"Se non prendiamo rischi non cambia nulla" di Ornella Favero Ristretti Orizzonti, 8 ottobre 2015 Sono parole del ministro, che vogliamo dedicare al "nostro" direttore. "Ho detto ai direttori degli istituti italiani che non voglio solo che nelle loro carceri non succeda niente, ma di provare a innovare, anche a costo di rischiare che succeda qualcosa. Perché (…) se non prendiamo rischi non cambia nulla": parole del ministro della Giustizia Andrea Orlando, parole preziose per noi che operiamo in un carcere come la Casa di reclusione di Padova. Un carcere dove da anni si tentano strade nuove per uscire da quell’immobilismo dell’esecuzione della pena, che ha contribuito a "mettere il nostro Paese fuori legge" e a far sì che fosse l’Europa a ordinarci di fare quello che a Padova già si stava facendo: innovare, con intelligenza ed equilibrio, ma innovare. Qualcosa però stride con le parole del ministro, o forse il ministro non è al corrente che a Padova il direttore, che è fra i pochi che hanno già adottato quelle misure, che poi hanno permesso al nostro governo di dire a Strasburgo che stiamo andando nella direzione giusta, ebbene quel direttore è stato "liquidato", cioè gli è stato dato improvvisamente un incarico al Provveditorato. Eppure lo stesso ministro di recente aveva sostenuto che bisogna potenziare di più il lavoro dei direttori, decentrare, lavorare all’autonomia, allo sviluppo, all’innovazione degli istituti di pena presenti sul territorio. E si prende allora uno dei pochi direttori che ha coraggio e capacità di ascolto, e lo si caccia in un ufficio lontano dalla trincea complessa e importante di un carcere come quello di Padova? A Padova c’è bisogno che il direttore, Salvatore Pirruccio, rimanga ancora in carica fino a fine carriera, per passare le consegne poi in modo equilibrato e non traumatico, e nel frattempo, in questi quasi tre anni che restano al suo pensionamento, proseguire nel percorso di innovazione e contribuire ad "esportare" quel percorso in altre carceri. Gli Stati Generali dell’esecuzione della pena stanno lavorando per un cambiamento di rotta nel modo di funzionare delle carceri, e nell’idea stessa di pena: da Padova, dove si sono incontrati un direttore attento, che ha saputo coinvolgere buona parte del personale in una apertura del carcere alla società, con una realtà delle associazioni, delle cooperative, del territorio vivace e coraggiosa nello sperimentare strade nuove, può venire un grande contributo di idee, e soprattutto di esperienze concrete. Per finire, vogliamo aggiungere un dettaglio interessante e davvero nuovo: la stragrande maggioranza dei detenuti sostiene questo direttore. In passato questo fatto sarebbe stato letto in modo negativo, oggi l’Europa ci consiglia, crediamo, di apprezzare molto questa presa di posizione: perché vuol dire che in Italia comincia a esserci qualche carcere che la dignità delle persone detenute la rispetta, e si cura dei loro affetti e delle lore necessità e ha il coraggio di INNOVARE. Facciamo in modo che chi ha contribuito con forza a questo cambiamento possa trasmettere le sue conoscenze restando al suo posto di direttore e lavorando perché le istituzioni diano di sé un’immagine non di immobilismo e di poca trasparenza, ma di limpida voglia di dare una svolta alla gestione delle carceri italiane. Signor Ministro, io sono quello che da molti viene identificato come "delinquente abituale" di Lorenzo Sciacca Ristretti Orizzonti, 8 ottobre 2015 Buongiorno Ministro Orlando, mi chiamo Lorenzo Sciacca e sono un detenuto della Casa di reclusione di Padova. Le scrivo perché credo che solo Lei può chiarire i molti dubbi che in questi giorni stanno intralciando il mio percorso rieducativo. Il nostro direttore Salvatore Pirruccio è stato promosso "forzatamente" al Provveditorato dell’Amministrazione penitenziaria del Triveneto dandogli un ruolo da vicario. Scrivo "forzatamente" perché la volontà del dottor Pirruccio sarebbe quella di terminare la sua carriera in questo istituto. Vorrei cercare di capire il perché, quando finalmente c’è una persona che crede in un carcere rieducativo e risocializzante, debba essere cacciato in un modo apparentemente elegante, ma effettivamente in una maniera molto misera. Signor Ministro, io sono quello che da molti viene identificato come un delinquente abituale. Ho 40 anni e ho fatto tante carcerazioni nella mia vita, così tante che ho passato quasi 20 anni della mia vita girando molti istituti penitenziari. Sono quello che è definito un recidivo specifico, perché ogni volta che terminavo una detenzione tornavo a commettere il solito reato, rapina. Provengo da una famiglia che ha sempre vissuto di espedienti, per me la vita delinquenziale rientrava nella normalità, talmente normale che di fronte alle responsabilità causate dai miei reati, molto stupidamente, mi davo degli alibi addossando tutta la colpa a un sistema che vedevo nemico, le istituzioni. Penso di aver girato una trentina di carceri nei miei anni di detenzione e mai, e voglio sottolineare mai, mi è stata data una possibilità di ragionare in maniera diversa. Una possibilità che oggi ho saputo cogliere grazie a un carcere che cerca di rispettare quello che l’Europa chiede da tempo al nostro Paese, cioè scontare una condanna che abbia un senso. Sicuramente dei meriti devo riconoscermeli a livello personale, ma sono fermamente convinto che se il dottor Salvatore Pirruccio non avesse creduto al reinserimento del detenuto, oggi non mi ritroverei di fronte a questo computer per cercare un confronto proprio con Lei che rappresenta le istituzioni. In quest’ultimo anno il carcere di Padova è stato su molti giornali per lo scandalo dei telefoni e della droga, tra l’altro dove la maggior parte degli imputati erano agenti del corpo della polizia penitenziaria, ma Padova non è il carcere degli scandali. Padova è un carcere di possibilità, è un carcere dove un detenuto può provare a cercare di dare una svolta alla propria vita, un carcere dove si tende ad umanizzare una pena e darle un senso. Padova è un carcere dove un detenuto può continuare a coltivare i suoi affetti grazie alle due telefonate in più al mese concesse dal direttore oltre alle quattro consentite che sono davvero poche - oppure i colloqui via Skype per chi è lontano centinaia o migliaia di chilometri dalla propria famiglia, ma anche i colloqui lunghi della domenica dove una persona può sedersi attorno a un tavolo pranzando con la famiglia. Padova è un carcere che tenta di combattere quella forma di ozio che porta inevitabilmente il detenuto a incrementare una rabbia contro le istituzioni, a cui una volta fuori darà sfogo nei confronti della società commettendo altri reati. Padova è un carcere dove, pur con tutte le difficoltà, si cerca di rispettare dei diritti fondamentali riconosciuti dalla nostra Costituzione, penso alla libertà di parola e di pensiero senza subire ritorsioni. Padova è un carcere che vede entrare più di 5000 mila studenti l’anno, grazie al progetto "Il carcere entra a scuola, le scuole entrano in carcere", ideato e portato avanti da noi detenuti della redazione di Ristretti Orizzonti da oltre 10 anni. Penso ancora a tutti i seminari, i convegni annuali che vedono entrare centinaia di persone sia del mondo politico, ma anche persone "normali" della società, dove i detenuti si mettono in gioco confrontandosi proprio con quella società che in molti casi avevamo sempre disprezzato. La redazione di Ristretti Orizzonti ha sempre combattuto per i diritti che ogni essere umano deve avere, a prescindere dall’essere colpevole per un crimine commesso. Inoltre Padova vede entrare molte vittime di reati per confrontarsi con i detenuti, penso a Silvia Giralucci che collabora con la nostra redazione da anni, penso ad Agnese Moro, figlia dello statista ucciso dalle Brigate Rosse, e ancora Manlio Milani, famigliare di una vittima della strage di Piazza della Loggia a Brescia e molti altri. Penso anche alle opportunità lavorative come la realtà della cooperativa Giotto, o le iniziative della cooperativa AltraCittà, dove i detenuti hanno la possibilità di reintegrarsi anche nel mondo lavorativo. Signor Ministro, vorrei farLe una domanda: a chi dovremmo dire grazie se oggi centinaia di detenuti affrontano la propria condanna non solo con dignità, ma in molti casi anche con una presa di responsabilità del reato commesso? Sicuramente dobbiamo dire grazie al volontariato e a tutte le altre associazioni, ma credo che principalmente un senso di gratitudine debba essere riconosciuto e rivolto al direttore di questo carcere, Salvatore Pirruccio, che ha permesso tutto questo. Invece cosa accade? Accade che il dottor Pirruccio diventa scomodo. Scomodo perché cerca di rispettare la volontà dell’Europa? Scomodo perché cerca di dare un senso a una carcerazione? Scomodo perché dà la possibilità di studiare agli Uomini Ombra dei circuiti di Alta Sicurezza? Scomodo perché cerca di far entrare il più possibile la società all’interno dell’istituto? Scomodo perché concede la possibilità di vivere in maniera dignitosa il rapporto coi propri figli? Queste e tante altre domande vorrei farLe solamente per cercare di capire cosa devo essere nella mia vita, devo togliermi l’etichetta del cattivo per sempre, oppure devo ricredermi sul sistema della giustizia italiano? Ho fatto tanti errori nella mia vita, Signor Ministro, ho sempre combattuto invocando falsi ideali, e però sono quasi tre anni che sto provando a riporre fiducia nella giustizia italiana assumendomi le mie responsabilità, ma questo allontanamento del Dottor Pirruccio sta mettendo in discussione tutto perché non riesco a comprendere il senso di questo intervento nei suoi confronti, di questa mancanza di rispetto nei confronti di una persona che ha gestito questo carcere con coraggio e voglia di cambiare. Con il tempo io sono riuscito ad abbattere quel muro di presunzione che mi ero creato credendo di essere nel giusto, e ho imparato che ricredersi e tornare indietro su delle decisioni fortifica un uomo e lo responsabilizza. Ecco io, pur essendo un detenuto, le chiedo di rivedere la decisione di quelle persone che probabilmente non credono a una pena che abbia un senso, ma che hanno un concetto solo punitivo della pena. Lei ha indetto gli Stati Generali e la redazione di Ristretti Orizzonti sta cercando di dare il suo contributo nel far capire di cosa necessita veramente il nostro sistema penitenziario per una significativa svolta. Un grosso segnale di voler realmente cambiare qualcosa sarebbe ridarci il nostro Direttore, e che per una volta i veri responsabili di come hanno funzionato per anni i nostri istituti penitenziari si fermassero a riflettere che il tema carceri riguarda principalmente la società, perché presto o tardi il detenuto uscirà e la società ha bisogno di persone migliori e non peggiori di quando sono entrate in carcere. Spero che pur essendo un detenuto le mie parole verranno quanto meno ascoltate da Lei e che possa intervenire al più presto. Se un carcere funziona con umanità, c’è sempre qualcuno che vuole ridiventi un ghetto di Tommaso Romeo Ristretti Orizzonti, 8 ottobre 2015 Sono da ventitré anni in carcere e ho girato molti istituti, per la maggior parte noi detenuti definitivi e con pene lunghe teniamo rapporti epistolari con altri detenuti ristretti in altre carceri e in tutte le nostre lettere c’è la parte che riguarda la nostra vita detentiva con le solite informazioni, per esempio "ti informo che qui a Padova si può fare la galera dignitosamente, in quanto vi è un direttore illuminato, che punta molto sul percorso di rinserimento e sul mantenimento dei rapporti con i familiari", e poi elenchiamo come riscontro nelle nostre lettere i pro e i contro, esempio "qui a Padova ci viene concesso l’uso del PC in cella, facciamo sei telefonate al mese, i colloqui con le terze persone vengono autorizzati, abbiamo le celle aperte dalle 8:30 alle 19:30, entra il volontariato, quelli della AS3 possono lavorare fuori dalla sezione ghetto, come noi dell’AS1 possiamo frequentare la Redazione di Ristretti Orizzonti, e tutti quelli che non fanno colloquio usufruiscono dei colloqui Skype". Un giorno ricevo posta da un mio amico che avevo informato di come era la vita detentiva nel carcere di Padova, dove mi dice "sappiamo bene entrambi per quante ne abbiamo vissute in questi anni che quando in un carcere vi è un direttore illuminato o un comandante in gamba durano poco perché vengono silurati, spero per te che non si avveri questa "profezia", perché le sostituzioni raramente portano continuità dei benefici usufruiti, ma più facilmente restrizioni", e mi fa l’esempio del carcere dove era lui, Spoleto, dove qualche anno prima era stato sostituito il direttore e in pochi mesi la vita detentiva di quell’istituto era cambiata, diventando molto più ristretta. In effetti si è avverata la profezia: il nostro direttore illuminato è stato silurato, non so i motivi ma posso dire che in tutta la mia detenzione, che non è poca (ventitré anni), il dottor Pirruccio è l’unico direttore che ho visto salire nella sezione quando c’era un problema, e confrontarsi con i detenuti per cercare di risolvere il problema nel migliore dei modi. Penso che il confronto con i propri detenuti non sia una cosa negativa, anzi, come non è negativo se un direttore punta sul percorso di reinserimento mettendo a disposizioni anche i mezzi per percorrerlo, facendoci partecipare ad attività fuori dalle sezioni ghetto, o puntando sul mantenimento dei rapporti familiari concedendo due telefonate in più al mese e autorizzando i colloqui Skype o i colloqui con le terze persone. Niente di più, il nostro direttore intelligentemente ha capito prima di altri che se si sceglie di impegnare i detenuti in attività costruttive e di dare più contatti con i propri famigliari, il detenuto poi si responsabilizza e la sua rabbia si affievolisce fino a scomparire. Peccato che quando un carcere funziona con umanità, c’è sempre qualcuno che non vede l’ora di farlo ridiventare un ghetto. Un Direttore che ha fatto nel suo carcere quello che l’Europa ci chiede da tempo di Clirim Bitri Ristretti Orizzonti, 8 ottobre 2015 E pensate che sia stato premiato per la sua efficienza e umanità? Oggi ho saputo che il Direttore della Casa di Reclusione di Padova è stato "trasferito", credo che non sia stato un trasferimento voluto perché durante l’ultimo incontro fatto nella redazione di "Ristretti Orizzonti" avevo percepito che il Dott. Salvatore Pirruccio volesse concludere il suo percorso lavorativo in questo istituto. Sicuro che il direttore di un carcere può fare la differenza tra un carcere inteso come luogo di rieducazione e un carcere come luogo di torture e sofferenze, mi sono chiesto: Perché? perché un direttore che si è messo in gioco e ha contribuito a migliorare le condizioni di vita di molte persone detenute viene "promosso" e mandato via ? Forse il direttore è stato "promosso" e poi rimosso perché: - quando le temperature all’interno delle celle erano insopportabili, il direttore ha ascoltato le nostre proposte ed ha deciso l’apertura delle celle - quando ha concesso le due telefonate straordinarie al mese a tutti, il direttore ha dimostrato di capire che mantenere i legami famigliari aiuta a spezzare i legami con le "vecchie conoscenze" - quando ha concesso i colloqui lunghi (domenicali) per poter pranzare con i propri famigliari e ha autorizzato i colloqui via Skype per chi non faceva colloqui visivi, il direttore ha capito prima di tutti che cosa era importante fare. Prima che il governo italiano si presentasse a Strasburgo per esporre il piano per combattere il sovraffollamento carcerario, mi ricordo che una commissione del Ministero della Giustizia è arrivata al carcere di Padova, probabilmente a Padova ha visto che già erano in atto delle misure straordinarie per "umanizzare le carceri" e qualche settimana dopo il Governo italiano ha portato a Strasburgo il piano straordinario che consisteva principalmente in queste misure: 1) apertura delle celle, 2) colloqui lunghi e 3) colloqui Skype. Con queste misure il governo italiano ha ottenuto la proroga di un anno per mettere a punto i cambiamenti legislativi necessari e impedire le multe che regolarmente venivano inflitte all’Italia per il trattamento inumano e degradante delle persone private della libertà. Misure che alla Casa di reclusione di Padova erano già in atto proprio grazie al confronto tra i detenuti della nostra Redazione e il Direttore. Oppure il direttore è stato "promosso" perché non si è fermato a leggere i fascicoli e le informative dei detenuti ubicati nelle sezioni di Alta Sicurezza, ma li ha incontrati e ha visto delle persone che a forza di essere tenute isolate avevano quasi dimenticato di essere capaci di parlare, non le ha liberate ma le ha fatte scendere nella nostra redazione, dove potevano confrontarsi con persone diverse da loro e mettere in discussione il loro passato. Non credo che chi ha deciso di "promuovere" il Direttore ritornerà sui suoi passi, ma spero che il suo lavoro non venga buttato via. Credevo che solo i detenuti fossero dei pacchi che venivano spostati da decisioni prese negli uffici del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, ma a questo punto credo che anche i Direttori che non si adattano al grigiore e allo squallore delle carceri e decidono di cambiare e di dare una svolta alla vita dei detenuti rinchiusi negli Istituti che dirigono, vengono "promossi" d’ufficio. E naturalmente trasferiti. Un Direttore che mi ha trattato non come un numero, ma come un essere umano di Giovanni Zito Ristretti Orizzonti, 8 ottobre 2015 Chissà per quale motivo è stato rimosso il Direttore della Casa di reclusione di Padova! Eppure è stato un Direttore che ha dato lustro al carcere Due Palazzi. Forse qualcuno si è sentito scavalcato, magari ha pensato che chi fa un buon lavoro mette in cattiva luce chi lavora male, quindi deve essere trasferito ad altri incarichi e messo in condizioni di non attirare troppo l’attenzione. Sta di fatto che i Direttori illuminati, che applicano l’Ordinamento Penitenziario, non sono tanti, a me ne vengono in mente due: il Direttore del carcere di Bollate, e quello di questo istituto, Salvatore Pirruccio. Qualcuno più in alto, però, ha il potere di decidere che un direttore che ha preso sempre a cuore le problematiche dei detenuti, applicando le leggi, nel rispetto di una piccola comunità di persone rinchiuse per errori della vita, può essere rimosso. Quello che non capisco è perché i detenuti devono vivere male nelle carceri, anche quando ci sono Direttori che tentano di fare delle migliorie con risultati positivi. È probabile che il Direttore del Due Palazzi è stato rimosso perché ha consentito a questa comunità di detenuti, priva della libertà, le sei telefonate al mese invece di quattro, o magari perché è stato più lungimirante degli altri facendo utilizzare i colloqui SKYPE a noi detenuti, alleviando un po’ la nostra sofferenza. Io credo che chi ha potere decisionale sulle persone, prima di fare delle scelte che possono avere delle ricadute negative su altri esseri umani che vivono rinchiusi da anni, dovrebbe ragionare con buon senso. Questo Direttore non meritava proprio una rimozione simile, solo perché è stato in grado di fare il suo lavoro con impegno e nel rispetto delle leggi. Sempre questo Direttore, nel rispetto della società di Padova, attraverso molti convegni, ha dato occasione ai detenuti di confrontarsi con il mondo esterno, portando in questo istituto intere classi di studenti che hanno interagito con questa comunità rinchiusa. Posso solo concludere dicendo grazie al Direttore Salvatore Pirruccio, per avermi concesso un modo nuovo di affrontare la mia lunga carcerazione. Dico questo perché per me è un dovere riconoscere i meriti di un Direttore che mi ha trattato non come un numero, ma come un essere umano, perché in fondo siamo tutti figli di questa società. Giustizia: il "movimento apparente" della riforma camerepenali.it, 8 ottobre 2015 L’Unione Camere Penali Italiane, oramai da anni, chiede alla politica di affrontare i nodi di una riforma dell’ordinamento giudiziario e della magistratura, in grado - in attesa di una riforma costituzionale che assicuri, attraverso la separazione dei magistrati giudici e dei magistrati del pubblico ministero in due ordini distinti e separati, la terzietà del Giudice e la parità delle parti - di superare alcune delle più gravi distorsioni del sistema giudiziario che si riflettono, da una parte, sulla stessa efficienza del sistema giustizia, dall’altra, sulla credibilità e immagine della stessa magistratura. L’ha fatto sottoponendo alla Politica tutta una serie di problemi e proposte che riguardano in particolar modo l’indipendenza e l’imparzialità dei magistrati. Sul tema dell’indipendenza dei magistrati l’Unione Camere Penali Italiane ha da sempre denunciato l’eccessivo e invadente peso delle correnti della magistratura associata e i condizionamenti che ne derivano con riguardo alle carriere dei singoli magistrati (assegnazione delle funzioni direttive e semi-direttive, valutazioni di professionalità, disciplina) e alle nomine dei capi degli uffici giudiziari. Da qui la necessità, oramai avvertita da tutti, quantomeno nelle dichiarazioni, di una riforma del CSM, con particolare riguardo al sistema della rappresentanza e alla questione disciplinare. Altra distorsione del sistema denunciata, e oramai anche questa avvertita da tutti, è quella della partecipazione dei magistrati alla vita politica attraverso candidature nelle competizioni elettorali e alla assunzione di cariche elettive e di governo, anche nelle autonomie locali. Per non parlare della sempre attuale questione dei c.d. "fuori ruolo", ovvero di quei magistrati distolti dalle funzioni giudiziarie che svolgono incarichi negli organi costituzionali, nelle istituzioni del potere esecutivo, del Parlamento, nelle sedi internazionali, nelle autority etc. Di fronte alla urgenza di interventi legislativi correttivi delle denunciate distorsioni, ritenuti da più parti oramai come non più procrastinabili, abbiamo registrato nelle settimane scorse un agitarsi all’interno della magistratura, quasi a rivendicare una sorta di egemonia politica e di indirizzo sulle scelte da compiere. Il ricorso al termine "autoriforma" (che si sovrappone al termine, improprio, "autogoverno" riferito al Csm), è sintomatico del tentativo di condizionare la politica in merito ai temi che riguardano la riforma del sistema giudiziario. Gli effetti sulla politica e sul Governo si sono fatti sentire subito, a partire dalla costituzione di due Commissioni ministeriali, istituite per affrontare anche la riforma del Csm, formate quasi esclusivamente da magistrati, con una presenza marginale e numericamente insignificante di avvocati e docenti universitari. L’Unione Camere Penali Italiane ha da subito avvertito il rischio che, non diversamente da quanto avvenuto nel passato, la magistratura intendeva ancora una volta determinare e orientare le scelte politiche della annunciata riforma, rilevando che la stessa non può riformare se stessa. Compete, invero, alla politica e, dunque, a Governo e Parlamento, sulla base di un confronto, paritario, con tutte le componenti della giurisdizione e della cultura giuridica, attuare riforme della giustizia e della magistratura, che riguardano tutti i cittadini, senza che vi siano interlocutori privilegiati. Ma già dobbiamo registrare le prime levate di scudi, in particolare sul fronte della questione della partecipazione dei magistrati alla vita politica. E così il Csm è intervenuto impropriamente, con una Risoluzione del 23 settembre scorso della VI Commissione - che potrebbe essere portata al Plenum in settimana - su questa materia di grande attualità per indicare preventivamente al legislatore le scelte da compiere e mettere precisi paletti. Il ricorso allo strumento della Risoluzione utilizzato dal Csm, in via preventiva, è tanto improprio, quanto adottato di proposito, proprio per sottolineare quale debba essere la direzione da seguire. Ed invero, se la Risoluzione è uno strumento tipico e formale e se la Costituzione e la Legge che regola il funzionamento del Csm, non prevedono che tale strumento possa essere utilizzato in casi del genere, appare evidente che attraverso l’uso indebito della Risoluzione il Csm intende esercitare una inammissibile ingerenza preventiva sull’attività del legislatore che lo vorrebbe riformare. La Risoluzione, oltre ad essere non accettabile nel metodo è del tutto errata anche nel merito. Di fronte alla esistenza del problema, riconosciuto in tutta la sua gravità dallo stesso Csm (forse l’unica nota positiva della Risoluzione) la risposta "suggerita" al legislatore è insufficiente, inidonea e di accomodamento. Non basta mettere qualche limite "geografico-territoriale" o "funzionale-temporale" per affrontare la questione ed evitare, da un lato la strumentalizzazione della funzione giudiziaria a fini politici e dall’altra, la perdita, quantomeno sotto il profilo dell’apparenza, della indipendenza e della imparzialità. L’Unione Camere Penali Italiane ha formulato da tempo una proposta che si fonda su un assunto chiaro: è condizione indispensabile che intercorra un ragionevole lasso di tempo tra la cessazione dal servizio del magistrato e la sua candidatura ad una delle cariche elettive parlamentari, regionali o delle autonomie locali o dalla assunzione di una carica di governo anche nelle regioni e nelle autonomie locali. Quanto precede al fine di contrastare forme di uso strumentale della funzione, poiché, con la candidatura, con l’elezione o con l’assunzione di una carica di governo, il magistrato compie una pubblica scelta di campo istituzionalmente incompatibile con i principi di autonomia, indipendenza e imparzialità della magistratura, anche sotto il profilo "dell’apparenza": la necessaria conseguenza deve essere quella del "non ritorno" alla funzione giudiziaria. Non vorremmo che si verificasse quanto già si è sperimentato nel passato, e cioè che, a fronte della avvertita necessità delle riforme, la magistratura intenda dettare le regole del gioco per consentire solo qualche intervento di facciata, che lasci impregiudicati gli inossidabili privilegi, eludendo i veri nodi delle distorsioni del sistema giustizia. L’Unione Camere Penali Italiane, che da sempre ha esortato la politica a intervenire per riformare l’ordinamento giudiziario e il Csm, nell’interesse dei cittadini, invita la politica a riaffermare le proprie prerogative e a sottoporre un tema così importante al dibattito e al confronto pubblico con tutti i soggetti della giurisdizione e con l’Accademia. La Giunta dell’Unione Camere Penali Italiane La Commissione Giusto Processo e Ordinamento Giudiziario Giustizia: accordo Dap-Guardia Finanza, aerei e navi utilizzate per trasferimento detenuti Agi, 8 ottobre 2015 La Guardia di Finanza metterà a disposizione i propri mezzi aerei e le unità navali per effettuare le traduzioni di detenuti, "connotate da maggiore complessità e delicatezza", e il trasferimento di detenuti verso istituti penitenziari ubicati presso le isole minori. Questo lo scopo dell’accordo firmato oggi dal comandante generale della Guardia di Finanza, Saverio Capolupo e il capo del Corpo di Polizia Penitenziaria, Santi Consolo, che hanno siglato una convenzione relativa ai rapporti di collaborazione tra il dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria e la Gdf. Capolupo ha voluto sottolineare come "l’iniziativa rappresenti un’importante razionalizzazione delle attività della Guardia di Finanza e della Polizia Penitenziaria, per potenziare, valorizzare e coordinare le capacità operative per il perseguimento delle rispettive finalità istituzionali, nel quadro delle procedure di contenimento della spesa pubblica". Santi Consolo ha poi evidenziato la "sintonia di intenti tra la Guardia di Finanza e il Corpo di Polizia Penitenziaria nella prospettiva della reciproca fattiva collaborazione degli operatori appartenenti ai rispettivi Corpi, con benefici notevoli per il contenimento della spesa pubblica. Un accordo - ha sottolineato il capo del Dap - che costituisce la premessa, nello stesso solco, per future iniziative". Giustizia: Terre des Hommes denuncia "è emergenza per i reati contro i minori" di Raffaele K. Salinari Il Manifesto, 8 ottobre 2015 Preoccupante l’esponenziale aumento delle vittime di pornografia e violenze. Una crescita che sembra inarrestabile: i minori vittime di reato in Italia hanno raggiunto nell’ultimo anno la cifra record di 5.356, il 60% dei quali erano femmine. Preoccupante anche l’esponenziale aumento delle vittime di pornografia minorile, che dal 2004 al 2014 sono cresciute del 569,4% (+24% nell’ultimo anno). Per quasi l’80% dei casi riguardavano bambine e ragazze. I casi di violenza sessuale, compreso quella aggravata, denunciati l’anno scorso sono stati 962, per l’85% femmine. Sono numeri che mettono i brividi quelli che emergono dal Dossier "Indifesa" di Terre des Hommes presentato ieri a Roma con i dati forniti dalle Forze dell’Ordine sui reati commessi e denunciati a danno di minori. I maltrattamenti in famiglia sono il reato con il maggior numero di vittime tra bambini e ragazzi: 1.479 nel solo 2014, confermando proprio l’unità familiare, che dovrebbe rappresentare il luogo più sicuro e protetto per i minori, come quello a maggior rischio. L’unico dato che cala visibilmente nel periodo 2004-2014, forse per il cambiamento delle modalità di questo sfruttamento, è quello della prostituzione minorile, che passa da 89 a 73 vittime (-18%), al 60% femmine. Non tutte le violenze vengono denunciate e perseguite come dovrebbero, né le vittime vengono assistite adeguatamente, ma queste esperienze lasciano una traccia indelebile nella loro vita. Secondo l’ultima indagine Istat, 6 milioni 788 mila donne hanno subìto nel corso della propria vita almeno una forma di violenza sessuale o fisica, pari al 31,5% delle donne tra i 16 e i 70 anni. E tra le donne vittime di violenze sessuali prima dei 16 anni, l’incidenza di violenza fisica o sessuale da adulte raggiunge il 58,5%. Il panorama mondiale non offre scenari migliori e l’inasprirsi dei conflitti ha dirette conseguenze sulla condizione delle bambine e delle ragazze, che vedono calpestati i loro diritti fondamentali. Nel mondo, circa 70 milioni, di ragazze di età compresa tra i 15 e i 19 anni, subiscono abusi e violenze fisiche che ogni anno provocano circa 60mila decessi. Ovvero una morte ogni 10 minuti. Dalle yazide rese schiave sessuali da Isis alle bambine kamikaze di Boko Haram, le giovani vittime delle guerre sono le più vulnerabili a fenomeni come matrimoni e gravidanze precoci, sfruttamento lavorativo, prostituzione, discriminazioni e abusi. "All’indomani della nascita dei Sustainable Development Goals (Obiettivi di Sviluppo Sostenibile) che hanno molti riferimenti alla questione di genere, occorre ricordare che ci sono ancora 57 milioni di bambine e ragazze non vanno a scuola e oltre 68 milioni le bambine costrette a lavorare - afferma Donatella Vergari, Segretario Generale di Terre des Hommes - 15 milioni le baby spose che, senza volerlo e nel giro di poco tempo, diventano baby mamme e devono lasciare gli studi. Senza istruzione non potranno avere una vita migliore e dare il loro contributo al progresso dell’umanità". "Nelle società democratiche come la nostra i diritti delle donne non sono sempre adeguatamente tutelati - sostiene Lia Quartapelle, segretario III Commissione Affari esteri e comunitari della Camera -ma è nelle aree di conflitto che si registrano le peggiori atrocità. Esse ci richiamano, come Paese e come comunità internazionale, a un maggiore impegno volto a una soluzione delle crisi e ad assicurare il rispetto del diritto internazionale umanitario e del diritto bellico". "Due settimane fa con i Garanti europei abbiamo ribadito che nessuna violenza sui minorenni è giustificabile, tutte le violenze devono essere prevenute - sottolinea Vincenzo Spadafora, Autorità garante per l’Infanzia e l’Adolescenza - Gli adolescenti intervistati vogliono essere formati al rispetto dell’identità di genere come strumento per prevenire la violenza sulle donne. Quasi ogni settimana la cronaca ci ricorda quanto subdolamente lavorino gli stereotipi e le non-culture della diversità. Occorre mettere in atto processi educativi permanenti per il superamento degli stereotipi e il rispetto delle differenze. Lo chiedono loro e lo impone la realtà dei fatti per arginare e prevenire violenze e discriminazioni". "Milioni di bambini siriani sono esclusi dalla scuola e vivono in condizioni orribili, rischiando la loro vita ad ogni passo - sostiene Maria Al Abdeh, Executive Director di Women Now For Development - Secondo una ricerca condotta dalla Women International League for Peace and Democracy, la causa diretta di morte del 74% delle bambine". Giustizia: educazione e protezione, armi contro i femminicidi di Barbara Stefanelli Corriere della Sera, 8 ottobre 2015 Una donna di 20 anni, una figlia di quattro, una denuncia per stalking datata 3 ottobre 2013 contro l’ex partner e padre della bambina. Ieri notte, poche ore prima dell’udienza preliminare davanti al giudice, il corpo torturato della ragazza era lì: sui sedili dell’Audi di quello che era stato il compagno di poco tempo e poi il costante persecutore. Sul corpo di Giordana segni di coltellate, profonde, dalla gola alla pancia. E che cosa dicono di lui adesso? Che "le voleva bene", che "cercava di tornare con lei", che "era geloso, ma non violento". È vero: una volta era entrato in casa di lei irrompendo dalla finestra. Ma chi l’avrebbe mai detto? Nessuno, tra amici e parenti. Lo hanno preso alla stazione di Milano - Luca Priolo, 24 anni - era diretto a Lugano: ci era arrivato con l’auto della mamma, quasi ce la faceva. Forse dobbiamo rassegnarci. Lo dicono le statistiche: ogni 3 giorni un uomo ammazza una donna che desidera un’altra vita, che sfugge al possesso, a leggi non più scritte e tuttavia scavate nella pietra sulla quale abbiamo costruito le nostre città, le nostre case. C’è un blocco che resiste, sopra e sotto traccia: è la pretesa di disporre della vita delle donne. In questo caso lei, a 18 anni, aveva fatto la cosa giusta: era andata a denunciarlo. Le donne -lo dice l’ultimo rapporto Istat - dimostrano "maggiore capacità di uscire dalle relazioni violente", hanno "maggiore consapevolezza", "riconoscono la violenza subita come reato". Sono, tutti, "importanti segnali di miglioramento". E dunque? Se le cose cambiano, ma ogni tanto qualcuna ancora muore, forse dobbiamo aspettare che cambino di più. Lentamente, succederà. Peccato che nello stesso rapporto, l’estensore noti come "non appaia intaccato lo zoccolo duro della violenza". Anzi: come sia in aumento il numero di donne che "sono state ferite" e "hanno temuto per la propria vita". E allora ci sono due parole che vogliamo imbracciare: protezione ed educazione. Protezione vera, non residuale, da parte di magistrati e forze dell’ordine: perché nel 70 % dei casi gli omicidi "sono stati preceduti da violenze ripetute". Ed educazione: perché dobbiamo sollevare pietre, montagne. Dalle famiglie alle scuole, fino ai media, dobbiamo combattere per l’equità profonda e radicale tra i sessi, tra le persone. Il primo passo potrebbe essere il divieto di accostare la parola "emergenza" alla parola "femminicidio". No n è un’emergenza, come una stagione di cattivo tempo: la violenza sulle donne abita tra noi. Giustizia: femminicidio e reati di genere, numeri in calo ma è polemica di Alberto Custodero La Repubblica, 8 ottobre 2015 Il Viminale traccia un bilancio sui reati di genere. Alfano: "Ottimi risultati della legge sul femminicidio". Il Cnr: "Non c’è inversione di tendenza". In calo, nel primo semestre del 2015, i reati di genere, i maltrattamenti in famiglia, e il femminicidio. Ma è polemica tra il ministro dell’Interno che si auto attribuisce il merito, e il "Centro ricerche sulle politiche sociale" del Cnr secondo cui il fenomeno non è ancora in controtendenza. Secondo i dati del Viminale, gli omicidi di donne sono passati da 79 a 74 (meno 6,3%), e di questi, mentre quelli in "ambito familiare affettivo" (quindi che comprende anche uomini e minori) sono passati da 96 a 91 (meno 5,2%). Per quanto riguarda la violenza di genere (prendendo in considerazione solo le "vittime di sesso femminile"), gli atti persecutori che hanno visto le donne come vittime sono passati da 6.532 nel primo semestre del 2014 a 5141 nei primi sei mesi di quest’anno (meno 21,3%), i maltrattamenti in famiglia "o verso fanciulli" da 6.791 a 5.677 (meno 16,4 per cento), le "percosse" da 7.492 a 6.986 (meno 6,7 per cento), le violenze sessuali da 2.158 a 1.760 (meno 18 per cento). È calata, va detto, anche l’attività di contrasto a questo tipo particolare di fenomeno: gli ammonimento sono scesi da 742 a 709, gli allontanamenti da 149 a 144. I dati sono stati forniti dal ministro dell’Interno Angelino Alfano oggi, al convegno "Stalking: ossessione criminale" organizzato presso la Scuola superiore di Polizia in occasione della presentazione della serie tv "Stalker", in onda a fine mese su Premium Crime. Difficile capire il perché del trend in discesa del femminicidio e dei reati di genere. Il ministro dell’Interno ci prova ad interpretare questo calo, prendendosene il merito politico. "Abbiamo avuto ottimi risultati dalla legge sul femminicidio - ha spiegato Angelino Alfano - ha funzionato la prevenzione, con l’ammonimento e l’allontanamento da parte del questore". "Lo stalking - ha rilevato il ministro - è un reato da punire ma occorre anche prevenire e proteggere: sono questi i tre pilastri della nostra strategia". Alfano ha ricordato che il governo garantisce a chi collabora e aiuta a denunciare "protezione e anonimato sia nella fase delle indagini che durante il processo. Non si tratta di una denuncia anonima, ma protetta". Il ministro ha ribadito che "con la legge abbiamo fatto un buon lavoro ma come sempre è perfettibile e non escludo altri interventi. Credo che il Parlamento potrà fare ancora molto". Di diverso avviso Maura Misiti, studiosa dell’Istituto di ricerche sulla popolazione e le politiche sociali del Cnr. "Non mi sembra - spiega - che questi dati dimostrino una inversione di tendenza: 74 femminicidi rispetto a 79, è una fluttuazione semestrale poco indicativa. Il calo degli atti persecutori potrebbe anche essere effetto di quella legge che dice Alfano, anche se non si capisce quale possa essere stato l’effetto se l’attività della polizia, cioè gli ammonimenti, sono calati e non aumentati". "Alfano - aggiunge la ricercatrice del Cnr - parla di prevenzione. Ma questo nella legge non c’è. O meglio, c’è un articolo in cui sono previste azioni che però non sono state completate come, ad esempio, il Piano nazionale antiviolenza che risulta redatto, ma non ancora entrato in vigore. Ecco, al ministro consiglierei di concentrarsi sulla messa a regime di una vera azione di prevenzione". Va ricordato che un contributo alla contrazione del fenomeno, dal punto di vista culturale, l’ha dato anche il movimento di opinione contro il femminicidio sollevato da Serena Dandini con il suo spettacolo teatrale "Ferite a morte ". Uno spettacolo presentato in tutta Italia, all’Onu, al parlamento europeo e in tutto il mondo che ha avuto come obiettivo la sensibilizzazione dell’opinione pubblica in una fase di particolare recrudescenza (tra il 2010 e il 2012) dei reati contro le donne. Giustizia: le parole e i coltelli di Concita De Gregorio La Repubblica, 8 ottobre 2015 Una ventenne uccisa in auto dal suo ex. Una bambina di 4 anni che non vedrà mai più tornare la sua mamma. E poi le madri: quella della vittima, che va dai carabinieri. E quella dell’assassino, che sente partire la macchina del figlio e non dorme. Le paure, la violenza, gli errori dietro all’ennesimo caso di femminicidio. Due madri non dormono. Una, la madre di lei, all’alba va dai carabinieri. Mia figlia Giordana, vent’anni, non è tornata a casa stanotte. L’altra, la madre di lui - Luca, 24 - di notte lo ha sentito partire in macchina. La macchina della madre. Le madri. La paura delle madri: dove vanno, cosa fanno la notte questi figli. La botola che non vedi, sai che c’è ma non la trovi. Dove sono, con chi sono. Dove possono cadere. Dov’è il pericolo. L’angolo cieco, quello che l’occhio non trova. La disperazione delle madri. Se avessi capito prima, se avessi visto forse avrei potuto. Una bambina di quattro anni, nel letto ancora con le sponde. Bellissima come può essere una bambola, il nome grande di un continente, Asia. "La mia nanerottola", "l’amore vero", scrive di lei la mamma che l’ha partorita lei stessa bambina, a 15 anni. L’amore vero è questo, dice Giordana che ora ha vent’anni, e pubblica su Facebook la foto delle loro mani intrecciate. Mani di ragazza con le unghie di tutti i colori, mani di bimba coi buchi al posto delle nocche. Chi lo racconterà ad Asia, e come, stamattina. Mamma è partita? Mamma non può tornare ma vorrebbe, solo che non può? È volata via? Ma dov’è andata, volata dove, posso andare anche io con lei? No, tu non puoi. Andiamo a scuola adesso. Prendi lo zaino. Ma quando torna? Domani torna? Domani no. Andiamo. Le amiche. Non posso credere che sia stato lui. Sì è vero non andavano d’accordo, lui non poteva sopportare il pensiero che lei stesse con qualcun altro. Ma non era violento. Era solo geloso. Lui le aveva detto: se ritiri la denuncia per stalking ti lascio la bimba. Lei aveva scritto, su Fb: "Bisogna fare attenzione alle parole, sono armi affilate e pericolose. Ci sono schiaffi che si perdonano e parole che non lasciano scampo". Un mese fa, un attimo fa. Le parole, gli schiaffi, i coltelli. Con ferite da taglio alla gola, al torace, all’addome Luca Priolo, 24 anni, ha ucciso Giordana Di Stefano, 20, la madre di sua figlia. Erano in macchina, di notte. L’auto di lei. A Nicolosi, provincia di Catania. Lei era uscita la sera con gli amici. All’una era rientrata. Lui le voleva parlare: stamattina ci sarebbe stata la prima udienza del processo per stalking. Una denuncia di due anni fa esatti, ottobre 2013: lui, quella volta, era entrato in casa di lei dalla finestra. Va bene, parliamo, ma viene anche mio cugino. D’accordo, tuo cugino. Però ora scusa puoi lasciarci soli un momento? Dai, dobbiamo dirci cose nostre. Vedi, va tutto bene. Dai, lasciaci parlare un po’. Le due, le due e mezza. Buio pesto, strada di campagna. Era solo geloso, non era violento. Non era mica matto. Voleva diventare guardia giurata, andare a vivere a New York. Con un processo per stalking non te le danno la licenza. Dai ritratta. La mia nanerottola, il coltello, lasciami stare, cosa fai sei impazzito? Mi fai paura, smettila. Lo hanno trovato alla stazione di Milano, partiva per Lugano. Luca? Hanno chiamato al binario. Sì, sono io. Sono stato io, ha detto ai carabinieri. Ha pianto, naturalmente. Aveva preso l’auto di sua madre, ci sono le fotocamere ai varchi autostradali, l’hanno trovato. Giordana era bellissima. Piena di talento. Ballava, con la sua compagnia. "Ballavo perché il mio corpo doveva scaricare energie compresse che non sapevo dove mettere", ha scritto su Facebook il 4 settembre, le ultime parole condivise. Quelle subito prima sono: "Ho fatto il tiramisù!". Una torta. Un viaggio in autobus con la sua compagnia, a un festival. I nonni, al compleanno di Asia. L’amore vero. Incinta a 15 anni di un ragazzo di 20 Giordana aveva lasciato la scuola, aveva cresciuto sua figlia. Aveva continuato a ballare, perché "il segreto della vita è fare come se ciò che ci manca più dolorosamente noi l’avessimo, invece". Al compleanno di Asia, ad agosto, era con Luca. "Ci sono persone che minano la tua autostima, piano, con gesti apparentemente inconsapevoli". Ma "io sono libera, adesso!". Libera, a 20 anni. Di danzare. Senza paura. Sei un topo, lui un gatto. Ma non è violento, è solo geloso. È un gatto vegetariano, dice la topolina della fiaba. Non mi fa paura: è vegetariano. Giordana scrive, scrive. "Il tempo corre in fretta. Troppo spesso rimandiamo quello che dovremmo fare prima che sia troppo tardi". Il tempo corre. Troppo tardi. Non era violento. Ritira la denuncia. Le madri, la botola. Asia nel letto. La giustizia farà il suo corso. Era entrato dalla finestra. Era solo geloso. Il coltello. La macchina. La notte. Non esistono gatti vegetariani. Ragazze: la presunzione uccide. Madri: la botola è lì, cercate meglio. Giudici: troppo spesso è troppo tardi. Amiche: non era solo geloso. È un attimo. Come si fa, come si fa. Asia, perdonaci. Riscattaci dalle prudenze, da tutti questi errori, da questa giustizia che è stata troppo lenta per te. Prova a vivere lo stesso, se puoi. Fallo per lei. Fallo, per favore, anche per noi. Balla lo stesso la tua vita. Balla, Asia. Provaci. Qualcuno, se esiste giustizia, farà un paese più giusto. Che lascia vivere le ragazze. Farà un paese per te. Giustizia: anche in Italia servono norme più severe sulla vendita delle armi di Raul Caruso Avvenire, 8 ottobre 2015 La strage in Oregon ha riacceso in America polemiche e discussioni in merito all’opportunità di limitare la diffusione delle armi da fuoco. In Italia, a dispetto di sbandierate preoccupazioni per la sicurezza, un qualsivoglia dibattito in merito è paradossalmente inesistente. Tra gli studiosi non vi è dubbio alcuno riguardo il costo sociale della disponibilità di armi da fuoco: in numerosi e autorevoli studi emerge chiara e incontestabile l’evidenza che a una loro maggiore diffusione è associata una maggiore intensità di omicidi, suicidi e di altre forme di crimine violento. Alla luce di tale evidenza, al fine di prevenire la proliferazione di armi da fuoco anche nel nostro Paese, una normativa più stringente sarebbe un primo passo desiderabile. Il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, nel discorso di chiusura del Festival dell’Unità di Milano ha annunciato che il Pd ha intenzione di legiferare presto in materia. Dal 2013 al Senato è disponibile un disegno di legge (iniziativa delle senatrici Granaiola e Amati) che prevede tra le altre cose: limiti più stringenti alla detenzione di armi (come il divieto di detenere in casa le armi sportive), la costituzione di un’anagrafe informatizzata dei possessori di armi, obblighi di comunicazione tra le strutture sanitarie e le questure in merito alla salute mentale di chi richiede il certificato medico per il rilascio del porto d’armi e l’obbligo di stipulare un’assicurazione per la responsabilità civile verso terzi. Una legge che facesse proprie queste indicazioni andrebbe nella giusta direzione, ma potrebbe non essere sufficiente. Essa dovrebbe essere integrata da un programma di riacquisto (buyback) delle armi da fuoco. Un esempio famoso e illuminante in questo senso è quello australiano. Nel 1996 all’indomani di una strage operata da un uomo affetto da una malattia mentale, fu implementata una legislazione più severa volta a limitare la diffusione delle armi da fuoco. Pilastro di questa politica fu il buyback di alcuni tipi di armi da fuoco nel frattempo rese fuorilegge. Tra il 1996 e il 1997 circa seicentocinquantamila armi furono riacquistate e successivamente distrutte. Il risparmio di vite umane in questo caso fu eccezionalmente significativo. Nel giro di pochi anni, nel 2006, si calcolò che il tasso di omicidi per arma da fuoco era diminuito del 59% nei dieci anni successivi e così i suicidi, diminuiti del 65%. Inoltre, anche le rapine a mano armata risultarono in numero significativamente inferiore, ma era ancor più interessante notare che erano diminuiti anche gli omicidi e i suicidi non operati con arma da fuoco nonché altre categorie di crimini quali le violenze sessuali. Invero, la riduzione delle armi disponibili ha prodotto una ricaduta positiva per la società. Di conseguenza, unitamente a un controllo più severo in merito alla detenzione delle armi da fuoco sarebbe comunque necessaria anche la costituzione di un fondo per il loro riacquisto da parte delle questure in modo da creare un incentivo credibile negli individui. È necessario, comunque, sottolineare che eventuali programmi di buyback devono tenere in adeguata considerazione alcune criticità. In primo luogo essi dovrebbero includere il numero più ampio possibile di armi da fuoco, ivi comprese alcune tra le armi a uso sportivo. In secondo luogo, un programma di riacquisto dovrebbe basarsi su un prezzo che ecceda un prezzo medio di mercato in modo da creare un incentivo sostanziale negli individui. Questo implica un ulteriore impegno nel monitoraggio del mercato delle armi tuttora non esistente. La creazione di un osservatorio sui prezzi delle armi da fuoco è un tassello importante per una politica di buyback efficace. Inoltre, non può non tenersi in considerazione la disponibilità di armi in Paesi limitrofi a regolamentazione più blanda. È chiaro, infatti, che le armi da fuoco sono facilmente trasportabili e quindi è probabile oltre che profittevole la diffusione tra regioni o Paesi confinanti che abbiano un chiaro differenziale in termini di vincoli normativi. Un recente studio, ad esempio, ha dimostrato che in Messico la quantità di omicidi è più elevata nelle regioni settentrionali al confine con il Texas e l’Arizona, ma non in quelle con la California in cui le leggi sulla vendita delle armi sono più stringenti. In Europa aveva suscitato una certa eco nello scorso febbraio la rivelazione che i fucili automatici utilizzati nell’attacco al giornale satirico Charlie Hebdo erano state probabilmente acquistate in Slovacchia. Per essere realmente efficace un programma di riacquisto dovrebbe, quindi, avere una copertura europea. All’auspicata legiferazione nazionale dovrebbe affiancarsi un’iniziativa in questo senso presso gli organi dell’Unione. Essa, peraltro, non solo sarebbe in linea con la mission originaria dell’integrazione europea ma sarebbe anche auspicabile alla luce delle recenti preoccupazioni in termini di sicurezza. D’altro canto se un Paese annunciasse un programma di riacquisto di armi, gli individui avrebbero un incentivo diabolico ad acquistare armi in un Paese a prezzi più bassi e con regolamentazione più blanda per poi cederle nell’ambito del programma di riacquisto. Questo è tanto più probabile se consideriamo il fenomeno crescente delle vendite on line di armi da fuoco usate. Internet allarga i confini del mercato e quindi l’offerta di armi usate tende ad aumentare spingendo i prezzi verso il basso. Di conseguenza, la quantità e la varietà di armi detenute dagli individui tendono ad aumentare. Inoltre, in base al famoso meccanismo noto agli economisti del "mercato dei bidoni", sarà più probabile la diffusione di armi di qualità scadente con il conseguente aumento dei rischi di cattivo funzionamento e incidenti. È quindi essenziale che agli individui che abbiano aderito al programma di riacquisto dovrebbe essere fatto divieto di detenzione futura di armi da fuoco. In assenza di un limite di questo tipo, un prevedibile comportamento opportunistico sarebbe quello di cedere alle questure le armi da fuoco di bassa qualità o non più funzionanti per poi riacquistare nuovamente armi sul mercato. Le questure si troverebbero a raccogliere e distruggere armi scadenti senza alcun vantaggio sostanziale dal punto di vista della sicurezza sociale. Quale misura accessoria, al fine di rafforzare gli incentivi per gli individui ex detentori di armi potrebbero essere quindi garantiti ulteriori sconti fiscali in via permanente. Una lieve diminuzione degli introiti fiscali sarebbe trascurabile rispetto ai vantaggi sociali che ne deriverebbero. In linea generale, infatti, creare un sistema di incentivi, per quanto articolato, può risultare più efficace rispetto a un sistema basato esclusivamente su controlli e licenze che rischia di risultare eccessivamente costoso per le stesse amministrazioni dello Stato. La riforma della custodia cautelare si applica ai procedimenti in corso di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 8 ottobre 2015 Corte di cassazione, Quinta sezione penale, sentenza 7 ottobre n. 40342. Se la riforma della custodia cautelare sia retroattiva si vedrà. Intanto però si può affermare che se la procedura era ancora aperta, allora la riforma andava applicata. E il suo mancato rispetto conduce diritti alla scarcerazione dell’indagato. La Corte di cassazione arriva a queste conclusioni con la sentenza n. 40342 della Quinta sezione penale, depositata ieri, con la quale i giudici prendono posizione sulla fase transitoria nell’applicazione dell’articolo 309 del Codice di procedura penale. La disposizione che è stato modificata dalla legge n. 47 di quest’anno prevede adesso la sanzione dell’inefficacia della misura cautelare nel caso in cui l’ordinanza che ha deciso sulla richiesta di riesame non viene depositata entro 30 giorni dalla decisione, termine prorogabile di altri 15 giorni nei casi particolarmente complessi. Nel caso approdato in Cassazione si era verificato proprio un mancato rispetto sia del termine lungo sia di quello breve. La decisione di infliggere la custodia preventiva era stata presa precedentemente all’entrata in vigore della riforma, sia pure di un solo giorno. Di qui il ricorso tutto centrato sulla portata retroattiva di una disposizione di natura processuale. Questione sulla quale però, nella sentenza, ora la Corte non interviene in maniera diretta, sostenendo che, invece, la soluzione andava trovata su un altro piano. Infatti, l’attività procedimentale, sottolinea la pronuncia, oggetto della normativa deve essere identificata non tanto nell’emissione del dispositivo dell’ordinanza quanto piuttosto nella redazione delle motivazioni della stessa. Pertanto si può fare riferimento ai precedenti della stessa Cassazione in materia di condizioni per la proponibilità dell’appello in coincidenza con l’entrata in vigore della riforma dei termini di prescrizione introdotta nel 2005. In questa prospettiva, così, avverte la sentenza, va ricordato che, al momento in cui entrava in vigore la nuova disciplina, i termini per la stesura della motivazione erano ancora aperti. L’attività regolamentata dall’articolo 309 nella nuova formulazione, consistente appunto nella redazione delle motivazioni dell’ordinanza, era ancora in corso e soggetta alla riforma, sia con riferimento alla durata dei termini per la stesura sia con riferimento alla sanzione dell’inefficacia. I termini, tra l’altro, erano, di fatto, disponibili quasi integralmente. Non avrebbe infine rappresentato un ostacolo neppure la possibile complessità del caso perché il giudice avrebbe ben potuto esercitare quella possibilità di proroga di 15 giorni che comunque è riconosciuta dal Codice di procedura penale. Ma a non essere stato rispettato è stato pure questo termine più lungo, compromettendo, nella lettura della Corte, in questo modo anche la possibilità di considerare esercitata di fatto l’opportunità di una scadenza più ampia per il deposito. Inevitabile allora la scarcerazione dell’imputato. Va in carcere chi divulga notizie false di Lucia Prete Italia Oggi, 8 ottobre 2015 La Cassazione, in tema di libertà di stampa, ha stabilito che "la divulgazione di notizie false non può mai presupporre una tutela della libertà di espressione di chi ne sia responsabile", in tal caso al giornalista può essere inflitta la pena detentiva. La Corte ulteriormente ha anche affermato che "esprimere una valutazione su fatti reali, quando non vi sia base oggettiva perché i fatti in questione si prestino alla lettura che ne viene offerta, può realizzare una condotta diffamatoria" (sentenza 39195/2015). La Cassazione mette in evidenza che la Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) ha ripetutamente ribadito che la legittimità della regolamentazione dell’esercizio della libertà di espressione da parte dello stato va valutata anche tenendo presente la natura e la severità delle pene adottate, non potendosi, in generale, prevedere strumenti punitivi che abbiano l’effetto di dissuadere la stampa dallo svolgere il suo ruolo informativo. La Cedu, pertanto, ha ritenuto, avendo presente sia la tutela accordata dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo alla libertà di opinione, sia la fondamentale funzione sociale svolta da mezzi di comunicazione (che è, appunto, quella di garantire ai consociati la conoscenza di fatti e opinioni di interesse generale), che l’applicazione della misura detentiva non può che avvenire in via eccezionale. I giudici di legittimità ritengono che vada tenuta distinta l’ipotesi della r pubblicazione di un giudizio, anche negativo, nei confronti di una persona o di una condotta dal caso di divulgazione di una notizia falsa. Formulare un giudizio su fatti reali, se questo non è supportato da una "base oggettiva perché i fatti in questione si prestino alla lettura che ne viene offerta", può costituire comportamento diffamatorio che, però, non può essere sanzionato con l’inflizione della pena detentiva al giornalista che lo ha espresso, secondo quanto stabilito dalla giurisprudenza della Cedu, mentre la diffusione di una notizia pacificamente falsa rende legittima l’applicazione della sanzione detentiva. I giudici di legittimità ritengono che la divulgazione di notizie non vere, nella piena consapevolezza della loro falsità da parte del giornalista, non può essere compresa tra i comportamenti tutelati dal diritto alla libertà di opinione. Tra tali diritti è invece compresa la ricerca della verità storica. La Cassazione ricorda, inoltre, che tanto la giurisprudenza, italiana (di legittimità e di merito) quanto quella sovranazionale ritengono che il diritto di informazione, anche se costituzionalmente garantito, non può comprendere la divulgazione di notizie false. I principi richiamati dalla Cassazione trovano conferma anche nelle decisioni della Cedu dove si afferma che "il diritto del giornalista alla libertà di espressione è tutelato a condizione che egli agisca in buona fede, sulla base di fatti correttamente riportati, e fornisca informazioni affidabili e precise nel rispetto dell’etica giornalistica". Stalking, il reato non pecca di "indeterminatezza" di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 8 ottobre 2015 Corte di cassazione - Sezione V - Sentenza 14 aprile 2015 - 6 luglio 2015 n. 28703. La Cassazione (sentenza 14 aprile 2015 - 6 luglio 2015 n. 28703), richiamando la decisione n. 172 del 2014 con cui già la Corte costituzionale aveva escluso profili di incostituzionalità, ribadisce che la fattispecie incriminatrice degli atti persecutori (articolo 612 bis del Cp) non contrasta con l’articolo 25 della Costituzione per eccesso di indeterminatezza. A supporto la Corte ha provveduto ad analizzare gli elementi costitutivi del reato e, rispetto ad essi, lo sforzo probatorio richiesto al giudice di merito per dare concretezza all’ipotesi accusatoria. Minacce e molestie - Così, sotto il profilo della condotta materiale, si evidenzia la fattispecie di cui all’articolo 612 bis del Cp si configura come specificazione delle condotte di minaccia o di molestia già contemplate dal codice penale, agli articoli 612 e 660 del Cp, onde l’applicazione giurisprudenziale su tali reati non solo agevola l’interpretazione della disposizione di che trattasi, ma offre soprattutto la riprova che la descrizione legislativa corrisponde a comportamenti effettivamente riscontrabili e riscontrati nella realtà. Vale allora osservare, in proposito, che, per la nozione di "minaccia", può senz’altro richiamarsi l’interpretazione consolidata formatasi sul reato di cui all’articolo 612 del Cp, onde per tale deve intendersi la rappresentazione di un "male ingiusto dipendente dalla volontà dell’agente" (deve però trattarsi, pur sempre, di un comportamento univocamente idoneo ad ingenerare timore, sicché possa essere turbata o diminuita la libertà psichica del soggetto passivo: Sezione V, 14 dicembre 2012, Proc. Rep. Trib. Lecce ed altro in proc. Fracasso). Mentre, quanto alla nozione di "molestia", il richiamo all’articolo 660 del Cp è in tutta probabilità limitativo, dovendo piuttosto farsi richiamo alle più ampie indicazioni ricavabili dai lavori preparatori sì da fare rientrare nell’ambito di operatività del reato ogni "comportamento assillante e invasivo della vita altrui realizzato mediante la reiterazione insistente di condotte intrusive, quali telefonate, appostamenti, pedinamenti, fino, nei casi più gravi, alla realizzazione di condotte integranti di per sé reato (aggressioni fisiche, danneggiamenti)". Ne deriva che la nozione di "molestia" rilevante quale atto persecutorio è più estesa di quella presa in considerazione nella fattispecie contravvenzionale, la cui formulazione letterale non è in grado di cogliere il proprium del delitto, laddove qualificante e rilevante la realizzazione dell’evento rappresentato dal condizionamento materiale e/o psicologico della vittima. Basti pensare il reato contravvenzionale di molestia deve escludersi (mentre non è dubbia la configurabilità dello stalking) sia per la corrispondenza epistolare in forma cartacea, inviata, recapitata e depositata nella cassetta (o casella) della posta sistemata presso l’abitazione del destinatario, sia nel caso dell’invio di un messaggio di posta elettronica, giacché entrambe le ipotesi non comportano un’ "immediata interazione" tra il mittente e il destinatario, né alcuna intrusione diretta del primo nella sfera di attività del secondo: e ciò a differenza della telefonata (e del messaggio "sms") (cfr. Sezione I, 17 giugno 2010, D’Alessandro; Sezione I, 27 settembre 2011, Ballarino ed altri, che, quindi, ha annullato senza rinvio, con la formula "perché il fatto non è previsto come reato", la sentenza che, invece, aveva ravvisato la contravvenzione nella condotta sostanziatasi nell’invio di messaggi molesti tramite internet sul computer del destinatario; Sezione I, 7 giugno 2012, Cappuccio, che ha escluso la contravvenzione relativamente all’ipotesi dell’invio di messaggistica elettronica, nella specie, mediante il servizio di messaggeria telematica MSN Messenger). Proprio in ragione del rilievo qualificante dell’"evento" dannoso ai fini della configurabilità degli atti persecutori, nella nozione di "molestia" rilevante ex articolo 612 bis del Cp devono quindi farsi rientrare tutte le condotte "assillanti ed invasive" della vita altrui idonee a determinare l’evento caratterizzante il reato. La "reiterazione" della condotta - Resta inteso, ovviamente, che, per assumere rilievo a titolo di stalking, le condotte di minaccia e/o di molestia devono essere però "reiterate", trattandosi di un reato tipicamente abituale (cfr. Sezione I, 8 febbraio 2011, Confl. comp. in proc. C.). A tal proposito, secondo la giurisprudenza, per la configurazione del requisito della "reiterazione" delle condotte di minaccia o molestia rilevanti per integrare il proprium dell’elemento oggettivo dello stalking, bastano anche "due soli" episodi di molestia o di minaccia (cfr. Sezione V, 27 novembre 2012, F.). Ciò si spiega con il rilievo che il termine "reiterare" denota la ripetizione della condotta, ma a tal fine non è necessario che si tratti di una ripetizione insistita e plurima, bastando anche la ripetizione della condotta "una seconda volta". Quindi, anche due sole condotte sono sufficienti a concretare quella reiterazione cui la norma subordina la configurazione della materialità del fatto (in termini, cfr. anche Sezione V, 21 gennaio 2010, O.; nonché, Sezione V, 2 marzo 2010, Proc. Rep. Trib. Chieti in proc. V.). Del resto, lo stalking è un reato "di evento", nel senso che per l’integrazione della fattispecie incriminatrice ciò che importa è che la condotta incriminata - reiterata, ma anche per sole due volte - abbia determinato la realizzazione di uno dei tre eventi alternativi richiesti ai fini della consumazione. L’evento del reato - Lo stalking costituisce, appunto, un reato "di evento", giacché la condotta materiale (reiterati episodi di minacce o molestie) deve avere determinato, in forma alternativa, la realizzazione di uno tra tre tipi di evento: cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero, in alternativa, ingenerare nella vittima un fondato timore per la propria incolumità ovvero, sempre in alternativa, costringere la vittima stessa ad alterare le proprie abitudini di vita (cfr. anche Sezione V, 22 giugno 2010, Proc. Rep. Trib. Napoli in proc. D.G.; nonché, Sezione V, 19 maggio 2011, L.). È proprio la realizzazione di uno o più di questi eventi che ne fissa il momento consumativo. L’alternatività degli eventi, del resto, consente di ravvisare il reato anche quando non si realizzino contestualmente tutti gli eventi dannosi: per intenderci, quando la condotta incriminata abbia indotto nella vittima uno stato di ansia e di timore per la propria incolumità il reato è configurabile senza che sia necessario l’essersi verificato anche un mutamento delle abitudini di vita della persona offesa (cfr. Sezione V, 14 novembre 2012, O.). A tal proposito, la Corte sottolinea che il relativo apprezzamento compete al giudice, il quale deve anche dimostrare il "nesso causale" tra la condotta posta in essere dall’agente e i turbamenti derivati alla vita privata della vittima. In particolare, quanto al "perdurante e grave stato di ansia e di paura" ed al "fondato timore per l’incolumità", trattandosi di eventi che riguardano la sfera emotiva e psicologica, essi devono essere accertati attraverso un’accurata osservazione di segni e indizi comportamentali, ricavabili dalle dichiarazioni della stessa vittima del reato, dai suoi comportamenti conseguenti alla condotta posta in essere dall’agente, nonché dalle condizioni soggettive della vittima, purché note all’agente, e come tali necessariamente rientranti nell’oggetto del dolo. Mentre l’aggettivazione in termini di "grave e perdurante" stato di ansia o di paura e di "fondato" timore per l’incolumità, vale a circoscrivere ulteriormente l’area dell’incriminazione, in modo che siano da ritenere irrilevanti ansie di scarso momento, sia in ordine alla loro durata sia in ordine alla loro incidenza sul soggetto passivo, nonché timori immaginari o del tutto fantasiosi della vittima. Quanto al riferimento alle "abitudini di vita", osserva la Corte, la formulazione della norma opera un verificabile rinvio al complesso dei comportamenti che una persona solitamente mantiene nell’ambito familiare, sociale e lavorativo, e che la vittima è costretta a mutare a seguito dell’intrusione rappresentata dall’attività persecutoria, mutamento di cui l’agente deve avere consapevolezza ed essersi rappresentato, trattandosi di reato, appunto, punibile solo a titolo di dolo. Lo stato di ansia e di paura - Va soggiunto, quanto alla dimostrazione dell’evento "stato di ansia e di paura", che, secondo la giurisprudenza prevalente, è a tal fine sufficiente che gli atti abbiano avuto un effetto destabilizzante della serenità e dell’equilibrio psicologico della vittima (cfr., di recente, Sezione V, 14 novembre 2012, O.; in termini, Sezione V, 1° dicembre 2010, R.), non essendo richiesto l’accertamento di uno "stato patologico", considerato che la fattispecie incriminatrice di cui all’articolo 612 bis del Cp non costituisce una duplicazione del reato di lesioni (articolo 582 del Cp), il cui evento è configurabile sia come malattia fisica che come malattia mentale e psicologica (in termini, Sezione V, 10 gennaio 2011, C.; Sezione III, 23 maggio 2013, U.; nonché, Sezione V, 28 novembre 2013, C.). Ne deriva, dal punto di vista probatorio, la non necessità del riscontro attraverso una certificazione sanitaria, in ipotesi attestante una "patologia" determinata dal comportamento persecutorio (ad esempio, un certificato medico attestante di una sindrome ansioso depressiva). La prova, infatti, può essere dedotta anche dalla natura dei comportamenti tenuti dall’agente, qualora questi siano idonei a determinare in una persona comune tale effetto destabilizzante (Sezione V, 28 febbraio 2014, D’E.). L’alterazione delle abitudini di vita - Mentre, quanto all’evento sostanziatosi nella "alterazione delle abitudini di vita", per tale si deve ogni mutamento significativo e protratto per un apprezzabile lasso di tempo dell’ordinaria gestione della vita quotidiana (quali, l’utilizzazione di percorsi diversi rispetto a quelli usuali per i propri spostamenti; la modificazione degli orari per lo svolgimento di certe attività o la cessazione di attività abitualmente svolte; il distacco degli apparecchi telefonici negli orari notturni, e simili), indotto nella vittima dalla condotta persecutoria altrui e finalizzato ad evitare l’ingerenza nella propria vita privata del molestatore (cfr. Sezione V, 27 novembre 2012, F.). Il timore per l’incolumità - Il terzo evento alternativo è rappresentato dal "fondato timore per l’incolumità" propria o delle persone vicine (la norma, stavolta, presenta una formulazione letterale imprecisa, quando riferisce il timore all’incolumità propria o di un prossimo congiunto "o di persona legata al medesimo", quasi prefigurando che la relazione debba intercorrere tra il terzo e il prossimo congiunto della vittima e non con la vittima stessa). Si tratta di un evento già a ben vedere ricompreso nel "grave e perdurante stato di ansia e di paura". Anche in questo caso, in sede di accertamento giudiziario, è necessario prescindere dalla (particolare) suscettibilità soggettiva della vittima, sì da pervenire ad un apprezzamento oggettivo del "timore", come imposto dall’utilizzo dell’aggettivo "fondato", che impone al giudice una valutazione appunto "oggettiva" del timore e dell’idoneità dello stesso a recare turbamento alla vittima, secondo un apprezzamento "medio", che trascende dall’opinione della vittima. La vicenda processuale - Da queste premesse, la Cassazione ha rigettato il ricorso avverso la sentenza di condanna, avendo verificata l’esattezza delle conclusioni raggiunte dal giudice di merito. Il fatto nella sua materialità non era neppure controverso: all’imputato erano addebitati quotidiani appostamenti, osservazioni, pedinamenti in un arco temporale "amplissimo". Dimostrato in modo adeguato era anche l’evento, qui sostanziatosi nell’avere determinato nella vittima uno stato di ansia e di timore per l’incolumità propria e del figlio, oltre che nell’avere indotto la vittima stessa a modificare in modo sensibile le proprie abitudini di vita, cambiando tempi e modi di uscita dalla propria abitazione per non incontrare l’imputato. La massima Reati contro la persona - Reati contro la libertà individuale - Atti persecutori - Determinatezza della fattispecie incriminatrice (Costituzione, articolo 25; cp, articolo 612 bis). La fattispecie incriminatrice degli atti persecutori (articolo 612 bis del Cp) non contrasta con l’articolo 25 della Costituzione per eccesso di indeterminatezza. Precedenti Reati contro la libertà individuale - Atti persecutori - Elemento materiale - Eventi alternativi - Reiterazione delle condotte (Cp, articolo 612 bis). Il delitto di atti persecutori (c.d. stalking) (articolo 612 bis del Cp) è un reato che prevede eventi alternativi, la realizzazione di ciascuno dei quali è idoneo ad integrarlo, essendo quindi configurabile quando il comportamento minaccioso o molesto, posto in essere con condotte reiterate, abbia cagionato nella vittima o un grave e perdurante stato di turbamento emotivo ovvero abbia ingenerato un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona alla medesima legata da relazione affettiva ovvero ancora abbia costretto la vittima ad alterare le proprie abitudini di vita; bastando, comunque, ad integrare la reiterazione quale elemento costitutivo del reato anche due sole condotte di minaccia o di molestia. Sezione V, 27 novembre 2012- 15 maggio 2013 n. 20993; Pres. Zecca; Rel. Guardiano; Pm (conf.) Gaeta; Ric. F. Reati contro la libertà individuale- Atti persecutori- Elemento materiale- Fattispecie (Cp, articolo 612 bis) È idoneo ad integrare l’evento del reato di atti persecutori (c.d. stalking) (articolo 612 bis del Cp) un grave e perdurante stato di turbamento emotivo, essendo a tal fine sufficiente che gli atti abbiano avuto un effetto destabilizzante della serenità e dell’equilibrio psicologico della vittima, non essendo richiesto l’accertamento di uno stato patologico, considerato che la fattispecie incriminatrice di cui all’articolo 612 bis del Cp non costituisce una duplicazione del reato di lesioni (articolo 582 del Cp), il cui evento è configurabile sia come malattia fisica che come malattia mentale e psicologica. Sezione V, 14 novembre 2012- 29 aprile 2013 n. 18819; Pres. Zecca; Rel. Micheli; Pm (conf.) Volpe; Ric. O. Abuso del diritto depenalizzato, ma resta la sanzione amministrativa di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 8 ottobre 2015 Corte di cassazione, Terza sezione penale, sentenza 7 ottobre 2015 n. 40272. L’abuso del diritto è ormai depenalizzato. E l’impatto è immediato sui procedimenti in corso, portando di fatto al proscioglimento, con la classica formula "perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato", anche chi era già stato condannato due volte dai giudici di merito. Questa la presa d’atto della Corte di cassazione che, con la sentenza n. 40272 della Terza sezione penale, applica per la prima volta la riforma entrata in vigore lo scorso 1° ottobre. È stato così assolto il rappresentante legale di una società sanzionato sia in primo sia in appello dai giudici di Milano per il reato di dichiarazione infedele. La colpa? Avere posto in essere un contratto di "stock lending" sottoscritto con l’unico obiettivo di evadere le imposte sui redditi. Approdato il caso in Cassazione, la sentenza depositata ieri mette in evidenza come, per effetto dell’articolo 10 bis, comma 13, della legge n. 212 del 2000 (lo Statuto dei diritti del contribuente), appena introdotto, le contestazioni fondate sull’elusione fiscale e sull’abuso del diritto non sono più punite sul piano penale, semmai su quello amministrativo. Il che condurrebbe, puntualizza la Corte, nel caso in questione a potere eventualmente infliggere una sanzione dal 100% al 200% della maggiore imposta. La Cassazione ripercorre puntigliosamente il percorso normativo che ha condotto alla depenalizzazione. Sin dalla legge delega n. 23 del 2014, la cui previsione sul punto era indirizzata, nell’assenza di una clausola antielusiva generale, a riequilibrare il rapporto tra lo strumento di contrasto all’elusione e la certezza del diritto, nella consapevolezza di una "prassi amministrativa di sindacare ex post le scelte dei contribuenti sulla base di orientamenti non noti al momento in cui le operazioni sottoposte a controllo sono già decise ed effettuate". Il nuovo articolo dello Statuto, ricorda la Corte, mette in evidenza l’unificazione della nozione di abuso del diritto con quella di elusione fiscale. I 3 presupporti dell’abuso del diritto allora sono: 1) l’assenza di sostanza economica delle operazioni effettuate; 2) la realizzazione di un vantaggio fiscale indebito; 3) la circostanza che il vantaggio è l’effetto essenziale dell’operazione. Requisiti poi sui quali la norma, scrivono i giudici, si sofferma in maniera analitica chiarendone il significato. Determinante è allora la nozione di vantaggio fiscale indebito, vero argine alla libertà di iniziativa economica, facendo di conseguenza diventare ancora più delicata l’operazione di individuazione della ratio della singola norma tributaria. In questo senso, esemplifica la sentenza, non è certo abusiva la condotta di chi per procedere all’estinzione di una società mette in atto una fusione, invece di provvedere alla semplice liquidazione. La Corte si concentra poi sul regime transitorio, sottolineando che la riforma deve essere applicata anche ai procedimenti in corso, distinguendo però tra piano penale e piano amministrativo. Sul primo, la conclusione è appunto quella di un’avvenuta depenalizzazione che conduce al proscioglimento, nel rigoroso rispetto dei principi base del diritto penale, oltre che della Costituzione e delle Convenzioni internazionali (New York 1966). Ma sul piano amministrativo, sul quale la condotta può ancora assumere rilevanza, visto che, come ovvio, era stato notificato l’atto di accertamento, la sentenza osserva che tutto resta impregiudicato. Anzi, conclude la pronuncia, pur non essendo stato previsto un obbligo vero e proprio, la scelta del legislatore di procedere a una totale irrilevanza della condotta, ha come conseguenza la trasmissione da parte della Corte del dispositivo della sentenza all’amministrazione finanziaria competente per le scelte del caso. Aggravante dell’uso del metodo mafioso. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 8 ottobre 2015 Reati contro il patrimonio - Estorsione - Circostanze - Aggravante dell’uso del metodo mafioso - Messaggio intimidatorio. Nel reato di estorsione, integra la circostanza aggravante dell’uso del metodo mafioso l’utilizzo di un messaggio intimidatorio anche "silente", cioè privo di richiesta, qualora l’associazione abbia raggiunto una forza intimidatrice tale da rendere superfluo l’avvertimento mafioso, sia pure implicito, ovvero il ricorso a specifici comportamenti di violenza e minaccia. • Corte di cassazione, sezione V, sentenza 22 maggio 2015 n. 21562. Reati contro il patrimonio - Estorsione - Circostanze - Aggravante dell’uso del metodo mafioso. Integra la circostanza aggravante dell’uso del metodo mafioso la condotta di colui che prospetti l’utilizzo delle somme estorte per aiutare le famiglie degli "amici carcerati", non rilevando in proposito che l’esistenza dell’organizzazione criminale non sia stata menzionata nel contesto delle richieste estorsive, in quanto il mezzo di coartazione della volontà facente ricorso al vincolo mafioso, e alla connessa condizione di assoggettamento, può esprimersi in forma indiretta, o anche per implicito. • Corte di cassazione, sezione II, sentenza 18 febbraio 2014 n. 7558. Reato - Circostanze - Aggravante speciale del metodo mafioso - Collegamento con contesti di criminalità organizzata - Sufficienza - Esclusione - Effettiva utilizzazione del metodo mafioso - Necessità. La configurabilità della circostanza aggravante prevista dall’articolo 7 D.L. 13 maggio 1991 n. 152, conv. in legge 12 luglio 1991 n. 203 nella forma del "metodo mafioso" è subordinata alla sussistenza nel caso concreto di condotte specificamente evocative della forza intimidatrice derivante dal vincolo associativo, non potendo essere desunta dalle mere caratteristiche soggettive di chi agisce, anche in concorso con altri. • Corte di Cassazione, sezione V, sentenza 13 ottobre 2014 n. 42818. Reati contro il patrimonio - Estorsione - Aggravante dell’uso del metodo mafioso. In tema di tentata estorsione, integra la circostanza aggravante prevista dall’articolo 7 del D.L. 13 maggio 1991, n. 152, convertito in legge 12 luglio 1991, n. 203, la condotta di colui che, pur se estraneo ad organizzazioni criminali, chiede la dazione di somme di denaro con tipica metodologia mafiosa attraverso l’allusione ad esigenze di altri non ben precisati soggetti, facendo riferimento all’esistenza di amici in comune, a regali da fare ed alla necessità per le persone offese di "mettersi a posto" per le festività pasquali e natalizie. • Corte di Cassazione, sezione I, sentenza 31 luglio 2013 n. 33245. Lettere: toghe, troppa politica impropria o poca politica (buona)? di Renalo Balduzzi Avvenire, 8 ottobre 2015 Ritorna, con toni a volte forzati, il dibattito sulle componenti organizzate della magistratura, sulla loro asserita degenerazione corporativa e sull’eccesso di politicizzazione delle medesime. Proviamo a distinguere. Una cosa è la necessaria distanza del singolo magistrato dall’attività di partiti politici e movimenti e la necessità di regolare meglio l’eventuale andata-ritorno in cariche elettive e pubbliche, al fine di salvaguardare la sostanza e l’apparenza dell’indipendenza e terzietà del magistrato stesso. Sul punto, in questi giorni il Csm ha predisposto una risoluzione che incoraggia le Camere a dettare una disciplina meno lacunosa e a scoraggiare improprie fungibilità tra funzioni giudiziarie e funzioni politiche. Altra cosa è la valutazione della magistratura organizzata. Più che il prodotto della politicizzazione, il correntismo esasperato sembra l’effetto di una progressiva atrofia delle idealità politico-culturali che caratterizzarono la nascita delle "correnti": indebolite le idealità e la convinzione di essere portatori di una specifica visione della magistratura e dei suoi rapporti con la società, il rischio è che rimanga il solo cemento del potere e del gruppo, territoriale o personale. Ecco perché è oggi più che mai urgente una nuova stagione della magistratura organizzata, caratterizzata forse non più da improprie "supplenze" o dall’attenzione esclusiva sui diritti, ma dalla capacità di intrecciare e combinare virtuosamente diritti e doveri, così anche aiutando il potere politico a ritrovare la dignità della legislazione e, per questa via, la fiducia della parte più sana dell’opinione pubblica. Avere regole più certe significa anche ridurre (senza peraltro mai annullare) lo spazio della magistratura che interpreta e applica la regola, ripristinando dunque una maggiore confidenza tra il cittadino e il magistrato. Anche su uno degli argomenti maggiormente controversi, quello delle nomine dei cosiddetti capi degli uffici giudiziari, regole più certe possono aiutare a stabilire sin dove può e deve arrivare la discrezionalità del Csm e, per contro, dove deve arrestarsi il controllo di legalità del giudice amministrativo che a quella discrezionalità non può mai in toto sostituirsi. Recentemente, il Csm si è dato nuove regole per tali nomine e proprio oggi pomeriggio si svolge, nella sua sede, un seminario di studio con prestigiosi relatori per fare il punto sulla questione. Ci torneremo su. Lettere: la solitudine di un magistrato che si è messo in testa di cambiare la giustizia di Maurizio Tortorella Tempi, 8 ottobre 2015 Nel febbraio 2014, quando Matteo Renzi salì le scale del Quirinale per presentare a Giorgio Napolitano la lista dei ministri "in pectore", il suo nome occupava la casella della Giustizia. E probabilmente Nicola Gratteri sarebbe stato un ottimo ministro. Invece il Presidente della Repubblica obbligò il giovane presidente del Consiglio a cancellare il suo nome. Si disse allora che quel veto fu dettato da ragioni di opportunità politico-istituzionale. E forse qualcosa era vero: un magistrato che diventa Guardasigilli qualche dubbio lo solleva. Ma allora perché un magistrato (Piero Grasso) è divenuto poi presidente del Senato? Resta il fatto che Gratteri, dal febbraio 2009 procuratore aggiunto a Reggio Calabria e magistrato di punta nella repressione della ‘ndrangheta, ormai la prima organizzazione criminale d’Italia (e probabilmente mondiale), sarebbe stato un ottimo ministro della Giustizia. L’uomo ha grande esperienza e idee chiare, spesso propone soluzioni di equilibrio. Nell’aprile 2014, intervistato da chi scrive, Gratteri aveva confermato seccamente l’esistenza dell’accordo con Renzi è del "tradimento" dell’ultimo minuto: "Qualcuno mi ha fermato", aveva detto il magistrato, spiegandone così il perché: "Avevo un programma che avrebbe cambiato tante cose, avrebbe smontato quel che nella giustizia penale e civile non funziona". Renzi, quasi per scusarsi della figuraccia patita al Quirinale, nel settembre 2014 aveva cercato di rimediare. Così aveva deciso di nominare Gratteri presidente della commissione per la riforma delle norme antimafia. Già a metà dello scorso gennaio il magistrato aveva concluso un lavoro monumentale, fatto di 246 pagine per 130 nuovi articoli di codice che, aveva dichiarato Gratteri, potevano "entrare in vigore all’80 per cento subito, con un decreto legge". Chi si dà da fare non la passa liscia. Va detto: alcune delle proposte di Gratteri hanno ricevuto critiche dal fronte garantista e dell’avvocatura. Ma sta di fatto che nove mesi dopo di quella ipotesi di riforma non è passato quasi nulla. Chissà, forse Andrea Orlando, poi divenuto ministro della Giustizia al posto del procuratore aggiunto, si è messo di traverso; o forse i 92 magistrati che lavorano nel palazzone sordo e grigio del ministero hanno frenato la verve del collega (si sa, la categoria è malata d’invidia). Forse, più banalmente, a bloccare ogni cosa è stato il muro di gomma della giustizia italiana. Resta il fatto che Gratteri è probabilmente una delle migliori intelligenze giudiziarie italiane, ma come mostrano queste due vicende è già stato sacrificato due volte sull’altare della politica. E non basta: presto per l’alto magistrato arriverà un terzo colpo. Perché il procuratore aggiunto, in omaggio alle norme, dovrà anche lasciare Reggio Calabria per scadenza di mandato: "Fra un anno me ne vado", ha annunciato lo stesso Gratteri parlando a Roma, alla Giornata della giustizia. "Dovrò andare in giro a cercare altro, sperando stavolta che i centri di potere non siano anche lì. Ma io posso anche fare il sostituto procuratore. E comunque resto un uomo libero". Gratteri ha concluso aggiungendo poche parole, molto amare: "Vengo combattuto dai centri di poteri che hanno molta forza nelle istituzioni: vuol dire che qualcosa sto facendo". In effetti, chi cerca di fare qualcosa per la giustizia italiana spesso si trova bloccato, azzoppato, isolato. Un vero peccato. Basilicata: conclusa la visita ispettiva del Sappe, criticità saranno comunicate a Ministero basilicata24.it, 8 ottobre 2015 Il Sappe ha terminato le visite nelle carceri lucane nel corso delle quali ha incontrato i poliziotti in servizio a Matera, Melfi e Potenza. La delegazione sindacale era composta dal Segretario Generale Sappe Donato Capece e da quello Regionale della Basilicata Saverio Brienza. "Si è trattato di incontri molto importanti, che hanno permesso di tastare il polso della situazione penitenziaria lucana", spiega Capece, annunciando che "al Ministro della Giustizia Andrea Orlando il Sappe invierà una dettagliata relazione sollecitando il Guardasigilli ad adottare urgenti provvedimenti per sanare le problematiche riscontrate". Circa il carcere di Potenza, Capece sottolinea che "la Casa Circondariale potentina soffre una carenza organica di circa 40 unità e la carenza maggiormente pregnante è quella relativa al ruolo dei Sovrintendenti. Questo determina ulteriore carenza nell’organico degli Assistenti Capo, costretti a sopperire il ruolo dei primi nello svolgere le mansioni superiori di Coordinatori di Sorveglianza delle sezioni detentive. In più, il personale è anziano e pertanto la gestione diventa difficile sotto ogni profilo; l’età media è infatti superiore ai quarant’anni di età ". Brienza evidenzia che "la struttura detentiva seppur pulita e ben tenuta non è adeguata agli standards previsti dal Regolamento penitenziario e quindi il personale subisce il disagio dei detenuti, che spesso sfocia in aggressioni, autolesionismo ecc. Ma il personale di Polizia Penitenziaria è stanco di subire il carico di lavoro determinato da tali condizioni". A Melfi, invece, il Sappe ha constatato che "da poco si è proceduto a dare corso ad una nuova organizzazione del lavoro che però fa emergere alcune lacune nella predisposizione dei servizi. Durante la riunione è emerso che la Direzione penitenziaria predispone il servizio del personale in maniera non conforme alle vigenti disposizioni mentre il Nucleo addetto alle traduzioni ed ai piantonamenti è continuamente sottoposto a stress psicofisico in quanto quotidianamente viene comandato a svolgere servizio all’interno del carcere anche a scapito dell’entità delle scorte che sovente non appaiono sufficienti a garantire la totale sicurezza". Particolarmente grave la situazione relativa ai mezzi in uso alla Polizia Penitenziaria di Melfi: "il parco automezzi è assolutamente obsoleto, con automezzi che superano i 500.000 chilometri ed il Dap non provvede ad assegnazioni di nuovi automezzi. Basti pensare che gli automezzi in dotazione restano ricoverati presso le officine per molto tempo in attesa che assicurino la copertura finanziaria per provvedere alle riparazioni. Ulteriore criticità emersa è quella del mancata fornitura del vestiario in tutta la regione Basilicata da più di sei anni". Lucca: detenuto tenta di impiccarsi nel carcere di San Giorgio, salvato dagli agenti Il Tirreno, 8 ottobre 2015 Ha tentato di uccidersi nella sua cella del carcere di San Giorgio, ma è stato salvato dal tempestivo intervento dell’agente di polizia penitenziaria in servizio. Il detenuto ha provato a impiccarsi e "soltanto grazie all’intervento provvidenziale dell’agente di sezione si è evitato che l’estremo gesto avesse conseguenze L’ennesimo evento critico accaduto nel carcere di Lucca, dove pochi giorni fa si sono registrate aggressioni di detenuti a poliziotti penitenziari, è sintomatico di quali e quanti disagi caratterizzano la quotidianità penitenziaria", denuncia Donato Capece, segretario generale del Sindacato autonomo polizia penitenziaria (Sappe). Pasquale Salemme, segretario regionale toscano del Sappe, il primo e più rappresentativo dei Baschi Azzurri, evidenzia che "il detenuto che ha tentato il suicidio è uno straniero, di nazionalità marocchina, con posizione giuridica di giudicabile. Mi auguro che l’amministrazione penitenziaria proponga i poliziotti che hanno sventato il suicidio per una adeguata ricompensa a livello ministeriale". "Per fortuna delle Istituzioni, gli uomini della polizia penitenziaria svolgono quotidianamente il servizio in carcere - come a Lucca - con professionalità, zelo, abnegazione e soprattutto umanità, pur in un contesto assai complicato per il ripetersi di eventi critici", conclude Capece. "Ma non si può e non si deve ritardare ulteriormente la necessità di adottare urgenti provvedimenti: non si può pensare che la gestione quotidiana delle costanti criticità delle carceri toscane e del Paese sia lasciata solamente al sacrificio e alla professionalità delle donne e degli uomini della Polizia". Livorno: detenuti da tutta la Toscana per lavorare al recupero del territorio di Pianosa di Luca Lunedì quinewselba.it, 8 ottobre 2015 Un nuovo protocollo tra Comune, Provveditorato e Parco prevede l’arrivo di detenuti da tutta la regione per eseguire lavori sull’isola di Pianosa. Nuove forze in arrivo sull’isola di Pianosa nel programma che prevede lavori di difesa del territorio e la sua valorizzazione ad opera dei detenuti. Un nuovo protocollo firmato dalle tre amministrazioni interessate (Parco Nazionale Arcipelago Toscano, Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria e Comune di Campo nell’Elba) prevede infatti che sull’isola vengano impiegati detenuti provenienti da Porto Azzurro e da altre strutture toscane. Un protocollo, valido per il triennio 2015 - 2017 "teso a realizzare un’azione congiunta per la difesa dell’ambiente del territorio dell’isola di Pianosa, per la sua valorizzazione, tenuto conto della possibilità di sviluppare programmi avanzati di trattamento che impegnino persone in esecuzione di pena detentiva". I tre firmatari, il sindaco Lorenzo Lambardi, il presidente del Parco Giampiero Sammuri e il Provveditore Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria Carmelo Cantone, hanno infatti stabilito la "necessità e opportunità di creare strumenti di collaborazione comuni al fine di realizzare i seguenti obiettivi fondamentali nei quali si riconoscono: Tutela ambientale e valorizzazione del territorio dell’Isola di Pianosa, Utilizzo e valorizzazione del territorio nella competenza del Comune di Campo nell’Elba, Realizzazione di programmi trattamentali avanzati, in considerazione della loro valenza sociale, che vedano impegnate persone condannate in esecuzione di pena detentiva". "Il Provveditorato - si legge nello schema di convenzione - si impegna a destinare ad attività lavorativa all’interno dell’isola persone condannate in regime di lavoro all’esterno. Tali persone perverranno in una prima fase dalla Casa di Reclusione di Porto Azzurro e successivamente anche da altri istituti della regione. Per l’alloggiamento dei condannati lavoranti sarà utilizzato il complesso denominato "Sembolello", tuttora assegnato al Ministero di Giustizia. Rimane impregiudicata la possibilità di utilizzare, per l’alloggiamento dei detenuti impegnati nei programmi che risulteranno necessari per il raggiungimento di ulteriori obiettivi condivisi tra i firmatari del presente accordo, altri siti da ristrutturare già assegnati al Ministero di Giustizia". "La Direzione della Casa Reclusione di Porto Azzurro sarà datore di lavoro dei lavoranti ad eccezione di quelli che avranno uno specifico rapporto lavorativo con altri soggetti datoriali per le attività che saranno svolte sull’isola. I lavoratori alle dipendenze dell’Amministrazione Penitenziaria si occuperanno di attività di bonifica agraria e propedeutiche alla migliore fruizione dei luoghi da parte della collettività". A vigilare sul rispetto dell’accordo e in definitiva sulla sua generale attuazione sarà un comitato formato da esponenti delle tre amministrazioni che dovrà: "produrre proposte per l’ampliamento delle attività lavorative da affidare ai detenuti condannati per una successiva valutazione congiunta dei firmatari del presente accordo, fornire il coordinamento tecnico e le indicazioni operative per la realizzazione dei lavori". Il Pnat ed il Comune di Campo nell’Elba si impegnano a realizzare momenti di formazione a favore dei condannati per l’attività da rendere sull’isola, già in fase di preparazione del loro avvio dalla Casa di reclusione di Porto Azzurro, attraverso incontri di gruppo in istituto ed altre iniziative che essi riterranno utili. Piacenza: erbe officinali prodotte dai detenuti con "ri-nascere nell’impresa" piacenzasera.it, 8 ottobre 2015 La cooperativa operaIO, da marzo 2015 è presente all’interno della Casa Circondariale di Piacenza con il progetto "Ri-nascere nell’Impresa" che prevede la coltivazione di erbe officinali per la produzione di tisane, infusi, confetture e zafferano. Grazie all’appoggio fondamentale della direzione, dell’ufficio educatori e dell’aiuto preziosissimo degli agenti di polizia penitenziaria, incontra due giorni alla settimana i detenuti. A seguito di un breve periodo di formazione in aula con un ricercatore dell’università Cattolica, Filippo Rossi e un agronomo Valerio Vinotti, attualmente è iniziata la coltivazione di erbe aromatiche per produrre mix per arrosti. Grazie alla grande serietà e precisione con cui i detenuti stanno affrontando il lavoro nei campi, reso ancor più pesante dalle dure condizioni climatiche che la stagione sta imponendo, la cooperativa ha deciso di investire maggiormente in tale progetto credendo fortemente nelle potenzialità "ristrette" dei detenuti. Per sostenere tale iniziativa la cooperativa ha dato avvio ad una campagna di raccolta fondi attraverso l’organizzazione di eventi. A tale proposito in occasione del suo primo anno di attività, desidera invitare tutta la cittadinanza piacentina sabato 10 ottobre 2015, presso l’Auditorium della Fondazione di Piacenza e Vigevano, al convegno "Una giustizia dal volto più umano". Parteciperanno il PM della corte d’appello di Ferrara, dott. Nicola Proto, il consigliere delegato dell’associazione Incontro &Presenza, Dott. Emanuele Pedrolli; la direttrice della Casa Circondariale di Piacenza, dott.ssa Caterina Zurlo; l’assessore al nuovo welfare, dott. Stefano Cugini. Dopo il convegno ci sarà il concerto del coro alpino Cicioi di Pavia che accompagnerà un momento di festa insieme e una degustazione di grappa. Si ringrazia caldamente la Fondazione di Piacenza e Vigevano che, oltre ad ospitare l’evento, è tra i sostenitori del progetto Ri-nascere nell’Impresa. Brescia: l’assessore Bordonali "stranieri maggioranza dei detenuti, costano 8 mln l’anno" Il Giorno, 8 ottobre 2015 Per l’assessore all’Immigrazione della Regione Lombardia Simona Bordonali l’unico modo per risolvere il sovraffollamento delle carceri è che "i detenuti stranieri scontino la pena nei propri Paesi d’origine". E aggiunge: "Ora bisogna bloccare l’immigrazione". "I dati sulla popolazione carceraria di Canton Mombello a Brescia sono uno spunto di riflessione importante: sono stranieri 180 detenuti su 300, quindi il 60% e considerando che il costo medio giornaliero per singolo detenuto è di circa 120 euro, gli stranieri nel solo carcere di Brescia comportano una spesa di 21.600 euro al giorno, quasi 8 milioni di euro l’anno". Lo ha dichiarato l’assessore all’Immigrazione della Regione Lombardia Simona Bordonali commentando i dati sulla popolazione carceraria di Brescia. "È assolutamente necessario fare di tutto, a livello legislativo, affinché i detenuti stranieri scontino le pene nei propri Paesi d’origine" - sottolinea - e questo comporterebbe un notevole risparmio economico, permetterebbe di risolvere il problema del sovraffollamento carcerario e impedirebbe a queste persone di tornare a delinquere sul nostro territorio una volta terminata la pena. La relazione della polizia locale bresciana conferma inoltre come lo spaccio di droga in città sia totalmente in mano alla criminalità nordafricana: è solo una conferma di ciò che si percepisce quotidianamente sul territorio" - spiega Bordonali, chiosando: "ora bisogna bloccare l’immigrazione, perché in periodo di crisi economica, con la disoccupazione alle stelle, rischiamo di importare altra manodopera per la micro e macro criminalità". Brescia: protesta la Polizia penitenziaria "lavorare a Canton Mombello non è sicuro" di Italia Brontesi Corriere della Sera, 8 ottobre 2015 Il segretario generale Roberto Santini definisce "una politica sbagliata nei confronti dei poliziotti" quella adottata dal direttore Francesca Gioieni. Il direttore del carcere di Canton Mombello deve lasciare l’incarico ed essere trasferita altrove. A chiederlo è il Sinappe, il sindacato autonomo della polizia penitenziaria che ha dichiarato lo stato di agitazione. Il segretario generale Roberto Santini definisce "una politica sbagliata nei confronti dei poliziotti" quella adottata dal direttore Francesca Gioieni da 5 anni alla guida del carcere bresciano. "Non c’è più dialogo" è la conclusione del segretario. A Brescia è applicata la "vigilanza dinamica", che significa celle aperte durante la giornata e "se la situazione non è gestita bene sono problemi seri, i poliziotti rischiano ogni giorno" dice Santini. È accaduto anche l’altro ieri, racconta, un poliziotto è entrato in una cella ed è stato accerchiato dai detenuti. Sbagliata, secondo il sindacato, sarebbe la gestione del carcere applicata dal direttore: nell’ultimo periodo è aumentato il numero dei provvedimenti disciplinari, le celle restano aperte, ci sono state 105 richieste di trasferimento, in agosto sono raddoppiate le assenze per malattia, "vorrà dire qualcosa" commentano gli esponenti sindacali, con Santini, il coordinatore nazionale Antonio Fellone e il vicesegretario regionale Luigi Varesano: "Abbiamo chiesto di rivedere l’organizzazione del lavoro, ma anche la decisione di tenere aperte le celle, le aggressioni al personale sono frequenti. Bisogna cambiare metodo, chiediamo una totale revisione". In passato invece, per il sindacato, erano stati raggiunti importanti risultati: "a Canton Mombello abbiamo fatto passi da gigante, ma purtroppo negli ultimi sei, sette mesi la situazione è degenerata". Le cause? "La gestione poco attenta e le frasi fuori luogo che avrebbe pronunciato il direttore hanno peggiorato la situazione. Avrebbe detto - dice Santini - che perde troppo tempo a parlare con le organizzazioni sindacali e con la polizia penitenziaria. E questo ha peggiorato la situazione. Vogliamo una smentita, se non apre al dialogo vogliamo la sua rimozione". Oggi i rappresentanti sindacali saranno dal prefetto Valerio Valenti per parlare di ordine pubblico: "La polizia penitenziaria deve essere coinvolta nell’ordine pubblico, ci teniamo". Roma: Argentin (Pd); via barriere architettoniche in carcere Rebibbia, grande conquista terzobinario.it, 8 ottobre 2015 "Il ministero della Giustizia, grazie all’intervento del ministro Andrea Orlando, ha recepito la mia segnalazione dell’estate scorsa sulla grave situazione di difficoltà dei detenuti disabili all’interno del reparto G11 del carcere di Rebibbia nuovo complesso. Proprio ieri ho ricevuto la notizia che a breve partiranno le procedure per realizzare i lavori di manutenzione straordinaria e adeguare le celle dei detenuti, impediti negli atti più elementari della vita quotidiana". Lo dichiara in una nota la deputata del Pd, Ileana Argentin. "Così la buona volontà politica dimostra che, se si vuole, si può anche entrare in un carcere e renderlo accessibile mentre fuori, nella città, tutto rimane immobile e il diritto dei disabili di spostarsi in una capitale piena di barriere è costantemente negato. Il ministro Orlando - sottolinea Argentin - ha dato un segno importante abbattendo, insieme alle barriere, il muro dell’indifferenza e della mancanza di rispetto dei diritti dei cittadini, sia pur detenuti. Le barriere culturali sono molto più difficili da infrangere di quelle architettoniche, ma questa volta le due cose coincidono. A nome del mondo della disabilità ringrazio quindi il ministro e chiedo a tutti i politici e gli amministratori di prenderlo come esempio perché lui dalle parole è passato ai fatti". Biella: Sappe; due detenuti salgono sul tetto per protesta, pericoloso l’effetto emulativo torino.ogginotizie.it, 8 ottobre 2015 Ancora una clamorosa protesta nel carcere di Biella. Ieri mattina, due detenuti sono saliti sul tetto del penitenziario di Viale dei Tigli per portesta. A darne notizia è il segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe Donato Capece: "È un grave episodio, a nostro avviso conseguenza dell’altrettanto inquietante episodio messo in atto a fine settembre da un altro detenuto che sollecitava (ottenendolo) il trasferimento nel carcere di Alba. La Polizia Penitenziaria e i Vigili del Fuoco hanno gestito, ancora una volta, l’evento critico di ieri nel modo migliore tanto che i poliziotti penitenziari del carcere sono stati bravi a convincere i due a scendere dal tetto verso le 19.30. I due detenuti sono uno entrambi magrebini, uno algerino e l’altro marocchino, entrambi ristretti per spaccio di droga. Mi preoccupa il fatto che possa passare il principio, come avevamo per altro previsto, che per ottenere qualcosa ai detenuti basta mettere in atto una protesta e salire sui tetti del carcere. E questo è inaccettabile prima ancora che costituire l’ennesimo grave precedente che andrebbe ad alimentare la già elevata tensione nei penitenziari". Vicente Santilli, segretario regionale Sappe del Piemonte, ha così commentato l’accaduto ritenendolo grave e ingiustificato: "Auspico che l’Amministrazione penitenziaria non sottovaluti questa ennesima grave protesta e adotti adeguati provvedimenti per stroncare sul nascere quel che sta diventando un grave problema di sicurezza e ordine all’interno del carcere di Biella". La direttrice: detenuti acrobati? ne pagheranno le conseguenze Parla la direttrice del carcere, dopo la protesta di ieri sui tetti: nessun pericolo di fuga e denunce in arrivo. "Non esiste un pericolo sicurezza nel carcere". Lo rivendica con forza il direttore della struttura penitenziaria di via dei Tigli, Antonella Giordano. Sulla protesta dei due detenuti stranieri, di ieri, che segue quella di un altro carcerato due settimane fa, la responsabile della struttura dice: "Sono sempre state dentro il perimetro detentivo. Le procedure d’allarme sono scattate immediatamente e quindi non c’erano veri pericoli di fuga. Questa protesta comunque non li aiuterà a raggiungere i loro obiettivi... entrambi infatti protestavano per la durata di alcune pratiche legate alla loro situazione... uno dovrebbe andare in una comunità per il recupero di tossicodipendenti e un altro ha in corso un procedimento di espulsione... pensare che questi comportamenti possano aiutarli è un grave errore. Perché le ripercussioni legali ci saranno". I due detenuti, che saranno prestissimo spostati in un altro carcere, dovranno rispondere all’autorità giudiziaria per procurato allarme, interruzione di pubblico servizio e forse pure per tentata evasione. Sui fatti, la Giordano aggiunge: "Falle nel sistema di sicurezza? Diciamo che c’è un problema nell’edilizia penitenziaria che, persone molto alte, molto forti e molto coraggiose hanno saputo sfruttare. Il problema lo conoscevamo ed è stato segnalato alle autorità competenti". Roma: "Giustizia e comunicazione", il convegno alla Scuola Superiore della Magistratura Gazzetta del Mezzogiorno, 8 ottobre 2015 "Giustizia e comunicazione" è il titolo del convegno organizzato dalla Scuola Superiore della Magistratura, in collaborazione con il Consiglio Superiore della Magistratura e con l’Ordine Nazionale dei Giornalisti, che s’inizia oggi a Roma presso il CSM e si concluderà venerdì 9 ottobre. Oggi alle 15 presentazione del corso e introduzione sono affidate a Giovanni Legnini, vice presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, Valerio Onida presidente della Scuola Superiore della Magistratura ed Enzo Iacopino presidente dell’Ordine Nazionale dei Giornalisti. La prima relazione "Come i giornalisti vedono la giustizia" è di Virman Cusenza, direttore de "Il Messaggero", a seguire "Come i magistrati vedono i giornali che parlano della giustizia" di Nello Rossi, avvocato generale della Corte di Cassazione. Domani alle 9,15 "La cronaca giudiziaria e le sue fonti" (Le fonti "interne" e le fonti "esterne"; aspetti deontologici, magistrati e giornalisti; la comunicazione al pubblico delle Procure") vedrà un confronto a due voci fra un giornalista e un pubblico ministero: Luigi Ferrarella del "Corriere della Sera" e Giuseppe Pignatone, procuratore della Repubblica di Roma. Alle 11,15 "I giudici parlano solo con le sentenze?", ovvero Nuovi strumenti di comunicazione (i bilanci sociali; i comunicati stampa) e come si può spiegare al pubblico il contenuto di una decisione giudiziaria?, altro confronto a due voci fra un magistrato e un giornalista: Giovanni Canzio presidente della Corte d’appello di Milano e Donatella Stasio di "Il Sole 24 Ore". Nel pomeriggio i lavori si suddivideranno in tre gruppi. Gruppo A: "Diritto di informazione e diritto alla riservatezza - Il segreto della indagini e i suoi limiti. Intercettazioni: le norme, le patologie, le proposte di riforma". Coordinano: Alberto Mittone, avvocato di Torino e Marco Lillo "Il Fatto Quotidiano". Gruppo B: "La rappresentazione mediatica della giustizia. "Processi" mediatici e opinione pubblica. Coordinano: Eligio Resta, professore ordinario di Filosofia del diritto nell’Università di Roma Tre, Giancarlo De Cataldo, consigliere della Corte d’Appello di Roma. Gruppo C: "Informazione e opinioni: deontologia del magistrato e deontologia del giornalista". Coordinano: Piergiorgio Morosini, presidente della VI commissione del Consiglio Superiore della Magistratura e Michele Partipilo, caporedattore di "La Gazzetta del Mezzogiorno". Venerdì 9 ottobre alle 9,15 tavola rotonda sul tema "Come si può migliorare la comunicazione sulla giustizia in Italia?". Partecipano: Giovanni Legnini, vice presidente del Consiglio Superiore della Magistratura; Ennio Amodio, professore ordinario di procedura penale nell’Università statale di Milano, avvocato; Rodolfo Sabelli, presidente dell’Associazione Nazionale dei Magistrati; Giovanni Bianconi, "Corriere della Sera"; Antonio Mura, Capo Dipartimento affari di giustizia, Ministero della Giustizia; Stefano Rolando, docente di Teoria e tecniche della comunicazione pubblica all’Università Iulm Milano. Modera: Valerio Onida. Pescara: il comico ‘Nduccio vende all’asta i quadri dei detenuti di Sulmona di Ylenia Gifuni Il Centro, 8 ottobre 2015 Il ricavato di duemila euro destinato ai bimbi del villaggio La Lumière in Togo. Battuti 23 dipinti di reclusi di Sulmona. Le opere esposte al Centro d’Abruzzo. C’è un filo rosso della solidarietà che lega i problemi del mondo carcerario abruzzese con quelli dei bimbi del Villaggio La Lumière, in Togo. Il punto di raccordo tra queste due realtà apparentemente distanti, quella dei detenuti della struttura di massima sicurezza di Sulmona e quella dei ragazzi in età scolare che vivono nell’Africa sud-occidentale, ha il volto gentile e il sorriso affabile del comico Germano D’Aurelio, conosciuto da grandi e piccini con il nome d’arte di ‘Nduccio. Lo showman, domenica pomeriggio, ha animato il pubblico raccolto nella galleria dell’Hopera Caffè dell’Ipercoop Centro d’Abruzzo di San Giovanni Teatino con una speciale asta di beneficenza. Tra battute a fior di labbra e racconti in chiave ironica sulle visite di ‘Nduccio nelle case circondariali della regione, sono stati battuti all’asta 23 dipinti a olio su tela realizzati nei laboratori del carcere di Sulmona sul tema "Il cuore oltre il muro". Il ricavato, circa 2.000 euro ottenuti tra la vendita dei quadri dipinti dai detenuti e le donazioni dei clienti del centro commerciale, sarà devoluto in beneficenza a sostegno dell’associazione Fratello Mio onlus. L’organizzazione, presieduta dallo showman Germano D’Aurelio, è attiva in Togo dal 2012 e contribuisce, tra le altre cose, a sostenere le spese di una scuola primaria e secondaria di primo grado che ospita 850 alunni e di un orfanotrofio gestito da un sacerdote, don Filippo. "In Togo", spiega ‘Nduccio, "anche la scuola pubblica è a pagamento. In 13 anni, da quando con un gruppo di amici abbiamo fondato l’associazione Fratello mio onlus, siamo riusciti a garantire l’istruzione per migliaia di ragazzi. Un alunno, dopo l’esame di terza media, ha aperto con il nostro aiuto un internet-point tra le foreste, in mezzo al nulla. Visto che durante il mio tempo libero giro tra le carceri d’Abruzzo e sono a conoscenza delle condizioni drammatiche in cui vivono i reclusi, quest’anno ho deciso di fare una cosa bella. Ho lanciato una sfida ai detenuti della struttura di massima sicurezza di Sulmona e ho chiesto loro di realizzare dei quadri da mettere in vendita in beneficenza a sostegno dei bimbi africani. Devo ammettere che in tanti hanno accettato la proposta con coraggio e molta serenità". Con l’ausilio dei vertici della struttura, il direttore del carcere Sergio Romice e l’educatrice Fiorella Ranalli, 21 detenuti si sono armati di tavolozze, vernici e pennelli e hanno realizzato in meno di un mese 23 quadri ispirati alla solidarietà. Per tre settimane, le opere sono state esposte lungo la galleria dell’Hopera Caffè del Centro d’Abruzzo e, con l’autorizzazione della direttrice del centro commerciale Claudia Campli, domenica si è tenuta l’asta condotta da ‘Nduccio, che ha visto tra gli ospiti anche Massimo Di Giannantonio, docente di Psichiatria all’università d’Annunzio e opinionista alla trasmissione tv La vita in diretta. "Tutti i momenti dell’asta sono stati ripresi con le telecamere", sottolinea Nduccio, "in questo modo, nelle prossime settimane, organizzeremo una proiezione del filmato in carcere e lo mostreremo ai detenuti". Reggio Emilia: per i Bibliodays donati al carcere decine di libri sassuolo2000.it, 8 ottobre 2015 Proprio durante i Bibliodays, le giornate per festeggiare le biblioteche della Provincia di Reggio Emilia, che quest’anno celebrano il tema "Ex libris: dai libri alle persone" ovvero il gesto di dare libri alle persone, è avvenuta la donazione da parte dell’amministrazione comunale novellarese di decine di libri di narrativa e viaggi al carcere di Reggio Emilia. L’idea è nata dalle operatrici della biblioteca comunale G. Malagoli: "Ci siamo rese conto che nelle normali attività di revisione del patrimonio della biblioteca avevamo a disposizione 500 libri e due anni di abbonamenti a trenta differenti riviste. Anziché metterli in vendita abbiamo proposto agli amministratori di donarli in luoghi presso strutture pubbliche e nel carcere di Reggio Emilia. Siamo liete che l’amministratore abbia condiviso questa proposta". Così, per volontà dell’amministrazione comunale la biblioteca comunale ha consegnato, in base ai temi d’interesse, decine di riviste e libri ai pediatri locali, al centro giovani, al Centro diurno dell’Istituzione I Millefiori e infine al carcere. Al momento della consegna, nella mattinata del 6 ottobre, erano presenti il Sindaco Elena Carletti e l’assessore alla cultura Marco Battini che, rivolgendosi al direttore della Casa circondariale Paolo Madonna hanno affermato: "Ci piace l’idea di aver liberato un patrimonio pubblico all’interno di una realtà come quella del carcere, convinti che la cultura sia un’opportunità di crescita, di reale svago e perché no di riscatto. Se tale sperimentazione avrà esiti positivi l’amministrazione si impegna sin da ora a rinnovare tale sperimentazione". Il direttore degli II.PP. di Reggio Emilia ha affermato: "All’interno di questi istituti penali vi sono tre punti di lettura: una biblioteca presso la Casa Circondariale, una biblioteca presso l’ex O.P.G. ed una ludoteca che impegna nella lettura i bambini, figli dei detenuti, durante i colloqui che si svolgono all’interno della medesima. Ringrazio il Sindaco e l’Amministrazione Comunale, nonché la direttrice della biblioteca comunale "G. Malagoli" di Novellara, per aver permesso di implementare la presenza di libri all’interno della struttura. È sempre positivo verificare l’attenzione dell’ente locale nei confronti del carcere per iniziative quali questa di carattere culturale, che contribuiscono alla crescita delle persone detenute. L’occasione infine è stata propizia per verificare altre possibili collaborazioni sul versante della c.d. "giustizia ripartiva" ed eventuali lavori di pubblica utilità". Intanto, nella biblioteca comunale continuano i momenti di "dono". Giovedì 8 ottobre saranno consegnati a tutti gli utenti degli alimenti per combattere i sintomi dell’affaticamento fisico-mentale, mentre sabato 10 ottobre sarà la volta degli alimenti utili per il benessere delle donne. Libri: "Un passo fuori dalla notte", di Raffele Sollecito recensione di Paolo Pagliaro 9Colonne.it, 8 ottobre 2015 Si intitola "Un passo fuori dalla notte" ed è nelle librerie dal 6 ottobre il libro scritto da Raffele Sollecito, accusato dell’omicidio di Meredith Kercher (Perugia, 1º novembre 2007) e assolto in marzo dalla Cassazione. Il racconto di Sollecito, a lungo colpevole del più atroce dei crimini e infine innocente, si conclude con sette pagine di ringraziamenti. Ci sono gli avvocati capitanati da Giulia Bongiorno, e per ringraziarli tutti ci vogliono due pagine; ci sono i tecnici e i periti, i familiari, la compagna, gli amici che non lo hanno tradito - come quelli del bar Ragno d’Oro, del collegio, del giornale cittadino La Piazza, come il musicista che per Sollecito ha composto una canzone o come i vecchi insegnanti. C’è poi l’elenco di chi non solo gli scrisse ma venne anche a trovarlo in carcere, durante i 4 anni passati dietro le sbarre. Ci sono i sacerdoti che lo confortarono, gli amici che lo ospitarono nei periodi trascorsi in libertà tra un processo e l’altro, i professori della commissione che gli consentirono di laurearsi mentre era detenuto, immerso nel degrado che contraddistingue la condizione carceraria in Italia. Sono ringraziamenti doverosi, perché non è stato semplice - in questi anni - parteggiare per il mostro. Quello così cinico da scambiarsi un bacio con la sua ragazza davanti alla villetta dove poche ore prima era stato trovato il cadavere di Meredith, così depravato da aver mostrato ai compagni un video porno, così schiavo della droga da aver fumato uno spinello. "La gente - scrive Sollecito -aveva cominciato a scagliarsi contro di me, con una violenza che non ha alcun senso e deriva solo dall’ignoranza, dalla propensione ad accogliere come fosse verità assoluta l’informazione che passa attraverso la televisione e i giornali". Adesso che è tutto finito - ora che la Cassazione ha assolto l’ingegner Sollecito definendo clamorosamente superficiali e inattendibili le indagini sul delitto di Perugia - l’ex mostro chiede di poter finalmente parlare e chi leggerà il libro edito da Longanesi scoprirà che merita di essere ascoltato. I tormenti della Sinistra quando l’Italia fa la guerra di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 8 ottobre 2015 Moltissimi "se" e un mare di "ma" sono sempre stati la cifra nella Seconda Repubblica nei confronti della partecipazione alle cosiddette "missioni di pace" o "peacekeeping". "Senza se e senza ma", si usava dire con espressione che voleva alludere a una ferrea volontà di coerenza. Tuttavia, moltissimi "se" e un mare di "ma" sono sempre stati la cifra, il modello di comportamento della sinistra nella Seconda Repubblica nei confronti della nostra partecipazione alle guerre, anzi, pudicamente, "missioni di pace", o "peacekeeping" per stare nei consessi internazionali. Per colpa delle "regole di ingaggio", per esempio, il governo Prodi rischiava ogni volta di smottare e venir giù. Ci si impratichì con termini come "caveat", che poi sarebbero i codicilli che avrebbero dovuto regolare le modalità di azione o non-azione delle nostre truppe in Afghanistan, per la formulazione dei quali c’era sempre un senatore della sinistra "radicale", Turigliatto in primis, disposto a far cadere il governo. Bisognava starci, ma in modo limitato, circoscritto, con "regole d’ingaggio" rigidissime. Come sta avvenendo in questi giorni. Nella comunità internazionale, ma pur sempre con distinguo, codicilli, caveat di impossibile oltrepassamento. In Iraq, ma non in Siria, anche se l’Isis sta sia in Siria che in Iraq. E con la sinistra "radicale", o chi ne fa le veci come Beppe Grillo in questa occasione, a gridare contro la "subalternità" del governo italiano ai dettami della Nato. C’è sempre un contorcimento, una precisazione una condizione nel rapporto tra la sinistra e la guerra guerreggiata. Quando è un no secco, come nell’Iraq del 2003, allora è un no secco. Ma il no non diventa mai un sì squillante, piuttosto sempre un nì. Come nella guerra del Kosovo. Il governo D’Alema, con l’appoggio dei ribaltonisti che attraverso Francesco Cossiga trasmigrarono dalla destra all’Ulivo, era ovviamente favorevole alla guerra contro Milosevic. Non la chiamavano guerra, la chiamavano "ingerenza umanitaria", ma comunque ci stavano. Ma mai del tutto, sempre tenendo un piede sull’uscio. D’accordo con il sostegno delle basi in Italia da dove sarebbero partiti i raid destinati a colpire Belgrado. Ma senza partecipare direttamente ai raid. Poi, ogni volta che i raid colpivano duro, subito arrivava dall’Italia la proposta di un rapido cessate il fuoco. Eravamo a pieno titolo nella guerra, ma non potevamo dirlo. Una sinistra che citava la sacralità della Costituzione a ogni passo non se la sentiva di sfidare troppo la lettera dell’articolo 11 della Carta Costituzionale, quello che ripudiava la guerra come soluzione dei conflitti. Nella guerra, ma con tanti se e tanti ma. La sinistra italiana e la guerra si erano già fronteggiate nel 1991, quando la Nato decise di scatenare la guerra del Golfo per punire Saddam Hussein, reo di aver invaso il Kuwait nell’agosto del 1990. Era in corso la trasformazione del Pci in Pds e l’atto primo del partito di Occhetto non poteva essere il sì a una guerra che avrebbe dovuto garantire il nuovo "ordine internazionale" scaturito dalla caduta di Berlino e dalla fine della guerra fredda per estinzione dell’Urss, uno dei due contendenti. Ma una parte della sinistra, quella di matrice socialista, ma anche quella di Vittorio Foa, vedeva in quel conflitto baciato dall’Onu addirittura una riedizione della guerra civile spagnola con le sue Brigate internazionali chiamate a colpire il nuovo tiranno Saddam Hussein. Poi, dopo tanti anni, e dopo l’attacco dell’11 settembre alle Torri Gemelle, rinasce la questione con la spedizione di truppe italiane a Kabul. All’inizio, sull’onda emotiva di quell’attentato storico, la vista delle torri che crollavano, il cuore dell’Occidente colpito a morte, la sinistra non se la sentì di mettere ostacoli. Sottolineava che quella guerra doveva essere condotta nel nome del venerato "multilateralismo", che doveva essere certificata e vidimata come un’iniziativa "sotto l’egida dell’Onu", ma insomma le distinzioni non potevano superare una certa soglia pena l’accusa di fare ostruzionismo in un’emergenza tanto drammatica del mondo in cui l’obiettivo numero uno era la sconfitta dei talebani e di Osama Bin Laden. Ma negli anni successivi la guerra dei caveat rimpiazzò quella della guerra vera: e ogni volta i finanziamenti della missione italiana diventavano la scintilla di uno psicodramma. Sempre dentro, ma anche un po’ fuori. In Iraq, ma non in Siria. Mille se e mille ma. Il problema dell’asilo politico si risolve superando gli egoismi di Riccardo Riccardi Il Tempo, 8 ottobre 2015 Il 14 luglio 1789, dopo che, nei giorni precedenti, si erano sulle strade riversati gruppi di dimostranti, venne abbattuta la Bastiglia icona del potere assolutista. Durante la Rivoluzione francese considerata la rivoluzione per eccellenza che segnò il passaggio del potere al popolo divenuto sovrano, venne emanato un testo contenente una solenne elencazione dei diritti fondamentali dell’individuo e del cittadino. Questi principi che - ironia - vennero firmati da Re Luigi XVI poi ghigliottinato, si ispiravano alla costituzione americana e vennero ripresi nelle varie carte costituzionali, fra cui la nostra. Il dettato legislativo francese, tra le altre, costituiva il superamento della prerogativa ecclesiastica del diritto di asilo. Chiese e monasteri erano territori inviolabili dove il rifugiato era al sicuro. Anche l’Europa ha voluto codificare il diritto di asilo regolato dal trattato di Dublino del 2013 che garantisce lo status di rifugiato. Questo trattato è stato, nella sua applicazione sostanziale, spazzato via dalla massa di migranti che, a migliaia, con cadenza giornaliera, sbarcano in Europa, attraverso le coste greche ed italiane, ridotte al collasso. I francesi - va ricordata la dottrina Mitterand - sono stati sempre sensibili ad accogliere fuggiaschi per motivi politici, commettendo anche clamorosi errori. Vi ricordate di Khomeyn? e la caduta del regime laico dello Scià per far luogo ad una repubblica confessionale? Ora i nostri cugini si interrogano, attraverso Le Monde, se l’asilo non sia per l’Europa un naufragio causa l’incoerenza e la contraddittorietà della politica. L’asilo politico costituisce un diritto sacrosanto per l’esule che fugge per motivi politici appunto. I siriani - in mezzo due guerre - ne sono l’esempio. Ma, ci domandiamo: a chi si concede l’asilo politico? Quando la fuga è biblìca e babelica, con mescolanze di genti a motivazioni diverse non sempre lecite, può considerarsi asilo politico un trasferimento di un continente verso un altro che così modifica il suo impianto sociale? Questo è il vero problema di risolvere. Non servono algoritmi matematici che distribuiscono pani e pesci; occorre avere una visione reale del fenomeno che non troverà soluzioni se non si eliminano per egoismi provinciali di bassa cucina. Ancorché internazionale. La Ue prepara le espulsioni di massa di Luca Fazio Il Manifesto, 8 ottobre 2015 Immigrazione. La bozza del documento che verrà discusso oggi a Bruxelles dai ministri degli Interni di 28 paesi conferma quanto rivelato dal quotidiano inglese The Times. Non viene indicata la cifra precisa delle persone da rimpatriare ma si ammette che bisognerà "ricorrere al trattenimento come misura legittima di ultima istanza per garantire la presenza fisica dei migranti irregolari destinati al rimpatrio". Chi scappa dalla fame o da una dittatura verrà prima internato e poi imbarcato a forza su un aereo. Per il ministro degli Interni Angelino Alfano questa per l’Italia sarà la "prossima battaglia". Tremila morti in meno di dieci mesi e il flusso ininterrotto dei migranti spogliati anche dei più elementari diritti umani non sono abbastanza: il peggio deve ancora venire. Perché l’accoglienza dell’Europa, se così si può chiamare, è arrivata al capolinea. Comincia il lavoro sporco, un altro crimine contro l’umanità. Lo dice il "piano sul rimpatrio dei migranti economici" che i 28 ministri degli Interni discuteranno oggi al Consiglio Ue di Bruxelles. Chi non era ancora riuscito a mettere a fuoco il volto peggiore dell’Europa, o stentava a crederci, presto dovrà ricredersi. Più che una rivelazione del quotidiano The Times è la bozza di un documento il cui obiettivo finale è noto almeno dallo scorso settembre, anche se il giornale inglese azzarda la cifra - già smentita - di 400 mila persone da rimpatriare nelle prossime settimane. Questo piano si reggerebbe anche sulla minaccia di ritirare gli aiuti ed eliminare gli accordi commerciali con quei paesi che si rifiuteranno di collaborare (fra cui Niger, Mali, Somalia, Etiopia ed Eritrea). Inoltre, gli stati europei potranno recludere in apposite strutture tutte le persone in attesa di essere espulse e imbarcate a forza. Le nuove prigioni si chiamano "hotspot", sarà la riedizione di un film dell’orrore già visto con i centri di detenzione (1998, legge Turco-Napolitano). Ma questa volta sarà un kolossal. E non c’è smentita che tenga, tant’è che la Commissione Ue ieri si è limitata a dire che "non ci sono cifre, qualsiasi cifra dipenderà dall’efficacia con cui i paesi membri applicheranno le regole" (Mina Andreeva, portavoce dell’esecutivo Ue). Potrebbero essere di meno, ma anche di più. Dunque la sceneggiatura è scritta e non si andrà tanto per il sottile. La premessa, come si legge nel documento in discussione, è che gli "stati membri devono fare di più in materia di rimpatrio", anche perché un aumento dei respingimenti "dovrebbe fungere da deterrente per l’immigrazione irregolare". Come tornare all’anno zero di ogni riflessione politica per gestire il fenomeno migratorio da paesi dove si muore per fame e per guerra. Per rimpatriare centinaia di migliaia di esseri umani, quelli già sbarcati e quelli che ogni giorno tenteranno la fortuna da qui ai prossimi anni, l’Europa dovrà "adottare tutte le misure necessarie". Serviranno risorse adeguate per organizzare i viaggi di ritorno (deportazioni), per il personale che gestirà le prigioni e dovrà procedere alle complicatissime procedure di identificazione e per i poliziotti che accompagneranno i migranti che opporranno resistenza. Esagerazioni? Tutt’altro. Compreso - si ammette nella bozza del documento - "il ricorso al trattenimento come misura legittima di ultima istanza", per "garantire la presenza fisica dei migranti irregolari destinati al rimpatrio". Chi scappa dalla guerra verrà messo in prigione. Punto. Per quanto tempo? Ancora non si sa. Che sarà un inferno, invece, è facile prevederlo. Gli stati membri, inoltre, sono "vivamente incoraggiati" a richiedere "in modo più sistematico i servizi attualmente offerti da Frontex", l’agenzia Ue per la gestione delle frontiere esterne. Un’altra linea di intervento prevede la "cooperazione" con i paesi di origine e di transito. Sono dittature, paesi ridotti alla fame o situazioni impossibili da gestire, come il caos libico da dove partono quasi tutte le imbarcazioni verso l’Europa. Il caso dell’Italia è esemplare. Nel 2015 sono sbarcati in Italia circa 30 mila eritrei ed è davvero impensabile che si possa anche solo immaginare di rispedirli indietro in accordo con uno dei regimi più spietati del mondo, un paese dove quei pochi che hanno un lavoro guadagnano dieci euro al mese (i somali sono quasi 9 mila e i sudanesi poco meno di 7 mila). Il compito però non sembra spaventare il ministro degli Interni Angelino Alfano che già parla di "irregolari", parola chiave che servirà all’Europa per sbarazzarsi di migliaia di esseri umani impugnando il nuovo diritto internazionale razzista. "Quando i migranti arrivano in Italia - ha spiegato - in Italia si deve fare la prima scrematura tra migranti e profughi e gli irregolari devono essere rimpatriati. La politica dei rimpatri sarà la nostra prossima battaglia, perché se funzionerà avremo dato una risposta seria ed effettiva". Anche per il mite ministro degli Esteri Paolo Gentiloni i rimpatri di massa in Africa sono cosa buona è giusta: "Ben venga una iniziativa dell’Ue, ci aspettiamo nelle prossime settimane anche stanziamenti, investimenti e impegni organizzativi". Solo negli ultimi due giorni in Italia sono sbarcate 3.028 persone. Ci sarà tanto lavoro da fare. Rifugiati: la schizofrenia europea di Anna Maria Merlo Il Manifesto, 8 ottobre 2015 Fortezza Europa. All’Europarlamento, intervento congiunto di Hollande e Merkel, che parlano di "solidarietà" (come Felipe VI di Spagna). Ma contemporaneamente parte la fase offensiva di Frontex nel Mediterraneo al largo della Libia, con la possibilità di fermare e affondare i barconi. In Germania cresce l’ostilità all’accoglienza, Gabriel (Spd) mette in guardia sui rischi per "la coesione sociale". In Francia, a due mesi dalle regionali l’offensiva dell’estrema destra, che denuncia la minaccia di "sostituzione di popolazione", a danno della "razza bianca". La Ue, Giano bifronte sull’accoglienza. Ieri, la schizofrenia europea su questo fronte ha toccato l’apice, tra parole di solidarietà e azioni di rifiuto. A Strasburgo, François Hollande e Angela Merkel si sono rivolti, una dopo l’altro, al Parlamento europeo, in un primo intervento comune di Francia e Germania da 26 anni (l’altra volta erano stati Mitterrand e Kohl, dopo la caduta del Muro di Berlino), in realtà deciso il 31 gennaio scorso in seguito agli attentati contro Charlie Hebdo e l’Hyper Cacher. L’obiettivo è stato di mostrare unità tra i due paesi, in realtà su posizioni distanti, per affermare che l’Europa è "solidale" con i rifugiati, ha affermato Hollande, e "responsabile" nell’accoglienza, che, ha sottolineato Merkel, deve essere "equa" tra i paesi della Ue. Merkel ha insistito sulla necessità di riformare le "regole dell’asilo" in Europa, diventate "obsolete", rivedendo da un lato il sistema di Dublino (basato sui paesi di prima accoglienza), ma dall’altro aiutando "i paesi vicini alla Siria", come la Turchia (con cui la Ue ha concluso un "piano di azione comune" martedì, che comprende l’apertura di hotspot in Turchia e di campi profughi, in cambio di finanziamenti Ue e dell’impegno ad accogliere parte dei rifugiati). Per Hollande, la Ue, che è stata "lenta a rendersi conto dell’entità della crisi dei rifugiati", deve dare "una prova di unità" in questo momento difficile, "per non precipitare la propria fine". Prima di Hollande e Merkel, è intervenuto il re di Spagna, Felipe VI: "sconvolti di fronte all’enorme sofferenza di coloro che vengono in Europa per fuggire violenze e fanatismo" e che "vedono l’Europa come un porto di pace, prosperità e giustizia", "non possiamo abbandonarli". Ma cosa valgono queste parole? Mentre Felipe, Hollande e Merkel parlavano di solidarietà di fronte all’Europarlamento, ieri è stata avviata la fase più offensiva dell’intervento di Frontex nel Mediterraneo. Sei navi da guerra (di Italia, Francia, Germania, Gran Bretagna e Spagna) sono all’opera, con 1300 marines, che possono ormai fermare con la forza, ispezionare e distruggere i barconi dei trafficanti in acque internazionali. L’operazione ha luogo al largo della Libia, nella zona tra il confine con la Tunisia e Sirte (non riguarda il mare di fronte a Tripoli, perché equivarrebbe ad imporre un blocco marittimo). Per colmo dell’ipocrisia, l’intervento di Frontex è battezzato "Sophia", dal nome di una bambina nata su una nave tedesca a fine agosto: il piano è solo repressivo e non contempla nessuna apertura di canali sicuri e legali di passaggio per permettere ai rifugiati di non cadere nelle trappole dei trafficanti. Oggi, i ministri degli Interni della Ue potrebbero decidere misure drastiche sulle espulsioni dei migranti economici preventivamente selezionati e separati dai "rifugiati" che meritano accoglienza. Uno smistamento tra salvati e sommersi, con un programma che dovrebbe comprendere l’incarcerazione degli espulsi, per evitare che, come oggi, il 60% circa resti sul territorio come clandestino, oltre a misure di ritorsione (tagli agli aiuti e agli accordi commerciali, stretta sui visti) verso i paesi di origine che rifiuteranno di collaborare e di riprendersi i loro cittadini indesiderabili in Europa. L’unità di facciata di Merkel e Hollande nasconde forti divergenze, che sono manifestate nel breve periodo di grande accoglienza della Germania, mentre la Francia obtorto collo ha accettato di ospitare 30mila rifugiati in due anni. In Germania e in Francia le reticenze sono sempre più forti. In Germania, ormai solo più il 35% della popolazione pensa che l’immigrazione presenti "piuttosto dei vantaggi" e il movimento ostile Pegida sta riprendendo forza. Anche l’Spd frena, il presidente del partito Sigmar Gabriel mette in guardia sui rischi per la "coesione della società tedesca". In pratica, la chiesa luterana è ben sola a sostenere Merkel, che comincia a vacillare e fa pressione perché anche altri paesi Ue si facciano carico della loro parte di accoglienza attraverso la politica delle quote proposta dalla Commissione. In Francia, Hollande cammina sulle uova. A dicembre ci sono le elezioni regionali e il Ps va incontro a una (nuova) severa sconfitta. Il Fronte nazionale, che continua ad avere il vento in poppa, ormai fa campagna soltanto sull’immigrazione e sul rischio di "sostituzione di popolazione", con la "razza bianca", evocata anche dalla destra classica, a rischio di sommersione. Afghanistan: strage di Kunduz, l’attacco "richiesto da forze Usa" di Giuliano Battiston Il Manifesto, 8 ottobre 2015 Quarta versione americana: siamo stati noi, ma ora l’inchiesta. Il massacro contro Msf nella città del nord afghano - dove si combatte - usato dai generali americani per chiedere un prolungamento della missione militare. La battaglia per Kunduz continua, sul terreno militare e della propaganda. Ricapitolando: sabato 3 ottobre, nelle prime ore del mattino, un aereo AC-130 americano bombarda a più riprese, per circa un’ora, il centro traumatologico di Medici senza frontiere (Msf) nella città settentrionale afghana, contesa tra i Talebani, che l’avevano occupata lunedì 28 settembre, e le forze governative coadiuvate da quelle internazionali. Bilancio: 22 morti, 12 tra medici e operatori di Msf e 10 pazienti, tra cui tre bambini. Nelle ore successive il balletto delle dichiarazioni ufficiali. Sabato 3 ottobre, la posizione americana è equivoca: le nostre forze speciali erano sotto il fuoco nemico, ma nessuna certezza che i responsabili della strage siano gli Usa. Il giorno successivo, una nuova versione: l’attacco aereo è avvenuto "nelle vicinanze" dell’ospedale, che potrebbe essere stato colpito accidentalmente. Lunedì 5, un’altra piroetta: il generale Campbell, a capo delle forze Usa e Nato in Afghanistan, in una conferenza stampa al Pentagono sostiene che siano stati gli afghani a chiedere l’intervento aereo e che i soldati a stelle e strisce non fossero in pericolo. Martedì 6, in un’audizione al Senato, Campbell ci ripensa: è vero, ha detto il generale, gli afghani hanno richiesto l’intervento, ma l’attacco è il risultato "di una decisione degli Stati Uniti presa dentro la catena di comando degli Usa". "Anche se gli afghani richiedono un sostegno simile, la decisione passa per una rigorosa procedura americana", ha aggiunto. Rispondendo al senatore John McCain, a capo del Comitato per le forze armate, Campbell ha poi dichiarato che l’aereo d’assalto comunicava con i consiglieri americani sul terreno. "Signore, nelle immediate vicinanze c’era un’unita delle Operazioni speciali che parlava con l’aereo che ha aperto il fuoco". Per Msf, il balletto delle dichiarazioni dimostra la necessità di un’inchiesta rigorosa e trasparente, affidata a un ente indipendente. "Basta. Anche la guerra ha delle regole", recita un comunicato reso pubblico due giorni fa. Msf chiede l’attivazione della International Humanitarian Fact-Finding Commission. Istituita nel 1999 nei protocolli aggiuntivi alla Convenzione di Ginevra, è il solo organo permanente che abbia il compito specifico di condurre inchieste sulle violazioni del diritto umanitario. Finora, però, non è mai stata usata, perché nessuno dei 76 Stati firmatari del protocollo (tra questi mancano sia l’Afghanistan sia gli Stati Uniti) ha mai deciso di promuoverne l’azione. La Commissione, inoltre, deve essere accettata da tutte le parti coinvolte. Sulla stessa linea di Msf, anche Human Rights Watch. Brad Adams, direttore della sezione "Asia" dell’organizzazione, ha chiesto infatti "un panel investigativo speciale e indipendente, esterno rispetto alla catena di comando militare". Ma è indispensabile la pressione costante dell’opinione pubblica, ricordano dalla sede di Msf. E prosegue la battaglia militare per Kunduz. Kabul e Washington si sono affrettate a dichiarare "vittoria", ma la città è ancora teatro di scontri, e i Talebani sembrano non mollare la presa, soprattutto nei quartieri meno centrali. Una cosa è certa: Kunduz suona come un campanello d’allarme - e un’occasione - per i generali Usa, che si sono affrettati a chiedere alla Casa Bianca una revisione del piano per il ritiro. Non sarebbe la prima volta che il presidente Obama cambia idea. Il 27 maggio 2014 aveva annunciato in modo solenne tempi e numeri precisi del ritiro: 9.800 truppe americane alla fine del 2014, ridotte a 5.000 entro la fine del 2015, per arrivare a una presenza minima, per tutelare l’ambasciata, alla fine del 2016. Il 24 marzo 2015, in una conferenza stampa con l’omologo afghano Ashraf Ghani, il primo ripensamento: "Circa diecimila soldati americani rimarranno in Afghanistan per tutto il 2015". La riduzione del contingente sarebbe dovuta slittare al 2016. Ora, con il pretesto della battaglia per Kunduz, tutto è di nuovo in discussione. Campbell l’ha detto in modo diplomatico ma chiaro, nel corso della conferenza al Senato: "dovremmo garantire alla nostra leadership opzioni diverse rispetto al piano che stiamo attualmente seguendo". In altri termini, prolungare l’occupazione dell’Afghanistan, oltre il 2016. Una richiesta avanzata proprio nei giorni in cui ricorre il 14esimo anniversario dall’invasione: era il 7 ottobre del 2001 quando nei cieli afghani sono comparsi i primi cacciabombardieri americani B-52. Stati Uniti: detenuti campioni di retorica, sconfitta l’invincibile Harvard di Vittorio Zucconi La Repubblica, 8 ottobre 2015 Come se la Scafatese Calcio sconfiggesse il Football Club Barcellona, così tre carcerati americani del penitenziario di Eastern New York hanno sconfitto la imbattibile squadra campione americana di dibattito, il Team Harvard in uno scontro apparentemente improponibile. Tre criminali comuni, con lunghe condanne per reati violenti, hanno saputo fare meglio di tre studenti della università più costosa e illustre d’America, dimostrando qualcosa che la società preferisce ignorare: che il carcere, anche quello più duro come il penitenziario di massima sicurezza dove i tre sono rinchiusi, non deve necessariamente essere una discarica di anime perse e un rottamaio di persone da buttare. La vittoria di Carl Snyder, Dyjuan Tatro e Carlos Polanco contro le due studentesse e lo studente che formavano l’imbattuto trio harvardiano, trionfatore di tutte le sfide con le altre università americane, è stata la vittoria di un piccolo college privato di "liberal arts", di studi umanistici. È il "Bard College" di New York che qualche anno fa lanciò l’esperimento impossibile, educare e istruire detenuti per crimini gravi nei penitenziari più duri. Con un milione di dollari donati dalla Fondazione Ford, una di quelle fondazioni benefiche create dalle grandi aziende per generosità e per interesse fiscale, professori del Bard College sono entrati in varie carceri americane dello Stato cercando di reclutare detenuti per il loro programma di studi. Soltanto nel penitenziario di Eastern New York ne hanno convinti 300, che ora stanno progredendo verso titoli di studio universitari. Tra questi, i tre più brillanti, appassionati, Carl, Dijuan e Carlos avevano accettato l’impossibile proposta di affrontare lo squadrone della onnipotente Harvard in un pubblico dibattito su un tema difficilissimo: è giusto che le scuole pubbliche, dunque finanziate dai contribuenti, siano aperte a immigrati senza documenti e ai loro figli? Per giudizio unanime del pubblico e degli arbitri, i tre carcerati hanno fatto meglio dei tre harvardiani, che pure avevano il compito più facile, quello di demolire gli argomenti degli altri senza dover offrire controproposte concrete, secondo lo stile dei peggiori talk show. "Non abbiamo le capacità dialettiche, la cultura, le lettura di quelli di Harvard - ha detto Dijuan, il capitano dei tre moschettieri con le manette - e in carcere non avevamo neppure Internet per prepararci, ma abbiamo qualcosa che loro non potevano avere: l’esperienza di vita". DiJuan è, lui stesso, figlio di una immigrata illegalmente e rinchiuso in carcere da quando aveva 22 anni, per avere accoltellato e ucciso, non intenzionalmente, un rivale in una rissa tra gang. Se il Team Harvard era l’equivalente di un Dream Team nelle gare di dialettica, questa non è neppure la prima volta che il terzetto di detenuti sconfigge avversari sulla carta molto più forti, avendo già battuto anche i cadetti dell’Accademia Militare di West Point, loro vicini nello Stato di New York. Non è neppure un caso senza precedenti, perché già negli Anni ‘50, un’altra squadra di carcerati aveva battuto avversari di grande blasone, guidata da un uomo destinato a diventare leggenda, Malcom X. Carl, Carlos e Dijuan hanno vinto utilizzando una tattica che ha completamente spiazzato il Team Harvard, il classico contropiede. Anziché difendere l’idea, cara ai progressisti, che le scuole pubbliche debbano accettare immigrati senza documenti, hanno sostenuto il contrario. Per esperienza di vita, hanno spiegato che le scuole pubbliche nelle località e nei quartieri dove si rifugiano, e spesso si nascondono, gli "illegali", sono pessime e inutili. Meglio sarebbe dunque escluderli e costringere organizzazioni private, volontariati, chiese a provvedere alla loro educazione. Esattamente come il Bard College ha fatto con loro. "Ci hanno presi totalmente di sorpresa e hanno demolito i nostri argomenti", ha ammesso alla fine il capitano della squadra sconfitta. Lo scopo del "gioco", il fine di questi duelli che ebbero origine nell’Inghilterra del ‘700 fra studenti di università e di scuole esclusive, non è dimostrare la fondatezza dei propri argomenti, ma di essere più bravi a difendere le proprie tesi e a rintuzzare quelle contrarie, argomentando, non sbraitando o insultando. La loro popolarità è vastissima, perché si pensa che preparino gli studenti ad affrontare la vita in società, dove occorre misurarsi con opinioni diverse. Non è un caso se è stata proprio l’America a inventare la formula del "dibattito" fra candidati in politica. È altamente improbabile che i tre moschettieri con le manette vittoriosi contro avversari che spendono centinaia di migliaia di dollari per le loro lauree, più o meno quanto costa all’erario mantenere un detenuto, si presentino un giorno sul podio dei dibattiti presidenziali. Ma lo scopo della "Bard Prison Initiative" non è produrre futuri leader. Molto più modestamente, ma realisticamente, la speranza è aiutare uomini e donne confinati nell’abbrutimento del carcere, nella violenza e nell’umiliazione quotidiana, a utilizzare il tempo a disposizione per prepararsi al momento in cui torneranno liberi. Il carcere, come oggi funziona, è un’università del crimine, dove matricole condannate per piccoli reati escono con master e dottorati in criminalità avanzata. Il 56% dei detenuti sono riarrestati e rinchiusi di nuovo entro dodici mesi dalla scarcerazione. Il 67,8% torna dietro le sbarre prima di tre anni e i penitenziari si trasformano in porte girevoli dove chi esce sa di essere destinato a rientrare, spesso per l’impossibilità di trovare un posto nella società là fuori. Soltanto l’istruzione può strapparli alla porta girevole, e il Bard College vuole andarli a cercare per motivarli. I risultati statistici sono impressionanti: di fronte al 67,8% di carcerati che tornano con nuove condanne, soltanto il 3% di coloro che sono riusciti ad acquisire un titolo di studio in carcere ricade nella fossa. La speranza è che colpi sensazionali come sconfiggere i genietti harvardiani, la crema della crema della popolazione universitaria americana, servano a motivare gli stanchi, gli indifferenti, gli abulici, i disperati. Se tre di voi possono essere meglio dei cadetti di West Point o di Harvard la morale è ovvia: non siete relitti abbandonati nel mare, ma esseri umani che possono tornare a navigare in quell’oceano pauroso che vi attende, fuori dalle mura.