazione del solo art. 73" dichiara Patrizio Gonnella, presidente di Antigone e della Coalizione Italiana per le Libertà e i Diritti civili (Cild). I dati che la Cild e Antigone avevano già estrapolato e che oggi ci conferma il Dipartimento delle Politiche Antidroga nella sua relazione al Parlamento, danno un quadro di quanto - il proibizionismo - sia costato al nostro Paese. Al miliardo l’anno per il carcere, vanno sommati i soldi spesi per le forze dell’ordine e i tribunali impegnati nelle politiche antidroga. Senza contare quanto lo Stato perda dalla mancata tassazione che la legalizzazione porterebbe e che, secondo lo studio del prof. Rossi, ordinario di Economia all’Università La Sapienza di Roma, ammonta a circa 10 miliardi di euro l’anno. "Una strada c’è - dichiara ancora Patrizio Gonnella - ed è quella di seguire quanto hanno fatto alcuni stati americani, nonché l’Uruguay, ovvero la legalizzazione della cannabis. Per questo obiettivo lavorerà nei prossimi mesi la Cild attraverso una apposita campagna che verrà lanciata a fine mese". Francia: liberato il direttore del carcere di Vendin-le-Vieil sequestrato da detenuto Askanews, 10 settembre 2015 "Sano e salvo" responsabile struttura Vendin-le-Vieil. Il responsabile di un carcere del Nord della Francia è stato liberato "sano e salvo", dopo essere stato preso in ostaggio per tre ore da un "detenuto particolarmente pericoloso" e armato. È quanto si è appreso da fonti ufficiali. "Alle 14.20, il sequestro del vice direttore del centro penitenziario di Vendin-le-Vieil si è concluso. Era cominciato alle 11", ha annunciato l’amministrazione penitenziaria. Squadre speciali dell’amministrazione penitenziaria sono arrivate sul posto, oltre che elementi del Raid, reparto d’élite della polizia. Resa o intervento delle forze dell’ordine, le circostanze precise della fine del sequestro non sono state chiarite. "Il vice direttore non ha subito alcuna violenza fisica. È stato immediatamente preso in consegna" dalle autorità, ha aggiunto la direzione del carcere, che ha precisato che il sequestratore "si è arreso e sarà disposta per lui la custodia cautelare". Originario delle Guadalupe (isola francese dei Caraibi), 34 anni, Fabrice Boromee aveva preso in ostaggio il vice direttore di questa centrale di ultra sicurezza nei pressi di Lens, non lontano dalla frontiera del Belgio, a fine mattinata. Nel 2010 Borromee era stato condannato a otto anni di prigione sull’isola dei Caraibi per una rapina degenerata in violenza. L’anno seguente era stato trasferito nella Francia metropolitana, e da allora aveva sempre ribadito la volontà di essere ricondotto nella sua terra d’origine: questo potrebbe essere stato il movente del rapimento. Nel 2013 aveva già compiuto un gesto analogo in un penitenziario della Normandia e per questo, oltre a essere confinato in isolamento, la sua pena era stata aumentata fino a otto anni. È molto conosciuto negli ambienti carcerari, essendo stato rinchiuso in oltre una decina di strutture. Noto tra l’altro come abile manipolatore, la sua eccezionale pericolosità è confermata dal fatto che alle guardie incaricate di sorvegliarlo era stato fornito un equipaggiamento protettivo speciale, di cui però erano poi state private il mese scorso in quanto il suo comportamento era migliorato al punto tale da non far ritenere più necessarie tali precauzioni. Boromee era arrivato in maggio a Vendin-le-Vieil, una delle sei prigioni nazionali in cui sono rinchiusi i criminali più pericolosi del Paese. Il penitenziario di 22.000 metri quadrati, la cui costruzione era stata completata esattamente un anno fa, era appena stato inaugurato. Essendo stato concepito per l’espiazione di pene di lunga durata, a detta dei responsabili del ministero della Giustizia sarebbe dotato di "sofisticati dispositivi di sicurezza alquanto perfezionati". In grado di accogliere fino a 238 reclusi, in realtà al momento ne ospita 51. Iran: appello di "Nessuno tocchi Caino" per scarcerazione dello scienziato Omid Kokabee Adnkronos, 10 settembre 2015 Nessuno tocchi Caino lancia un appello per la scarcerazione immediata dello scienziato Omid Kokabee, detenuto nelle carceri iraniane dal 2011 e condannato a dieci anni di carcere con l’accusa di "contatti con governo ostile". "In realtà - rileva l’organizzazione - Omid Kokabee è un detenuto politico, che ha solo affermato la propria libertà di scienza e di coscienza, perché, da scienziato, ha avuto il coraggio di rifiutare di mettere le sue conoscenze al servizio del programma nucleare militare iraniano. Per il suo coraggioso, e per l’Iran oltraggioso, rifiuto alla collaborazione forzata con il programma nucleare dei Pasdaran, Omid è stato insignito di importanti premi internazionali, quali il prestigioso Premio "Andrei Sakharov" nel 2013 e il Premio dell’American Association for Advancament of Science" conferito nel 2014 per ‘l’esemplare libertà scientifica e responsabilità’ dimostrata". In suo sostegno si sono mobilitati anche 18 Premi Nobel per la Fisica con una lettera aperta pubblicata dalla Rivista scientifica "Nature". "La detenzione di Omid Kokabee è ritenuta illegale e non giustificata dalla stessa Corte Suprema Iraniana per la quale "differenze politiche con altri Stati non costituiscono un motivo di ostilità" e quindi l’accusa mossa ad Omid di "contatti con un Governo ostile" non ha ragion d’essere. Nonostante il giudizio della Corte Suprema - prosegue Nessuno Tocchi Caino - Omid però è ancora in cella dove ha da poco compiuto il suo trentatreesimo compleanno". Di recente, Omid "è stato ulteriormente punito, a seguito della pubblicazione da parte dei media delle notizie sul suo caso. Gli sono stati tolti luce e libri, forse la punizione più crudele che si possa infliggere a un uomo di scienza". Per Sergio d’Elia, Segretario di Nessuno tocchi Caino, "occorre che, dopo la firma dell’accordo sul nucleare pacifico con il gruppo P5+1, la Repubblica Iraniana dimostri la serietà delle sue intenzioni con l’immediata scarcerazione di Omid Kokabee" L’associazione invita a sostenere la campagna #OmidFreeNow firmando la petizione online e a diffonderla sui network. Stati Uniti: su Yelp ci sono anche le recensioni delle prigioni… le scrivono gli ex detenuti di Diletta Parlangeli wired.it, 10 settembre 2015 I commenti lasciati sui siti di recensioni da parte di ex detenuti e familiari diventano un dialogo tra cittadini e istituzioni. La rete abitua a connessioni inaspettate: in America i siti di recensioni degli utenti stanno diventando un raccordo tra cittadini e istituzioni in tema di detenzione. In che modo? Siti come Yelp, ma anche Google stesso, ospitano sempre più commenti da parte di chi "ha usufruito del servizio". La lunga storia di testimonianze la racconta wired.com per The Marshall Project spiegando che sono in molti a raccontare online la loro esperienza nei penitenziari, archiviandoli nella categoria "Servizi pubblici e amministrazioni locali" (Yelp non ha fornito i dati su quanti fossero i penitenziari recensiti). Jenny Vekris, finita più volte in carcere per guida in stato di ebbrezza, ha recensito il carcere di Travis County Jail, Austin. Lo ha fatto, spiega, perché "quando sono uscita non potevo permettermi un terapeuta". Ci sono recensioni serissime, altre più scanzonate, altre ancora che sono un mix di toni: "Ho imparato molto da bambino al campo estivo, ma se vuoi imparare competenze che puoi spenderti fuori, devi andare in galera". A lasciare commenti sul luogo sono ex detenuti, certamente, ma anche assistenti sociali o parenti in visita. A Victoria Ramos è stato impedito di vedere il fratello al Correctional Institution di Tehachapi, California. Gli addetti le hanno consigliato di mettersi addosso qualcosa che fosse meno aderente - riferito a pantaloni bianchi e top nero - e lei è tornata indietro, anche se si era fatta 2 ore di viaggio da Pasadena. Ha lasciato il commento perché nelle regole del penitenziario nessuno aveva specificato come ci si dovesse vestire: "Ho cercato ovunque, ma niente. Forse, se qualcuno avesse lasciato una recensione come la mia, mi sarei presentata con l’abbigliamento adeguato". Ci sono i commenti di chi è stato detenuto in più di un penitenziario - e quindi riporta le varie esperienze - e quelli di chi, tutto sommato, dice di esser stato trattato bene. Sul centro di detenzione di Willacy, Texas, teatro anche di recente di rivolte contro abusi e maltrattamenti, si trova un solo commento: "no describirla puedo", non riesco a descriverlo.