Giustizia: l’Italia affossa il reato di tortura e ora l’Europa ci prepara nuove condanne di Carmine Gazzanni L’Espresso, 7 ottobre 2015 Era stata approvata Camera dopo la condanna di Strasburgo per i fatti della scuola Diaz. Ma la legge è caduta nuovamente nel dimenticatoio. Da cinque mesi, infatti, è ferma in Senato. E, intanto, la Corte europea sta esaminando alcuni ricorsi che potrebbero portare a nuove pesanti sanzioni per il nostro Paese. Caduta nel dimenticatoio. Ancora una volta. Sembrava che questa potesse essere la volta buona e invece pare proprio che il nostro Paese non voglia decidersi ad introdurre nel suo ordinamento penale il reato di tortura. Nonostante i mille propositi di governo e Parlamento, infatti, la legge è ferma ormai da oltre cinque mesi al Senato, in una melina estenuante finalizzata a "spedire la legge in soffitta e non parlarne più", come dice a L’Espresso Patrizio Gonnella, presidente di "Antigone", una delle associazioni più attive a riguardo. Eppure tutti ricorderanno il pressing dell’esecutivo ad aprile scorso per l’approvazione della legge. "Ciò che è accaduto attiene a una pagina nera nella storia del nostro Paese. E se vogliamo affrontare quella pagina nera, la prima cosa da fare è introdurre subito il reato di tortura", aveva detto lo stesso Matteo Renzi dopo la condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo per i fatti della scuola Diaz al G8 di Genova del 2001. Detto fatto: due giorni dopo la condanna, sulla scia dello strazio e dello sdegno di tutti, la Camera dei Deputati licenziava il testo che poteva finalmente avviarsi al Senato per l’approvazione definitiva. Da allora, però, è calato il sipario, il silenzio e pure l’impegno concreto, nonostante scontiamo un ritardo già di trent’anni, tra omissioni e negligenze, rispetto alla Convenzione delle Nazioni Unite del 1984, sottoscritta dall’Italia quattro anni dopo. Fa niente se nel testo, all’articolo 2, si dica chiaramente che "ogni Stato parte adotta misure legislative, amministrative, giudiziarie e altre misure efficaci per impedire che atti di tortura siano commessi in qualsiasi territorio sottoposto alla sua giurisdizione". Parole al vento, dato che anche questa volta, dopo l’approvazione alla Camera, il testo a Palazzo Madama è praticamente sparito. Basti questo: dall’arrivo in Senato, la commissione Giustizia (presieduta dal forzista Francesco Nitto Palma) si è riunita solo sette volte. In pratica, una seduta al mese. Ma non è tutto. "Il testo non solo si è bloccato - commenta Gonnella - ma, pur vedendosi pochissime volte, al Senato sono stati capaci di peggiorarlo rispetto a quello che era stato approvato dalla Camera, che già di per sé era frutto di un compromesso al ribasso". Insomma, siamo lontani anni luce dalle direttive Onu e comunitarie. Come L’Espresso aveva già documentato, infatti, il testo licenziato da Montecitorio introduceva sì il reato di tortura ma lo faceva restare un reato comune, imputabile dunque a qualunque cittadino, e prevedeva pene molto basse soprattutto se raffrontate a quelle di altri Paesi. La Corte di Strasburgo ha condannato l’Italia per le violenze alla Diaz e per non aver introdotto il reato nel codice penale. Come prevede una Convenzione Onu del 1984. Ma finora il Parlamento ha fatto di tutto pur di non tener fede agli impegni. E il provvedimento ora all’esame della Camera è assai lontano dal testo delle Nazioni Unite "Ma al Senato si sono superati", commenta sconsolato Gonnella. Sono state approvate modifiche per le quali, ad esempio, affinché si possa parlare di tortura, devono essere commesse più violenze. "È stato messo il plurale: una sola violenza non basta per configurare una tortura. Senza dimenticare - continua il presidente di Antigone - che è stato deciso che quando si produce una sofferenza psichica, questa deve essere verificabile. Il che è ovviamente impossibile, specie se, come accade spesso in Italia, i processi durano anche dieci anni". Insomma, al Senato tra rallentamenti e peggioramenti, il testo è ormai bello che morto: "l’obiettivo è non approvarlo mai, o tramite melina oppure peggiorandolo a tal punto che poi si dica che questo testo così com’è non può essere approvato perché troppo distante dalle indicazioni che aveva dato l’Onu sul reato di tortura". Intanto, però, dall’Europa potrebbero arrivare presto nuove condanne per violazione dei diritti umani e maltrattamento dei detenuti. E, paradosso dei paradossi, a quanto pare il nostro Paese è consapevole del rischio. Pochi giorni fa è stata presentata al Parlamento la "Relazione sullo stato di esecuzione delle pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo nei confronti dello Stato italiano". Dal report emergono alcuni dati interessanti, a cominciare dal fatto che contro il nostro Paese sono stati presentati ben 10.100 ricorsi. Una cifra sbalorditiva se si pensa che siamo secondi solo all’Ucraina (13.650). Contro di noi, dunque, più procedimenti rispetto anche a Stati come la Russia (10.000) o la Turchia (9.500). Ma il punto è un altro. Tra i vari procedimenti aperti spuntano anche "casi relativi ai disordini durante il Vertice G8 di Genova". Secondo il rapporto, infatti, la violazione del divieto di tortura e di trattamenti disumani in relazione al comportamento tenuto dalle forze dell’ordine al G8 di Genova è oggetto di altri due ricorsi pendenti alla Corte, proposti complessivamente da 31 soggetti, tra cittadini italiani e stranieri, arrestati e detenuti nella caserma di Bolzaneto. I magistrati dicono chiaramente che "il contesto fattuale dei due ricorsi è assimilabile a quello che ha dato luogo alla pronuncia di condanna della Corte europea resa il 7 aprile 2015". Ma non è finita qui. Nella relazione, poco più avanti, si legge che risultano depositati "ulteriori affari non ancora comunicati al Governo italiano". Affari che "aggravano il quadro delle possibili, future condanne a carico dell’Italia". Parliamo di casi in cui è emerso un "uso sproporzionato della forza da parte delle forze dell’ordine nei confronti di persone sottoposte a restrizione e mancanza di indagine effettiva". Tra i vari procedimenti, ad esempio, c’è il "caso Saba". Siamo nel 2000, nel carcere di Sassari. In occasione di un’operazione di perquisizione generale, si registrarono episodi di violenza fisica e morale nei confronti dei detenuti. Le indagini che seguirono portarono alla richiesta di rinvio a giudizio per ben 90 agenti della polizia penitenziaria. Dei 61 imputati che optarono per il rito abbreviato, solo dodici furono condannati a pene, tutte con sospensione, da quattro mesi ad un anno e mezzo di reclusione per i delitti di violenza privata aggravata e abuso di autorità contro arrestati e detenuti. Le condanne divennero definitive soltanto per nove di loro. Quanto ai rimanenti 29 imputati che non scelsero il rito abbreviato, nove vennero rinviati a giudizio e poi assolti o prosciolti per intervenuta prescrizione, mentre per i restanti venti fu pronunciata sentenza di non luogo a procedere. Diverso sarebbe stato, probabilmente, se l’Italia avesse avuto nel suo codice penale il reato di tortura. Ed ecco perché ora rischiamo nuove pesanti sanzioni. E lo Stato è consapevole di questo pericolo, tanto che - si legge ancora nella relazione - "è all’attenzione delle competenti amministrazioni l’ipotesi di una soluzione bonaria del contenzioso, per scongiurare il rischio di ulteriore condanna per violazione del divieto di tortura". Ma fa niente: meglio pagare e collezionare figuracce, piuttosto che introdurre una legge che si aspetta da trent’anni. Tanto poi, alla prossima condanna, una nuova ondata di sdegno ci farà avere l’impressione che le cose stiano cambiando ancora. Prima di tornare al solito silenzio. Lo stesso da trent’anni a questa parte. Giustizia: rapporto Onu; su corruzione l’Italia fa progressi, ma pesa percezione negativa di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 7 ottobre 2015 Gli indicatori della Banca mondiale relativi al 2014 confermano il trend negativo dell’Italia nel "controllo della corruzione" (sceso da 57,4 a 55,3). Il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, parla di "arretramento, ancorché lieve". E anche se quegli indicatori "presumibilmente" non tengono conto "dei più recenti interventi", tuttavia "segnalano come la valutazione del nostro sistema da parte di alcuni osservatori "privilegiati" resti tuttora negativa", con effetti negativi, ovviamente, sugli investimenti economici. Ecco perché il primo Rapporto Onu sullo stato di attuazione in Italia della Convenzione contro la corruzione è un’opportunità che non va sciupata per dare, invece, un’immagine diversa del Paese, valorizzando "il quadro nel complesso positivo" che ne esce. E se è vero che la fotografia scattata si ferma a marzo 2013 e che le 219 pagine del report contengono ben 13 "raccomandazioni" all’Italia (su altrettante lacune da colmare), è anche vero che le misure adottate dopo quella data, sul fronte della repressione e della prevenzione, si muovono nella direzione indicata dagli osservatori Onu. Tra l’altro, Visco segnala che il meccanismo delle peer reviews (giudizio dei pari) utilizzato dall’Onu "è assai più efficace della costruzione di graduatorie, spesso proposte anche dalle organizzazioni internazionali per la valutazione dei risultati conseguiti". Quindi, è più affidabile degli indicatori di percezione della corruzione, che hanno dei "limiti" perché, ad esempio, possono essere influenzati anche dalle notizie sulla corruzione apparse nei giorni della rilevazione. Del Rapporto Onu sulla corruzione si è parlato ieri al Centro Congressi della Banca d’Italia, con il ministro della Giustizia Andrea Orlando e il presidente dell’Anac (Autorità anticorruzione) Raffaele Cantone. Le conclusioni dell’Onu sono un buon trampolino di lancio per le misure in cantiere purché, ha osservato Visco nel suo indirizzo di saluto, si faccia anche "uno sforzo" per elaborare indicatori "il più possibile ancorati a evidenze oggettive piuttosto che unicamente legati alle percezioni" e si "migliori la capacità di comunicare e valorizzare i progressi ottenuti, anche sul piano internazionale oltre che su quello interno". Il Rapporto, depositato a giugno, si riferisce al quinquennio 2009-2013 e verifica lo stato di applicazione della Convenzione sul fronte legislativo, giudiziario e amministrativo. Segnala i progressi fatti con la legge Severino (190/2012) e con l’istituzione dell’Autorità anticorruzione, ma lì si ferma, salvo un riferimento, anch’esso positivo, a due provvedimenti successivi: il dl 90 del 2014 sui poteri all’Anac e l’aumento delle pene approvato con la legge n. 69 del 2015 sull’anticorruzione. Per Orlando, il Rapporto "promuove il lavoro del governo italiano" anche perché molte delle raccomandazioni - per esempio sull’auto-riciclaggio, sugli sconti a chi collabora per denunciare la corruzione - sono già superate dall’approvazione di specifiche norme. Il nostro Paese "è considerato largamente in linea con le disposizioni della Convenzione" dice Cantone, secondo cui "si fa fatica a trovare in interventi internazionali parole così positive per l’Italia": sul cosiddetto all crimes approach, adottato nei confronti dei reati di riciclaggio, sulle misure in tema di responsabilità della persona giuridica, sull’ampio ambito di applicazione e sulle prassi in materia di confisca dei beni, sulla specializzazione della Guardia di finanza e sul coordinamento delle diverse forze di polizia nelle indagini, sugli sforzi per incoraggiare chi denuncia, prevedendo ad esempio uno statuto di protezione del whistle-blower. Restano comunque lacune da colmare. Il Rapporto segnala, tra l’altro, l’eliminazione della querela per i reati di appropriazione indebita e corruzione tra privati; l’introduzione di "attività sotto copertura" nelle indagini sulla corruzione; la mancanza di dati statistici sulle sanzioni disciplinari inflitte dalle amministrazioni pubbliche a seguito di casi di corruzione, che non consente di apprezzare il buon funzionamento dei meccanismi di controllo e degli strumenti sanzionatori adottati. Giusto per "valorizzare" i "progressi", Orlando ricorda l’introduzione del voto di scambio politico-mafioso, il falso in bilancio ("aperti a modifiche che dovessero rendere più efficace la fattispecie incriminatrice"), la legge sugli eco-reati e quella futura sulla prescrizione ("che tiene conto della specificità" della corruzione, spesso scoperta dopo molti anni), la riduzione del contenzioso civile nonché il decreto sul tetto ai compensi per gli amministratori giudiziari di beni sequestrati (di cui Cantone rivendica la "segnalazione" da parte dell’Anac, "ben prima che scoppiasse il caso Palermo"). Il ministro insiste poi sull’urgenza della regolamentazione delle lobby e, con Cantone, sottolinea l’importanza che avrà l’approvazione del Codice degli appalti. Giustizia: terrorismo, analisi dei servizi sulla minaccia eversiva interna di Antonio Marini (Procuratore Generale Corte d’Appello di Roma) Specchio Economico, 7 ottobre 2015 Nell’ultima relazione dei Servizi al Parlamento sulla politica dell’informazione per la sicurezza, nella parte dedicata alla minaccia eversiva interna si pone in evidenza il crescente attivismo degli anarco-insurrezionalisti all’interno del movimento No TAV. L’opposizione al progetto Alta Velocità rimane infatti centrale per le componenti anarco-insurrezionaliste movimentiste che, propense ad integrarsi nelle lotte territoriali e sociali per radicalizzare la protesta, hanno intensificato l’impegno propagandistico a sostegno degli attivisti No TAV, nel segno della mobilitazione permanente contro la repressione dello Stato. A tale area, all’interno della quale sono emersi segnali di insofferenza e posizioni polemiche nei confronti di una condotta giudicata troppo "appiattita" su quella del movimento No TAV, è altresì riconducibile una serie di azioni compiute in solidarietà con gli attivisti inquisiti in varie regioni, a dimostrazione della diffusione raggiunta dalla protesta contro la repressione. In particolare, all’area anarco-insurrezionalista sono attribuibili gli atti di sabotaggio ai danni delle linee dell’Alta Velocità di Milano-Torino, Milano-Firenze e Milano-Bologna, compiuti nei giorni successivi all’emissione della sentenza della Corte di Assise di Torino che, nello scorso dicembre, ha scagionato quattro militanti dall’accusa di associazione con finalità di terrorismo, condannandoli per i soli reati specifici di porto d’armi, danneggiamento seguito da incendio e violenza a pubblico ufficiale, compiuti in occasione di un assalto al cantiere TAV di Chiomonte nel maggio del 2013. Si è trattato di azioni incendiarie realizzate con manufatti artigianali posizionati in punti nevralgici del traffico ferroviario, che hanno provocato rallentamenti e disagi alla circolazione evidenziando l’elevata esposizione delle vie di comunicazione a tecniche di attacco anche non particolarmente sofisticate. Nel contempo si è intensificato il dibattito volto a rilanciare le progettualità d’area attraverso la ricerca di piani condivisi di lotta tra le varie componenti della FAI/FRI (Federazione anarchica informale - Fronte internazionale rivoluzionario), la cui nascita risale, come è noto, al 21 dicembre 2003 con la rivendicazione dell’esplosione avvenuta nei pressi della casa bolognese dell’allora presidente della Commissione europea Romano Prodi. Si tratta di un’organizzazione a struttura "orizzontale" a differenza di quella "verticistica" delle B.R., priva di meccanismi autoritari, associativi e burocratizzati, composta di vari gruppi di matrice anarchica, uniti in un patto federativo di mutuo appoggio, diretti a garantire l’anonimato e l’indipendenza dei gruppi e dei singoli che la compongono. Il web rappresenta il punto di forza del marchio Fai/Fri, divenuto ormai un brand di riferimento a livello globale. Proprio grazie ad internet la Fai ha fatto conoscere le proprie idee e contemporaneamente è venuta a conoscenza delle attività di gruppi non italiani, con i quali si è trovata in sintonia sia per mezzi che per gli obiettivi preposti. Nel corso del 2014 sono stati diffusi in rete almeno 40 comunicati di rivendicazione di azioni compiute in 14 Paesi per lo più in Europa e in America Latina. Al riguardo, nella relazione si segnalano i rapporti privilegiati tra gli informali italiani e gli omologhi greci della "Cospirazione delle Cellule di Fuoco", da ritenersi attualmente l’espressione Fai/Fri più "evoluta" dal punto di vista militare, e di particolare spessore sotto il profilo dell’elaborazione teorica. La diffusione dei comunicati di rivendicazione sul web, soprattutto dei greci della Cospirazione delle Cellule di Fuoco, ha così aperto la strada alla costituzione di un Fronte rivoluzionario internazionale. In questo contesto si colloca il nuovo progetto "Croce Nera Anarchica", diffuso sul web, ideato e avviato da anarchici detenuti, tra cui gli autori dell’attentato del 7 maggio 2012 a Genova contro Roberto Adinolfi, amministratore delegato dell’Ansaldo Nucleare di Genova, Alfredo Cospito e Nicola Gai. L’obiettivo è quello di ricompattare l’area intorno alla solidarietà rivoluzionaria nei confronti dei militanti detenuti in carcere, prefigurando una sorta di progetto offensivo aperto e flessibile che prevede libertà d’azione nella scelta degli obiettivi, nel modus operandi e nella stessa determinazione a rivendicare o meno l’azione medesima. Lo sviluppo del dibattito ha fatto però emergere la persistenza di divergenze destinate ad incidere sulla realizzazione di un fronte anarco-insurrezionalista unitario. Tanto i sostenitori della Fai/Fri quanto i seguaci del filone ortodosso, pur accomunati dal rifiuto della cosiddetta linea movimentista, accusata di confondere e sfumare l’identità anarchica in un generico antagonismo, restano sostanzialmente ancorati ai rispettivi distinguo di principio e di metodo. In particolare, per gli informali resta centrale il valore della rivendicazione ai fini della riproducibilità dell’azione, mentre per gli ortodossi l’apertura alle multiformi pratiche d’azione, compresi gli attentati non rivendicati, si accompagna alla necessità che ogni azione sia preceduta da un’approfondita analisi del contesto in cui si svolge, al fine di individuare e colpire un obiettivo realmente rivoluzionario. E tuttavia l’esistenza di tali divergenze non attutisce il rischio di una possibile ripresa delle azioni violente nel territorio nazionale da parte sia di quelli determinati a rilanciare il logo Fai/Fri, sia di quanti preferiscono l’anonimato, nella pratica di opposizione radicale al sistema, attraverso l’azione diretta nella sua accezione distruttiva. Gli obiettivi privilegiati restano gli appartenenti al comparto repressivo (Forze dell’ordine, magistratura, "carcerario"), al dominio tecnologico e alle nocività, ai poteri economico finanziari, ai media di regime. La solidarietà rivoluzionaria ai militanti in carcere continua a rappresentare un ideale connettore a livello internazionale. In questo contesto, possono essere presi di mira anche bersagli rappresentativi di Stati stranieri, specie quelli considerati particolarmente attivi nella repressione degli anarchici, di istituzioni internazionali nel territorio italiano, nonché obiettivi del nostro Paese all’estero. Con riguardo al terrorismo brigatista, nella relazione si pone l’accento sui perduranti legami con gli "irriducibili" del circuito carcerario, tradizionali depositari dell’ortodossia ideologica, sottolineando che alcuni di essi, convinti delle favorevoli opportunità offerte dalla congiuntura economica, hanno elaborato documenti teorico-propagandistici che mirano a riproporre una lettura di classe delle più significative manifestazioni di protesta sociale in atto, incentrata sulla storica contrapposizione tra lavoro e capitale. L’intento è quello di attualizzare la proposta rivoluzionaria, favorendo il passaggio delle lotte dal piano rivendicativo a quello di radicale sovvertimento dell’ordine costituito. In questo contesto desta una certa preoccupazione l’incessante attività di pubblicazione e divulgazione di interventi a favore della lotta armata, anche attraverso circuiti internazionali, da parte dei brigatisti "irriducibili" in carcere. Quanto al frammentato ed eterogeneo panorama della destra radicale, esso non appare, secondo la nostra Intelligence, in grado di alimentare dinamiche che possano rappresentare una vera e propria minaccia eversiva o terroristica. Giustizia: l’altra faccia di Mafia Capitale, la chiusura dei centri multiculturali per minori di Roberto Ciccarelli Il Manifesto, 7 ottobre 2015 I tagli al Welfare e il disastro del terzo settore. Il 30 ottobre potrebbero chiudere il Celio azzurro, Nessun luogo è lontano e altre esperienze storiche create dalle giunte di centro-sinistra. "Ci hanno messo nello stesso calderone di Buzzi e Carminati" protestano le associazioni. Trecento bambini scrivono al sindaco Marino: "Non puoi essere tu a non volere i nostri centri". Uno degli effetti che Mafia Capitale ha prodotto a Roma è il blocco del welfare comunale. La paralisi del Campidoglio minaccia anche una delle più originali esperienze della città: i centri interculturali per minori. Nati sotto la prima giunta Rutelli nel 1990, oggi hanno consolidato un "terzo ambiente": dopo la scuola e la famiglia, ci sono loro. In venticinque anni oltre 3 mila bambini e adolescenti di ogni provenienza, in situazioni "difficili", si sono ritrovati in questi centri per studiare, imparare l’italiano, con operatori specializzati che li introducono al rifiuto del razzismo, alla parità sessuale e a detestare ogni forma di discriminazione. Nel deserto della città-vetrina ci sono solo loro. L’ultima barriera prima della guerra di tutti contro tutti. E non sono rari i casi di ragazzi che sono entrati in questi centri, hanno ripreso la scuola, e oggi lavorano come operatori sociali. Il 30 ottobre, celebri esperienze di integrazione e socialità come il Celio Azzurro, attivo da 25 anni nell’omonimo quartiere, rischia di chiudere. Lo stesso accadrà per esperienze analoghe come "Nessun luogo è lontano", attivo da 18 anni tra il Pigneto e Tor Sapienza; Zero in Condotta che lavora al quartiere di Primavalle. Al Trionfale c’è Armadilla. Il sindaco Ignazio Marino, e l’assessora al sociale Francesca Danese, non hanno ancora rinnovato la proroga del servizio. Ufficialmente perché mancano i fondi per il sociale. È la pena del contrappasso: il sistema "Buzzi-Carminati" si è arricchito con le proroghe degli affidamenti dei servizi. Oggi queste esperienze rischiano di chiudere perché il comune esita a rinnovarle, temendo di riprodurre quel sistema. A Roma i centri interculturali per minori sono 23. Invece di verificare quali centri funzionano e quali no, le esitazioni di Marino rischiano di fare tabula rasa. "Se c’è qualcosa che non funziona bisognerebbe sospendere cautelativamente chi non sembra affidabile e lavorare con le persone perbene - scrivono le associazioni in una nota - si preferisce chiudere i servizi gestiti da associazioni di gente per bene dove spesso i ragazzi non hanno altro". I guai sono nati durante la giunta Alemanno, quando i bandi sono stati interrotti (era il 2010) e il servizio è sopravvissuto attraverso gli affidamenti prorogati ogni due o tre mesi, regolarmente comunicati con ritardo. Per un lustro gli operatori hanno lavorato precariamente e senza alcun orizzonte nel quale sviluppare un progetto educativo. Tra le maglie slabbrate è cresciuto il sistema di "Mafia Capitale". Fabrizio Molina di "Nessun luogo è lontano" è amareggiato: "Si sta affermando un’idea punitiva: se c’è qualcuno che non svolge il servizio all’altezza, lo si cancella a tutti. In tutto il mondo funziona diversamente: se c’è qualcosa che non convince, si procede alla sospensione cautelativa in attesa di verifiche - sostiene - Ci sono gli strumenti amministrativi e non vengono usati. C’è molto imbarazzo a intervenire, forse per non toccare interessi costituiti". "Molte associazioni hanno fatto un lavoro eccellente e stanno sparendo nel silenzio a Roma - continua Molina - Ci hanno messi tutti nello stesso calderone. Non possiamo crepare per le motivazioni che hanno arricchito gli altri. Credevo che il Terzo Settore fosse povero, invece è ricchissimo ed è stato depredato". Oggi sarà diffusa una lettera a Ignazio Marino sottoscritta da trecento bambini ospiti dei centri ai quali il sindaco ha conferito il titolo di "ambasciatori di cittadinanza". "Caro sindaco - scrivono - Non puoi essere tu a non volere i nostri centri. Ci hanno detto che i ladri sono entrati in comune e si sono portati via i soldi che non erano loro. Se il 30 ottobre avrai cambiato idea, trasformeremo la nostra protesta in una festa e tu stesso sarai invitato". Martedì 13 ottobre la protesta arriverà in Campidoglio, sotto le finestre del primo cittadino. È probabile che un’altra proroga di qualche mese sarà concessa in vista di un bando. I centri ne chiedono uno triennale e di superare il meccanismo del massimo ribasso che vale tanto nel settore dell’edilizia quanto nel Welfare. La giunta è alla ricerca dei fondi inghiottiti dall’austerità. Disperatamente. Giustizia: la madre di Fatima muore dopo un lungo isolamento, il pm indaga sul carcere di Davide Vecchi Il Fatto Quotidiano, 7 ottobre 2015 Era in cella da luglio per aver aiutato la figlia jihadista, partita per la Siria. Dopo tre mesi di detenzione in isolamento, lunedì sera ha saputo che il giudice le aveva concesso i domiciliari. Ma non ha fatto in tempo a tornare a casa perché ieri notte è morta nell’ospedale di Vigevano dove era stata trasferita da pochi giorni per una occlusione intestinale. Il decesso sarebbe avvenuto per arresto cardiaco a seguito di un intervento chirurgico all’addome. È il drammatico epilogo dell’arresto di Assunta Buonfiglio, la madre della presunta jihadista italiana Maria Giulia Sergio, la 27enne originaria di Torre del Greco convertita all’Islam col nome di Fatima che si è schierata con l’Isis e da Inzago (Milano), dove viveva con la famiglia, ha raggiunto la Siria e qui è tuttora latitante. Ieri la Procura di Pavia ha sequestrato i referti clinici della donna e disposto l’autopsia per accertare, tra l’altro, se il regime carcerario a cui era sottoposta Assunta abbia aggravato le sue condizioni di salute. E soprattutto individuare possibili ritardi nel trasferimento dal carcere in ospedale. Con l’accusa di associazione a delinquere finalizzata al terrorismo il primo luglio scorso, su richiesta della Procura di Milano, sono stati arrestati i familiari di Fatima. La mamma Assunta, il padre Sergio e la sorella Marianna prelevati dall’abitazione di Inzago; mentre due parenti del marito di Fatima, Aldo Kobuzi, sono stati fermati uno in Albania, lo zio Baki Coku, e l’altro a Grosseto, la zia Arta Kacabuni. Secondo le indagini erano pronti a partire per la Siria e a unirsi ai combattenti del Califfato islamico. Il percorso già fatto da Fatima che, insieme alla sorella Marianna, era riuscita a convincere entrambi i genitori a convertirsi all’Islam. In un’intervista trasmessa da Porta a Portalo scorso 12 gennaio 2015 - pochi giorni dopo che il Viminale aveva reso pubblico il nome di Fatima nell’elenco dei foreign fighter italiani - Assunta ha ammesso di aver abbracciato la fede musulmana, ripetendo: "Io amo Allah, Allah è unico". Sul coinvolgimento diretto dei coniugi, però, l’avvocato Erika Galati ha sin da subito espresso dubbi e immediatamente dopo l’arresto ha presentato istanza di scarcerazione ritenendo "poco consono il regime di isolamento per le loro condizioni di salute". Istanza avanzata solamente per i genitori di Fatima e non per la sorella (detenuta a Rebibbia) ma rigettata dal giudice. Dopo 90 giorni di detenzione e con l’aggravarsi delle condizioni complessive di salute di Assunta, ricoverata d’urgenza all’ospedale di Vigevano, il primo ottobre l’avvocato Galati ha presentato una seconda istanza di scarcerazione che finalmente lunedì 5 è stata accolta. Ma la donna, operata per un’occlusione intestinale, è deceduta. "Sono amareggiata e decisamente arrabbiata", dice al Fatto l’avvocato. "Se avessero accettato la prima richiesta, quella che avevo presentato a luglio, questo non sarebbe successo" per - ché, aggiunge, "io sono certa che anche il regime carcerario al quale è stata sottoposta una donna di 60 anni abbia avuto ripercussioni sulla sua salute". Galati racconta che Assunta ha saputo lunedì sera, quando era ancora "lucida e cosciente", che il gip aveva disposto i domiciliari per lei e il marito "anche in ragione dell’età avanzata (60 anni, ndr) e delle condizioni di salute". Ieri mattina, "quando mi hanno avvisato, non riuscivo a crederci: solo poche ore prima avevo ottenuto la scarcerazione e invece di occuparmi del trasferimento ai domiciliari mi sono dovuta preoccupare di far avere un permesso speciale al marito per andare a dare l’ultimo saluto alla moglie, è sconcertante mi creda anche perché mi ero presa a cuore la loro vicenda, Assunta stava male, continuava a chiedermi spiegazioni, lei non capiva perché era stata arrestata, mi diceva continuamente "io non c’entro nulla, che vogliono da me?". Galati ripete: "Avrebbe dovuto essere scarcerata prima, ora cercheremo di capire se ci sono e di chi sono le responsabilità di quanto accaduto perché una cosa è chiara: voglio sapere cosa le è successo". Oltre alla Procura di Pavia anche quella di Milano, che aveva eseguito gli arresti a luglio, sta seguendo la vicenda. L’autopsia sarà effettuata nei prossimi giorni. Ieri è stata avvisata di quanto accaduto alla madre anche Marianna, la sorella di Fatima detenuta a Rebibbia in isolamento. Giustizia: in cella accusato della strage del Bardo a Tunisi. "Estradarlo? No, va liberato" di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 7 ottobre 2015 Il nodo della pena di morte e i dubbi della Procura generale sulle accuse a Touil. Non estradare in Tunisia, e anzi liberare subito, il 22enne marocchino Abdel Majid Touil che da quasi 5 mesi è in carcere a Milano perché accusato da Tunisi di essere uno dei terroristi autori il 18 marzo della strage del Museo del Bardo a Tunisi nella quale furono assassinate 24 persone (tra le quali 4 italiani) e ferite altre 45: a sorpresa ieri la requisitoria del sostituto procuratore generale Piero de Petris cambia completamente il destino del 22enne arrestato il 20 maggio dall’Italia in esecuzione di un mandato di cattura internazionale emesso dalle autorità tunisine. E se ora nel giro di pochi giorni (come probabile) la competente V Corte d’Appello dichiarerà la non estradabilità di Touil in Tunisia, subito dopo dovrà rimetterlo in libertà, visto che l’unico titolo per questi 140 giorni di carcere a Opera è la richiesta di estradizione. Totalmente sconosciuto ai pur attrezzati investigatori antiterrorismo italiani, e senza alcun legame con la galassia estremista, Touil fu rintracciato paradossalmente attraverso la denuncia di smarrimento del passaporto presentata dalla madre Fatima ai carabinieri di Trezzano sul Naviglio, e arrestato (appunto su richiesta della Tunisia) il 20 maggio nella casa dei familiari a Gaggiano, dove era giunto come irregolare da Porto Empedocle dopo aver riempito un barcone degli scafisti libici il 15 febbraio. Subito i giornalisti avevano colto l’incongruenza del quaderno di un corso di italiano a Trezzano che attestava (come raccontato dai familiari) che quantomeno il 19 marzo Touil fosse lì a un corso scolastico, e dunque non potesse essere a Tunisi il giorno 18 della strage, come sostenuto invece dalla Tunisia. Alle insorte polemiche politiche, il ministro dell’Interno Alfano aveva risposto: "Siamo l’unico Paese al mondo dove c’è un’opposizione che protesta perché è stato arrestato un sospettato di terrorismo, invece di dire che il sistema ha funzionato". Il no della Procura generale all’estradizione si concentra ieri preliminarmente sul fatto che, mentre i reati di cui Touil è accusato in Tunisia sono puniti con la pena di morte, la convenzione bilaterale Italia-Tunisia non regola esplicitamente l’impegno di Tunisi a commutare l’eventuale condanna capitale in pena detentiva. In filigrana, inoltre, traspaiono i dubbi sulle due maggiori prove d’accusa prodotte dalle autorità tunisine: gli stessi che devono del resto aver indotto il ministero della Giustizia italiano a non chiedere di procedere contro Touil per l’omicidio dei nostri 4 connazionali, e le Procure di Milano e di Roma (che a Milano ha trasmesso l’iniziale fascicolo aperto per la strage degli italiani e per terrorismo internazionale) a non adottare sinora alcuna altra misura. Non proprio granitico nelle modalità, infatti, appare il contesto del riconoscimento che due attentatori catturati hanno fatto in carcere, nella fotocopia di una foto, del volto di Touil come dell’uomo sconosciuto che in una piazza a Tunisi aveva consegnato loro alcune armi la mattina dell’attentato. E neppure risolutivi sono i tabulati telefonici tra un cellulare del giovane e altri attentatori. Quel cellulare ha infatti avuto tre diverse vite: nella prima ha contatti solo con familiari di Touil, nella seconda resta silente, nella terza ha in effetti contatti con terroristi. Ma la cesura intermedia corrisponde proprio al viaggio di Touil sul barcone degli scafisti libici che - racconta - gli trattennero cellulare e passaporto. Finiti poi, in questa lettura, ai reali utilizzatori in contatto con gli stragisti. Giustizia: "non estradate Pizzolato", l’appello di due senatori Pd al presidente Mattarella di Geraldina Colotti Il Manifesto, 7 ottobre 2015 Il caso del sindacalista condannato per il Mensalao. L’ingiustizia segue il suo corso. Implacabile. E travolge in un meccanismo opaco incurante del merito, del diritto e della pietas, la vita del sindacalista italo-brasiliano Henrique Pizzolato. Detenuto nel carcere di Modena per reati finanziari che ha sempre negato, Pizzolato viene estradato oggi in Brasile. Il ministro della Giustizia ha deciso di eseguire il provvedimento senza aspettare la decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo a cui i difensori del sindacalista si erano rivolti. Il senatore Luigi Manconi, che ha seguito il caso insieme alla collega del Pd Maria Cecilia Guerra, ha giocato ieri l’ultima carta umanitaria: ha rivolto un appello urgente al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, facendosi interprete di quello sottoscritto dai volontari dell’associazione Carcere e Città. "In Brasile e in particolare nel complesso carcerario cui è destinato il nostro concittadino - dice l’appello - i rischi per l’integrità fisica e psicologica di Henrique Pizzolato sono altissimi. Peraltro il trattato attualmente in vigore tra l’Italia e il paese sudamericano esclude l’estradizione se i diritti fondamentali della persona sono a rischio". Nonostante i passi avanti compiuti dai governi progressisti di Lula e Rousseff, il livello di violenza presente nelle galere brasiliane - regolate da disposizioni federali - resta altissimo. Nel carcere di Papuda, a cui è destinato Pizzolato, nel 2013 vi sono stati 2 suicidi, 14 omicidi, 30 morti. L’anno scorso, gli omicidi sono stati 10 nei primi sei mesi. Pizzolato ha la doppia cittadinanza. Quella italiana l’ha acquisita nel 1994, come nipote di un decorato per meriti di guerra. È stato direttore di marketing del Banco do Brasil. Nel 2012, un tribunale brasiliano lo ha condannato a 12 anni e 7 mesi per lo scandalo del Mensalao, ritenendolo colpevole di corruzione e peculato. Responsabilità che il sindacalista ha sempre negato, denunciando un processo viziato all’origine, teso a colpire l’ex presidente Lula. I diritti alla difesa dell’imputato sono stati violati fin dall’inizio, hanno commentato autorevoli giuristi internazionali: diverse prove che avrebbero potuto dimostrare l’innocenza di Pizzolato sono finite in un’indagine parallela coperta da segreto: e ai difensori non è stato permesso prenderne visione se non in un secondo momento. Per questo, il sindacalista si è rivolto alla Commissione interamericana dei diritti dell’uomo, dov’è pendente un procedimento, e anche alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Il processo per il Mensalao è stato celebrato davanti al Supremo tribunale federale, massimo organo giurisdizionale brasiliano, competente a giudicare i reati commessi da deputati e ministri, la cui sentenza non ammette impugnazione. Il caso di Pizzolato, che non ricopriva alcuna carica politica, avrebbe dovuto essere stralciato, ma così non è avvenuto e il sindacalista non ha quindi potuto ricorrere in appello. Per questo, ha deciso di fuggire e di rifugiarsi in Italia. Il 28 ottobre del 2014, la Corte d’Appello di Bologna ha negato l’estradizione, riconoscendo il rischio di vita che corre Pizzolato nelle carceri brasiliane. Condizioni che motivano la legge sul trasferimento dei condannati italiani detenuti nelle carceri brasiliane, a cui per questo è consentito espiare il resto della pena in Italia. Lo ha sottolineato proprio la promotrice del disegno di legge, Renata Bueno. La stessa che, però, ha condotto in prima persona la battaglia contro la permanenza in Italia di Pizzolato: esprimendo il proprio compiacimento quando, in aprile, il ministro della Giustizia ha consentito l’estradizione a seguito del ricorso in Cassazione, sfavorevole al sindacalista. In un’interrogazione urgente al ministro Orlando chiedono i senatori Manconi e Guerra: "Quali pressioni ha subito e subisce il Governo italiano?" Giustizia: "a scuola non c’è posto", il figlio del boss rifiutato in 4 istituti di Bari di Silvia Dipinto La Repubblica, 7 ottobre 2015 La madre va dai carabinieri. "Ha solo 10 anni, le colpe di suo padre non ricadano su di lui". Scuola negata al figlio del boss. A un mese dalla prima campanella, quattro istituti rifiutano l’iscrizione, e la madre si rivolge ai carabinieri e all’ufficio scolastico di Bari, per "chiedere giustizia". La prima domanda, a maggio; l’ultima qualche giorno fa. Tutte con esito negativo, tanto da costringere il provveditorato regionale a intervenire, per non lasciare ancora il bimbo a casa. Quattro le scuole che hanno dichiarato il "tutto esaurito". Iscrizioni chiuse, senza possibilità di deroga. Una preside ha anche avvisato la mamma del bambino. "Ho bisogno di informarmi, datemi qualche giorno", prima di rigettare comunque la richiesta. La donna, però, non si è data per vinta, e ha mobilitato Comune di Bari, Carabinieri e Ufficio scolastico provinciale. Il piccolo ha, infatti, dieci anni: dovrebbe essere tra i banchi di scuola, e invece, nella prima settimana di ottobre non risulta ancora iscritto. "Se fosse stata una mia scelta, avrei già avuto le assistenti sociali dietro la porta di casa - sbotta la giovanissima mamma - tocca invece a me andare dai carabinieri, perché poi non si dica che è colpa nostra". La storia comincia a maggio, nella città vecchia del capoluogo pugliese. Il bambino ha un cognome ingombrante, e una storia familiare che pesa: il papà è in carcere da anni, lontano dalla Puglia, condannato per omicidio ed esponente di un clan storico di Bari. "Noi, però, siamo puliti", ripetono i nonni, che non hanno remore ad aprire le porte di casa, qualcuna in più a finire sui giornali. Capelli all’ultimo grido, occhi vispi, la passione per le arti marziali. "Un bimbo che non sta un attimo fermo - racconta chi negli anni lo ha seguito - lo conosce tutto il quartiere". Un enfant terrible, senza giri di parole. Terminate (a fatica) le elementari, tocca iscriversi alla prima media. "Mi rivolgo a una scuola, vicino casa - racconta la mamma - compilo i documenti, ma non mi rilasciano alcuna ricevuta". La procedura, però, va fatta online, quindi iscrizione nulla. Seconda scuola, trattamento identico. "Addirittura la dirigente mi ha detto che doveva informarsi - continua la mamma - le ho spiegato che un bambino è un bambino, che non sapevo cosa poteva mai scoprire, e che le colpe dei padri non devono ricadere sui figli". E così la mamma ha deciso di dare battaglia, percorrendo tutte le vie possibili e arrivando a denunciare tutto ai carabinieri. "Abbiamo fatto davvero il possibile - assicurano dall’ufficio scolastico di Bari - chiamato le scuole e scritto, per invitarle a mettersi d’accordo". Ma per settimane tutto è rimasto fermo. Solo l’intervento del direttore scolastico regionale, Anna Cammalleri, quando il caso era ormai diventato a dir poco imbarazzante sembra ora aver sbloccato la situazione. "Ho trovato un istituto che accolga il bambino - assicura - per le altre che hanno detto no, partiranno delle verifiche: dobbiamo garantire a tutti il diritto allo studio, esistiamo per questo". Giustizia: condannato a 8 mesi di carcere per aver stabilizzato cinque lavoratori precari di Eleonora Martini Il Manifesto, 7 ottobre 2015 Giulio Petrilli firmò le delibere da presidente del Cda dell’Azienda regionale per l’edilizia e il territorio. Da presidente del Cda dell’Aret (Azienda regionale per l’edilizia e il territorio), stabilizzò gli unici cinque dipendenti, tutti precari, dell’ente pubblico abruzzese poi soppresso, e stipulò con il direttore un nuovo contratto che ne riduceva l’indennità da 110 mila euro lordi l’anno a 39 mila. "Reati" per i quali Giulio Petrilli è stato condannato in via definitiva a otto mesi di carcere senza condizionale dalla Corte di Cassazione de L’Aquila che ha confermato il primo grado ritenendolo colpevole di abuso in atti d’ufficio. Mentre la Corte dei Conti gli ha imposto di risarcire lo Stato con 155 mila euro. Tenterà anche il ricorso in Cassazione, Petrilli - che in passato è stato anche segretario provinciale del Prc de L’Aquila e responsabile Giustizia del Pd locale - ma il rischio che la sentenza diventi esecutiva è concreto. Così, l’ex presidente dell’Aret dal 2006 al 2008, sostenuto allora dal Prc, rischia ora di finire nuovamente in carcere. Anche se stavolta la verità giudiziaria gli dà torto e perciò lo Stato non gli chiederà mai scusa, a differenza di quanto avvenne nel 1989 quando, dopo sei anni di duro carcere preventivo, venne definitivamente assolto dall’accusa di essere stato - a soli 18 anni - uno dei capi dei terroristi di Prima Linea. Un precedente, questo, insieme ad una serie di piccoli reati commessi negli anni 70 come occupazione di case o manifestazioni non autorizzate ("per i quali però ho ottenuto la riabilitazione dal Tribunale di sorveglianza aquilano") che ha portato i giudici a non concedere la condizionale sulla pena. "Non solo mi considero innocente di qualsiasi reato, ma rivendico di aver fatto la cosa giusta - afferma Petrilli - Un’azienda pubblica non può non avere nemmeno un dipendente fisso, una piccola pianta organica. Erano giovani ingegneri e professionisti stabilizzati a 1100 euro al mese. Nelle due delibere avevo scritto "da ratificarsi nel prossimo Cda" che era in via di rinnovamento perché tre dei cinque membri si erano dimessi per candidarsi al consiglio regionale. La Regione, dopo le elezioni presieduta dal Polo, aveva l’obbligo di nominare il Cda entro tre mesi. Non lo fece mai. Ma se il mio è stato un illecito, perché quei dipendenti non sono stati poi rimossi nemmeno dai due commissari straordinari dell’Aret? Perché lavorano ancora?". Petrilli non è mai stato neppure accusato di aver intascato proventi per sé o di averne tratto benefici personali. Fece quelle scelte nel 2008, quando la crisi economica iniziava a mordere forte, e per lui era "un modo per riportare legalità e rigore nell’azienda che aveva il compito di coordinare le varie Ater abruzzesi per sviluppare l’edilizia residenziale pubblica in una regione dove ancora esistevano le baracche post terremoto del 1915". Petrilli però è un personaggio scomodo: da tempo conduce una battaglia per ottenere l’indennità per ingiusta detenzione (ma la legge è dell’ottobre 1989 e non può essere retroattiva). Negli anni dell’Aret, con un finanziamento europeo avviò progetti sociali a Mitrovica e in Serbia, pianificò un centro di accoglienza per migranti a Celano (Aq) e uno per donne in difficoltà a Giulianova (Te). Ma soprattutto, nel 2007 partecipo’ ad una manifestazione molto discussa contro il carcere duro del 41 bis da cui si levarono slogan in solidarietà alla brigatista Nadia Desdemona Lioce detenuta a L’Aquila (11 persone vennero poi condannate per apologia). Allora, tutte le forze politiche chiesero le sue dimissioni. E oggi nessuno - se non i tanti a livello personale - gli ha ancora espresso pubblica solidarietà. L’estinzione della pena non blocca il riconoscimento della "continuazione" di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 7 ottobre 2015 L’intervento di una causa estintiva della pena, quale per esempio la conclusione con esito positivo dell’"affidamento in prova", non fa venir meno l’interesse dell’imputato alla dichiarazione, in sede esecutiva, della "continuazione" rispetto agli altri reati per cui è stato parimenti condannato. Lo ha stabilito la Corte cassazione con la sentenza 40150/2015 accogliendo il ricorso di un uomo ritenuto da tre differenti sentenze colpevole del reato di ricettazione. La vicenda - Il giudice dell’esecuzione del tribunale di Napoli, peraltro già in sede di rinvio, aveva parzialmente accolto la richiesta dell’imputato ed aveva riconosciuto la continuazione con riguardo alle prime due condanne - Corte di appello di Bari e di Napoli, entrambe del 2004 - lasciando però fuori la terza sentenza, emessa nel 1998 dal Gup del tribunale dei minorenni, in quanto la pena era stata già dichiarata estinta a seguito dell’esito positivo dell’affidamento in prova. Per il ricorrente, però, tale circostanza non avrebbe dovuto assumere alcune rilievo, dal momento che "la continuazione si riferisce al fatto che le commissioni di reato devono rientrare in un programma iniziale e ben definito, e non al fatto che le pene devono essere ancora in fase di espiazione". E sul piano fattuale la terza ricettazione era avvenuta "a distanza di pochissimi giorni" rispetto alle altre due condotte già ritenute espressive di "un disegno criminoso unitario". La motivazione - Sul punto, la Suprema corte, giudicando su di un caso analogo, aveva già chiarito che lo scopo dell’imputato "ben può essere quello di ottenere lo scomputo della detenzione presofferta" (n. 8242/2010). In un’altra decisione, "coerentemente", aveva sostenuto che "la contestuale applicazione dell’indulto non esime il giudice dell’esecuzione dal provvedere in ordine alla concorrente richiesta del condannato di riconoscimento della continuazione tra i reati per i quali sono state irrogate le pene ormai estinte" (46975/2013). E in precedenza aveva affermato i medesimi principi in tema di amnistia (n. 4798/1996), precisando che l’interesse dell’imputato può essere sia quello di "imputare ad altra condanna la pena eventualmente scontata oltre i limiti risultanti dalla rideterminazione della pena effettuata ai sensi dell’articolo 671 codice procedura penale", sia quello "di escludere o limitare gli effetti penali della condanna in tema di recidiva e di dichiarazione di abitualità o professionalità e di consentire - in assenza di precedenti sentenze divenute definitive - la concessione della sospensione condizionale in caso dl una ulteriore condanna". Nel disporre un nuovo rinvio, la Cassazione ha stabilito che il tribunale dovrà verificare se sussista, o meno, l’identità del disegno criminoso con riferimento al terzo reato ed "eventualmente rivalutare anche il profilo concernente l’individuazione dell’addebito su cui determinare la pena base ex articolo 81 cpv. codice penale", che regola il reato continuato. Arresto in flagranza: annullamento dell’ordinanza di non convalida senza rinvio Il Sole 24 Ore, 7 ottobre 2015 Indagini preliminari - Arresto in flagranza - Diniego della convalida dell’arresto - Ricorso per cassazione del P.M. - Annullamento. L’annullamento da parte della Corte di cassazione dell’ordinanza di non convalida dell’arresto in flagranza, va disposto "senza rinvio", poiché un eventuale rinvio solleciterebbe al giudice "a quo" una pronuncia meramente formale, senza alcuna ricaduta di effetti giuridici. • Corte di cassazione, sezione II, sentenza 21 maggio n. 21389. Indagini preliminari - Arresto in flagranza - - Diniego della convalida dell’arresto - Ricorso per cassazione - Annullamento. L’annullamento da parte della Corte di cassazione dell’ordinanza di non convalida dell’arresto in flagranza va disposto con la formula "senza rinvio", quando l’esistenza delle condizioni che avrebbero giustificato la convalida risulta già accertata in sede di legittimità, posto che il giudizio di rinvio, avendo ad oggetto la rivisitazione di una fase ormai definitivamente esaurita, sarebbe limitato esclusivamente a statuire la correttezza dell’operato della polizia giudiziaria, già oggetto di positiva verifica ad opera del giudice dell’impugnazione. • Corte di cassazione, sezione VI, sentenza 21 maggio 2015 n. 21330. Arresto - Quasi flagranza - Diniego della convalida dell’arresto - Ricorso per Cassazione del P.M. - Accoglimento - Annullamento - Formula. Annullamento senza rinvio in caso di accoglimento del ricorso per cassazione del P.M. avverso l’ordinanza di diniego della convalida di arresto, l’annullamento deve essere disposto senza rinvio, poiché il ricorso, avendo ad oggetto la rivisitazione di una fase ormai definitivamente perenta, è finalizzato esclusivamente alla definizione della correttezza dell’operato degli agenti di P.G., mentre l’eventuale rinvio del provvedimento impugnato solleciterebbe soltanto una pronuncia meramente formale, senza alcuna ricaduta di effetti giuridici. • Corte di cassazione, sezione IV, sentenza 12 dicembre 2014 n. 51823. Indagini preliminari - Arresto in flagranza - Convalida - In genere - Diniego della convalida dell’arresto - Ricorso per cassazione del p.m. - Accoglimento - Annullamento - Formula - Annullamento senza rinvio - Ragioni. L’annullamento su ricorso del PM dell’ordinanza di non convalida dell’arresto deve essere disposto senza rinvio, considerato che il ricorso, avendo ad oggetto la rivisitazione di una fase ormai definitivamente esaurita, è finalizzato esclusivamente alla definizione della correttezza dell’operato della polizia giudiziaria. • Corte di cassazione, sezione VI, sentenza 14 novembre 2013 n. 4591. Accesso informatico abusivo: conta il luogo dove si trova l’autore della condotta di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 7 ottobre 2015 Corte di cassazione - Sezioni unite - Sentenza 26 marzo 2015- 24 aprile 2015 n. 17325 Si tratta del secondo intervento delle Sezioni sul reato di cui all’articolo 615 ter del Cp, che punisce l’accesso abusivo ad un sistema informatico (sentenza 26 marzo 2015- 24 aprile 2015 n. 17325 ). Con la precedente decisione (sentenza 27 ottobre 2010, Casani), la Corte aveva già fornito alcune importanti puntualizzazioni sulla struttura materiale del reato. Stavolta, si affronta e risolve il tema controverso del momento consumativo del reato, con effetti rilevanti anche per l’individuazione dell’autorità giudiziaria competente. La norma incriminatrice - Per cogliere la portata concreta della decisione merita di essere soffermata l’attenzione sul quadro normativo di riferimento: l’articolo 615 ter del Cp, che appunto punisce l’accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico, sanzionando la condotta di chi "abusivamente si introduce in un sistema informatico o telematico protetto da misure di sicurezza ovvero vi si mantiene contro la volontà espressa o tacita di chi ha il diritto di escluderlo". La condotta incriminata - Per quanto riguarda le modalità della condotta incriminata, la norma prevede, alternativamente, la penale rilevanza sia dell’"ingresso" che del "trattenimento" contro la volontà espressa o tacita del titolare del diritto di esclusione (in generale, sull’indebito trattenimento, cfr. Sezione V, 7 novembre 2000, Zara). La contraria volontà dell’avente diritto, soprattutto nella forma tacita, è dimostrata dalla predisposizione delle "misure di protezione" del sistema. Ciò perché è fondamentale, ai fini della configurabilità del reato de quo, che il sistema "vulnerato" risulti protetto da "misure di sicurezza". Diversamente potranno semmai ravvisarsi altre ipotesi incriminatrici, ma non quella di cui all’articolo 615-ter del Cp (significativo, in proposito, è che nella frode informatica e nel danneggiamento informatico, rispettivamente previsti dagli artt. 640 ter e 635-bis del Cp, la tutela non è limitata ai sistemi protetti da misure di sicurezza). Sul punto, dovendo peraltro convenirsi con quell’orientamento di giurisprudenza che, con un’interpretazione estensiva, "svaluta" il significato "tecnico" attribuibile alla nozione di "misure di sicurezza", ritenendo a tal fine sufficienti anche misure genericamente di carattere organizzativo, che cioè disciplinino semplicemente le modalità di accesso ai locali in cui il sistema è ubicato e indichino le persone abilitate al suo utilizzo (Sezione V, 8 luglio 2008, parte civile Sala in proc. Bassani). Le modalità "materiali" - La condotta incriminata, all’evidenza, implica una "interazione" tra l’agente ed il sistema, realizzata attraverso l’utilizzo della tastiera ovvero attraverso una connessione informatica, che consente di accedere e/o di trattenersi "all’interno" del sistema. L’"abusività" dell’accesso - La norma prevede poi che l’ingresso o il trattenimento, per essere penalmente rilevante, debba essere realizzato "abusivamente". Certamente abusivo è l’accesso di chi, pur formalmente legittimato ad accedere al sistema, nello specifico vi entri avvalendosi di una chiave di accesso e/o di uno strumento analogo falsificati (cfr. Sezione V, 14 ottobre 2003, Proc. Rep. Trib. Vibo Valentia in proc. Muscia, che ha appunto ravvisato il reato a carico del titolare di esercizio commerciale che aveva utilizzato consapevolmente sul terminale POS in dotazione una carta di credito contraffatta: secondo la Corte, doveva ritenersi indubbio che vi fosse stato un accesso illegittimo, perché se pure il titolare dell’esercizio era legittimato ad utilizzare il terminale POS, nella specie l’utilizzo era avvenuto utilizzando una chiave d’accesso contraffatta, sì che l’accesso assumeva carattere "abusivo"). Se il soggetto è "abilitato"- Ma è abusiva anche la condotta di accesso o di mantenimento nel sistema posta in essere da soggetto "abilitato" ad entrare nel sistema, ma realizzata per scopi o finalità estranei a quelli per i quali la facoltà di accesso è stata attribuita. In tal senso, risolvendo un contrasto di giurisprudenza, sono intervenute le Sezioni unite, proprio con la citata sentenza Casani. Questo il principio di diritto della sentenza Casani: "integra la fattispecie criminosa di accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico protetto, prevista dall’articolo 615 ter del Cp, la condotta di accesso o di mantenimento nel sistema posta in essere da soggetto che, pure essendo abilitato, violi le condizioni ed i limiti risultanti dal complesso delle prescrizioni impartite dal titolare del sistema per delimitarne oggettivamente l’accesso. Non hanno rilievo, invece, per la configurazione del reato, gli scopi e le finalità che soggettivamente hanno motivato l’ingresso al sistema". Ciò che rileva, secondo la Corte, per fondare o escludere la sussistenza del reato, è il profilo oggettivo dell’accesso o del trattenimento nel sistema informatico, risultando comunque irrilevanti le finalità illecite che il soggetto abbia inteso perseguire, le quali, semmai, potranno integrare altre ipotesi di reato. Il reato di cui all’articolo 615 ter del Cp sussiste, quindi, se ed in quanto il soggetto, pur astrattamente autorizzato ad accedere o a permanere nel sistema, lo faccia violando i limiti risultanti dal complesso delle prescrizioni impartite dal titolare del sistema ovvero lo faccia ponendo in essere operazioni ontologicamente diverse da quelle autorizzate. Il reato non sussiste, invece, allorquando il soggetto acceda o permanga nel sistema rispettando i limiti dell’autorizzazione rilasciatagli dal titolare del sistema. Le conseguenze - In altri termini, ai fini della configurabilità dell’accesso abusivo, nel caso di soggetto munito di regolare password, è necessario accertare il superamento, su un piano oggettivo, dei limiti e, pertanto, la violazione delle prescrizioni relative all’accesso ed al trattenimento nel sistema informatico, contenute in disposizioni organizzative impartite dal titolare dello stesso, indipendentemente dalle finalità soggettivamente perseguite. Irrilevanti, invece, devono considerarsi gli eventuali fatti successivi relativi ai dati acquisiti: questi, se seguiranno, saranno frutto di nuovi atti volitivi e pertanto, se illeciti, saranno sanzionati con riguardo ad altro titolo di reato (rientrando, ad esempio, nelle previsioni di cui agli articoli 326, 618, 621 e 622 del Cp) (cfr., di recente, in linea con la decisione delle Sezioni unite, Sezione V, 31 ottobre 2014, Gorziglia, e Sezione V, 22 febbraio 2012, Crescenzi ed altro). L’ipotesi sottoposta qui all’attenzione della Corte trova la propria disciplina proprio nei principi enucleati dalla sentenza Casani. L’imputata, secondo quanto risultava dagli atti del giudizio di merito, aveva titolo e formale abilitazione per accedere alle informazioni contenute nell’archivio informatico (qui, del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti), in quanto dipendente della competente amministrazione e titolare di "legittime chiavi di accesso". Risultava, peraltro, essersi introdotta all’interno del sistema al fine di consultare l’archivio per esigenze diverse da quelle di servizio, con la conseguente configurabilità dell’illecito. La questione della competenza - Una volta ricostruito il proprium dell’addebito penale, la questione su cui qui sono intervenute le Sezioni unite concerne l’individuazione del momento consumativo dell’illecito, ai fini e per gli effetti dell’individuazione dell’autorità giudiziaria competente. L’orientamento prevalente - Finora, l’orientamento prevalente nella giurisprudenza di legittimità si è espresso nel senso che il reato di accesso abusivo ad un sistema informatico si consuma nel luogo ove si trova il "sistema" oggetto della condotta abusiva, vuoi che si tratti dell’introduzione abusiva nel sistema protetto, vuoi che si tratti del mantenersi abusivamente nel sistema, contro la volontà, espressa o tacita, di chi ha il diritto di esclusione: essendo irrilevante, invece, ai fini dell’individuazione del luogo di consumazione del reato, il luogo ove sia iniziata la procedura di accesso (cfr. Sezione I, 27 maggio 2013, Confl. comp. in proc. Russo ed altri). Questa interpretazione, con riferimento agli accessi abusivi negli archivi informatici delle Amministrazioni centrali dello Stato portava a radicare la competenza della autorità giudiziaria romana. Frequenti le ipotesi di accessi abusivi nella banca dati riservata del Sistema d’informazione Interforze del Ministero dell’Interno - cosiddetto SDI - avente sede a Roma, effettuata da operatori delle forze dell’ordine, abilitati all’accesso dalla periferia, che "interrogavano" il sistema appunto utilizzando i terminali ad esso collegati: in tutti questi casi, è sempre stata ravvisata la competenza della autorità giudiziaria di Roma, evidenziando che il luogo di consumazione del reato doveva considerarsi quello nel quale si era entrati nel server del sistema, non potendo prendersi in considerazione né il luogo in cui l’accesso al sistema era iniziato con la digitazione delle credenziali e il successivo invio al sistema centrale, né il luogo in cui erano state poste in essere le eventuali condotte successive di acquisizione e di uso dei dati abusivamente acquisiti (cfr. la citata Sezione I, 27 maggio 2013, Confl. comp. in proc. Russo ed altri; ma anche Tribunale, Firenze, 29 giugno 2011). Secondo questa impostazione, la condotta illecita si realizza nel luogo ove viene superata la protezione informatica e si verifica l’introduzione nel sistema e, quindi, dove è materialmente situato il server violato, risultando irrilevante il luogo ove l’operatore inserisce le credenziali di autenticazione. L’inversione di rotta - Le Sezioni unite mutano radicalmente impostazione, recependo alcuni spunti argomentativi rinvenibili nell’ordinanza di rimessione (Sezione I, 28 ottobre - 18 dicembre 2014 n. 52575). Viene in proposito valorizzata la circostanza che il "sistema telematico" oggetto della condotta incriminata (costituito dal server centrale, ma anche dai terminali periferici) costituisce un unicum, assumendo quindi rilevanza anche il terminale periferico mediante il quale l’operatore materialmente inserisce le proprie credenziali. Cosicché riveste importanza decisiva non tanto il luogo "fisico" ove si trova il server, quanto quello in cui si trova il terminale dal quale l’agente si intromette o si trattiene abusivamente, perché, avendo riguardo alle specificità del sistema telematico, il sito dove sono archiviati materialmente i dati non è dirimente, dal momento che nel cyberspazio (la rete internet) il flusso dei dati informatici si trova, allo stesso tempo, nella piena disponibilità di consultazione di un numero indefinito di utenti abilitati, che possono accedervi ovunque. L’unicità del sistema informatico, in definitiva, conferisce rilievo al segmento della condotta posta in essere interagendo con il terminale periferico messo in rete. Da tale ricostruzione fattuale, le Sezioni unite fanno discendere, come conseguenza "coerente con la realtà di una rete telematica", quella secondo cui il luogo del commesso reato si identifica con quello nel quale dalla postazione remota l’agente si interfaccia con l’intero sistema, digita le credenziali di autenticazione e preme il tasto di avvio: così ponendo in essere una azione materiale e volontaria che gli consente di entrare nel dominio delle informazioni che vengono visionate direttamente all’interno della postazione periferica. Una tale conclusione viene giustificata e corroborata, dalla Corte di legittimità, con l’assunto che è quella che meglio corrisponde al principio del giudice naturale, radicato al luogo di commissione del fatto di cui all’articolo 25 della Costituzione Le conclusioni operative - Le conseguenze della decisione sono evidenti: cessa il radicamento della competenza dell’autorità giudiziaria romana, che si basava sul luogo di allocazione del server centrale, nei casi di accessi abusivi nelle banche dati dell’Amministrazione dello Stato (le ipotesi più frequenti sono state oltre agli accessi nel Sistema d’informazione interforze del Ministero dell’Interno - SDI al Sistema informatico dell’Agenzia delle Entrate); mentre si attribuisce rilievo ai fini della competenza ai luoghi ove il soggetto accede e/o si trattiene nel sistema interrogandolo da un terminale periferico. La massima Riservatezza - Accesso abusivo ad un sistema informatico - Consumazione - Luogo ove si trova l’autore della condotta - Rilevanza anche ai fini della competenza (Cp, articolo 615 ter; cpp, articolo 8 e segg.). Il luogo di consumazione del reato di accesso abusivo ad un sistema informatico (articolo 615 ter del Cp), rilevante anche ai fini della individuazione dell’autorità giudiziaria competente, è quello nel quale si trova il soggetto che effettua l’introduzione abusiva o vi si mantiene abusivamente, essendo irrilevante, invece, il luogo nel quale è collocato il server che elabora e controlla le credenziali di autenticazione fornite dall’agente. Il precedente contrario Accesso abusivo ad un sistema informatico - Consumazione - Rilevanza del luogo ove si trova il sistema informatico - Fattispecie in tema di conflitto di competenza (Cp, articolo 615 ter; Cpp, articolo 8 e segg.). Il reato di accesso abusivo ad un sistema informatico (articolo 615 ter del Cp) si consuma nel luogo ove si trova il "sistema" oggetto della condotta abusiva, vuoi che si tratti dell’introduzione abusiva nel sistema protetto, vuoi che si tratti del mantenersi abusivamente nel sistema, contro la volontà, espressa o tacita, di chi ha il diritto di esclusione: è irrilevante, invece, ai fini dell’individuazione del luogo di consumazione del reato, il luogo ove sia iniziata la procedura di accesso. Nel caso di specie, agli imputati era contestato il fatto di essersi abusivamente inseriti nella banca dati riservata del Sistema d’informazione Interforze del Ministero dell’Interno - cosiddetto SDI - avente sede a Roma, utilizzando i terminali ad esso collegati, che si trovavano peraltro - nel caso concreto - a Firenze: la Corte, risolvendo un conflitto di competenza, ha ritenuto la competenza della autorità giudiziaria di Roma, evidenziando che il luogo di consumazione del reato doveva considerarsi quello nel quale si era entrati nel server del sistema, non potendo prendersi in considerazione né il luogo in cui l’accesso al sistema era iniziato con la digitazione delle credenziali e il successivo invio al sistema centrale, né il luogo in cui erano state poste in essere le eventuali condotte successive di acquisizione e di uso dei dati abusivamente acquisiti. (Cassazione, Sezione I, 27 maggio 2013- 27 settembre 2013 n. 40303; Pres. Chieffi; Rel. La Posta; Pm (diff.) Fraticelli; Confl. comp. in proc. Russo ed altri). Corte Ue contro gli Usa: bocciato lo scambio di dati di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 7 ottobre 2015 Corte di giustizia dell’Unione europea - Grande camera - Sentenza 6 ottobre 2015 Causa C - 362/14. Ogni cittadino europeo ha diritto alla tutela legale della propria privacy e la Commissione Ue non può - per ragioni eminentemente politiche - negare il controllo giurisdizionale sul comportamento delle società commerciali e delle autorità pubbliche americane. Con una sentenza destinata a diventare storica la Corte di giustizia ha aperto ieri ufficialmente il conflitto tra due diversi sistemi giuridici: quello comunitario, in cui la privacy dei singoli cittadini è centrale e intoccabile fino a sospetto di reati, e quello degli Stati Uniti, dove prevalgono le ragioni di sicurezza - soprattutto preventiva - del Paese. La sentenza C-362/14 dice una cosa semplicissima: il governo Ue non può privare i suoi cittadini del controllo sulla loro vita "digitale", su cui deve sempre poter sorvegliare l’autorità giudiziaria. Ma le premesse e le conseguenze di questa decisione portano molto lontano. Il caso nasce dalla crociata personale di un giovane austriaco (Maximillian Schrems) contro Facebook. Il social network, secondo questo cittadino che nella vita è avvocato, quando trasferisce i dati digitali dai server irlandesi (base europea) a quelli americani, li mette seriamente a rischio di profilazione da parte - tra l’altro - della National security agency. Lo scandalo Snowden di due anni fa, secondo herr Schrems, è la prova storica di questo sospetto. Tuttavia una decisione della Commissione europea del 26 luglio 2000 aveva stabilito, al contrario, un livello di protezione dei dati negli Usa "equivalente" a quello del vecchio continente (Direttiva 95/46/CE). Il problema, scrive oggi la Corte del Lussemburgo, è che la Commissione non fece allora un’analisi del trattamento dati oltreoceano ma si limitò a replicare il testo dell’"approdo sicuro", cioè il trattato commerciale di fine anni ‘90 tra Europa e Usa. Trattato che, peraltro, vincola all’equivalenza dei diritti del consumatore/cittadino solo le imprese private americane ma non invece le istituzioni e le agenzie pubbliche. La legislazione americana, infine, autorizza il superamento dell’accordo sull’"approdo sicuro" se ci sono in ballo - come spesso accade là - questioni di sicurezza (preventiva) nazionale. Per la Corte europea questa libertà di manovra delle autorità pubbliche americane "che possono accedere in maniera generalizzata al contenuto di comunicazioni elettroniche, deve essere considerata lesiva del contenuto essenziale del diritto fondamentale al rispetto della vita privata". E c’è anche un altro motivo per il quale i giudici del Lussemburgo hanno bocciato il governo comunitario: il cittadino del vecchio continente deve poter avere sempre a disposizione "rimedi giuridici diretti ad accedere ai dati personali che lo riguardano o ad ottenerne la rettifica o la cancellazione", aprendo la porta al gigantesco tema della difesa del singolo contro il Grande fratello. Difesa che, conclude la Corte, deve poter avvenire dentro il proprio stato di residenza, attraverso una pronuncia della propria autorità (governo) 0, meglio ancora, attraverso un’indagine accurata e diligente della magistratura. Ma una cosa comunque è certa, argomentano i giudici: la Commissione Ue "non aveva la competenza di limitare", come ha fatto nel 2000, "i poteri delle autorità nazionali di controllo". Da oggi è ufficialmente aperta la partita della difesa dell’identità digitale sulle due sponde dell’Atlantico. Una partita che riguarda oltre 4.000 aziende, e non solo le native digitali. Lettere: la politica e i partiti restino fuori dalle aule di tribunale di Bruno Ferraro (Presidente Aggiunto Onorario Corte di Cassazione) Libero, 7 ottobre 2015 Nel tracciare il mio personale identikit del buon magistrato ho affermato, con forza e da sempre, che sia costituzionalmente sancito, per il giudice che abbia scelto per qualche tempo di fare politica nelle aule parlamentari, il divieto di rientrare in magistratura tornando all’esercizio delle funzioni giudiziarie. La politica vuol dire parte e la partigianeria è in evidente antitesi con la terzietà della giurisdizione. La terzietà, tuttavia, è chiaramente assente anche nei giudici semplicemente politicizzati che "fanno politica con le sentenze", adottando tecniche interpretative, in fatto o in diritto, che sono influenzate in maniera decisiva dai loro personali orientamenti politici: orientamenti che purtroppo sono alla base dell’ottica correntizia che da tempo (da troppo tempo) si è impadronita di consistenti strati della magistratura. In un recente convegno cui ho partecipato come relatore, un cittadino mi ha chiesto se risponde a verità che l’esito di una vertenza processuale è in diretta relazione con l’intervento di questo o di quel magistrato; un altro ascoltatore è arrivato ad affermare che l’andare in tribunale è come giocare la schedina (1, X, 2). Sono affermazioni forti, sicuramente esagerate, ma che danno il senso di un malessere diffuso e di una crescente sfiducia nella equanimità dei magistrati. Come reagire nel particolare e minato campo dei rapporti tra giustizia e politica è compito del Consiglio Superiore della Magistratura, che però è anch’esso basato su ottiche correntizie e non è in grado di garantire la deontologia dei magistrati sottoposti a procedimento disciplinare. Vogliamo provare a fare qualche esempio senza andare troppo indietro nel tempo? Pensiamo alla decadenza comminata dalla legge Severino a quanti incorrono in condanne superiori ad una data entità di pena detentiva. Disattendendo il principio della irretroattività delle leggi penali, la Severino fu applicata in danno di Berlusconi (donde un anno di servizi sociali), mentre è stata disapplicata nei confronti del sindaco di Napoli, Luigi De Magistris, e del Presidente della Regione Campania, Vincenzo De Luca: nel secondo e nel terzo caso si è adombrato il dubbio di un contrasto con la Costituzione che da sempre vieta leggi penali retroattive, fatta eccezione per quelle più favorevoli al condannato. Pensiamo al principio, anch’esso di rango costituzionale, relativo all’umanità della pena, che deve tendere alla rieducazione del condannato. Di recente è stato scarcerato un noto personaggio perché ne era stata accertata l’incompatibilità tra regime carcerario e stato psicologico; nel contempo nessuno ha battuto ciglio o è sceso in campo per protestare avverso il diniego di un ventaglio a Marcello Dell’Utri per difendersi dal caldo nel carcere in cui è detenuto, in quanto ritenuto arma impropria (sic!). Pensiamo infine al caso del senatore Azzollini, per cui il Senato ha bocciato a maggioranza la richiesta di domiciliari avanzata dalla Procura di Trani. Non entro nel merito, ma inorridisco al pensiero che le richieste dei magistrati vengano vagliate dalle Camere a seconda delle decisioni politiche adottate preventivamente dal Partito di appartenenza. Quando questo si verifica, non si parla più di giustizia ma di giustizialismo e il parlamentare finisce per essere meno tutelato rispetto ai comuni cittadini, per cui le richieste di misure cautelari dei pm subiscono il vaglio del Gip prima di finire successivamente al vaglio del Tribunale del riesame e della Cassazione. Potrei continuare, ma vorrei che queste considerazioni fossero oggetto di attenta riflessione nelle sedi competenti, Parlamento e Consiglio Superiore della Magistratura. Pescara: arrestato 5 giorni fa muore in carcere, sul corpo non ci sono segni di violenza Il Centro, 7 ottobre 2015 Detenuto al San Donato, muore per cause naturali. É accaduto la notte scorsa intorno alle 3 quando Gino Spinelli, 42 anni, residente a Città Sant’Angelo, è stato trovato privo di vita dagli agenti penitenziari. L’allarme è scattato subito ed è intervenuto il medico del carcere. É stato richiesto al 118 anche l’intervento al San Donato di una ambulanza medicalizzata, ma all’arrivo dei sanitari l’uomo era già spirato. Tutti i tentativi di rianimare l’uomo si sono infatti rivelati vani. Sul corpo, comunque, non è stato riscontrato alcun segno di violenza. La salma del 42enne è stata trasferita in obitorio, a disposizione del magistrato di turno, che potrebbe disporre l’autopsia, da effettuarsi nelle prossime ore, per togliere ogni dubbio sulle cause del decesso. Ma non sembrano esserci elementi che alimentino un possibile giallo. L’uomo si trovava detenuto nella casa circondariale di Pescara dallo scorso primo ottobre e avrebbe dovuto scontare poco più di due anni di reclusione per un furto in abitazione commesso a Pescara a ottobre del 2010. L’ordine di carcerazione, emesso dalla locale Procura dopo la condanna in via definitiva, era stato eseguito giovedì scorso dai carabinieri della stazione di Città Sant’Angelo e della Compagnia di Montesilvano. Roma: detenuto morto nel 2008, chiesta condanna a 10 anni di carcere per due poliziotti di Valerio Renzi fanpage.it, 7 ottobre 2015 Le richieste del Pg Francesco Mollace ribalterebbero la sentenza di primo grado: il decesso di Stefano Brunetti, arrestato nell’ottobre del 2008, sarebbe da addebitare alle percosse subite e non ad atti di autolesionismo. Chiesta una condanna per quattro poliziotti, due dei quali rischiano 10 anni di reclusione. Il Procuratore generale Francesco Mollace ha chiesto alla Prima Corte d’Assise di Roma di condannare i due agenti di polizia Salvatore Lupoli e Alessio Sparacino a 10 anni per la morte di Stefano Brunetti, 43enne arrestato l’8 settembre del 2008 per furto e lesioni. L’uomo morì il giorno successivo al fermo nell’ospedale di Velletri, secondo la procura a seguito delle percosse ricevute in commissariato. Coinvolti anche altri due agenti, responsabili secondo l’accusa di aver falsificato i verbali. Le richieste dell’accusa, se fossero confermate, ribalterebbero completamente la sentenza di primo grado emessa della Corte d’assise di Frosinone che nell’ottobre del 2013 aveva assolto con formula piena i quattro agenti indagati in quanto "il fatto non sussiste". "La sentenza di primo grado dà l’idea di una convinzione estranea alle carte processuali - ha dichiarato Mollace in aula - Il processo ha una prova diretta: è stato lo stesso Brunetti ad accusare in modo diretto le guardie del Commissariato. Ma la prima Corte ha liquidato questa prova come argomento residuale, dicendo praticamente che si è trattato di un suicidio. La prova c’é e gli imputati vanno condannati". Secondo l’accusa la vicenda di Stefano Brunetti assomiglierebbe a quella di Federico Aldrovandi e di Stefano Cucchi. L’uomo aveva un passato di tossicodipendente alle spalle e qualche piccolo precedente. Quando viene arrestato si trovata in un garage di una casa di Anzio intento a compiere un furto: quando il padrone di casa lo scopre il 43enne lo colpisce con una mazza. A quel punto l’intervento della volante che lo ferma al termine di una colluttazione. Brunetti è talmente fuori di se, tanto che gli agenti chiedono l’intervento della guardia medica. Dopo alcune ore Brunetti viene trasferito nel carcere di Velletri e da lì nell’ospedale del comune dei Castelli Romani. Per la Procura di Velletri il decesso di Stefano Brunetti è dovuto alle percosse. Viterbo: gli negano il trasferimento in comunità, detenuto tenta di uccidersi tusciaweb.eu, 7 ottobre 2015 Ieri pomeriggio un detenuto del padiglione penale di Mammagialla ha provato a togliersi la vita, impiccandosi in cella. Il tempestivo intervento della polizia penitenziaria ha scongiurato il peggio. Pare che all’uomo non fosse stata accolta un’istanza che lo avrebbe fatto trasferire in una comunità. Gli agenti sono riusciti a intervenire in tempo, ma a causa degli ascensori rotti e per far sì che venisse soccorso, hanno dovuto trasportarlo a braccia fino al piano terra dove c’era l’ambulanza. Varese: rapinatore in fuga investe un carabiniere, gli sparano e muore, indaga la Procura La Stampa, 7 ottobre 2015 Era in pericolo di vita il carabiniere appena investito? Su questo verterà l’inchiesta della Procura di Busto Arsizio che da ieri ha un caso delicato per le mani: l’uccisione di un rapinatore, avvenuta a Varese, da parte di un militare dell’Arma. La vittima si chiamava William Trunfio. Vita difficile, tra carcere e ospedali psichiatrici, Trunfio nei giorni scorsi era sparito dalla casa lavoro di Castelfranco Emilia, in provincia di Modena, riservata a coloro che hanno finito di scontare la pena ma sono ancora sottoposti a una misura di sicurezza detentiva. Dopo aver minacciato con un coltello un uomo, a Gallarate, impadronendosi della sua Fiat Panda, Trunfio ha prima rapinato due ragazze a un distributore di benzina a Buguggiate, quindi ha tentato di pagare in un supermercato di Gallarate con una delle carte di credito sottratte alle ragazze. Intorno alle 3, però, in via Pietro Micca a Varese, Trunfio s’imbatte in una pattuglia dei carabinieri che sta appunto cercando l’auto rubata. Trunfio scappa, inizia un inseguimento. Alla fine la pattuglia riesce a fermarlo. I due carabinieri scendono dall’auto e si avvicinano alla macchina. Trunfio ingrana la marcia e parte. Secondo la ricostruzione dei carabinieri, investe uno dei due militari (che infatti verrà dopo ricoverato per la frattura di una gamba), il collega estrae la pistola e spara. Per evitare un secondo investimento, dicono i militari. La pallottola colpisce al collo Trunfio, che muore. Ora bisognerà accertare l’esatta dinamica degli eventi. Trento: approvato dalla Giunta provinciale un progetto formativo rivolto ai detenuti L’Adige, 7 ottobre 2015 Attivare percorsi sostenibili e coerenti con il tempo di permanenza dei detenuti e percorsi spendibili sia all’interno del carcere che fuori. Sono questi gli obiettivi del progetto formativo approvato ieri dalla Giunta provinciale e rivolto ai detenuti della Casa Circondariale di Trento per l’anno scolastico in corso. "La filosofia di fondo è piuttosto semplice - commenta il governatore del Trentino, Ugo Rossi - ovvero è quella di aver fiducia nelle persone e nella loro capacità di mettersi in gioco: attraverso l’apprendimento e la formazione crediamo sia possibile aiutare e favorire il riscatto dei detenuti". L’offerta va ad integrare quella messa in campo nel corso del 2014, sulla base di quanto prevedeva il protocollo di intesa sottoscritto nel 2012 fra la Provincia autonoma di Trento e la Casa Circondariale. Nel dettaglio viene riconfermato il progetto formativo 2014-2015 incrementando di 12 ore la alfabetizzazione rivolta ai neo arrivati detenuti "protetti", inoltre viene avviata la terza classe liceale e realizzati percorsi estivi. Offerta formativa per il primo ciclo. Si prevede un percorso di alfabetizzazione e un percorso di scuola secondaria di primo grado. Il monte ore per l’alfabetizzazione, che lo scorso anno scolastico era di 72 ore settimanali, viene incrementato di ulteriori 12 ore settimanali rivolto ai detenuti "protetti". Offerta formativa per il secondo ciclo. Come per lo scorso anno scolastico vengono attivati due percorsi, di cui uno a carattere più culturale, ancorato al Liceo delle Scienze Umane del Liceo "A. Rosmini" di Trento, e l’altro più orientato all’ambito professionale, di operatore ai servizi di impresa, gestito dal Liceo "A. Rosmini" di Trento in collaborazione con l’Università popolare trentina. Oltre alle classi prima e seconda, con un blocco di 18 ore di lezione settimanali, partirà un terzo anno liceale con 25 ore settimanali. La composizione delle classi sarà di circa 10-12 studenti ciascuna. Sono previsti anche brevi percorsi estivi gestiti sempre dal Liceo "A. Rosmini" di potenziamento che accompagnano l’offerta didattica dell’anno scolastico. Progetti di qualificazione professionale. Si tratta di brevi percorsi, ognuno di circa 50 ore, nell’ambito della panificazione e pasticceria e nell’ambito dell’acconciatura ed estetica affidati ai due istituti provinciali di formazione professionale. Per queste attività, la Giunta provinciale ha riconosciuto al Liceo Rosmini il personale docente per i percorsi affidati, nonché l’importo di 3.000 euro per i percorsi estivi, mentre all’Università popolare trentina la somma di 42.400 euro per il percorso formativo professionale di operatore ai servizi di impresa, pari a 530 ore annue. Sono inoltre riconosciute all’Istituto di formazione professionale alberghiero e all’Istituto servizi alla persona e del legno "Sandro Pertini" rispettivamente 150 ore e 200 ore di docenza in sede di assegnazione di organico Napoli: il Consigliere regionale Francesco Moxedano "a Poggioreale gravi criticità" Ansa, 7 ottobre 2015 "Questa mattina mi sono recato al penitenziario di Poggioreale, dopo l’incontro avuto con il direttore del carcere dott. Antonio Fullone, unitamente alla dott.ssa Tocco garante dei diritti dei detenuti, al direttore sanitario del centro clinico dott. Di Benedetto, alla dott.ssa Annalaura De Fusco vicedirettrice e al comandante Colucci Pasquale ho visitato il centro clinico di Poggioreale. Ho potuto constatare criticità strutturali, di attrezzature, diagnostiche e di laboratorio il che appare alquanto paradossale se si pensa che 4 anni fa sono stati stanziati cinque milioni di euro per le attrezzature mai spesi". Lo dice il consigliere regionale Francesco Moxedano. "Alcuni pazienti detenuti - aggiunge - sono ricoverati da anni nel nosocomio carcerario gravando fortemente sulla spesa della giustizia e sanitaria, tra l’altro in condizioni non consone ad una società civile. Le apparecchiature della diagnostica risalgono a venti anni fa, il solo ecografo presente nel centro risale ad oltre 15 anni. Durante la visita ho interloquito con il personale infermieristico tecnico e medico, ex dipendenti del ministero della giustizia ed oggi a carico dell’Asl Napoli 1, precari da più di venti anni. Nel centro clinico è presente personale appartenente al consorzio Gesco, con una rotazione continua di personale infermieristico. I detenuti restano in lista di attesa per mesi, a volte anni, per una risonanza magnetica o una Tac, il che comporta naturalmente l’aggravarsi della patologia. Ho chiesto al Presidente della commissione sanità un’audizione urgente, per affrontare le forti criticità presenti nel centro clinico del carcere di Poggioreale", conclude Moxedano. Fossano (Cn): la Casa di Reclusione diventa a custodia attenuata, intervista al Direttore di Agata Pagani targatocn.it, 7 ottobre 2015 A pochi mesi dalla nomina a Direttore della Casa di Reclusione di Fossano, abbiamo incontrato il dottor Domenico Arena che ha condiviso con noi alcune riflessioni sul futuro dell’istituto. Da aprile 2015 il Carcere di Fossano è stato convertito a Casa di Reclusione a custodia attenuata, cosa comporta questa conversione? "I detenuti oggi sono tutti a bassa pericolosità sociale selezionati in base a valutazioni attente che mirano a valutarne l’effettiva volontà di rientrare in contatto con l’esterno. Si tratta di una forma di detenzione all’avanguardia che punta alla riabilitazione". Quali misure si possono intraprendere per avvicinare i detenuti all’esterno? "Intanto ci sono progetti e collaborazioni già in funzione da tempo. Il 10 e 11 settembre, ad esempio, si è disputato un torneo di calcio e pallavolo tra detenuti, volontari e utenti della Comunità Papa Giovanni e volontari Caritas. Lunedì 14 settembre invece c’è stata una "Cena con Delitto". I detenuti, diretti dal Maestro Antonio Martorello, hanno recitato per un pubblico esterno autorizzato. È stato un modo per portare l’esterno dentro al carcere. La scelta della cena con delitto recitata da detenuti è stata ironica e coinvolgente. Come detto sono strumenti che già sono utilizzati egregiamente, così come ci sono già detenuti che lavorano all’esterno e corsi di formazione professionale attivi. Ci sono corsi di saldo-carpenteria ed elettrotecnica, oltre alla scuola primaria e secondaria, interni alla struttura e c’è un laboratorio di falegnameria esterno. Partendo da questi mezzi a nostra disposizione occorre lavorare per creare delle opportunità. Rispetto a prima, i detenuti che arriveranno a Fossano saranno uomini che vogliono cambiare vita rispetto a quella precedente. L’Europa ha condannato l’Italia per il basso livello di integrazione dei detenuti nella società che è dimostrato che porta ad un abbattimento dei tassi di recidiva". Perché è stata scelta Fossano per questa sperimentazione? "Il carcere di Fossano ha una struttura ideale per un’iniziativa simile. Innanzitutto è strutturato in modo da rendere possibile una detenzione non segregativa. Le celle, dove i detenuti rientrano solo la notte, attorniano il cortile a libero accesso. Sullo stesso cortile affacciano le aule e i laboratori. In questo modo è possibile gestire la struttura in modo comunitario. Si può applicare l’ordinamento penitenziario che prevede che siano chiaramente identificati il giorno, con attività e relativa libertà di movimento, e la notte. Inoltre l’edificio è situato in pieno centro e questo potrebbe facilitare notevolmente l’interazione con l’esterno. Rispetto alle strutture sorte negli anni ‘80 in zone periferiche, da questa struttura è facile raggiungere la stazione per recarsi al lavoro, ad esempio, in comuni vicini. La struttura poi è molto grande e ha parecchi spazi inutilizzati. Sono al vaglio, anche con l’Amministrazione Comunale, una serie di idee perché l’inserimento avvenga in modo che la città si riappropri di uno spazio che per decenni le è stato precluso". Come si può procedere per un inserimento lavorativo? "Tutti i corsi hanno al termine un test di valutazione per il rilascio di una qualifica. Al momento attuale ci sono già delle opportunità di inserimento in lavori di pubblica utilità e attraverso borse lavoro in azienda. Si potrà lavorare sulle agevolazioni offerte dalla Legge Smoraglia per le assunzioni". Quale sarà il percorso di reinserimento, a livello pratico? Quali saranno le fasi? "I detenuti dovrebbero arrivare ad essere un centinaio. Si procederà con una fase di osservazione. Laddove sarà chiara la volontà di reinserimento, partiranno i corsi, che coinvolgeranno circa 40 detenuti alla volta. Durante questo periodo verranno effettuate osservazioni e colloqui. In seguito potrà partire la fase di reinserimento". Roma: teatro-carcere. "Dalla Città Dolente", nell’ambito del Festival dell’Arte Reclusa lafolla.it, 7 ottobre 2015 Martedì 13 ottobre alle ore 16.00 Teatro della C.C. Roma Rebibbia N.C. - nell’ambito del Festival dell’Arte Reclusa, organizzato dal Centro Studi Enrico Maria Salerno, si terrà un nuovo interessante appuntamento che vedrà protagonisti i detenuti attori del Teatro Libero di Rebibbia. Il teatro della casa circondariale ospiterà infatti Segnalibro, Teatro - Carcere - Editoria - II Edizione, dove verrà presentato il volume Dalla Città Dolente - Colpa, Pena, Liberazione attraverso le visioni dell’Inferno di Dante, dalla Divina Commedia, copione teatrale annotato e illustrato presentato dai detenuti attori del Teatro Libero di Rebibbia - G12 A.S. Drammaturgia e Regia sono a cura di Fabio Cavalli. I detenuti attori di Rebibbia presentano una lettura di Dante molto particolare: da Ulisse a Ugolino, da Paolo e Francesca a Filippo Argenti, peccati e peccatori riletti da grandi poeti che hanno tradotto Dante in siciliano, napoletano, calabrese, inglese, spagnolo... Lo spettacolo che ha reso celebre la Compagnia di Rebibbia, che ha convinto i fratelli Taviani a girare Cesare deve morire in carcere, ora anche in forma di libro illustrato. Responsabile editoriale Fabio Cavalli, illustrazioni di Alessandro De Nino. In scena i 25 detenuti attori della Compagnia del Teatro Libero di Rebibbia. Il Festival dell’Arte Reclusa, organizzato dal Centro Studi Enrico Maria Salerno ha sede al Teatro del Carcere di Rebibbia. Offre al pubblico dieci appuntamenti fra giugno e dicembre con protagonisti i detenuti-artisti guidati dallo straordinario lavoro di Laura Andreini Salerno e Fabio Cavalli, con la collaborazione artistica di Valentina Esposito. Per ogni appuntamento la sorpresa di scovare l’arte nel luogo più impensabile. Occasione di incontro fra i detenuti e la società. Il Festival è un approdo per uomini d’ogni provenienza dopo i naufragi delle loro vite. Pagano la pena ma cercano anche riscatto, hanno storie incredibili da raccontarci e attraverso il teatro, la musica, il cinema cercano di offrire frammenti di Giustizia e Bellezza. In collaborazione con Università Roma Tre Organizzazione Gisella Alessandro e Francesca Sernicola. Segreteria Serena Lesti. Napoli: "Nati per Leggere", fiabe nelle carceri per i figli dei detenuti in attesa dei colloqui di Maria Elefante Il Mattino, 7 ottobre 2015 Ascoltano le favole e guardano le illustrazioni: anche l’attesa di un colloquio in carcere può diventare un momento per crescere e per apprendere. I figli dei detenuti del penitenziario di Secondigliano cominciano dai libri. È "Nati per Leggere" il programma messo in piedi dall’associazione culturale dei pediatri presieduta da Paolo Siani che li coinvolge direttamente per rendere un pochino meno traumatico l’ingresso all’interno del carcere e umanizzare il colloquio stesso con il genitore. Dai quartieri più emarginati - come quelli di Ponticelli, Barra, San Giovanni, Scampia - ai corridoi senza finestre di un carcere. La mente di un bambino in età precoce registra queste immagini e le racconta tra i banchi di scuola o con parole o con disegni. E le maestre che percepiscono questi disagi spesso diventano terminali delle loro frustrazioni. Porte con le sbarre e uomini in divisa, i piccoli se li trovano di fronte quando incontrano il genitore e, spesso, le stesse porte si chiudono dietro di loro nei quartieri ghetto dove sono costretti a vivere. Vincere tutto questo e lenire questi disagi è una sfida per i pediatri. Così insieme ai medici, sulle piccole panchette e sui tappeti insieme alle loro mamme i bambini ascoltano fiabe o grandi classici. Nella sala d’attesa ci sono libri adatti a ogni fascia d’età. Il primo contatto avviene proprio all’ingresso del carcere. I volontari accolgono i bambini nella sala d’aspetto. Sorrisi e carezze per rompere la diffidenza iniziale e poi, accompagnati dalla mamma, tutti i bambini creano un gruppetto di età omogenea che sceglie poi il libro da raccontare. Le educatrici insieme a tutti i familiari poi leggono per tutto il tempo dell’attesa. E così anche l’avvicinarsi al colloquio diventa meno lacerante, anche se a volte è necessario aspettare più di un’ora per incontrare il proprio familiare. "Questo programma vuole essere un sostegno alle competenze dei genitori - spiega Stefania Manetti, responsabile dell’associazione culturale dei Pediatri - L’approccio alla lettura è importante per un bambino dal punto di vista neurofisiologico, dai due ai cinque anni la mente dei bambini apprende moltissimo e questo li forma per il futuro. Ma il nostro obiettivo è anche dare alle famiglie, ad una mamma presa da mille problemi e soprattutto ai papà assenti, degli strumenti già definiti, come nel caso della lettura un libro che rappresenta l’inizio di un percorso già strutturato". E non a caso la scelta dell’associazione dei pediatri è caduta sullo strumento base dell’apprendimento: il libro. Niente smanettate su tablet o smartphone che oggi sono oggetto del desiderio dei bambini, ma per apprendere il metodo scelto è proprio la lettura e l’esplorazione attraverso le immagini. Il progetto è stato avviato nel penitenziario di Secondigliano nell’autunno 2013, ogni anno coinvolge circa 250 padri, un successo che ha fatto sì che nelle sale colloqui venissero allestiti scaffali con libri adatti a bambini fino a 6 anni. Quello dei pediatri vuole essere, quindi, un modo per ridurre al minimo anche l’emarginazione. Un modo per evitare che la distanza col genitore possa incidere sul livello educativo. Ed è così che attraverso un libro si vuole arrivare alla cultura, spesso l’unica arma davvero potente contro il rischio di seguire strade sbagliate. Un’iniziativa su cui ha puntato molto anche il sindaco Luigi De Magistris che da cinque anni segue il progetto anche al Pan: "Il lavoro più difficile è quello di confine, nessuno nasce criminale, se facciamo incontrare dei bambini dalla nascita con i libri certamente inneschiamo una grande sensibilità verso la cultura, le istituzioni e il mondo del sociale - ha spiegato il sindaco De Magistris - Credo moltissimo in questa iniziativa che da attenzione e ascolto alle famiglie in difficoltà e in autunno vorremmo coinvolgere anche i bambini di Forcella, non dobbiamo dimenticare che i volontari sono il petrolio di questa città insieme alla sua umanità". "Privacy non garantita negli Usa", l’altolà dell’Europa a Facebook di Ivo Caizzi Corriere della Sera, 7 ottobre 2015 Effetto Snowden. Il caso partito dopo le rivelazioni dell’ex agente dell’agenzia per la sicurezza americana. La Corte di giustizia boccia l’accordo sui trasferimenti dei dati personali. La Corte europea di giustizia di Lussemburgo mette un freno all’invadenza degli Stati Uniti sui dati personali dei cittadini europei. Gli euro-giudici hanno bocciato l’attuale sistema di trasferimento dall’Ue agli Usa detto Safe harbour (Approdo sicuro) - utilizzato dai giganti Usa di internet e da migliaia di imprese private - perché non garantisce il diritto fondamentale a un adeguato grado di protezione della privacy. Determinanti sono risultate le rivelazioni dell’ex agente della statunitense National security agency Edward Snowden sullo spionaggio di massa delle autorità Usa, che provocarono lo scandalo internazionale Datagate. Dal punto di vista giuridico la sentenza della Corte di Lussemburgo ha reso "invalida" una decisione della Commissione europea di Bruxelles, che aveva considerato adeguato il livello di protezione Usa nel trasferimento dei dati personali dei cittadini europei con il sistema Safe harbour. Gli eurogiudici ritengono, invece, che "autorizza in maniera generalizzata la conservazione di tutti i dati personali di tutte le persone senza che sia operata alcuna differenziazione, limitazione o eccezione in funzione dell’obiettivo perseguito e senza che siano fissati criteri oggettivi intesi a circoscrivere l’accesso delle autorità pubbliche ai dati e la loro successiva utilizzazione". Il caso è partito dalla sede Facebook in Irlanda, che accentra i dati dei cittadini europei e li trasferisce negli Stati Uniti. Uno studente di legge austriaco, Maximilian Schrems, richiamando le rivelazioni di Snowden sullo spionaggio Usa, si è rivolto all’entità della privacy irlandese, che ha respinto la denuncia rifacendosi al giudizio della Commissione europea. Il caso è arrivato all’Alta corte dell’Irlanda, che ha chiamato in causa per competenza il tribunale comunitario, dove Schrems ha vinto. Il 28enne si è detto molto soddisfatto e ha raccolto consensi nei settori dell’Europarlamento (socialisti, liberali, sinistre, verdi) da tempo impegnati a contestare la Commissione europea su Approdo scuro. "Nel giugno 2013 e poi nel marzo 2014 abbiamo chiesto la sospensione immediata di Safe harbour perché non offriva garanzie sufficienti", hanno rivendicato gli eurosocialisti, ricordando scandali analoghi sull’invadenza degli Stati Uniti in Europa come "Echelon, Acta, Pnr, Swift, Prism". Ora i cittadini europei possono rivolgersi alle autorità nazionali per bloccare il trasferimento dei loro dati. Facebook, Google e tante altre multinazionali dovranno cambiare le loro pratiche. La Commissione europea, dopo la bocciatura a Lussemburgo, dovrà ridurre le concessioni fatte agli Stati Uniti. Il suo vicepresidente olandese Frans Timmermans ha confermato che è iniziata la trattativa con Washington "per rendere più sicuro il trasferimento dei dati dei cittadini europei". Facebook Europa ha comunicato che "è imperativo che i governi di Ue e Usa garantiscano di continuare a fornire metodi affidabili per il trasferimento legale dei dati e di risolvere tutte le questioni legate alla sicurezza nazionale". Il segretario del Commercio Usa Penny Pritzker ha espresso "profonda delusione" per la sentenza di Lussemburgo, ma si è detta pronta a lavorare con la Commissione europea "per affrontare l’incertezza creata dalla decisione della Corte". E già la prossima settimana si terrà una riunione straordinaria del garante Ue per la privacy con le 28 autorità nazionali. Snowden si è congratulato con Schrems via Twitter, sottolineando che con questo risultato "siamo tutti più sicuri" e riconoscendogli di "aver cambiato il mondo in meglio". Unioni civili, l’inutilità di una legge mediocre di Sergio Lo Giudice e Luigi Manconi Il Manifesto, 7 ottobre 2015 Come nel pazzo movimento di un flipper dotato di una molla infinita, il disegno di legge sulle unioni civili, rimbalza sui passaggi e sulle curve dell’attività parlamentare, senza trovare l’occasione e il tempo per tradursi in normativa. Così, oscilla tra uno scambio indicibile con riottosi alleati della maggioranza, e le affermazioni perentorie e le promesse immarcescibili già rivelatesi più volte vane. Il solo fatto certo è che quella legge ancora non è entrata a far parte del nostro ordinamento. Eppure, ben quattordici paesi europei hanno esteso il matrimonio alle coppie dello stesso sesso; e altrettanto hanno fatto tutti gli stati degli Usa dopo la sentenza della Corte Suprema del giugno scorso. Dunque, dal Canada al Sudafrica alla Nuova Zelanda, sempre più Paesi aprono i propri ordinamenti alle nozze egualitarie. Tra questi, la gran parte delle nazioni di prevalente cultura cattolica (dalla Spagna all’Argentina, dal Brasile al Portogallo, dall’Irlanda al Messico, al Belgio all’Uruguay). L’Italia ha scelto una strada differente: quella di un istituto giuridico distinto dal matrimonio riservato alle sole coppie gay e lesbiche, già percorsa da diversi paesi europei negli anni scorsi e progressivamente abbandonata, tranne che dalla Germania e da pochi altri. A più riprese la Corte Costituzionale italiana ha invitato il Parlamento a riconoscere giuridicamente le coppie dello stesso sesso, collegando il paradigma eterosessuale del matrimonio all’assenza di una specifica legge ordinaria, capace di superare quanto, al tempo della Costituente, era contenuto nel codice civile del 1942. Come a dire che quando il legislatore vorrà decidere per l’abolizione del divieto di accesso al matrimonio per le coppie omosessuali, non troverà un impedimento nell’art.29 della Costituzione, la cui interpretazione è destinata a evolvere. Tuttavia è un dato di fatto che fin ora il Parlamento non abbia fatto questa scelta e si sia incamminato sulla strada dell’istituto distinto, fondato sull’art.2 della Costituzione e non sull’art. 29. Questo solleva una questione importante: la separatezza davanti alla legge del nuovo istituto rispetto ai precedenti è una discriminazione che, come quella che vietava i matrimoni interraziali negli Stati uniti, sembra destinata a cadere col tempo. Ma quella separatezza, nell’immediato evidenzia un’altra contraddizione: il rischio, cioè, che la differente qualità del nuovo istituto, possa comportare una disparità tra i diritti sociali rispettivamente riconosciuti. Cosa che introdurrebbe inaccettabili elementi di diseguaglianza. Il testo unico in discussione al Senato prevede oggi una sola differenza sostanziale fra le coppie omosessuali e quelle eterosessuali: ed è la disciplina relativa ai figli. Ai soggetti delle unioni civili non sarà consentito l’accesso alle adozioni: sarà possibile, tuttavia, all’interno di una famiglia omogenitoriale, l’adozione dei figli del/la partner. Certo, avremmo preferito riconoscere a questi bambini il legame giuridico con entrambi i genitori, quello legale e quello "sociale", senza passare dalla procedura impropria dell’adozione. E avevamo depositato due disegni di legge in tal senso, ma la cosiddetta "step-child adoption", già anticipata dalla giurisprudenza italiana, può rappresentare una prima e limitata risposta - probabilmente l’unica ottenibile oggi, considerati gli attuali rapporti di forza - a diritti fondamentali di bambini che la legge italiana rende "orfani" di un genitore. Ciò che, certamente, non sarebbe tollerabile è che si rimarcasse ulteriormente la differenza fra matrimonio e unione civile, a tutto svantaggio di quest’ultima, riproducendo profonde fratture di diseguaglianza, destinate poi ad essere sanzionate dalle corti europee e nazionali in quanto discriminatorie. La dottrina statunitense del "separate but equal" con la quale si riconoscevano agli afroamericani gli stessi diritti dei bianchi ma in un contesto di segregazione razziale, ha rappresentato, fino alla sua dichiarazione di incostituzionalità (1954), una pagina buia nella storia dei diritti civili, ma si fondava comunque sul presupposto (spesso solo formale) che le condizioni garantite a bianchi e neri, pur nella separazione, fossero uguali. Ecco il punto: il nuovo istituto giuridico delle unioni civili fra persone dello stesso sesso nasce con l’anomalia di essere un dispositivo di separazione. Non sarebbe degno di un paese civile, e sarebbe certamente riscritto dalle corti, se in più negasse alle coppie dello stesso sesso unite civilmente un’uguale condizione di accesso ai diritti delle coppie sposate (dalla pensione di reversibilità alle graduatorie comunali di accesso ai servizi). Nonostante l’Italia sia in ritardo sul resto d’Europa - dove lo status di famiglia delle coppie omosessuali è stato sancito oltre che dai diritti interni anche dal diritto comunitario - il nostro paese sta decidendo di fare solo un primo passo. Che almeno non sia sghembo e sbilenco. Oltre l’intollerabilità di un rinvio che si rinnova di stagione in stagione, facendo sospettare chissà quali trame e quali retroscena, va chiarito un punto fermo: senza quella prospettiva di eguaglianza, indicata qualche riga più sopra, e senza l’accoglimento di quella "step-child adoption" (adozione del figlio del partner), saremmo in presenza di una legge tanto mediocre da far dubitare di una sua pur minima utilità. Droghe: la legge Fini-Giovanardi produce ancora danni di Salvina Rissa Il Manifesto, 7 ottobre 2015 Circola con insistenza nei palazzi romani la voce che presso il ministero della Salute sia al lavoro una commissione per stabilire, rispetto alle diverse sostanze, le soglie quantitative al di sotto delle quali si presume che la detenzione sia destinata ad uso personale. Questa norma era stata cancellata dalla sentenza della Corte Costituzionale (n. 32 del 12 febbraio 2014), che aveva dichiarato l’illegittimità della legge Fini-Giovanardi. Ciononostante, era stata prontamente resuscitata dal decreto legge Lorenzin del 20 marzo 2014 e convertito in legge il 16 maggio 2014 (n.79). Vale la pena ricordare che quel decreto era nato con l’intenzione di ripristinare integralmente la legge dichiarata incostituzionale e che solo l’opposizione del ministro Orlando impedì un colpo di mano per riproporre la norma chiave della Fini-Giovanardi, ovvero la classificazione delle sostanze leggere e pesanti in un’unica tabella, con la stessa elevata pena per la detenzione, da sei a venti anni di carcere. Più volte, in questa stessa rubrica è stato sottolineato che un decreto di tal genere non era assolutamente necessario e che rispondeva solo a esigenze di mera restaurazione; semmai, la vera necessità e urgenza sarebbe stata di avere una norma governativa per ricalcolare le pene dei condannati in base ad una legge abrogata dalla Corte (vedi gli articoli di Anastasia, 19 marzo 2014, e Corleone, 25 marzo 2014). Questo intervento, richiesto a gran voce dalle Ong, non vide mai la luce; mentre invece si reintroduceva il comma 1-bis all’art. 73, col concetto di "quantità massima detenibile", quale "soglia" destinata a discriminare la detenzione per consumo (punibile peraltro con pesanti sanzioni amministrative) da quella per spaccio. A suo tempo le "quantità massime detenibili" per le diverse sostanze furono stabilite con decreto ministeriale dall’allora ministro Storace, d’accordo con lo "zar" antidroga Carlo Giovanardi (decaduto insieme alla norma cancellata dalla Corte). Che oggi si voglia procedere a una nuova determinazione delle soglie, appare assurdo e preoccupante, e per diverse ragioni. In primo luogo, la soglia quantitativa non ha mai funzionato, tanto che la famosa "dose media giornaliera" della Jervolino-Vassalli del 1990 fu cancellata dal referendum del 1993 (ripristinata nella Fini Giovanardi per puro furore ideologico di "certezza" della pena). In secondo luogo, la "soglia quantitativa" contrasta coi principi generali di penalità, perché inverte l’onere della prova sull’accusato, chiamato a fornire prove della destinazione per uso personale se detiene quantità maggiori. Ancora, ha poco senso che sulle soglie decida il ministero della Salute (seppure di concerto col ministero della Giustizia), visto che la "quantità massima detenibile" ha rilevanza penale ed è totalmente sganciata da qualsiasi riferimento al consumo e alle sue modalità (a differenza della "dose media giornaliera" suddetta). Anche in questo caso auspichiamo uno stop da via Arenula, ma è assai preoccupante che in un momento d’inizio della discussione sulla legalizzazione della canapa, si assista a un lavorio revanscista. Piuttosto, è venuto il tempo di una radicale riforma complessiva della normativa antidroga. La Società della Ragione ha predisposto un testo condiviso da un ampio Cartello di associazioni per segnare una profonda discontinuità, a partire dall’impianto stesso della legge, centrato com’è sulla detenzione quale condotta da penalizzare. La Conferenza governativa potrà essere l’occasione per un confronto aperto che dia al Parlamento gli elementi per una riforma che superi l’ormai insensata guerra alla droga. Guinea Equatoriale: fiaccolata a Roma per la liberazione di Fabio e Filippo Galassi roma.ogginotizie.it, 7 ottobre 2015 "Dopo la liberazione di Daniel e Fausto Candio prosegue la straordinaria mobilitazione dei famigliari degli italiani che ancora restano prigionieri nel carcere di Bata in Guinea Equatoriale, Fabio e Filippo Galassi, oltre a un altro connazionale di cui non consociamo le generalità". Lo dichiara in una nota Fabio Sabbatani Schiuma, già vicepresidente del consiglio comunale di Roma e segretario nazionale del movimento Riva Destra, il quale parteciperà alla fiaccolata. "La liberazione - conclude Schiuma - di Daniel e Fausto è un segnale positivo per le famiglie degli altri italiani e fa bene sperare, ma le istituzioni non possono continuare a lasciar sole le famiglie e a non spendere una parola in loro sostegno". La famiglia Galassi ha inoltre rilasciato un proprio comunicato stampa per invitare quante più persone a partecipare alla fiaccolata: "La famiglia Galassi invita la stampa e gli amici di Fabio e Filippo, padre e figlio detenuti dal 21 marzo in Guinea Equatoriale, alla fiaccolata che si svolgerà a Roma, via della Conciliazione, il giorno martedì 6 ottobre 2015 alle ore 20:30. Fabio e Filippo Galassi sono stati arrestati il 21 marzo 2015 a Bata, in Guinea Equatoriale, e da quel giorno si trovano agli arresti: accusati di vari reati societari con prove poco circostanziate ed entrambi sono dipendenti dell’azienda General Works; Fabio, che ha 60 anni, è detenuto nel carcere militare della città ininterrottamente da marzo mentre Filippo,24 anni, dopo un breve periodo di arresti domiciliari è stato tradotto nello stesso carcere il 28 giugno scorso. Con loro era detenuto anche Daniel Candio, 24 anni, amico di Filippo, rientrato in Italia domenica mattina dopo oltre tre mesi di carcerazione completamente immotivata, e sarà presente anche lui alla fiaccolata. Sarà occasione per la famiglia Galassi e gli amici di unirsi assieme in questa battaglia per la giustizia e i diritti dei connazionali detenuti in Guinea Equatoriale, per chiedere a gran voce il rispetto di tutte le norme e le convenzioni internazionali che tutelano i diritti degli indagati e dei prigionieri, per accendere i riflettori sulla fumosa vicenda giudiziaria che vede coinvolti Fabio e Filippo: ad oggi infatti sono stati formulati capi d’accusa poco circostanziati e fumosi e ancora non sono chiare nemmeno le tempistiche processuali. Fabio Galassi lamenta inoltre un problema all’occhio e, secondo un medico che lo ha visitato, necessita di un intervento oculistico per scongiurare complicazioni, intervento "impossibile" in quel Paese. La famiglia Galassi chiede che le istituzioni italiane, la Farnesina e l’Ambasciata italiana in Camerun (competente per territorialità anche sulla Guinea Equatoriale) si impegnino al massimo affinché vengano tutelati e garantiti i diritti del prigioniero e garantito il diritto dei familiari e dei detenuti di avere costanti contatti: dall’inizio della vicenda che li vede coinvolti Fabio Galassi è stato sempre impossibilitato a parlare con la famiglia ed anche Filippo, da quando si trova in carcere, ha dovuto interrompere ogni contatto. La famiglia Galassi chiede che anche il Vaticano faccia pressioni sul governo, cristiano cattolico, della Guinea Equatoriale affinché questa vicenda si concluda presto e senza intoppi e non si ripetano le costanti violazioni dei diritti umani che vengono denunciate quotidianamente dalle principali associazioni internazionali non governative". Libia: continua il dramma dei profughi, in due giorni 100 morti in mare di Alessandra Coppola Corriere della Sera, 7 ottobre 2015 Il rapporto: "Nel 2015 sono già più di 3.000 le vittime nel Mediterraneo". Due avvistamenti al principio di questa settimana lungo le coste della Libia, riportati ieri dagli operatori della Mezzaluna Rossa all’Organizzazione internazionale per le Migrazioni (Oim): 85 corpi e poi ancora una decina, per un totale sconvolgente di tremila morti nel Mediterraneo dall’inizio dell’anno. Il conteggio dell’Oim segna una cifra esatta, 2.987, ma è una precisione che consapevolmente non tiene conto di decine di naufragi mai avvistati. L’Alto Commissariato Onu per i Rifugiati (Unhcr), nell’aggiornamento dei dati di ieri, annota già 3.080 casi di annegati o scomparsi nel 2015, a fronte di 549.682 arrivi (di cui 416.245 in Grecia). La maggior parte delle imbarcazioni s’è ribaltata dove sono stati recuperati gli ultimi cadaveri, nel braccio di mare tra la costa meridionale della Sicilia, Malta e le spiagge libiche: almeno 2.703 vittime in meno di dieci mesi. E il commissario Carlo Parini non si stupisce: "Il traffico non tende a diminuire, c’è una richiesta fortissima di partire e gli scafisti l’assecondano in tutti i modi, con qualsiasi barca". Al limite del galleggiamento. Responsabile del gruppo interforze di contrasto all’immigrazione clandestina, il commissario Parini dalla sua "base" siracusana ha il controllo esatto delle richieste d’aiuto e dei salvataggi in corso: "Ci sono stati 1.800 recuperi", solo ieri, "e dalla Libia stanno arrivando con i mezzi peggiori". Le sei imbarcazioni tratte in salvo lungo quella rotta nelle ultime ore "sono tutte gommoni". Stipati di profughi africani. "Un terzo sono eritrei - spiega Carlotta Sami, portavoce dell’Unhcr per il Sud Europa - poi dal Sud Sudan, dalla Nigeria, dalla Somalia, dal Mali, dal Gambia…". Hanno attraversato mezzo continente, in Libia è troppo pericoloso restare, sono disposti a tutto pur di prendere il largo velocemente. Di siriani su quelle sponde non ce ne sono quasi più: partono per la gran parte con imbarcazioni più resistenti dall’Egitto. Oppure s’avventurano dalla Turchia in direzione delle vicine isole greche, con barchette di legno che si usano per le gite turistiche o addirittura con canotti gonfiabili. Per quanto il tratto di mare sia brevissimo, anche su quelle coordinate la situazione si sta facendo preoccupante. L’Oim conta già 259 morti e Sami spiega che ormai si registra anche nell’Egeo un naufragio ogni due giorni. Il presidente di Ankara, Recep Tayyip Erdogan, s’è accordato ieri con Bruxelles per dislocare in Turchia sei centri di accoglienza cofinanziati dall’Unione, in un’intesa che prevede anche trasferimenti nei Paesi Ue. Venerdì, intanto, il primo gruppo di rifugiati, una ventina di eritrei, sarà ricollocato in base al piano europeo: da Roma a Stoccolma. La settimana prossima un secondo gruppo di siriani partirà dalla Grecia verso il Lussemburgo. Stati Uniti: una svolta nelle politiche carcerarie, presto liberi 6mila detenuti per droga La Repubblica, 7 ottobre 2015 Uscirà di prigione chi non ha commesso atti di violenza. Lo ha deciso il ministero della giustizia, secondo quanto annunciato dal Washington Post. L’America è pronta a una svolta nei confronti dei detenuti per droga. Negli Usa le prigioni letteralmente esplodono: ci sono 206.000 detenuti nelle prigioni federali e ben 1.560.000 carcerati in totale, includendo anche le prigioni dei singoli Stati. E la prima causa è la politica della tolleranza zero per i crimini legati alla droga, anche quando non risultano aggravanti o legati alla violenza. L’America ha deciso di voltare pagina preso atto dell’inutilità di questo approccio. Secondo quanto scrive il Washington Post il ministero della Giustizia ha quindi deciso di rilasciare anticipatemene in un solo colpo 6.000 detenuti (una sorta di amnistia, istituto quasi ignoto negli Usa) tra il 30 ottobre ed il 2 novembre, per reati legati alla droga, ma che non hanno commesso violenze. Si tratta in realtà della prima tranche di ulteriori scarcerazioni ‘di massà che alla fine porteranno alla fine della detenzione per 46.000 su 100.000 detenuti per dorga. Altri 8.850 saranno liberati tra il primo novembre 2015 ed i 12 mesi successivi. La decisione si basa sulla decisione della semi-sconosciuta "U.S. Sentencing Comission" (agenzia indipendente che fissa le condanne per i crimini federali) che ha ridotto le pene per quanti si sono macchiati esclusivamente di crimini "non violenti" legati alla droga. La "U.S. Sentencing Comission", sottolinea il Wp, ha preso atto della considerazione, ormai condivisa a livello nazionale bipartisan per quanto riguarda la cosiddetta "guerra alla droga" (leitmotiv di tutte le amministrazioni Usa a a patire da quella di Richard Nixon), dell’inefficacia delle carcerazioni di massa dei "pesci piccoli". Allo stesso tempo lo stesso ministero della Giustizia ha dato istruzione alle procure di non incriminare e perseguire i criminali che commettono reati non violenti e di basso livello legati alla droga, soprattutto se non hanno legami con le bande di narco-trafficati, il cui smantellamento resta invece l’obiettivo n. 1 della giustizia. Stati Uniti: in Texas giustiziato un altro detenuto, il terzo in 7 giorni Askanews, 7 ottobre 2015 Juan Garcia, 35 anni, ucciso da un’iniezione letale. Ancora un’esecuzione della pena capitale in Texas. Nello Stato americano è stato giustiziato ieri un condannato a morte, riconosciuto colpevole di avere abusato e poi ucciso un uomo nel 1998. Juan Garcia, 35 anni, è stato ucciso con un’iniezione letale ed è stato dichiarato morto alle 18.36 locali, ha confermato un portavoce dell’amministrazione penitenziaria del Texas. Questa esecuzione è l’undicesima di quest’anno in Texas, lo stato americano che ha fatto maggiore ricorso alla pena di morte. Garcia è il terzo prigioniero ad essere giustiziato in una settimana negli Stati Uniti. Arabia Saudita: il cittadino al Nimr è colpevole di 14 reati di Rayed Krimly (Ambasciatore dell’Arabia Saudita in Italia) L’Unità, 7 ottobre 2015 Il Regno dell’Arabia Saudita e la Repubblica Italiana vantano oltre otto decenni di relazioni bilaterali che spaziano nei diversi settori, dal politico all’economico e al culturale. Tali rapporti si stanno intensificando attraverso crescenti contatti e scambi all’insegna dell’apertura, e sono improntati, altresì, al rispetto reciproco nell’interesse comune. È pertanto spiacevole e sorprendente che tali relazioni in forte sviluppo siano oggetto di attacco da parte di alcuni individui male informati. Apparentemente, il Regno viene criticato perché il suo sistema giudiziario indipendente ha emesso sentenze sulla base di leggi saudite contro dei cittadini sauditi, laddove l’Arabia Saudita sta semplicemente ottemperando a due principi molto importanti. Il primo è il principio della supremazia del diritto e del processo nelle dovute forme di legge. Il secondo è l’indipendenza della magistratura. A differenza di molti Paesi in via di sviluppo, il sistema giudiziario saudita non applica lo stato di emergenza o le corti militari, o sentenze arbitrarie di tribunali speciali. Coloro che mostrano particolare interesse ai diritti umani dovrebbero approfondire la conoscenza dei casi particolari che si trovano a criticare. Ad esempio, il caso della sentenza emessa dai tribunali sauditi contro il cittadino Al Nimr, dichiarato colpevole di 14 reati. Tra questi: molteplici aggressioni armate contro mezzi della polizia, contro personale e stazioni di polizia con armi e bombe molotov, creazione di cellule terroristiche armate, protezione e assistenza offerta a terroristi ricercati, ripetute rapine a mano armata a danno di negozi e farmacie, nonché reiterati attacchi a proprietà private e pubbliche. Le organizzazioni dei diritti umani risulterebbero essere più credibili se dedicassero parte del loro impegno focalizzando su Paesi che occupano gli altrui territori e creano insediamenti illegali, o su regimi che si macchiano del crimine dell’assassinio di centinaia di migliaia di concittadini con le loro bombe a barile ed armi chimiche. Amici miei, l’epoca dell’imperialismo europeo sì è da tempo conclusa. Gli scambi di mutuo beneficio non si fondano sul principio che una parte detti all’altra come svolgere le proprie attività. Non confondete il dialogo, che implica necessariamente l’esistenza di differenze, con il monologo. Le nostre leggi, le nostre istituzioni politiche e giudiziarie, e le nostre politiche sono in fase di modernizzazione in base ad un ritmo e a modalità in linea con i bisogni e le esigenze della nostra gente. Essi non sono concepiti per soddisfare i più recenti capricci degli altri. A voi possono non piacere alcuni aspetti dei nostri valori o della nostra cultura o delle nostre leggi, ma questi appartengono a noi e non a voi. Peraltro, anche noi potremmo non gradire alcuni aspetti della cultura, della politica o del sistema giuridico Italiano, ma non ci troverete ad impartirvi lezioni su come condurre i vostri propri affari. L’Arabia Saudita è un Paese orgogliosamente indipendente, e non è mai stato dominato da potenze coloniali. Non è nostro uso interferire negli affari interni di altre nazioni, e certamente non tolleriamo che altri tentino di interferire nei nostri. Il potenziale degli interessi comuni e delle interazioni reciprocamente vantaggiose tra i nostri due Popoli è ancora di gran lunga lontano da quello che è stato finora compiuto. Adoperiamoci pertanto a cooperare per la realizzazione di questo potenziale. Arabia Saudita: D’Elia "al-Nimr un giovane oppositore, arrestato da minorenne e torturato" L’Unità, 7 ottobre 2015 "Questa condanna a morte di un oppositore politico peraltro minorenne al momento dei presunti reati contestatigli, colloca l’Arabia Saudita al di fuori della Comunità internazionale". A sostenerlo è Sergio D’Elia, segretario di Nessuno tocchi Caino, l’associazione da sempre impegnata contro la pena di morte. L’Ambasciatore saudita in Italia contesta la campagna per salvare la vita di Ali al-Nimr e afferma che il giovane saudita è stato condannato per 14 reati commessi. "La realtà è ben altra. Ed è quella di un giovane oppositore, appartenente alla minoranza sciita, processato e condannato a morte quando era minorenne, ma soprattutto, stiamo parlando di un sospettato che è stato tenuto in isolamento per molto tempo senza la possibilità di avere un legale di fiducia. La sentenza, come peraltro rimarcato da esperti delle Nazioni Unite, è basata sulla confessione di Ah avvenuta quando il ragazzo era detenuto presso la Dirigenza generale d’investigazione di Dammara dover era tenuto in isolamento totale. Finito il quale, Ah ha denunciato che quella confessione gli era stata estorta con la tortura, cosa di cui il tribunale non ha tenuto in alcun con-to. Può sembrare strano, ma l’uso della tortura per estorcere confessioni, è una pratica abitudinaria nel Regno saudita, esercitata soprattutto ai danni dei più indifesi, gli oppositori politici e i lavoratori stranieri provenienti dai Paesi più poveri, impossibilitati ad avere legali di fiducia". L’Arabia Saudita e la pena di morte. Qual è la situazione? "Devastante. Nel periodo che va dall’inizio del 2015 alla fine di settembre, sono state eseguite nel regno saudita 133 sentenze di morte, a fronte delle 88 nello stesso periodo dell’anno precedente. Dato politico interessante, è che questo incremento si ha alla fine del regno di re Abdullah, sotto il suo successore, re Saiman, che non solo sulla pena capitale ma anche su altri dossier caldi (come la guerra in Yemen) ha adottato una politica "legge e ordine" ancora più dura del suo predecessore. E questo anche in nome della guerra al terrorismo che, secondo Riad, dovrebbe giustificare anche l’ingiustificabile come appunto la tortura e le pene capitali comminate. Ma far parte della Coalizione anti-Isis non legittima il regno saudita a violare convenzioni e il diritto umanitario". L’Ambasciatore saudita sembra considerare la mobilitazione avvenuta in Italia attorno alla parola d’ordine "Free Nimr" come una interferenza negli affari interni del regno saudita. "Sulla questione di diritti umani non esistono sovranità nazionali impenetrabili. Tanto più nel caso di Ali al-Nimr, visto che l’Arabia Saudita è firmataria della Convenzione Onu sui Diritti del fanciullo che impegna i Paesi firmatari a non condannare e tanto meno a eseguire sentenze capitali nei confronti dei minori. E Ali aveva 17 anni al momento in cui è stato processato". Se la mobilitazione internazionale non sortirà effetti, Ali al-Nimr sarà decapitato. Una pratica brutale che quando è utilizzata dall’Isis suscita, a ragione, l’indignazione internazionale. In questo caso, invece... "In questo caso non c’è, almeno con la stessa intensità. Non c’è perché l’Arabia Saudita viene considerata un attore fondamentale per la soluzione dei problemi dell’area, compreso quello dell’Isis e non c’è perché c’è l’interesse a mantenere buoni rapporti con un ottimo partner commerciale. Il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, ha usato parole severe nei riguardi dell’Arabia Saudita per l’abuso della pena capitale. Ciò che è finora mancata è un’azione incisiva dell’Unione Europea". Giappone: detenuto muore di malattia dopo 46 anni di isolamento nel braccio della morte onuitalia.com, 7 ottobre 2015 Morire di malattia nel braccio della morte del carcere. Lo denuncia Nessuno Tocchi Caino, l’associazione che si occupa dei temi legati alla pena di morte, secondo la quale Masaru Okunishi, un detenuto giapponese di 89 anni, è morto nel reparto ospedaliero della prigione di Hachioji, nel settore occidentale di Tokyo. Okunishi ha trascorso in prigione 46 anni a partire dal 1969, per un caso che vide cinque donne, tra cui sua moglie e la sua amante, morire nella città di Nabari, dopo aver bevuto del vino avvelenato, nel marzo 1961. Okunishi ha sempre proclamato la propria innocenza ed era determinato a chiedere un nuovo processo. Otto precedenti richieste di nuovo processo erano state respinte. Fu trasferito nel reparto ospedaliero dal carcere di Nagoya nel 2012, dopo il peggioramento del suo stato di salute. "Il sistema giudiziario giapponese ha totalmente fallito con Masaru Okunishi. È scandaloso che gli sia stato negato quel nuovo processo che il suo caso senza dubbio meritava, invece è stato lasciato a languire nel braccio della morte per più di 46 anni", ha dichiarato Hiroka Shoji, ricercatore per l’Asia orientale di Amnesty International. "È troppo tardi per Okunishi, ma altri rimangono nel braccio della morte dopo essere stati condannati principalmente sulla base di confessioni forzate. Le autorità giapponesi devono rivedere urgentemente i loro casi affinché i prigionieri facciano in tempo a ottenere giustizia", ha aggiunto. Okunishi era nel braccio della morte dal 1969, perché avrebbe "confessato" il crimine dopo essere stato interrogato dalla polizia per molte ore nell’arco di cinque giorni, senza la presenza di un avvocato. Durante il suo primo processo ritrattò la sua "confessione" e fu assolto per mancanza di prove. Tuttavia, un tribunale di grado superiore rovesciò il verdetto condannandolo a morte. Per più di quattro decenni ha vissuto nella paura costante che ogni giorno potesse essere l’ultimo. I condannati a morte in Giappone vengono informati solo poche ore prima della loro esecuzione, che si svolge in segreto. Come la maggior parte dei condannati a morte, Okunishi ha trascorso quasi tutto il suo tempo rinchiuso in isolamento. "Il sistema giudiziario giapponese continua a basarsi su "confessioni" ottenute - afferma Nessuno tocchi Caino - con la tortura o altri maltrattamenti. Non ci sono chiari limiti sulla durata degli interrogatori, che non sono integralmente registrati e che si svolgono senza la presenza di avvocati". Sono dodici le persone giustiziate da quando il primo ministro Shinzo Abe si è insediato nel dicembre 2012. I prigionieri del braccio della morte giapponese sono attualmente 128 e si tratta di una delle più alte presenze in più di mezzo secolo. Siria: Amnesty chiede il rilascio avvocato diritti umani Maatouk, in carcere da tre anni Askanews, 7 ottobre 2015 Una cinquantina di Ong, fra le quali anche Amnesty International, hanno rivolto un appello alle autorità siriane affinché rilascino l’avvocato e difensore dei diritti dell’Uomo, Khalil Maatouk, detenuto da tre anni. Maatouk e il suo assistente, Mohamed Zaza, sono stati arrestati nell’ottobre 2012 a un checkpoint del regime di Damasco, secondo Amnesty. Le autorità hanno sempre negato il loro arresto, ma alcuni prigionieri rilasciati hanno riferito alla famiglia dell’avvocato di averlo visto in diverse prigioni del paese. Maatouk e Zaza lavoravano entrambi presso il Centro siriano per gli studi giuridici. Amnesty International e altre 52 Ong di difesa dei diritti dell’uomo hanno chiesto il loro rilascio "immediato e senza condizioni". Dall’inizi della guerra in Siria, nel marzo 2011, circa 200.000 persone sono state arrestate, secondo l’Osservatorio siriano per i diritti dell’uomo; di queste circa 13.000 sono morte in carcere, anche dei bambini.