Quello trascorso al Due Palazzi è stato uno dei pomeriggi più intensi dalla morte di mio figlio di Elisabetta Barbacci Ristretti Orizzonti, 9 ottobre 2015 Ho letto con rammarico che il direttore della Casa di reclusione Due Palazzi è stato "promosso per essere rimosso" (Mattino di Padova, 6 ottobre 2015). Ho avuto modo di conoscere da tempo e apprezzare la professionalità della dott. Ornella Favero, direttore e coordinatrice della rivista Ristretti Orizzonti all’interno del carcere. Ma una circostanza tragica, la morte di mio figlio in un incidente stradale, mi ha permesso di varcare la soglia di questo istituto di pena. Sono stata infatti chiamata da lei e dalla sua redazione a parlare come famigliare di una vittima, a trasmettere ciò che si prova in momenti così devastanti. Avvertivo nei miei interlocutori una tensione o meglio un’attenzione autentica che poco ricordava le frasi di circostanza, l’ipocrisia delle istituzioni, emerse in un tavola rotonda, da me promossa, all’indomani dell’incidente. Quello trascorso all’interno del Due Palazzi è stato uno dei pomeriggi più intensi da me vissuti dalla morte di mio figlio. Sentivo che i detenuti si rivolgevano a me con parole di verità. Autentiche. Mi chiedevo come fosse possibile che la verità venisse a me da dietro le sbarre e la menzogna e l’ipocrisia di certe affermazioni fosse sulle labbra di chi sta fuori. Quale percorso interiore avevano fatto coloro che mi stavano davanti, se li sentivo così profondamente partecipi del mio dolore? Chi dirige una qualsiasi struttura, ma tanto più un carcere, deve avere come obiettivo finale quello di trasmettere un’etica di comportamento. Questo ho avvertito in quel lontano pomeriggio. Forse il direttore Salvatore Pirruccio era riuscito a far funzionare un ingranaggio che altri, prima di lui, avevano trascurato o addirittura ostacolato. Ogni anno assisto al convegno che si tiene all’interno della Casa di reclusione, ideato e organizzato dalla redazione di Ristretti Orizzonti. Magistrati, scrittori, filosofi, operatori sociali, psichiatri, ma anche persone comuni occupano l’intera giornata con i loro interventi. Forse è il momento più alto che il direttore offre ai suoi ospiti, quello più coinvolgente anche per chi siede in platea ad ascoltare. Speriamo che il ministro Orlando non voglia distruggere il lavoro dei tanti che si sono spesi per rendere il carcere un luogo più dignitoso, meno alienante, e che nel prossimo talk show televisivo ricordi anche Padova e l’impegno di chi opera nella sostanza e non nella forma. Giustizia: i processi "mediatici" dell’avv. Anselmo stanno scrivendo la storia dei diritti civili di Roberto Saviano L’Espresso, 9 ottobre 2015 C’è un legale che difende le vittime degli abusi compiuti dalle forze dell’ordine. Ha molti nemici, ma sta scrivendo la storia dei diritti civili. Chi il primo ottobre scorso si fosse trovato in tribunale a Napoli, verso le 11 del mattino, avrebbe sentito un boato. Durante l’udienza del processo per l’omicidio di Davide Bifolco - il diciassettenne ucciso dal colpo di pistola sparato da un carabiniere il 5 settembre 2014 al Rione Traiano durante un inseguimento - alla lettura della ordinanza con la quale il giudice ha ordinato alla Procura un supplemento di indagine, chi era in aula ha esultato. Un amico mi ha chiamato in tempo reale, per dirmi quello che stava succedendo: l’euforia per una nuova possibilità in un processo che sembrava già scritto, nonostante alcune incongruenze degne di approfondimento il 19 novembre ci sarà la prossima udienza, a me, però, non interessa oggi parlare del processo, ma di un metodo. Il metodo è quello di Fabio Anselmo, di professione avvocato, legale della famiglia Bifolco. Ci sono tanti modi per fare il proprio lavoro, uno è farlo bene. Così, qualunque cosa facciate, riuscirete a lasciare il segno, a fare scuola. Ma non sarà facile, perché chi fa bene il proprio lavoro spesso finisce nel mirino di chi invece lo fa male. Spesso viene isolato, creduto mitomane, egocentrico, esagerato, soprattutto perché le uniche parole che restano sono quelle dei detrattori. Nell’immediato accade così, ma nel lungo termine, il livore lascia il posto a ciò che, mattone su mattone, si è costruito. Il 13 settembre 2014, immediatamente dopo l’omicidio Bifolco, Stefano Zurlo sul "Giornale" scrive un articolo su Fabio Anselmo. Il titolo è "L’avvocato che processa (in tv) i poliziotti". Poi la parola passa a una vecchia conoscenza, Gianni Tonelli, segretario del Sap (Sindacato autonomo della Polizia): "Quando c’è un poliziotto nei guai, ecco che spunta lui. L’avvocato Fabio Anselmo. È come il prezzemolo. Per Aldrovandi, Per Cucchi, Per Uva". Il Sap è sempre in prima linea nel difendere poliziotti accusati di crimini nell’esercizio delle proprie funzioni, come con l’applauso agli assassini di Federico Aldrovandi; impossibile dimenticarlo. E, stranamente, non ha speso una parola (mai!) su Roberto Mancini, il poliziotto ucciso da un tumore sviluppato per aver lavorato per anni nella Terra dei fuochi. Secondo Il Giornale, Anselmo "il processo lo istruisce in tv e sui giornali. Lo dilata e lo distribuisce in pillole all’opinione pubblica". Ma quello che vorrebbe essere un articolo critico, finisce, dando la parola ad Anselmo, col centrare il punto: "È vero io faccio i processi mediatici. Altrimenti, e questo è stato scritto dai giudici, i miei casi sarebbero o rischierebbero di essere trascurati, dimenticati, archiviati frettolosamente. Sarebbero casi di denegata giustizia. La verità - insiste lui - è che io soffio sul fuoco dell’opinione pubblica perché il controllo da parte dei cittadini è un parametro fondamentale della giustizia". Il controllo dei cittadini è tutto, anzi è un dovere: senza l’attenzione della opinione pubblica, l’amministrazione della giustizia finirebbe per diventare un discorso tra tecnici, mentre a essere in ballo sono i diritti dell’individuo. Oggi Anselmo rappresenta la famiglia Bifolco, ma il suo nome è legato ai casi Aldrovandi, Cucchi, Uva, Magherini, tutti processi che se non fossero diventati "mediatici" avrebbero percorso strade completamente diverse. Tutti processi che finivano per vedere, sul banco degli imputati, non più chi aveva picchiato o premuto il grilletto, ma le vittime e la loro vita, rivoltata come un calzino. Tutti processi in cui le vittime rischiavano di diventare colpevoli. In un’intervista alla "Nuova Ferrara", Anselmo dice: "senza processi mediatici, quelli reali poi non si farebbero, nella grande maggioranza dei casi e sottolinea come ciò che generalmente trova spazio sui media ha contorni differenti rispetto ai casi di cui si occupa come avvocato. Lui li definisce "morti di Stato", persone che sembrano essere morte perché reiette, meritevoli di morire e che spesso l’opinione pubblica declassa a morti di cui non è necessario curarsi. Fabio Anselmo è quell’avvocato che, con il proprio lavoro, ha insinuato nella mente di molti un dubbio, il dubbio che al nostro ordinamento manchi qualcosa di fondamentale: il reato di tortura. Perché un poliziotto che salva un cittadino non cancella il reato commesso dal poliziotto che abusa del suo potere. Fabio Anselmo, da anni, sta contribuendo a scrivere, riga per riga, la storia dei diritti civili nel nostro paese. Facendo bene il suo lavoro. Ma questo lo capiremo tra qualche decennio. Giustizia: stalking, calano le denunce ma non i femminicidi, troppe donne lasciate sole di Maria Novella De Luca La Repubblica, 9 ottobre 2015 "La paura di una donna non va mai sottovalutata. Quando una donna arriva a denunciare l’uomo che ha amato, con il quale ha messo al mondo dei figli, è perché sa di cosa egli è capace. Nessuno, meglio della vittima, conosce il suo persecutore. Invece, troppo spesso le denunce delle donne vengono registrate, ancora, come conflitti familiari". Ha la voce accorata Teresa Manente, avvocato dei centri antiviolenza "Differenza donna", mentre commenta la morte di Giordana Di Stefano, uccisa a vent’anni, da un ex con il quale aveva sperato un tempo di costruirsi una vita. "Le leggi ci sono, sia quella sullo stalking del 2009, sia quella sul femminicidio del 2013. E sarebbero anche efficaci. Di certo oggi la magistratura e le forze dell’ordine hanno strumenti in più per fermare i persecutori e potenziali assassini: il problema è che non vengono applicate fino in fondo, troppo poche le custodie cautelari, troppo liberi i molestatori, troppo sole, ancora, le donne che denunciano". Nel conto dei femminicidi oggi c’è una vittima in più, un altro sorriso che si è spento, una bambina la cui vita resterà segnata per sempre. E pochi giorni fa, ad Albano Laziale, un maresciallo dei carabinieri ha ucciso la moglie Carmela, da cui non aveva mai accettato la separazione, e poi si è suicidato. Eppure proprio ieri il ministro dell’Interno Alfano aveva reso pubblici dati che dovrebbero testimoniare una inversione di tendenza: femminicidi in calo del 6,33% nel primo semestre del 2015 (74 donne massacrate) atti persecutori diminuiti del 21,3%, ma soprattutto più "ammonimenti" e "allontanamenti" da casa di mariti, fidanzati o ex diventati nemici e potenziali assassini. Numeri piccoli, certo, che però segnalano una tendenza. Si può dire allora che la legge sullo stalking e quella sul femminicidio stiano funzionando? Chi ogni giorno lavora nella trincea della violenza sulle donne, sulle ragazze e sulle bambine, dice che quei dati significano poco. "Anzi dimostrano quanto si potrebbe fare e non si fa", aggiunge Teresa Manente. "Quando si agisce tempestivamente sullo stalker, con gli ammonimenti e gli allontanamenti, la persecuzione cessa. Il problema è che non si fa. E i femminicidi non diminuiscono. Questo perché a livello giuridico non c’è una specializzazione sulla violenza, non c’è la percezione del rischio reale dietro la denuncia di una donna. Ed è così che le donne continuano a morire". Un sentiero scosceso e solitario accompagna infatti la vita di colei che decide di denunciare l’uomo con cui ha condiviso un matrimonio o un flirt, poco importa. Spiega Anna Costanza Baldry, responsabile dello sportello anti-stalking "Astra" (Anti Stalking Risk Assessement) e docente di Psicologia alla Seconda Università di Napoli: "Dal momento in cui la donna trova la forza di uscire a cercare aiuto tutto può accadere. La polizia può allontanare un marito violento, ma poi chi controlla che quell’allontanamento venga rispettato? E dopo una condanna per direttissima quando lo stalker esce, chi vigila affinché non torni a minacciare le sue vittime?". Non solo. Quando una donna cerca di liberarsi di un ex violento, sono tanti i "soggetti" con cui si deve rapportare: "I servizi sociali se ci sono dei figli, gli avvocati, i giudici, tutte figure che magari entrano in conflitto tra di loro. Nell’attesa si resta sole, prigioniere della paura, ed è in questo vuoto che si consumano i femminicidi". Infatti, aggiunge Baldry, che come terapeuta cura le donne maltrattate, "spesso le uniche che riescono a salvarsi sono quelle che dopo la denuncia si rifugiano nei centri antiviolenza". Concorda Rossella Mariuz, storica avvocatessa dell’Unione delle donne italiane: "La normativa è farraginosa e impedisce di applicare con tempestività le norme coercitive, le uniche in grado di fermare l’escalation della violenza". Certo, poi a tutto questo sfugge l’omicidio premeditato, "l’orgoglio ferito del maschio, che uccide per punire la vittima che ha osato dire basta", aggiunge Teresa Manente, ricordando il carabiniere che pochi giorni fa ha ammazzato la moglie. Ragiona Manuela Ulivi, presidente della "Casa delle donne" di Milano. "C’è nei giudici una tendenza a sottovalutare i fatti persecutori denunciati dalle donne. Non c’è abbastanza sensibilità nel captare il pericolo omicida di quei conflitti familiari. Ancor più se ci sono i figli. E se è vero che sono soprattutto i nostri centri a salvare le donne, è anche vero che oggi veniamo boicottate in ogni modo. A cominciare dallo scandalo dei fondi per i centri antiviolenza, finiti invece in mille rivoli, a chissà chi". Giustizia: stallo sugli incarichi al Csm, Legnini al Colle Il Sole 24 Ore, 9 ottobre 2015 L’ostruzionismo di Magistratura indipendente, che ha rallentato i lavori del plenum del Csm, rimbalza da Palazzo dei Marescialli al Quirinale in un colloquio tra il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e Giovanni Legnini numero due dell’Organo di autogoverno della magistratura, e dal Colle al Comitato di presidenza del Csm. Che avrebbe deciso di sciogliere salomonicamente il nodo della discordia - la presidenza delle commissioni da rinnovare - assegnando al togato di Area Lucio Aschettino la guida della V sugli incarichi direttivi e quella della III, sui trasferimenti orizzontali, a Mi, la corrente che ha come leader il sottosegretario alla Giustizia Cosimo Ferri. Non c’è ancora nulla di ufficiale e solo tra domani e lunedì verrà sciolto il nodo da Legnini, dal primo presidente della Cassazione Giorgio Santacroce e dal Procuratore generale Pasquale Ciccolo. Il rinnovo delle commissioni, in particolare della V, è un passaggio strategico per le decine di nomine di capi degli uffici giudiziari, tra cui la prima presidenza della Cassazione e la Procura di Milano, per l’uscita di scena di Santacroce (a dicembre) e di Edmondo Bruti Liberati (a novembre), giunti all’età della pensione. I nuovi vertici saranno scelti in base ai criteri della circolare di luglio sulla nuova dirigenza, su cui non sono mancate polemiche. Mi, promotrice della riforma in un testo poi modificato, è per un’interpretazione "rigida" dei nuovi criteri e perciò aveva chiesto la presidenza della V commissione sia pure in alternativa alla III. Intanto da Lussemburgo il ministro della Giustizia Andrea Orlando fa sapere, alla vigilia del Consiglio di giustizia Ue, che oggi si batterà contro le prese di posizione destinate a depotenziare il Procuratore europeo, impedendogli l’uso delle intercettazioni. Giustizia: il ministero dell’Interno a caccia di chi foraggia il terrorismo di Luciano De Angelis e Christina Feriozzi Italia Oggi, 9 ottobre 2015 Riciclaggio, corruzione e finanziamento al terrorismo devono essere monitorati con estrema attenzione dagli uffici della pubblica amministrazione. Per il finanziamento al terrorismo in particolare, dovranno essere effettuati appositi riscontri con i nominativi e i dati anagrafici nelle liste pubbliche consultabili sul sito Uif. È quanto si legge nel decreto del ministero dell’Interno del 25.09.15, sugli indicatori di anomalia per le segnalazioni della p.a. pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 233. Gli uffici della pubblica amministrazione. Gli uffici della p.a. interessati dalla disposizione ministeriale sono quelli di cui all’art. 1, comma 2, lett. r) del dlgs 231/07. Si tratta di tutte le amministrazioni dello stato, ivi compresi gli istituti e le scuole di ogni ordine e grado, le istituzioni educative, le aziende e le amministrazioni dello stato ad ordinamento autonomo, le regioni, le province, i comuni, le comunità montane e loro consorzi e associazioni, le istituzioni universitarie, le amministrazioni, le aziende e gli enti del servizio sanitario nazionale e le agenzie di cui al decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300, e successive modificazioni. Le situazioni a maggior rischio di segnalazione. L’art. 4 del decreto dispone che il sospetto debba fondarsi su una compiuta valutazione degli elementi oggettivi e soggettivi dell’operazione, a prescindere dal relativo importo e, anche se l’operazione è rifiutata, non conclusa o tentata, o se il controvalore della medesima è regolato in tutto o in parte presso altri soggetti, sui quali gravano autonomi obblighi di segnalazione. Nella valutazione delle operazioni sono tenute in particolare considerazione le attività che presentano maggiori rischi di riciclaggio in relazione alla movimentazione di elevati flussi finanziari e a un uso elevato di contante, nonché i settori economici interessati dall’erogazione di fondi pubblici, anche di fonte comunitaria, e quelli relativi ad appalti, sanità, produzione di energie rinnovabili, raccolta e smaltimento dei rifiuti. La segnalazione deve contenere i dati, le informazioni, la descrizione delle operazioni ed i motivi del sospetto. Indicazioni relative alle modalità di invio della segnalazione alla Uif, in via telematica attraverso il portale Infostat-Uif della Banca d’Italia, nel rispetto delle disposizioni contenute nel provvedimento Uif del 4 maggio 2011, sono contenute nell’articolo 7 del decreto che ricorda la necessità di previa adesione al sistema di segnalazione online. L’obbligo di contrasto al terrorismo. Il sospetto di operazioni riconducibili al finanziamento del terrorismo si desume anche dal riscontro del nominativo e dei relativi dati anagrafici nelle liste pubbliche consultabili sul sito della Uif, tuttavia, precisa l’art. 5 del decreto, che non è sufficiente, ai fini della segnalazione, la mera omonimia. L’obbligo di segnalazione di operazione sospetta è distinto da quello di congelamento di fondi e risorse economiche di cui all’art. 4 del dlgs 109/2007. Gli uffici della p.a. dovranno, inoltre, essere consapevoli del fatto che i fondi sottoposti a congelamento non possono costituire oggetto di alcun atto di trasferimento, disposizione o utilizzo. Gli indicatori e i criteri di utilizzo. Gli indicatori di anomalia individuati per la p.a. sono distinti in tre sezioni, e attengono ad aspetti sia soggettivi che oggettivi dell’operazione; alcuni sono di carattere generale, altri sono specifici per settore di attività. Per agevolarne l’impiego, alcuni di essi sono specificati in sub-indici, che costituiscono un’esemplificazione dell’indicatore di riferimento, da valutare congiuntamente allo stesso. Procedure organizzative interne. Il decreto prevede che gli operatori interessati adottino, in base alla propria autonomia organizzativa, procedure interne di valutazione idonee a garantire l’efficacia della rilevazione delle operazioni sospette, la tempestività della segnalazione alla Uif, la massima riservatezza dei soggetti coinvolti nell’effettuazione della segnalazione stessa e l’omogeneità dei comportamenti. Tali procedure dovrebbero tener conto della specificità dell’attività svolta e delle dimensioni organizzative e operative; individuare il soggetto delegato a valutare e trasmettere le segnalazioni alla Uif; specificare le modalità con le quali gli addetti agli uffici comunicano le informazioni rilevanti al delegato; ripartire i ruoli e le responsabilità, garantendo la ricostruibilità delle decisioni assunte e i presidi di riservatezza. Il delegato alla valutazione e segnalazione delle operazioni sospette può coincidere con il responsabile della prevenzione della corruzione. Negli enti locali di ridotte dimensioni (popolazione inferiore a 15 mila abitanti) si potrebbe individuare un delegato unico, mentre strutture organizzative complesse potrebbero nominare più di un delegato. In ogni caso il nominativo del responsabile deve essere comunicato alla Uif e in caso di qualifica attribuita a soggetti diversi è necessario il coordinamento fra il delegato Sos e il responsabile per la prevenzione della corruzione. Giustizia: avvocati specialisti, è scontro di Beatrice Migliorini Italia Oggi, 9 ottobre 2015 Scontro aperto sul regolamento per le specializzazioni legali. Dopo l’annuncio dell’impugnazione dell’Anf di fronte al Tar Lazio stanno scaldando i motori sia tutti i più importanti ordini locali (Roma e Napoli, in primis), sia l’Organismo unitario dell’avvocatura. La decisione di quest’ultimo, però, è rimandata al termine della riunione della giunta che si terrà non prima della fine di ottobre in modo da poter sfruttare questo lasso di tempo per lavorare a una soluzione politica. Ma lo scontro è aperto anche tra le varie associazioni. Mentre, infatti, quelle specialistiche (famiglia, tributaristi, lavoro e camere penali) condividono in linea di massima il contenuto del regolamento, quelle di maggior respiro ritengono che il testo, così come strutturato, non sia ammissibile. A destare perplessità, in particolare, è la frammentazione del comparto del diritto civile "che rischia di creare delle vere e proprie storture all’interno del sistema. Ecco perché", ha spiegato a Italia Oggi il presidente Oua Mirella Casiello, "al di là della decisione di impugnare o meno rimandata alla fine di ottobre dovremo, comunque, provare a portare avanti un dialogo costruttivo con il ministro della giustizia Andrea Orlando per cercare una soluzione". E, a proposito di soluzioni, il ministro Orlando ha convocato il 21 ottobre al dicastero di via Arenula l’Oua e tutte le associazioni maggiormente rappresentative per affrontare altri due temi molto cari all’avvocatura. Nel corso della riunione, infatti, oltre a discutere del testo che regolerà le camere arbitrali, ancora tutto in divenire, sarà affrontata l’annosa questione delle elezioni. "Da questo incontro", ha precisato la numero uno di Oua, "ci aspettiamo delle risposte quanto più chiare possibili. Sono, infatti, più di due mesi che attendiamo che il ministero esprima le sue intenzioni sul regolamento elettorale". Via Arenula prima di Ferragosto, infatti, dopo un incontro con le associazioni maggiormente rappresentative aveva fatto sapere che l’intervento normativo sul regolamento elettorale dei consigli forensi sarebbe stato fatto. E non con uno strumento simile a una sanatoria ma attraverso una soluzione che avrebbe garantito sia il pluralismo sia il rispetto delle specifiche funzioni ordinistiche. Al termine dell’incontro estivo Orlando aveva, quindi, sostanzialmente confermato l’intenzione di volere rimettere mano a un regolamento che ha presentato delle indiscusse criticità culminate, poi, con la bocciatura da parte del Tar Lazio a causa della contrarietà delle disposizioni sulle preferenze alla legge 247/2012. Le prime soluzioni erano attese per settembre in modo da poter dare al ministero il modo studiare anche la questione del regime transitorio in relazione ai Consigli degli ordini già eletti sulla base delle norme regolamentari, annullate dal Tar, e a quelli in regime di prorogatio. Con l’arrivo di ottobre, però, niente è stato fatto sapere ai diretti interessati che, a questo punto, ripongono nell’incontro del 21 le loro speranze. Violenza privata usare You Tube come arma di ricatto di Enrico Bronzo Il Sole 24 Ore, 9 ottobre 2015 Corte di cassazione - Sentenza 40356 dell’8 ottobre 2015. Mano pesante della Corte di cassazione nei confronti di chi usa You Tube come arma di ricatto con la minaccia di pubblicare video sexy. La Suprema corte, con la sentenza numero 40356 depositata ieri, ha ricordato che "nel reato di illecito trattamento di dati personali, il nocumento per la persona offesa, che nella fattispecie si configurava come circostanza aggravante, rende la figura criminosa inquadrabile nella categoria dei reati di danno e non più di mero pericolo". La vicenda sulla quale è stata chiamata a pronunciarsi la Terza sezione penale riguarda il caso di un trentenne calabrese nei confronti del quale è stata convalidata la condanna per i reati di trattamento illecito di dati personali, e violenza privata continuata, ai danni di una ragazza che era stata "costretta ad avere contatti informatici con lui sotto continue minacce di pubblicazione in rete di un video che la ritraeva in pose oscene". L’imputato, in caso di persistente blocco del contatto o di mancata risposta, prospettava alla ragazza gravi danni all’immagine derivanti dalla pubblicazione del video sostenendo che dopo la pubblicazione del video "ne sparleranno tutti e ti macchierà per sempre". Pubblicazione che poi avvenne su You Tube "con conseguente lesione del diritto alla riservatezza dell’immagine". Piazza Cavour ha osservato che legittimamente la Corte d’appello di Reggio Calabria "ha desunto l’esistenza del nocumento consistente nella lesione del diritto alla riservatezza dell’immagine". Da qui il rigetto del ricorso del giovane. Esclusa la tenuità del fatto nell’omesso versamento dei contributi di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 9 ottobre 2015 Corte di cassazione - Sezione III - Sentenza 8 ottobre 2015 n. 40350. Niente tenuità del fatto per l’omesso versamento dei contributi. La Cassazione, con la sentenza 40350, torna sull’applicabilità della nuova norma (Dlgs 28/2014) che fa scattare la non punibilità quando l’offesa è poco rilevante. Nel caso esaminato l’applicazione del beneficio era richiesta per il mancato versamento di 5.198 euro: per chi non aveva pagato la somma non era elevata e l’evasione poteva ricadere nel raggio d’azione dell’articolo 131-bis, inserito nel Codice penale con il Dlgs. Ma la Cassazione non la pensa così. Gli importi, finiti nel mirino dei giudici, non "risultano quantitativamente così esigui da essere ritenuti di particolare tenuità". Ma oltre agli zeri nella cifra non versata conta la sua destinazione. La Suprema corte sottolinea che le ritenute previdenziali costituiscono una componente importante della retribuzione trattenuta al lavoratore. Denaro che va accantonato per una finalità essenziale. La "distrazione" di tali importi da parte del datore di lavoro crea un danno sulle singole posizioni che non può essere qualificato come particolarmente tenue, nel caso esaminato sottolinea la Cassazione, si tratta di 5 mesi di contributi. Un motivo valido per negare la particolare tenuità, al quale si aggiunge anche l’ostacolo di due precedenti specifici, uno anteriore e uno successivo ai fatti contestati, che fa venire meno il requisito della non abitualità della condotta illecita posto dall’articolo 131-bis. Cade dunque nel vuoto la richiesta di applicazione della tenuità, usata dal ricorrente, come seconda chance. In prima battuta l’imputato puntava, infatti, a far riconoscere ai giudici l’immediato valore della depenalizzazione prevista dalla legge 67/2014 anche in assenza dei decreti di attuazione. Il ricorrente chiedeva in subordine anche il rinvio della pronuncia in attesa, della decisione della Consulta sulla questione di legittimità sollevata dal Tribunale di Bari, in merito alla mancata previsione nel codice penale del principio del favor rei che consenta di far scattare subito la depenalizzazione prevista dalla legge delega dal momento di sua promulgazione e indipendentemente dall’emanazione del decreto legislativo di attuazione. Sul punto però la Cassazione è ferma: nessuna abolizione del reato prima che i decreti lo trasformino in illecito amministrativo. Anche se la Suprema corte si dice consapevole che questi potrebbero non arrivare mai. I giudici, anche prima che la Corte costituzionale si pronunci, escludono un contrasto con la Carta, proprio sulla base di una precedente sentenza (139 del 2014) con la quale il giudice delle leggi ha ribadito che il mancato versamento dei contributi determina un danno per i lavoratori la cui tutela è assicurata dalla Costituzione. Non passa neppure l’ultima speranza della prescrizione. Il reato, a consumazione istantanea, è soggetto al termine lungo, di sette anni e mezzo, ma nel conto rientrano anche i tre mesi di sospensione a partire dal momento dell’accertamento della violazione entro il quale il trasgressore può provvedere al pagamento. E nel caso esaminato la prescrizione non è matura. Per quanto riguarda i decreti attuativi della depenalizzazione, malgrado il pessimismo della Suprema corte, il ministro Orlando ha di recente annunciato che questi sono all’attenzione del ministero dell’Economia e delle Finanze e dunque in dirittura d’arrivo. Per il reato di omessi versamenti occorre valutare caso per caso di Laura Ambrosi Il Sole 24 Ore, 9 ottobre 2015 Corte di cassazione - Sentenza numero 40352 dell’8 ottobre 2015. L’adeguamento strutturale dell’azienda e il pagamento delle retribuzioni arretrate ai dipendenti, in virtù anche di accordi sindacali, possono costituire valide ragioni per non far scattare la punibilità per il reato di omesso versamento Iva. Spetta poi al giudice di merito la valutazione circa la validità del quadro probatorio offerto ai fini della non punibilità. Ad affermarlo è la Corte di cassazione, con la sentenza n. 40352 depositata ieri. Il legale rappresentante di una società era imputato del delitto di omesso versamento Iva, essendo il debito dovuto superiore alle soglie penali previste dall’articolo 10 ter del Dlgs 74/2000. Il contribuente si difendeva evidenziando che l’omesso versamento era stato causato dall’investimento eseguito dall’azienda per degli adeguamenti strutturali nel rispetto delle norme antiinfortunistiche, oltre che per il pagamento delle retribuzioni ai dipendenti. Il Tribunale condividendo tale tesi, lo assolveva. La Corte di appello, invece, riformando la sentenza di primo grado, riteneva rilevante l’omesso accantonamento delle somme necessarie per il versamento all’Erario, a prescindere dalle spese concretamente sostenute. Il contribuente ricorreva per Cassazione. I giudici di legittimità hanno innanzitutto rilevato che in tema di omesso versamento Iva, si è da tempo consolidato il principio secondo cui la crisi di liquidità può escludere la colpevolezza, solo se è dimostrato che il contribuente abbia adottato tutte le misure per provvedere all’assolvimento dell’obbligo tributario. È così tenuto a dimostrare non solo la non imputabilità allo stesso della crisi economica, ma anche che fosse impossibile fronteggiarla adeguatamente, ad esempio reperendo risorse economiche e finanziarie da terzi, o agendo sul proprio patrimonio. Occorre così provare che non è riuscito, nonostante plurimi tentativi, a contrastare l’improvvisa crisi dovuta a cause indipendenti dalla sua volontà. Nella specie i giudici di appello si erano limitati a rilevare la necessità di operare l’accantonamento delle somme ai fini Iva, trascurando le precise motivazioni indicate dal contribuente. Non a caso, infatti, il giudice di primo grado aveva ritenuto assente il reato poiché l’imprenditore, per fronteggiare una grave crisi aziendale durata alcuni anni, aveva dovuto adeguare gli impianti, per poter continuare l’attività, e aveva pagato gli arretrati ai dipendenti in conseguenza degli accordi sindacali sottoscritti. Alla luce di ciò, il giudice di primo grado aveva ravvisato l’impossibilità di adempiere all’obbligo tributario. La Corte d’appello, invece, si era soffermata solo sull’obbligo di accantonare le somme Iva incassate, senza però chiarirne le ragioni. I giudici di legittimità hanno quindi riscontrato una "vistosa carenza" di motivazione delle decisione di secondo grado, tanto da dichiararne la nullità. La pronuncia è importante poiché richiama i giudici di merito alla valutazione caso per caso delle ragioni che hanno causato l’omesso versamento. La Cassazione, infatti, da tempo ha confermato che la non punibilità degli omessi versamenti delle imposte compete al giudice di merito, che deve verificare l’assenza di dolo o l’assoluta impossibilità di far fronte all’obbligazione tributaria. Tali questioni vanno affrontate "caso per caso" non potendosi applicare principi generali (Cassazione 40394/2014). Da evidenziare, infine, la recente interpretazione secondo la quale, nella crisi di impresa, anche l’impegno del patrimonio personale dell’imprenditore con la costituzione di garanzie, deve essere attentamente valutato dal giudice di merito ai fini della sussistenza o meno del dolo del reato di omesso versamento (Cassazione n. 31930/2015). Transfer price senza rilievo penale di Antonio Iorio Il Sole 24 Ore, 9 ottobre 2015 Corte di cassazione - Sentenza numero 40272 del 7 ottobre 2015. Con l’entrata in vigore del nuovo regime penale tributario, dal 22 ottobre, le rettifiche da transfer pricing derivanti dalla ripresa a tassazione di costi sostenuti da imprese italiane per acquisti di beni e servizi resi da società estere, non avranno più rilevanza penale. In virtù, poi, dell’applicazione del favore rei, ribadito due giorni fa dalla Cassazione, la non punibilità scatterà anche per il passato Secondo l’articolo 110 Tuir, i componenti del reddito derivanti da operazioni con società non residenti nel territorio dello Stato, che direttamente o indirettamente fanno parte dello stesso gruppo sono valutati in base al valore normale dei beni e dei servizi. In merito all’esatta determinazione di tale valore normale (ex articolo 9 del Tuir) non sempre le conclusioni dell’amministrazione coincidono con quelle dei contribuenti e, quindi, nel corso di controlli ad imprese che hanno sostenuto costi con società controllanti o partecipate ubicate all’estero, non di rado i verificatori rettificano in diminuzione l’importo. Peraltro la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto corrette queste rettifiche anche nel caso di rapporti infragruppo fra imprese ubicate in territorio nazionale. Al superamento delle soglie di punibilità fissate dall’articolo 4 del Dlgs 74/2000 (delitto di dichiarazione infedele), di norma i verificatori, anche per una questione di cautela, segnalano la circostanza alla competente procura della Repubblica. L’interpretazione delle procure, a questo punto, non sempre è uniforme: secondo alcuni pm è ravvisabile la dichiarazione infedele e quindi necessita il rinvio a giudizio, secondo altri, invece, il fatto non integra il reato ipotizzato. La problematica, in estrema sintesi, riguarda la corretta interpretazione del termine "fittizi" che caratterizza all’interno della condotta illecita, gli elementi passivi dichiarati. Secondo la tesi dell’amministrazione sono tali tutti i costi ripresi a tassazione; per buona parte della dottrina, invece, devono intendersi solo quei costi rappresentanti una situazione fattuale artefatta ed irreale, che non trovano riscontro nella realtà. Il decreto modifica in più punti il reato di dichiarazione infedele e pare risolvere definitivamente la specifica problematica. Viene infatti precisato che la parola "fittizi", ovunque prevista nella norma, debba essere intesa come "inesistenti", con la conseguenza che nessun costo realmente sostenuto ancorché indeducibile potrà "alimentare" l’imposta evasa ai fini penali. Inoltre, nella quantificazione dell’imposta evasa non si deve tener conto, tra l’altro, della non inerenza dei costi e, più in generale, della non deducibilità di elementi passivi reali. Ne consegue che dal 22 ottobre le contestazioni sull’indeducibilità di costi in tema di transfer pricing, non vadano più segnalate all’autorità giudiziaria. Ad analoghe conclusioni si deve giungere per i casi di transfer pricing c.d. interno e per le rettifiche di costi sostenuti con imprese collocate in paradisi fiscali allorché l’esistenza della spesa sia provata a prescindere dalla sussistenza di economicità e/o convenienza. Stante poi l’applicazione del regime del favor rei, confermato anche dalla Cassazione con la sentenza 40272/2015 ancorché riferita all’abuso del diritto, per i procedimenti penali pendenti che riguardano una di queste fattispecie, occorrerà tener conto dell’intervenuta irrilevanza penale delle violazioni contestate. Lettere: il giudice che non legge i giornali e il florilegio di verità giudiziarie di Mario Borghi stranoforte.weebly.com, 9 ottobre 2015 Il fatto di partenza è drammatico: nel 2007 un detenuto venne trovato morto nella sua cella del carcere di Sassari. La vittima poco prima di morire aveva scritto una lettera all’allora Signor Procuratore Capo della Repubblica di Sassari - oggi in pensione, che aveva l’ufficio a circa cento metri in linea d’aria da quella cella e da tutti ritenuto una persona dagli altissimi capisaldi morali, purtroppo però quella missiva, pur essendo partita regolarmente, non arrivò mai a destinazione. Ciò comunque non ha preoccupato nessuno di coloro che hanno scoperto il cadavere, ma figuriamoci, sono cose che capitano, a voglia le lettere che si perdono! Un giornalista scrisse un articoletto su questa vicenda e l’allora Procuratore (quello che NON ricevette la lettera) si sentì davvero toccato e replicò in tono duro per difendere la sua reputazione. Ma va ben dettagli, il tutto venne archiviato come suicidio e tanti saluti. Dopo qualche tempo, una persona, tra la sorpresa - e il disappunto - generale si autoaccusò davanti alla Direzione Distrettuale Antimafia di quella morte, precisando di avere commesso l’omicidio su ordine di un altro detenuto con la complicità di altre persone, tra le quali anche un agente di custodia, che gli avrebbe aperto la porta della cella. Il Tribunale di Cagliari appioppò al reo confesso quattordici anni di reclusione, mentre le persone citate come complici sono state tutte assolte dalla Corte d’Assise di Sassari (ora, perché questi fatti siano stati giudicati in due diverse sedi, distanti tra di esse oltre 200 km, è difficile da comprendere, sebbene sia del tutto lecito, ma va ben). Un piccolo inciso, il Signor Procuratore Capo (quello oramai in pensione che NON ricevette la lettera della vittima), ritualmente interrogato, disse: "Escludo in maniera categorica di averla ricevuta, me ne sarei ricordato". Beh, certo, mica l’avrebbe allegata agli atti o al fascicolo personale del detenuto o messa a disposizione degli inquirenti, no, ma cosa, lui l’avrebbe ricordata. Quindi la vicenda presenta tre belle verità giudiziarie: una che parla di suicidio, una che parla di omicidio confessato (e condannato) e una che sbugiarda il reo confesso, visto che i presunti complici sono stati tutti assolti. Che bellezza, nevvero? Che efficacia sta giustizia! Sembra la trama di un’opera Kafka-pirandelliana. Prima di continuare, io, misero rappresentante del popolo bue e ignorante, mi chiedo quali cavolo di accertamenti siano stati fatti per decidere che quel poveretto si era suicidato, visto che da un’altra parte è emerso che invece è stato assassinato. E non ci troviamo in un salotto di gente annoiata o in una piazza, ma in un carcere, ossia in un posto supersorvegliato da professionisti dove - se non ho capito male - si dovrebbe cercare di rieducare i condannati. Ma non è finita. Poi arriva l’ex presidente del Tribunale di Sassari, ora in pensione, a far chiarezza. Intervistato, dichiara, con estrema convinzione, che le tre decisioni non sono assolutamente in disaccordo, ma che bisogna solo aspettare i tre gradi di giudizio. Ecco, bene, non c’è disaccordo. Tenendo presente che due di queste tre verità sono orami giunte al capolinea (ossia quella del suicidio e quella dei 14 anni al reo confesso), mi chiedo: se il reo confesso è stato condannato e i suoi complici, compresa la guardia che gli avrebbe aperto la porta della cella, sono stati assolti, come ha fatto l’assassino (oramai quel reo confesso è l’assassino a tutti gli effetti) a entrare nella cella della povera vittima? È passato attraverso i muri? Come ha fatto ad arrivarci? Ha volato invisibile tra le grate della rotonda di San Sebastiano? Ma, ancora, se il giudice in pensione dà ragione ai giudici di Cagliari (la cui decisione è oramai definitiva) cosa ne pensa dei suoi colleghi di Sassari che invece certificarono un suicidio? Nulla, su quello non si esprime, no perché sarebbe bello sapere quali accertamenti sono stati fatti per decidere che si trattava di un suicidio. Però in pratica secondo lui hanno tutti ragione. Che roba lineare, nevvero? Una preziosa analisi quella di questo magistrato in pensione, che in una sentenza riuscì a dimostrare l’esistenza di un’autovettura mai esistita (la Hyundai Pony) e che, nonostante un testimone avesse escluso con decisione la presenza di una ben precisa auto sul luogo di un delitto, lui invece saggiamente scrisse che invece l’auto c’era e che il testimone si era sbagliato. Una preziosa analisi da parte di un signor Giudice - che tutti riconoscono aver guidato un Tribunale per anni con dedizione, serietà, preparazione e scrupolo - che, quando un avvocato gli fece presente il clamore mediatico di una vicenda che lui stava giudicando, disse lapidario - dopo che qualcuno diede a quell’avvocato che svolgeva onestamente il proprio lavoro del "petulante", che i giudici non leggono il giornale. Cosa voleva dire? Boh, non chiedetelo a me che sono un ignurant. Che dire, la verità giudiziaria è peggio della teoria della relatività generale, la capiscono solo in pochi, però ci escono dei bei feuilleton e, se non fosse che coinvolgono destini e reputazioni, ci sarebbe un bel divertimento a leggerli. Almeno per capire, noi poveri cialtroni incompetenti, cosa significhi "verità giudiziaria" e ad avere fiducia nella Giustizia. Abruzzo: il Tar riammette Rita Bernardini tra i candidati a Garante dei detenuti Adnkronos, 9 ottobre 2015 Il Tribunale amministrativo regionale ha riammesso Rita Bernardini tra i candidati a Garante dei detenuti abruzzesi ritenendo la sua esclusione illegittima. "La competenza della decisione spettava ai capigruppo del Consiglio regionale e non agli uffici amministrativi, che avevano scartato la Bernardini per motivi infondati prima ancora che potesse essere discussa dalla Regione Abruzzo - si legge in una nota di Amnistia, Giustizia e libertà Abruzzi - ritenuta la fondatezza del ricorso presentato dagli avvocati Paolo Mazzotta, Giuseppe Rossodivita e Vincenzo Di Nanna, il tribunale, con sentenza semplificata, ha quindi ritenuto nullo il motivo di esclusione". A questo punto l’Assemblea regionale abruzzese potrà affrontare fin dalle prossime riunioni la scelta del Garante fra una rosa di una quindicina di candidati. La Segretaria dei Radicali era stata esclusa dagli Uffici amministrativi del Consiglio regionale perché la sua candidature non era stata ritenuta valida agli effetti della Legge Severino, a causa delle condanne riportate dalla Bernardini in azione di disobbedienza civile. L’Unione delle Camere penali esprime la "massima soddisfazione per la decisione del Tar che ha dichiarato l’illegittimità dell’esclusione di Rita Bernardini quale Garante dei detenuti in Abruzzo. Si trattava di una decisione oltre che totalmente errata in diritto, profondamente ingiusta nel merito". "Lo ripetiamo energicamente e con convinzione: nessuno potrebbe occuparsi con maggiore competenza, umanità e dedizione, dei diritti e delle garanzie di chi si trova in carcere. Sarebbe risultato inconcepibile, per la società, rinunciare a un simile contributo di passione e qualità. Siamo lieti dunque - concludono - di avere fatto sentire la nostra vicinanza a Rita Bernardini". "Ho preso conoscenza della sentenza emessa ieri, 7 ottobre, con la quale il Tar abruzzese ha accolto il ricorso della signora Rita Bernardini riammettendo la sua domanda nel novero di tutti gli aspiranti alla nomina di Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale". A dirlo è il Presidente del Consiglio regionale, Giuseppe Di Pangrazio, che aggiunge: "Il Giudice Amministrativo ha disposto che la valutazione delle candidature ai fini della nomina resti di competenza dei Capigruppo consiliari. Ho già informato tempestivamente la Conferenza, affinché sia subito trattata la questione per procedere alla nomina del Garante". Umbria: Garante dei detenuti, scaduto il mandato del Prof. Carlo Fiorio radicali.it, 9 ottobre 2015 Dopo ben tre leggi regionali nel 2014 la Regione dell’Umbria si è dotata di un Garante regionale delle persone detenute, il Professor Carlo Fiorio, docente presso il dipartimento di giurisprudenza dell’Università degli studi di Perugia che ringraziamo per l’impegno profuso nello svolgimento del suo incarico. A seguito di una delle bizzarrie contenute nell’ultima legge approvata nel 2013, la validità della nomina è stata fatta coincidere con la scadenza naturale dell’Assemblea legislativa. La conseguenza è stata quindi che dopo un anno di mandato e 8 anni dall’approvazione della prima legge, (legge regionale "13/2006"). la Regione dell’Umbria non ha più un garante in grado di monitorare la situazione delle quatto carceri presenti nella regione e fornire adeguati strumenti di coordinamento per il miglioramento della qualità della vita nelle carceri umbre. Quello del Garante è un organismo che esiste in tantissimi Paesi democratici e richiesto dalle Nazioni Unite. Infatti è un organo indipendente di controllo e di ispezione sui luoghi di detenzione così come previsto da protocolli attuativi del 2002 della Convenzione Onu contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti sottoscritto ma non ratificato dall’Italia. In Italia è stato da poco nominato un garante nazionale, ci sono 6 garanti regionali più una decina comunali e provinciali e rappresenta la novità più importante degli ultimi anni in materia penitenziaria. La presenza del garante, contribuendo alla tutela dei diritti, può essere veicolo di una cultura basata sulla legalità, condizione necessaria alla sicurezza, in quanto consente di limitare i danni sulla salute fisica, psicologica e sociale, che la violazione dei diritti e la detenzione stessa producono sulla persona detenuta. Danni che si manifesteranno poi con aumento della distruttività e della recidiva. Chiediamo quindi alla Presidente dell’Assemblea Regionale di avviare immediatamente le procedura di avviso pubblico per la selezione di candidature ai fini della designazione della figura del "Garante delle persone sottoposte a misure restrittive o limitative della libertà personale" e di darne notizia tramite il Bollettino ufficiale della Regione Umbria. Tale procedura - che accelererebbe i tempi di approvazione e dà garanzia di trasparenza - è stata già attuata il 12 novembre 2012 dall’Ufficio di Presidenza e costituisce un precedente importante a cui richiamarsi. Matera: detenuto prova a impiccarsi in cella, salvato dagli agenti di Polizia penitenziaria stadio24.com, 9 ottobre 2015 Nel carcere di Matera vi sono 71 detenuti e 81 agenti di polizia penitenziaria, "organico sufficiente a gestire l’attualità detentiva". Sabato sera, un detenuto del carcere di San Gimignano classificato ad Alta Sicurezza ha aggredito un poliziotto penitenziario mentre rientrava in cella dopo essere stato nella sala docce. Donato Capece, segretario generale del Sappe ha preso a pretesto l’increscioso episodio sangimignanese per affrontare temi generali: "In un anno la popolazione detenuta in Italia è calata di poche migliaia di unità: il 30 settembre scorso erano presenti nelle celle 52.294 detenuti, che erano l’anno prima 54.195". Il carcere di Matera è "completamente da riorganizzare", anche perché "un penitenziario non può stare contemporaneamente senza direttore e comandante della polizia penitenziaria". Pasquale Salemme, segretario regionale toscano del Sappe, il primo e più rappresentativo dei Baschi Azzurri, ha fatto sapere che "il detenuto che ha tentato il suicidio è uno straniero, di nazionalità marocchina, con posizione giuridica di giudicabile. Per fortuna delle Istituzioni, gli uomini della polizia penitenziaria svolgono quotidianamente il servizio in carcere, come a Lucca, con professionalità, zelo, abnegazione e soprattutto umanità, pur in un contesto assai complicato per il ripetersi di eventi critici", conclude Capece nella nota. Brescia: la direttrice di Canton Mombello "celle aperte? una richiesta dell’Europa" di Italia Brontesi Corriere della Sera, 9 ottobre 2015 Quella descritta dal Sinappe, il Sindacato autonomo della polizia penitenziaria "non è la vera fotografia della realtà del carcere" spiega il direttore Francesca Gioieni, da 5 anni alla guida dell’istituto penitenziario bresciano. "Certo - aggiunge - i problemi non mancano, ma i passi avanti sono stati numerosi. Il sindacato si lamenta che applichiamo un regime (con celle aperte durante il giorno, ndr) che in realtà è dettato dalle linee del ministero ed è l’impegno che l’Italia si è presa con la Comunità europea". Insomma, "non è una questione di modalità, ma di lavoro". La critica del Sinappe per il direttore "è legittima, ma non è suffragata da fatti oggettivi". La dottoressa Gioieni aggiunge: "Per dare una svolta e un’impronta nuova bisogna lavorare molto". In Italia i direttori di carcere sono 300, tutti con grossi carichi di lavoro. "Ci sono tante responsabilità, il lavoro si fa collaborando con tante istituzioni, gestire un carcere significa anche affrontare questioni burocratiche. Era solo questo che volevo dire". Si riferisce a un’accusa che le ha rivolto il sindacato: dopo che s’era lamentata di perdere troppo tempo a parlare con le organizzazioni sindacali e con la polizia penitenziaria, il Sinappe le ha chiesto di smentire, ma "non c’è niente da smentire - dice il direttore - ho solo detto che come in tanti altri settori della pubblica amministrazione ci sono cose che andrebbero semplificate". Gioieni esclude che il clima dentro il carcere sia molto acceso: "Canton Mombello non è una polveriera, certo le difficoltà esistono e ci sono normali battibecchi. I detenuti lavorano con il personale, ci sono molti stranieri e le problematiche sono difficili, ma il personale è all’altezza per affrontarle". I rapporti col Sinappe? "Mi auguro che il dialogo riprenda, ci sono problemi da affrontare, la carenza di risorse, gli educatori che mancano". Napoli: a Poggioreale un progetto tra studenti architettura e detenuti per arredo corridoi Agenparl, 9 ottobre 2015 Oggi 9 ottobre alle ore 11,30 si svolgerà presso la Casa Circondariale Poggioreale, un workshop organizzato dai Professori Marella Santangelo e Paolo Giardiello, del Dipartimento di architettura Università Federico II e dal direttore di Poggioreale, Antonio Fullone. L’iniziativa consiste nell’allestimento dei corridoi esterni alle celle. Un progetto messo in opera dagli studenti del Dipartimento di Architettura e dai detenuti. Alla presentazione, parteciperanno: Tommaso Contestabile (Provveditore regionale Amministrazione penitenziaria Campania), Antonio Fullone (Direttore Poggioreale), Adriana Tocco (Garante dei detenuti Regione Campania), Carmine Antonio Esposito (Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Napoli), Francesco Cascini (Vice Capo del Gabinetto del Ministero della Giustizia), Francesco Rispoli(Dipartimento Architettura Federico II). Dal Garante dei detenuti Adriana Tocco Da un convegno sull’architettura penitenziaria, organizzato tre anni fa, dal Garante dei detenuti della regione Campania, Adriana Tocco, è nata una proficua collaborazione tra il Dipartimento di Architettura dell’Università degli studi Federico II di Napoli e l’Amministrazione penitenziaria. In particolare con il carcere di Poggioreale si è creata una intensa collaborazione sfociata in un Workshop organizzato dai prof. Marella Santangelo, Paolo Giardiello, del dipartimento di Architettura e dal direttore del carcere Antoni Fullone. Nel workshop 15 detenuti hanno lavorato con gli studenti del dipartimento per organizzare gli spazi dei corridoi in maniera da renderli fruibili nelle ore da trascorrere fuori dalle celle. L’iniziativa, che si conclude con un convegno, presenta molti elementi di positività nel senso che ha visto una progettazione partecipata e una responsabilizzazione dei detenuti, in controtendenza con l’atmosfera deresponsabilizzante del carcere. Per gli studenti ha costituito una presa di coscienza della realtà penitenziaria e sulla necessità dell’umanizzazione della pena, finalità perseguita dal Ministro Orlando attraverso la convocazione degli Stati generali della detenzione. Salerno: il "nonno" dei detenuti rischia di tornare in cella di Massimiliano Lanzotto La Città di Salerno, 9 ottobre 2015 Rischia di tornare in cella Pasquale Rocco, 88 anni, il "nonno" dei detenuti italiani. Il suo caso scoppiò ad agosto quando, per un definitivo pena, "Don Pasquale", come lo chiamano a Faiano, finì dietro le sbarre a Fuorni per scontare una condanna con fine pena il 5 dicembre prossimo. Ieri l’udienza al tribunale di sorveglianza. Il pg, nella sua requisitoria, ha chiesto la revoca dei domiciliari. I guai giudiziari di Rocco sono legati a una vecchia vicenda di resistenza a pubblico ufficiale. L’anziano ebbe un violento alterco con la polizia locale di Salerno che gli costò la condanna di otto mesi. Sentenza passata in giudicato, quindi esecutiva. In estate i carabinieri lo prelevarono per portarlo in carcere dove doveva scontare una cinquantina di giorni. Il nonno dei detenuti ha avuto un passato burrascoso: in gioventù era già finito in carcere più volte. Sul suo casellario alcune condanne per furto, una rapina e la resistenza a pubblico ufficiale. Don Pasquale, difeso dall’avvocato Rosario Fiore, ora fa il pensionato. Separato dalla moglie qualche anno fa, padre di tre figli, vive a Faiano. Sul suo conto pesa ora questa condanna definitiva in virtù della quale, dopo la concessione dei domiciliari, potrebbe riportarlo in carcere. Massa: nella Casa di Reclusione un incontro con l’associazione Donatori Midollo Osseo Gazzetta di Viareggio, 9 ottobre 2015 La Casa di Reclusione di Massa e l’Associazione Donatori Midollo Osseo di Massa Carrara hanno organizzato un incontro tra la popolazione carceraria, i dipendenti e l’Associazione Donatori Midollo Osseo di Massa Carrara. La direttrice Martone ha effettuato i ringraziamenti, e Enzo Bogazzi, presidente Admo Ms ha sottolineato con soddisfazione che è la prima volta in assoluto e in Italia che si effettua una campagna di sensibilizzazione all’interno di una casa di Reclusione. È intervenuta quindi Anna Molino dirigente del Tribunale di Massa Carrara, che ha ringraziato anche alcuni detenuti che effettuano il volontariato nel progetto di riorganizzazione dell’Archivio del Tribunale e Paolo Antonelli, biologo dirigente Asl n. 1 di Massa Carrara, e Franco Alberti, responsabile del presidio sanitario della Casa di Reclusione, che hanno evidenziato in modo particolareggiato gli aspetti sanitari. Erano presenti i volontari Admo, Massimiliano Bordigoni, Mario Efrussi e Domenico Bongiorno. L’incontro ha rappresentato l’occasione per condividere una serie di informazioni sull’importanza della donazione del midollo osseo e del sangue ed è stato soprattutto un momento di riflessione sul vero valore della solidarietà e del volontariato, che assume una rilevanza aggiuntiva all’interno del contesto carcerario, se consideriamo che i detenuti, per la loro condizione di disagio sociale sono, a loro volta, destinatari di atti di solidarietà da parte del volontariato sociale e che, in questa occasione possono assumere un ruolo attivo, dando un fattivo contributo alla diffusione del messaggio dell’Admo, delle finalità solidaristiche dell’Associazione e del pieno reinserimento di chi sta pagando, o ha già pagato, il proprio debito con la giustizia. Questo aspetto ben si coniuga con il principio di rieducazione della pena, che non può e non deve prescindere da percorsi di restituzione sociale dei detenuti anche attraverso forme di attività sociali e di utilità generale. Durante l’incontro sono emerse spontanee sensibilità da parte dei detenuti alla materia, che si sono concretizzate in disponibilità alla donazione, principalmente del sangue, con richiesta formale di interventi atti a rendere concreta e possibile tale pratica. L’incontro si è concluso con l’impegno di tutte le componenti del carcere, dell’Asl e dell’Admo, di approfondire la tematica e di individuare un percorso condiviso di avvio della sperimentazione della donazione, principalmente del sangue, in carcere. Dividere i profughi dai migranti economici? Una distinzione criminale di Alessandro Dal Lago Il Manifesto, 9 ottobre 2015 Limiti e strumentalità della proposta Ue. Perché è irrazionale dividere i profughi dai migranti economici. In un vecchio film di guerra, alcuni soldati in trincea discutono di pace. Il modo migliore per ottenerla - dice uno - è, in caso di controversie tra gli stati, obbligare re e capi di governo a salire con i guantoni sul ring e suonarsele di santa ragione finché uno non vince. La battuta mi è tornata in mente quando ho letto del piano segreto, elaborato dai ministri degli interni dell’Unione europea, per il rimpatrio di 400.000 migranti "economici". Giusto per dare un’idea a questi pensosi statisti di che cosa significhi migrare oggi si potrebbe, che so, portarli (a cominciare dall’ineffabile onorevole Alfano) in qualche paese del centro Africa e poi, con un po’ di dollari o Euro raccolti tra altri ministri e sotto-segretari, trasportarli in autobus in Libia, imbarcarli su un gommone, farli rischiare il naufragio e arrivare fradici e affamati a Lampedusa, rinchiuderli nel Cie e, dopo una detenzione di durata indefinita, riportarli al punto di partenza. E chiedere loro: la pensate come prima? Avete ancora voglia di distinguere tra profughi e migranti economici? Non sarebbe il caso di rivedere questa distinzione ipocrita, utile solo per manipolare opinioni pubbliche paranoiche e destrorse? In un sogno o in un film, in caso di risposta sbagliata si potrebbe ricominciare con loro daccapo. Quando Angela Merkel e il vice-cancelliere tedesco Gabriel hanno dichiarato, nello scorso agosto, di aprire le porte della Germania a 5 milioni di profughi, hanno realizzato un buon numero di obiettivi: rispondere a un’opinione pubblica tedesca complessivamente non insensibile agli Asylanten presenti e futuri, nonostante la rumorosa presenza del partito xenofobo Pegida e dei neo-nazisti, isolare le frange di estrema destra e, di fatto, assumere la guida politico-morale di un’Europa fragile, litigiosa e incerta sul da farsi in campo internazionale. Ovviamente, considerazioni demografiche e finanziarie, in un paese in cui non nascono più bambini, devono avere avuto il loro peso, ma sta di fatto che l’odiosa Germania della crisi greca è diventata la nobile Germania d’agosto, non offuscata nemmeno dalla crisi della Volkswagen. Ma tutto questo ha come contrappeso la distinzione tra profughi (vittime di guerra ecc.) e migranti economici, i quali affronterebbero deserti e mari, per non parlare di prigioni ungheresi e manganelli di mezza Europa, così, per sport o sete d’avventura, e non per sopravvivere o vivere meglio. Una distinzione insensata, che non riesce a mascherare l’assoluta mancanza di una strategia europea nei rapporti con gli altri mondi e con le persone che per qualsiasi ragione ne provengono. Una distinzione che serve a tacitare le strumentalizzazioni lepeniste, leghiste e di Grillo (che sul suo blog ha pubblicato tempo fa un encomio di Orbán). In termini puramente quantitativi, 3 milioni di migranti "economici" in dieci anni non cambierebbero in nulla l’assetto demografico di una Ue che conta oggi 500 milioni di abitanti distribuiti su 4 milioni di chilometri quadrati. Ma bisognerebbe cambiare metodo, emarginare sul serio gli Orban, i Salvini e Le Pen, impedire le stragi in mare, che continuano imperterrite alla faccia di Frontex, immaginare un’integrazione sociale decente per gli stranieri e disporre di una vera politica internazionale comune - invece che manganellare i migranti a Ventimiglia e Calais, moltiplicare i Cie e litigare in modo miserabile alle frontiere. Ed ecco perché i ministri degli Interni, riuniti da qualche parte a stilare piani segreti di espulsione lasciano filtrare cifre prive di qualsiasi senso (400.000, 300.000, nessuno, tutti?). Per coprire la loro mancanza di idee, che non siano lo sfruttamento della forza lavoro straniera e le preoccupazioni per le prossime elezioni. Nel frattempo, la ministra Pinotti e Matteo Renzi, che su queste materie non hanno mai nulla da dire, fanno scaldare i motori dei Tornado. L’Europa in guerra contro i migranti. L’appello dell’Arci Il Manifesto, 9 ottobre 2015 Dopo il lancio della fase due di lotta agli scafisti in mare, in discussione oggi al vertice dei ministri dell’Interno Ue il piano per le espulsioni di massa. La finta solidarietà europea che gli Stati Membri hanno voluto ostentare con il piano di redistribuzione di 120.000 rifugiati mostra oggi il suo vero volto. Per un rifugiato accolto, 4 devono essere espulsi. Se ci sono voluti mesi perché i Ministri degli Interni Europei si accordassero sulla redistribuzioni di 120.000 persone, ora si raggiunge l’unanimità in un batter d’occhio sull’espulsione di massa di 400.000 migranti, come se la lotta ai migranti fosse un principio fondante dell’identità europea. La stessa unanimità che ha permesso ieri alla Commissione Europea di varare la fase due del piano militare di lotta agli scafisti in mare Eunav For Med, rinominato Sophia. La divisione tra quelli che l’UE considera buoni migranti da accogliere e quelli che considera da espellere in modo sommario comincia negli hotspot, centri d’identificazione da collocare in Italia e Grecia, quale condizione preliminare alla redistribuzione. Se si guardano le cifre degli arrivi del 2015, ci si rende conto che saranno una minoranza quelli che saranno redistribuiti - sono meno di 1/4 quelli che potenzialmente avrebbero diritto alla ridistribuzione - tutti gli altri sono a rischio espulsione. In Sicilia, abbiamo visto subito come l’applicazione delle misure di redistribuzione e l’apertura a Lampedusa di un progetto pilota di hotspot abbia significato un rischio di espulsione diretta. Numerosi i casi segnalatici di persone che, cacciati dai centri a poche ore dallo sbarco, con ancora addosso i vestiti della traversata, si ritrovavano con un ordine di espulsione in mano di cui non sapevano neanche il significato perché nessuno glielo aveva tradotto. Neanche gli Eritrei, che in teoria rientrerebbero nelle quote di coloro da accogliere in Europa, sono esenti dal rischio espulsioni. Il ministero non ha ancora spiegato come gestirà tutti quei migranti che non si faranno identificare nelle 48 ore previste nei cosiddetti hot spot first line, un trattenimento superiore necessiterebbe infatti della convalida di un giudice. Le prospettive sono tutte inquietanti: foto segnalamento coatto e violento; trasformazione degli hotspot first line in CIE; espulsioni e rimpatri forzati di massa. L’Europa é pronta a tutto perché l’annuncio di espulsione di massa non resti solo una minaccia. Come già successo in passato, l’UE utilizzala il ricatto per costringere paesi di origine e transito alla firma di accordi di riammissione ed espulsione, minacciandoli di sottrare o diminuire gli aiuti allo sviluppo, annullare accordi commerciali, o promette loro l’aumento dei visti per i propri connazionali. Non mancheranno certo regali sottobanco, come le numerose gip e motovedette che negli ultimi anni l’Italia ha regalato a numerosi paesi africani. In nome dell’espulsione di massa stiamo assistendo a trattative con vere e proprie dittature, come nel caso di Gambia ed Eritrea. La storia sembra ripetersi senza alcuna memoria delle sue tragiche conseguenze. Sebbene siano state sotto gli occhi di tutti le conseguenze dell’accordo firmato tra Italia e Libia nel 2008 che ha provocato detenzioni e il respingimento di migliaia di persone, o ancora quello tra Italia ed Egitto che ha permesso in questi anni di respingere illegalmente cittadini egiziani negli stessi barconi con cui arrivavano, ora l’Europa e l’Italia sono pronte a ricominciare a trattare, spendendo cifre sostanziose sia per la macchina delle espulsioni che per convincere gli Stati a firmare gli accordi, chiudendo gli occhi sui gravissimi rischi di violazioni delle convenzioni Internazionali che gli stessi accordi comportano. L’ARCI, che nel suo progetto monitoraggio delle politiche italiane di esternalizzazioni, denunciava già da tempo la possibile deriva della firma degli accordi di riammissione e dell’uso di hotspot, fa appello ai Ministri degli Interni riuniti oggi a Bruxelles, affinché non venga messa in atto un piano di espulsioni di massa, e per evitare la violazione sistematica dei diritti fondamentali e delle Convenzioni Internazionali di cui sono firmatari. L’oro svizzero è maledetto, nelle miniere lavorano 50mila bambini di Franco Zantonelli La Repubblica, 9 ottobre 2015 Quell’oro è maledetto perché nei giacimenti in cui viene estratto lavorano dei minatori-bambini. Stiamo parlando dell’oro proveniente dal Perù, uno dei Paesi più ricchi di metallo giallo del pianeta, che viene lavorato, in buona parte, in Svizzera. Dove, è bene ricordarlo, si commercializza più della metà di tutto l’oro del mondo. Solo dalle miniere peruviane, lo scorso anno, gli operatori svizzeri del settore ne hanno acquistato per 2,5 miliardi di euro. Contro uno dei principali raffinatori elvetici, la Metalor di Neuchâtel, si è scagliata l’organizzazione non governativa elvetica, Associazione per i Popoli Minacciati: "Metalor - denuncia la Ong - è sospettata di trafficare dell’oro illegale". In sostanza, dopo aver ripercorso tutto il cammino del metallo giallo dal Paese andino all’azienda di Neuchâtel, emergerebbe che non tutto é stato fatto secondo le regole. Metalor che, in passato, insieme ad un’altra azienda del ramo, la Pamp di Castel San Pietro, nel Canton Ticino, venne scoperta ad acquistare dell’oro illegale, non avrebbe, insomma, perso il vizio. In realtà, all’origine dell’ultimo caso venuto alla luce, e denunciato dall’Ong, Associazione per i Popoli Minacciati, ci sarebbero tre fornitori dell’azienda svizzera, finiti nel mirino della giustizia peruviana, con l’accusa di riciclaggio. Reato che, insieme all’evasione fiscale, sarebbe prassi corrente, nei giacimenti auriferi del Perù, molti dei quali sono controllati dalla criminalità. Ma il reato indubbiamente più odioso è lo sfruttamento di 50 mila minatori-bambini, alcuni dei quali di appena 5 anni, da parte di caporali senza scrupoli. Il dato è di un’agenzia dell’Onu, l’Organizzazione Internazionale del Lavoro. Della fatica di questi piccoli minatori non approfittano, sia pure in forma indiretta, solo le aziende che raffinano l’oro ma, anche, l’industria orologiera e, naturalmente, le banche. "È ora di finirla, un’azienda deve assicurarsi di non violare i diritti fondamentali, ma anche di non essere coinvolta in queste violazioni", ha tuonato, di recente, l’ex-Procuratore e senatore elvetico Dick Marty, noto per la sua inchiesta sulle carceri segrete della Cia, nel periodo successivo all’11 settembre ed il traffico d’organi in Kosovo. Metalor, a dire il vero, ha inserito questo impegno nel proprio statuto. Se l’autorità, tuttavia, non impone un obbligo di verifica del suo assolvimento, chi garantisce che venga davvero rispettato? Si è rotta la globalizzazione di Federico Rampini La Repubblica, 9 ottobre 2015 Vent’anni fa era il modello unico, irreversibile. Ma oggi il commercio non cresce più, tornano le barriere e persino il web muta la sua natura aperta Un cambiamento che trasforma l’intero sistema di sviluppo mondiale. Con le antenne sensibili di chi fa campagna elettorale, Hillary Clinton ha capito che la globalizzazione perde colpi. Suo marito Bill da presidente firmò il "padre" di tutti gli accordi libero scambio, il Nafta che creò un mercato unico tra Usa, Canada e Messico. Oggi Hillary boccia l’analogo trattato che Barack Obama ha concordato coi paesi dell’Asia-Pacifico: "Non va ratificato", dice la candidata aprendo la prima seria frattura con l’attuale presidente. Lo stesso dice Donald Trump, in testa ai sondaggi tra i repubblicani. In campagna elettorale, è vero, il populismo piace e il protezionismo porta voti. Ma stavolta c’è dietro un cambiamento profondo che investe l’intera economia mondiale. La globalizzazione si è inceppata. Lo si capisce mettendo insieme questi tre fenomeni. Primo, il Fondo monetario al vertice di Lima annuncia che il mondo è in una recessione analoga al 2009, se misuriamo tutti i Pil in dollari anziché in monete nazionali (cosa che ha un senso, soprattutto per i paesi emergenti che vivono di esportazioni in dollari). Secondo: lo stesso Fmi rileva che il commercio mondiale non cresce più; ed era proprio l’espansione degli scambi il tratto distintivo della globalizzazione. In passato il commercio estero cresceva più dei Pil nazionali, ora è il contrario. Il terzo segnale viene dalla Rete, uno spazio decisivo visto che ci scambiamo sempre meno merci fisiche e sempre più servizi online, comunicazione e informazioni; l’ultima sentenza della Corte di Giustizia europea che blocca il trasferimento di dati dall’Europa all’America, conferma una tendenza già in atto: il web è sempre meno universale, Internet si sta lentamente trasformando in tanti Intra-Net suddivisi tra aree geografiche. Cominciarono regimi autoritari come Cina, Russia e Iran, ma anche tra Europa e Usa adesso aumentano gli ostacoli. L’involuzione è stata accelerata dalle rivelazioni di Edward Snowden sullo spionaggio americano, certo, ma di fatto sta cambiando la natura aperta della Rete. Dunque, la globalizzazione non è irreversibile. Di questo si è convinto anche il più grande pensatore politico americano del nostro tempo, Francis Fukuyama. Proprio lui che aveva teorizzato "la fine della Storia" dopo la caduta del Muro di Berlino: cioè il trionfo di un modello unico, la liberal-democrazia e l’economia di mercato, un mix brevettato in Occidente. Un quarto di secolo dopo Fukuyama fa un’autocritica clamorosa, ammettendo che "né la Cina né la Russia vogliono diventare come noi". L’omologazione sembrava un trend inarrestabile, invece dei poderosi venti contrari hanno invertito la tendenza, un leader come Xi Jinping teorizza orgogliosamente non solo l’autonomia ma la superiorità del suo modello autoritario. La globalizzazione inverte il senso di marcia perfino sul terreno dove sembrava non avere avversari: l’economia. Quando Bill Clinton firmava il Nafta, il commercio tra le nazioni cresceva più veloce dei rispettivi Pil. Allora l’abbattimento delle barriere, l’apertura delle frontiere, l’intensificarsi degli scambi e degli investimenti internazionali, erano un motore di crescita. L’inizio del nuovo millennio, segnato dall’ingresso della Cina nell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) portò perfino ad accentuare il fenomeno: dal 2003 al 2006 in poi il commercio estero crebbe a una velocità addirittura doppia rispetto ai Pil. La globalizzazione trainava tutto. Adesso, rivela il Fondo monetario, siamo nella situazione inversa: le maggiori economie mondiali hanno una crescita interna superiore agli scambi con gli altri. Il commercio mondiale langue. Porti e navi da container soffrono di sovraccapacità. Le due maggiori economie mondiali, America e Cina, sono di colpo più "introverse". L’America sta quasi smettendo di comprare petrolio dal resto del mondo perché ne ha abbastanza in casa sua. La Cina decurta brutalmente i suoi acquisti di materie prime facendone precipitare le quotazioni e innescando recessioni nelle economie emergenti dal Brasile alla Russia. Si chiude un quarto di secolo di crescita mondiale che aveva visto i Brics (Brasile Russia India Cina Sudafrica) e altre tigri dell’emisfero Sud nel ruolo delle locomotive. Anche i paesi più avanzati ne soffrono le ripercussioni. Negli Usa rallenta la creazione di posti di lavoro (il mese scorso 142.000 contro i 250.000 di media nel 2014). La Germania, potenza esportatrice per eccellenza, può sopravvivere al grande gelo della globalizzazione? La risposta dagli ultimi dati è negativa: l’export tedesco ha iniziato a calare già quest’estate, molto prima dello scandalo Volkswagen. Se la globalizzazione è in ritirata, le conseguenze si risentono in tutte le economie "estroverse", cioè che basavano la propria crescita soprattutto sui mercati stranieri. Qualcosa di strutturale sta cambiando, e la Cina è un osservatorio-chiave per capirlo. Parlare solo di rallentamento della crescita cinese, è una spiegazione riduttiva. Certo la velocità di crescita del Pil nella Repubblica Popolare era stata del 10% annuo nel periodo del boom, mentre quest’anno secondo il Fmi è solo del 6,5%. Ma un altro dato fa riflettere, il consumo di energia elettrica in Cina è quasi fermo, la sua crescita è dell’1 o 2%. Cosa c’è dietro? Non solo la Repubblica Popolare subisce una frenata, ma sta cambiando anche il suo modello di sviluppo. Sta diventando una società del ceto medio, con i consumi tipici di una transizione post-industriale. A Pechino e Shanghai l’automobile ormai ce l’hanno tutti, aumentano invece i consumi di servizi: dall’istruzione alla sanità, dalla finanza al turismo. I servizi consumano meno materie prime, meno importazioni. A queste trasformazioni strutturali si accompagna un mutamento nel clima ideologico. Ai tempi in cui Bill Clinton firmava il Nafta, il pensiero economico era dominato dal "paradigma" neoliberista. Dal mercato unico nordamericano, promise Clinton riecheggiando i suoi economisti Robert Rubin e Larry Summers, sarebbero nati milioni di posti di lavoro. Oggi a quelle favole non crede più neanche il Financial Times, che di fronte al trattato Tpp America-Asia-Pacifico prevede "al massimo" un beneficio di +0,5% nel Pil spalmato su molti anni. Obama, che ha lavorato per anni alla costruzione dei due trattati gemelli (il Tpp con il Pacifico e il Ttip con l’Europa) è a sua volta figlio di un’epoca nuova. È stato osservato infatti che questi accordi di libero scambio sono parziali. Uniscono e dividono. Sono disegnati su misura per essere "contro" qualcuno. Nel caso del Tpp il grande escluso è ovviamente la Cina. Negli anni Novanta e all’inizio di questo millennio, con la creazione del Wto, si perseguiva una globalizzazione universale, aperta a tutti. Adesso sono di moda gli accordi "regionali", che sono spesso conventio ad excludendum, club a cui si accede dietro invito. Obama ne ha spiegato la logica: cominciando da un accordo con paesi simili, come Giappone e Australia, ha inserito nelle clausole del trattato i diritti sindacali e la protezione dell’ambiente. Spera che questo un giorno possa forzare la mano ai cinesi costringendoli a concessioni. Ma Pechino ha già imboccato una strada diversa, si confeziona i suoi trattati commerciali, con chi è disposto a firmarli. Dal "mondo piatto" che teorizzava Thomas Friedman, scivoliamo in un mondo dove infinite barriere invisibili si stanno ricostituendo. Dal diritto internazionale la via per una nuova pace di Ugo De Siervo (Presidente emerito della Corte costituzionale) Avvenire, 9 ottobre 2015 I Paesi aderenti all’Unione europea da settant’anni non conoscono guerre fra loro, malgrado la loro storia precedente avesse registrato per tutta l’epoca moderna e contemporanea continue e gravissime vicende belliche (fino alle due guerre mondiali), tali da mettere perfino più volte a rischio lo stesso destino delle loro popolazioni: probabilmente per merito dei pur faticosi processi di federalizzazione europea e dell’estrema pericolosità a livello mondiale di eventi bellici del genere, guerre internazionali e guerre civili sono apparse in Europa solo al di fuori dei confini dell’Unione (da ultimo si pensi ai paesi dell’ex-Jugoslavia, agli Stati caucasici, al caso ucraino). Invece, da almeno alcuni anni, eventi del genere si sono moltiplicati anche appena al di là dei confini europei: si producono così molteplici gravi conseguenze a causa delle tanto forti interdipendenze fra le diverse regioni del mondo; ma comunque poi esistono ineludibili responsabilità di tutti noi, appartenenti alle aree più privilegiate, verso la sorte di tanti fratelli meno fortunati. Il panorama esistente appare davvero grave e preoccupante. Circa un terzo degli Stati esistenti (oltre sessanta) sono attualmente coinvolti in vere e proprie guerre internazionali o sono impegnati in gravi guerre civili, tanto da non riuscire a controllare parti significative dei loro territori. La crescente diffusione di questi fenomeni e l’estrema gravità dei danni prodotti sulle popolazioni e sulle attività economiche, spesso con la distruzione sistematica di ogni struttura e attività esistente, ben al di là degli apparati militari, produce evidenti effetti anche sul piano della fuga di tantissime persone dai loro paesi e del conseguente imponente incremento dei flussi migratori, che ora tanto preoccupa i paesi europei. Addirittura, dato il non raro coinvolgimento, almeno indiretto, dei massimi Stati esistenti in tante di queste vicende, si è addirittura parlato dell’esistenza di una non dichiarata terza guerra mondiale. Per di più si tratta di vicende belliche che spesso appaiono senza regola alcuna: diffuse gravi crudeltà sui civili e sui combattenti; popolazioni civili sostanzialmente detenute o deportate, se non destinate a veri e propri genocidi; uso improprio di armamenti, di tecniche belliche, di controlli e di condizionamenti delle libertà individuali e collettive. Non solo alcune delle peggiori prassi ereditate dal passato continuano (l’uso di armi di distruzione di massa; le popolazioni civili, spesso concentrate in enormi campi profughi, che divengono ostaggio dei diversi combattenti; il terrore usato come strumento di controllo sociale; l’uso di forme di rappresaglia), ma le continue innovazioni tecnologiche hanno prodotto sempre nuovi e più potenti strumenti bellici, di intromissione e controllo, di condizionamento delle libertà dei soggetti ritenuti avversari. Basti pensare alla recente diffusione dell’uso bellico dei droni, alla detenzione senza regole di alcuni gruppi di avversari, all’utilizzazione bellica di alcune tecnologie informatiche. Non solo le grandi speranze di una grande stagione di pace successive al disfacimento dell’Urss si sono dimostrate vane, ma anzi tante vicende internazionali che si sono succedute negli ultimi decenni paradossalmente hanno contribuito a produrre una pericolosa diffusione di guerre, interne e internazionali, o di nuove e gravi forme di terrorismo, anche con la contemporanea vistosa caduta di non poche regole che l’ordinamento internazionale e alcuni ordinamenti costituzionali avevano faticosamente prodotto per contenere, se non per disciplinare, alcuni degli aspetti più gravi dei confronti bellici e delle attività ad essi collegate. D’altra parte anche in precedenza non mancavano certo alcuni casi di anche prolungata e clamorosa disapplicazione delle normative e delle regole internazionali (basti pensare alle tragiche vicende palestinesi, al sostegno occulto di guerriglie o alle varie deroghe alle norme contro la proliferazione degli armamenti atomici). Ma, almeno in qualche misura, la pur durissima e pericolosa articolazione delle diverse aree di influenza fra "mondo occidentale" e "mondo comunista" riusciva a contenere l’emergere di nuovi protagonisti, impediva il formarsi di vuoti di potere e riduceva fortemente il sorgere di ulteriori contrapposizioni espressive di particolarismi territoriali, etnici o culturali, vecchi o nuovi. Invece la caduta dei precedenti sistemi di alleanze, se ha posto le premesse per la possibile liberazione di tanti popoli, ha lasciato inevitabilmente molti nuovi spazi ai nuovi soggetti forti sul piano finanziario, militare o anche solo ideale (dai grandi paesi in via di sviluppo, alle maggiori potenze petrolifere, ai paesi islamici e ad Israele, alle tante comunità etniche, ad alcuni antichi Stati coloniali). E questo senza neanche pensare alle situazioni sorte in alcune aree territoriali per la forza di alcuni gruppi terroristici e perfino criminali. Ciò mentre le due superpotenze hanno dovuto reinventarsi le loro politiche estere, non di rado però anche assumendo iniziative inadeguate, se non pericolose: e se gli Usa hanno alternato fasi decisamente interventiste di tipo militare a fasi di più prudente (ma pur sempre pesante) esercizio della politica estera tramite il loro tanto forte peso diplomatico, economico e militare, la federazione russa ha cercato di soddisfare le diffuse frustrazioni nazionalistiche dei suoi ristretti gruppi dirigenti tramite evidenti pressioni e interventi su vari scacchieri internazionali, alcune volte perfino in forma militare diretta, ma più spesso ancora in forma indiretta tramite i suoi rilevanti poteri economici e la stessa fornitura di armamenti e sostegni di tipo militare. Ciò mentre l’Onu appare sempre più impotente e troppo spesso bloccata dai diversi poteri di veto delle potenze che dominano i suoi organi. Gli stessi, pur apprezzabili, tentativi di edificare organi giudiziari internazionali per colpire le maggiori responsabilità penali internazionali appaiono ancora troppo marginali. Tutto ciò contribuisce a produrre una larga diffusione di gravi eventi bellici, con pericoli crescenti di coinvolgimenti di nuovi soggetti e istituzioni, date le pesantissime ricadute sulle popolazioni, sull’economia di intere aree e sulle concatenazioni delle alleanze. Ma soprattutto quello che colpisce sono una serie di veri e propri vistosi regressi che si sono registrati nelle pur già tragiche caratteristiche delle guerre contemporanee: anzitutto sempre più sono i popoli gli oggetti principali delle distruzioni belliche, piuttosto che le stesse strutture militari; sembrano non esistere più limiti all’uso di armamenti di ogni tipo; riprende vigore l’uso delle più efferate crudeltà sugli avversari ed i prigionieri; sembra esistere un’assoluta continuità fra le responsabilità di tipo penale ed i comportamenti degli avversari bellici; le determinazioni di usare veri e propri armamenti bellici vengono spesso assunte anche al di fuori di procedure pubbliche e formalizzate. Parallelamente mutano perfino le caratteristiche delle forze armate, che oscillano fra una sempre più spinta professionalizzazione (anche con l’eliminazione delle leve obbligatorie) e la loro integrazione o sostituzione da parte di mercenari o di insorti locali. Piuttosto che puntare alla pericolosa utilizzazione di alleanze militari, nuove o vecchie (come quelle perfino con alcuni antichi Stati coloniali), occorre promuovere anzitutto un protagonismo molto maggiore degli organismi sovranazionali, a cominciare dall’Onu e dalle diverse organizzazioni ‘regionali’, a cominciare dall’Unione europea. Occorrono, infatti, politiche estere assai più attive nella progressiva riduzione delle guerre esistenti e soprattutto nella prevenzione delle cause che le producono o le alimentano: proprio la recente esperienza europea potrebbe insegnare molto. Soprattutto occorre riaffermare energicamente che il fondamento ultimo degli ordinamenti democratici e della necessaria convivenza fra i diversi Stati sta nel pieno rispetto e nell’effettiva valorizzazione dei valori delle persone e dei gruppi sociali a cui esse aderiscono liberamente; è alla concreta realizzazione di questa finalità che va commisurato ogni altro elemento della vita associata, come lo sviluppo economico e sociale, il funzionamento dell’ordinamento democratico, la stessa garanzia dell’esistenza di efficaci strumenti di sicurezza. Iraq: Roma congela i raid dei Tornado "meglio concentrarsi sulla missione libica" di Vincenzo Nigro La Repubblica, 9 ottobre 2015 Pressioni dell’Aeronautica per un ruolo alla pari con gli altri membri della coalizione ma il governo non vuole aprire uno scontro in Parlamento. In Iraq non si bombarda, piuttosto prepariamoci alla Libia. Il governo italiano ha deciso di "congelare" la decisione di permettere ai Tornado dell’Aeronautica militare di bombardare le postazioni dell’Is in Iraq come fanno gli altri aerei della coalizione guidata dagli Usa. "Per il momento i nostri quattro cacciabombardieri continuano la loro missione", dice un’alta fonte della Difesa, "che è quella di offrire informazioni alla coalizione con i Pod di fabbricazione israeliana che sono agganciati sotto le ali dei velivoli e raccolgono foto e video". La decisione è stata presa nelle ultime ore dal premier Matteo Renzi e dalla ministra della Difesa Pinotti soprattutto dopo aver incrociato due tipi di valutazioni. Politiche, dopo le prime reazioni dei gruppi parlamentari di Camera e Senato. E tecnico-militari, dopo frenetiche consultazioni dell’ultimo minuto con militari in servizio e della riserva sulla reale utilità del passaggio dei Tornado alla fase di bombardamento attivo. La risposta è stata unanime: tecnicamente 4 Tornado in più o in meno nella "guerra aerea" contro l’Is sono ininfluenti, soprattutto perché la guerra aerea di fatto è ferma e inefficace. E quindi il governo Renzi ha valutato autolesionistico aprire un nuovo scontro in Parlamento Non a caso ieri la Pinotti, a Bruxelles per una riunione dei ministri della Difesa Nato, a metà pomeriggio ha detto ai giornalisti che "sui Tornado decideremo anche considerando l’impegno complessivo che l’Italia sta mettendo nei diversi teatri: siamo già presenti fortemente nella coalizione anti-Is, ma le valutazioni si fanno quando si ha il quadro completo". Una frenata rispetto alle dichiarazioni dei giorni precedenti. Soprattutto in attesa della nuova missione militare che l’Italia si potrebbe trovare a gestire, quella in Libia per stabilizzare il possibile governo di unità nazionale. Il "congelamento" deciso da Renzi è arrivato al culmine di un processo decisionale molto controverso. In effetti martedì, quando il Corriere della Sera aveva anticipato la notizia di nuove missioni per i Tornado, la decisione del governo era già stata presa. La sera stessa, alle Commissioni delle Camere, il governo avrebbe chiesto il voto per autorizzare i Tornado. L’anticipazione aveva però innescato non solo reazioni politiche contrarie, ma soprattutto un diluvio di valutazioni di esperti militari che hanno fatto capire al governo che non valeva la pena sfidare le opposizioni per un’operazione militare di dubbia efficacia. "La guerra aerea all’Is è già in crisi per mancanza di obiettivi", dice un generale dell’Aeronautica, "individuare altre obiettivi da "battere" è diventato un’impresa residuale: il gioco non vale la candela". Conferma la valutazione un altro ufficiale non più in servizio, il generale Vincenzo Camporini che è stato capo dell’Aeronautica e poi della Difesa: "Dal punto di vista tecnico quattro Tornado in più o in meno sono ininfluenti; dal punto di vista politico purtroppo ancora una volta è un comportamento a metà dell’Italia e le cose fatte a metà sono sempre fatte male". Ma allora perché il Governo aveva deciso di incrementare la missione dei Tornado, preparandosi a sfidare Parlamento e parte dell’opinione pubblica? Una ricostruzione fatta con diverse fonti politiche e militari vede un’azione decisiva svolta dall’Aeronautica per vedersi riconosciuto un ruolo paritario con gli altri Paesi della coalizione guidata dagli Usa. "La nostra condizione è par- ticolare: noi con i nostri aerei partecipiamo di fatto alle operazioni sull’Iraq, voliamo, corriamo gli stessi pericoli, ma soltanto per fare fotografie: questo però ci tiene fuori dal processo decisionale, dal cuore della coalizione", dice un ufficiale. Dal primo momento, quando nel 2014 il governo Renzi decise di partecipare alla coalizione anti- Is guidata dagli Usa, l’Aeronautica aveva fatto pressioni per essere inclusa a pieno titolo anche nelle "operazioni cinetiche" contro il califfato. Un’anomalia, questa del "partecipare a metà", presente in molte altre missioni militari, tanto che un alto ufficiale aveva predetto alla ministra Pinotti: "Alla fine gli americani faranno pressioni, e noi dovremo cambiare idea come al solito". Questa volta però è stato proprio il pressing dell’Aeronautica a far cambiare idea al vertice politico. In che modo? Suggerendo anche che fossero gli stessi responsabili politici americani a chiedere al governo Renzi di intervenire. "Ce lo siamo fatti chiedere", ammette una fonte informata di ogni passaggio: "Certo, la coalizione vorrebbe sempre più uomini e mezzi e le richieste arrivano di continuo, ma adesso siamo stati noi a far capire agli americani che sarebbe stato necessario un intervento politico". E un intervento c’è stato, se è vero che Barack Obama in persona avrebbe chiesto a Matteo Renzi di rimuovere i vincoli per l’utilizzo dei Tornado in Iraq. Per il momento però tutto torna alla casella di partenza. Francia: Stato condannato a risarcire detenuto non fumatore messo in cella con fumatori stamptoscana.it, 9 ottobre 2015 Lo stato francese condannato per aver messo un detenuto non fumatore in cella con detenuti fumatori. Lo stato francese è stato condannato per aver messo in "pericolo la dignità umana" per aver permesso che un detenuto non fumatore nella cella con altri fumatori e dovrà pagare 1.200 euro. A deciderlo - fa sapere la nota di Lo Sportello dei Diritti - è il Tribunale amministrativo di Caen nel nord ovest della Francia. "Una sentenza esemplare - commenta Giovanni D’Agata, presidente dello Sportello dei Diritti, che restituisce dignità e tutela la salute dei carcerati e che dovrebbe essere replicata anche in Italia dove troppo spesso le condizioni dei detenuti sono calpestate a causa del sovraffollamento dilagante e dell’inadeguatezza delle strutture carcerarie". Il detenuto, spiega la nota, ha condiviso tra dicembre 2013 e aprile 2014, celle da 20 a 21 metri quadri nella prigione di Coutanches (ovest), con quattro-sei detenuti, per i quali "non è stato contestato che alcuni fossero fumatori" secondo la sentenza della Corte che risale al 24 settembre. L’ex detenuto ha anche denunciato lo "stato di sovraffollamento all’interno delle celle ed ha rilevato le condizioni di scarsa igiene, illuminazione e ventilazione delle stesse, con soltanto una singola apertura di 80 cm di lato", hanno aggiunto i giudici. "Le condizioni di detenzione subite dall’attore sono una violazione sufficientemente grave alla dignità umana e rivelano l’esistenza della colpa che coinvolge la responsabilità delle autorità pubbliche", conclude il Tribunale. Iran: oltre 800 condanne a morte eseguite nel 2015, il dato più alto negli ultimi 25 anni Aki, 9 ottobre 2015 Oltre 800 condanne a morte sono state eseguite in Iran nel 2015. Lo ha denunciato il gruppo Iran Human Right (Ihr), con sede a Oslo, secondo il quale si tratta del dato più alto negli ultimi 25 anni. In un rapporto diffuso a due giorni dalla 13esima Giornata Mondiale contro la Pena di Morte, Ihr ha evidenziato come la maggior parte delle condanne eseguite nella Repubblica islamica (oltre 500) sia legata al traffico di droga. Secondo Ihr, gran parte dei detenuti giustiziati per reati di droga in Iran appartengono a gruppi "emarginati" e "minoranze". Ihr ha sottolineato quindi che le condanne alla pena capitale giungono spesso al termine di "processi iniqui", durante i quali "spesso agli imputati non è permesso avvalersi di avvocati". L’organizzazione ha infine denunciato l’"uso della tortura" da parte delle autorità per "estorcere confessioni". Stati Uniti: in Oklahoma farmaco sbagliato per l’esecuzione di Charles Frederick Warner Adnkronos, 9 ottobre 2015 Nel braccio della morte dell’Oklahoma è stato usato un farmaco sbagliato durante l’esecuzione lo scorso gennaio di un detenuto che prima di spirare ha detto "mi sento il corpo in fiamme". È quanto emerge dal referto dell’autopsia di Charles Frederick Warner ottenuto dal giornale locale Oklahoman che rivela che le autorità carcerarie hanno usato acetato di potassio invece di cloruro di potassio come richiesto dal protocollo stabilito dallo stato per il cocktail letale. La rivelazione del quotidiano arriva qualche giorno dopo che il governatore Mary Fallin ha sospeso all’ultimo minuto l’escuzione di Richard Glossip dopo che era stato scoperto che era stato consegnato l’acetato di potassio e non il cloruro per l’esecuzione. Ora il procuratore generale Scott Pruitt ha sospeso tutte le esecuzioni nello stato in attesa dei risultati dell’inchiesta per stabilire le cause del grave scambio di farmaci. Ora i risultati dell’autopsia proverebbero che lo scambio risale almeno allo scorso gennaio se nel referto dell’autopsia è stato scritto che le fiale usate avevano l’etichetta che recitava acetato di potassio. Il cloruro di potassio è il terzo farmaco che viene iniettato per fermare il cuore del condannato, dopo un sedativo e un farmaco paralizzante. Svizzera: meno incarcerazioni nel 2014 rispetto al 2013, stranieri i due terzi dei detenuti bluewin.ch, 9 ottobre 2015 È quanto emerge in sintesi dai dati sulla criminalità e l’esecuzione delle pene diffusi oggi dall’Ufficio federale di statistica (Ust). Come l’anno precedente, gli uomini rappresentano la stragrande maggioranza dei detenuti, mentre gli stranieri erano più del doppio degli Svizzeri. L’anno scorso nella Confederazione le incarcerazioni sono state 9’224, ovvero il 5,4% in meno del 2013 (9’746), mentre le scarcerazioni sono state 9’426 (+1%). La popolazione carceraria media è salita da un anno all’altro da 4’700 a 4’991 detenuti, pari a una crescita del 6,2%. Secondo l’UST, l’aumento del numero di persone dietro le sbarre è dovuto al fatto che sempre più spesso le multe non pagate vengono trasformate in pene detentive. Dal 2004, la crescita è stata di circa il 50%. Da un anno all’altro, sono diminuite pure le persone che hanno svolto quale sanzione un lavoro di pubblica utilità (da 3’507 a 3’317), così come le esecuzioni delle pene con braccialetto elettronico (da 250 a 203). La statistica del 2014 conferma due tendenze emerse già negli anni precedenti: gli uomini incarcerati risultano molto più numerosi delle donne (8’515 contro 709) e la maggioranza dei detenuti è di origine straniera (6’334 contro 2’880). Se si osservano le nazionalità, nelle carceri vi erano l’anno scorso 584 Algerini, 438 Rumeni, 337 Tunisini, 336 Serbi e 320 Nigeriani. Il soggiorno in prigione è stato perlopiù breve: in 4’028 casi la durata della pena non ha superato il mese e in 1’972 è stata da uno a tre mesi. Rispetto all’anno precedente, inoltre, in media il tempo passato in carcere è aumentato da 152 a 166 giorni. Anche la durata mediana è cresciuta: la metà dei detenuti è rimasta in carcere meno di 56 giorni e l’altra metà di più, contro 47 nel 2013. Delle 4’991 persone che soggiornavano mediamente in carcere nel 2014 2’891 erano state condannate per infrazioni al Codice penale, 876 per violazione della legge federale sugli stupefacenti, 295 per infrazioni alla legge sugli stranieri, 95 per violazione della legge sulla circolazione stradale. I penitenziari svizzeri ospitavano anche 835 persone per altre violazioni di legge. Bahrain: Human Rights Watch chiede il rilascio immediato di due oppositori detenuti Aki, 9 ottobre 2015 Human Rights Watch ha chiesto alle autorità del Bahrain di rilasciare immediatamente due oppositori del regime "detenuti ingiustamente" e ai governi di Londra e Washington di intervenire rispetto al loro alleato. L’organizzazione è intervenuta per l’attivista sunnita Ibrahim Sharif, in carcere da quattro anni per aver preso parte alle manifestazioni antigovernative del 2011. Ad agosto è iniziato il processo a suo carico con l’accusa di voler "promuovere un cambiamento politico usando le maniere forti". A luglio è stato nuovamente arrestato dopo essere intervenuto a una cerimonia di commemorazione per una vittima della rivolta contro la dinastia sunnita che governa un paese a maggioranza sciita. Il secondo oppositore di cui si occupa Hrw è il capo dell’Alleanza di opposizione sciita Al-Wefaq, Ali Salman, condannato a giugno a quattro anni di carcere perché riconosciuto colpevole di incitamento alla disobbedienza e all’odio. L’imputato ha presentato ricorso, mentre la procura sta cercando di ottenere l’annullamento dell’appello con l’accusa di aver complottato per rovesciare il regime e chiedendo una pena più severa. Gli Stati Uniti e la Gran Bretagna "sono pienamente consapevoli dell’ingiustizia del processo a Salman e del contenuto dei discorsi pacifici di Sharif e questo dovrebbe dar loro buoni motivi per chiedere pubblicamente la fine dei procedimenti penali a loro carico e chiedere il loro rilascio immediato", ha detto il dice direttore di Hrw per il Medioriente Joe Stork. La prossima settima si terranno nuove udienze per entrambi gli oppositori. "Salman e Sharif hanno sostenuto una riforma politica pacifica e dovrebbero essere a un tavolo di negoziati con il governo del Bahrain, non languire dietro le sbarre", ha aggiunto Stork. "I Paesi che dicono di sostenere il processo di riforma del Bahrain, dovrebbero farlo pubblicamente", ha proseguito. Myanmar: Amnesty International denuncia "oltre 90 prigionieri politici in carcere" Adnkronos, 9 ottobre 2015 Sono oltre 90 i prigionieri politici che si troverebbero dietro le sbarre in Myanmar. Secondo quanto riferito da Amnesty International, il Paese ha arrestato 91 oppositori politici come parte di un "agghiacciante giro di vite" sui diritti umani. L’Ong internazionale accusa le autorità locali di avere cercato di limitare la libertà di espressione nel corso degli ultimi due anni e, in particolare, in vista delle elezioni generali che si terranno tra un mese. Nel 2013, ha fatto sapere l’organizzazione in un documento, c’erano solo due "prigionieri di coscienza" dietro le sbarre. Tempo fa il Myanmar aveva promesso di intraprendere una serie di riforme politiche, tra cui il rilascio di tutti i prigionieri politici entro la fine del 2013. Promesse che hanno portato all’eliminazione di alcune sanzioni internazionali. Da parte loro, gruppi per i diritti umani sostengono che circa 20 prigionieri politici rientravano tra quelli liberati in un’amnistia di 7mila detenuti lo scorso luglio, mentre molti altri sarebbero ancora in carcere. Mauritania: detenuti in sciopero della fame per protesta contro condizioni delle carceri Nova, 9 ottobre 2015 I detenuti islamici salafiti presenti nelle carceri mauritane hanno annunciato l’avvio di uno sciopero della fame. Secondo quanto ha annunciato il portavoce dei detenuti salafiti, Ahmed al Hadrami, all’agenzia di stampa mauritana "Ani", è iniziata la protesta contro le condizioni in cui versano i detenuti islamici nelle carceri del paese africano. In un documento indirizzato al governo di Nouakchott i detenuti islamici chiedono una revisione dei loro processi e denunciano di subire soprusi da parte delle guardie carcerarie.