Carcere di Padova. Un appello per dire "no" alla rimozione del direttore Redattore Sociale, 6 ottobre 2015 Operatori e volontari che lavorano all’interno del carcere di Padova non accettano che il direttore storico Salvatore Pirruccio, sia: "Completi la sua carriera nel carcere che ha contribuito a trasformare in un laboratorio". Il mondo del volontariato, le associazioni e le cooperative che lavorano all’interno del carcere Due Palazzi di Padova non accettano la rimozione del direttore storico Salvatore Pirruccio, mandato al Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria dopo 13 anni di servizio a Padova. Così hanno lanciato un appello, firmato per ora da Ristretti Orizzonti, dal parroco del carcere, dalla Diocesi, dalle cooperative Giotto, Altracittà, Volontà di sapere, Work Crossing, dai docenti della sezione carceraria. E ancora ad aver firmato sono le associazioni Granello di Senape Padova, Antigone (sezione Veneto), Teatrocarcere Due Palazzi/BelTeatro, Telefono Azzurro, ASD Polisportiva Pallalpiede, Nairi Onlus. "Chiediamo una cosa semplicissima - scrivono i firmatari: che il direttore completi la sua carriera nel carcere che ha contribuito a trasformare in un laboratorio, dove le persone la loro condanna la scontano nello spirito della Costituzione". Il carcere di Padova è "un carcere complesso, ma vivo, innovativo, "umano", un carcere che per molti aspetti può essere portato ad esempio di come la pena deve essere scontata in modo dignitoso e civile, se vogliamo davvero che la società sia più sicura". Qualche esempio. L’umanizzazione dei rapporti delle persone detenute con le famiglie, grazie a due telefonate al mese in più per tutti, la possibilità di chiamare i telefoni fissi e cellulari autorizzati, l’uso di Skype per i colloqui, se le famiglie sono troppo lontane. E ancora, la redazione di Ristretti Orizzonti, il lavoro, grazie alle cooperative sociali, la scuola e un Polo Universitario che hanno permesso a tanti detenuti di completare gli studi e dare così una svolta alla propria vita. E poi un volontariato attivo sia in carcere sia sul territorio e, infine, lo sport con una squadra, la Asd Polisportiva Pallalpiede, che partecipa al campionato di terza categoria della Figc-Lnd. "Tutto questo può accadere perché le persone giuste si sono incontrate - scrivono nell’appello, persone che avevano voglia di ridurre il più possibile i danni prodotti da un carcere solo punitivo, e con loro un direttore che non fa miracoli, ma fa semplicemente il suo mestiere con sano buon senso. Cioè non crea ostacoli a tutti quelli che hanno voglia di far funzionare il carcere non come una galera, ma come un luogo di espiazione della pena dove la vita dovrebbe assomigliare il più possibile alla vita vera". I firmatari - secondo cui la scelta potrebbe essere una "punizione" per una recente inchiesta su traffico di droga nel carcere - difendono il direttore su tutta la linea e ricordano che il ministro Orlando ha recentemente affermato la necessità di spostare personale qualificato verso le carceri: è lì, in frontiera, che va rafforzata la presenza di persone capaci di sperimentare strade nuove. "E invece cosa stanno facendo? Stanno parcheggiando in un Provveditorato un direttore che ha gestito in questi anni egregiamente un carcere, dove non c’è da vergognarsi a portare in visita ospiti da altri Paesi". Nuove adesioni Conferenza Regionale Volontariato Giustizia del Veneto Francesca Melandri (sceneggiatrice e scrittrice) Adolfo Ceretti (Ordinario Giurisprudenza Università Milano-Bicocca) Recuperare mobili occasione di nuova vita, dare un valore alle cose e non un prezzo Il Mattino di Padova, 6 ottobre 2015 La cooperativa Mercede si trova all’interno della struttura d’accoglienza Centro OASI, in via Alessandro Righi 46 a Padova. Dalla sua apertura nel 1989 ad oggi ha accolto migliaia di persone detenute, semilibere, in permesso premio, in detenzione domiciliare o ex-detenuti, per periodi variabili di tempo: da un solo giorno sino ad alcuni anni. Dall’esperienza dell’accoglienza è nata la necessità di sostenere un primo re-inserimento delle persone, dando loro la possibilità di riprendere dimestichezza con attività manuali e lavorative in generale. Da qui la nascita della cooperativa Mercede. Con il periodo di crisi degli ultimi anni, che non ha preservato nemmeno la Cooperativa, e con il relativo calo delle commesse e dei clienti, si è deciso di sperimentarsi in attività di recupero di materiali e oggetti vari. L’inizio di questa avventura è stato prevalentemente sperimentale e basato sulle competenze lavorative e la creatività dei nostri ospiti. In breve tempo abbiamo realizzato diversi oggetti, che sono riusciti ad ottenere il consenso ed i complimenti da parte delle persone che ce li avevano affidati. Da questa buona partenza abbiamo cominciato a lavorare per ideare un progetto che potesse fare di un percorso di re-inserimento anche una vera ed innovativa occasione di lavoro. Doppio Senso: laboratorio di trasformazioni si propone di ridare una seconda vita e possibilità a mobili ed oggetti che non ci piacciono più o che vorremmo buttare via. Non vogliamo metterci a fare gli esperti di economia, ma dal momento che affrontiamo la vita tutti i giorni, che abbiamo avuto momenti buoni e momenti davvero difficili, poiché ci piace osservare quello che ci sta intorno, abbiamo deciso di fondare il nostro progetto Doppio Senso: laboratorio di trasformazioni su questa regola: vogliamo dare un valore alle cose, non un prezzo... per questo non chiediamo un prezzo prestabilito, ma proponiamo ai nostri "clienti" di dare un valore agli oggetti che realizziamo. Il nome Doppio Senso ha anche una matrice autoironica: lavorando da tanti anni con il mondo del carcere, sappiamo quanto sia difficile avere fiducia in chi ha passato un pezzo della sua vita in stato di detenzione e verso chi lavora con questo mondo, quanto sia difficile poter raccontare la propria storia senza venire giudicati in partenza, e di come spesso sia doloroso parlare di un tema tanto importante quanto in crisi come quello del sistema carcerario in Italia. Volevamo un progetto che si relazionasse con tutte le persone, senza target specifici, cercavamo un’attività che partisse da quello che i nostri ospiti sono in grado di fare o che li aiuta a stare bene. Il lavoro manuale ed artigianale del rivisitare mobili con tecnica e creatività ci è parsa la via migliore. Inoltre troppo spesso siamo presi da stili di vita che ci portano a volere sempre nuove cose e comprarne anche quando, forse, non sarebbero necessarie. Rivisitare un vecchio mobile, dargli una seconda possibilità non è solo uno stile, ma un approccio diverso al consumo, che fa bene a noi, all’ambiente ed alle nostre tasche. Che cosa vogliamo fare ed offrire? Lo scopo del nostro laboratorio è di recuperare oggetti di scarto o non più utilizzati, per ridefinirli e riportarli a seconda vita, con tecniche artistiche che ne esaltino la bellezza e la funzionalità. Il nostro approccio vuole rispettare l’ambiente ed i prodotti che utilizzeremo avranno il minimo impatto ambientale, seguiremo dei corsi di formazione per imparare tecniche di recupero innovative ed originali, sperimenteremo la nostra creatività con una punta di sana ironia. Che cosa chiediamo? Il progetto non prevede di pagare in modo tradizionale il lavoro fatto con prezzi fissi e prestabiliti, ma di riconoscere e sostenere l’impegno del laboratorio con varie forme di contributo, ad esempio: attività di scambio e baratto con altri oggetti di cui ci si vuole "disfare", riconoscimento economico al lavoro fatto, supporto alla logistica del laboratorio (utensili, mezzi di trasporto…) In sintesi, le tappe del nostro lavoro insieme a voi sono: portateci i mobili e gli oggetti che non volete più o che desiderate ricreare (possiamo anche venire a prenderli noi), ci fornite i materiali necessari a lavorare sugli oggetti e poi noi con tecnica e creatività cerchiamo di dargli una seconda vita… poi ci pagate come desiderate, noi non vi diamo un prezzo, ma ci basiamo sulla fiducia e l’apprezzamento che date al nostro lavoro (regalandoci dei mobili ed oggetti che non volete più, regalandoci dei materiali per il recupero, oppure un contributo economico). Ci piace chiudere questo articolo con le parole di una delle molte persone che lavorano a questo progetto e che lo descrive in questo modo: "Doppio Senso è il nome del nostro laboratorio, il nome di una nuova opportunità, l’abbiamo scelto assieme ad Alda, i Padri Mercedari che ci ospitano e gli altri ragazzi, perché per noi ha un chiaro significato, quello di chiudere la porta del passato e aprire quella del Laboratorio ogni mattina, per richiuderla nuovamente la sera e aprire quella di casa nostra dove torniamo grazie a questo lavoro. L’opportunità di una nuova vita, quindi Doppio Senso, perché una porta chiusa è anche una porta aperta". Iniziate anche a pensare che questo Natale Doppio Senso: laboratorio di trasformazioni potrebbe aiutarvi a fare un regalo, che ha un doppio senso davvero, perché non regalerete solo un oggetto, ma anche un pensiero ed una seconda occasione. Seguiteci sulla nostra pagina Facebook Doppio senso: laboratorio di trasformazioni. Per informazioni e per portare in sede gli oggetti ed i mobili, chiamate tutte le mattine dal lunedì al venerdì (dalle 9.00 alle 12.00) e chiedendo di Alda allo 049.8714877. Ufficio stampa e collaborazioni: Elena Pisano info@ricettedieleni.com o 3442862892. Doppio Senso, perché un’uscita può essere una entrata. Perché uscire dal carcere è anche entrare nel mondo del lavoro. Giustizia: Orlando, serve una riforma delle politiche carcerarie, rieducazione al centro Adnkronos, 6 ottobre 2015 Serve una riforma delle politiche penitenziarie che rimetta al centro il tema della rieducazione. Lo ribadisce il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, al termine della proiezione del documentario Uil dal titolo "l’umanità dentro, lavorare in carcere" sulla difficile vita della polizia penitenziaria e sul ruolo che possono giocare nel recupero dei carcerati. Una riforma necessaria come dicono anche gli ultimi dati secondo cui, ricorda ancora il Ministro, "ammontano a quasi 3 miliardi i costi complessivi del sistema ma con tassi di recidiva tra i più’ alti nell’Unione europea". Ma il tema, inserito nella riforma del processo penale appena approvato è stato oscurato da altre polemiche. "Sono desolato. Si è parlato solo di intercettazioni ed è stato tralasciato il resto. C’è stata una disattenzione della stampa e anche della magistratura", denuncia Orlando che torna anche sulla percezione della sicurezza da parte dell’opinione pubblica. "Dal 2014 al 2015 i reati sono calati del 12% ma se accendiamo la Tv stenteremmo a crederci. serve invece cambiare l’approccio dell’opinione pubblica verso il carcere da non intendersi più come solo un luogo di segregazione se si vuole portare avanti una riforma profonda", prosegue Orlando denunciando come "ci sono forze politiche che fanno un uso imprenditoriale della paura". E aggiunge: "in questi anni si è usato il carcere per contrastare i fenomeni sociali dall’immigrazione alla droga. Noi stiamo cercando di smontare questo meccanismo", conclude. Giustizia: la legge è "uguale per tutti", ma poi si applica con ferocia solo ai più deboli di Pierluigi Magnaschi Italia Oggi, 6 ottobre 2015 Se non ci fossero stati la Stampa e il suo direttore Mauro Calabresi che, reagendo intelligentemente e doverosamente a una disperata lettera in redazione, ne ha creato un caso nazionale, un piccolo coltivatore diretto cuneese, oltre ad aver subito l’onta di essere circondato dai carabinieri e dagli ispettori del lavoro, come se fosse un capo dell’Isis, avrebbe dovuto anche pagare un multa di 19.500 euro. I fatti (poco eversivi, a dire il vero) sono molto semplici. Il piccolo viticultore, il pensionato Battista Battaglia, di 63 anni, dovendo affrettarsi a fare la vendemmia, ha chiamato a dargli una mano quattro amici com’era capitato anche in passato. La raccolta, per loro, era una sorta di festa. Il compenso sarebbe stata una cena preparata dalla moglie del pensionato che si è dedicata alla vendemmia anch’essa. L’azienda del Battaglia infatti è un fazzoletto di terra. Il trattore che usa è un pezzo di bricolage. Chiunque avesse occhi e senno avrebbe subito capito che, per dirla alla romana, non c’era trippa per gatti. Erano dei dilettanti. Per radunarsi e lavorare assieme non sono stati certo utilizzati i caporali ma è bastato un fischio. Il loro, a partire dal Battaglia, più che un’attività economica, è un hobby. Ma la task force anti-Battaglia, avendo forse letto le cronache degli abusi del caporalato nelle grandi imprese del Sud, è piombata come un falco sul Battaglia stesso che, se non ci fosse stata la Stampa a difenderlo, avrebbe dovuto pagare 19.500 euro di multa ("Qui, caro mio, non si fa sconto a nessuno. La legge, hoop!, è uguale per tutti"). Il Battaglia, dopo aver detto che lui tale cifra non ce l’aveva, ha anche promesso che avrebbe rinunciato per sempre a fare il micro-viticultore, dato che non sapeva che questa attività (oltre a essere faticosa, per chi, come lui, non ha altri attrezzi che le sue braccia) si era rivelata anche così pericolosa. Peggio della nitroglicerina. Lo Stato dovrebbe intervenire in forze nelle grandi imprese agricole del Sud dove il caporalato, non solo assume dimensioni industriali nel taglieggiare dipendenti e imprese, ma spesso è anche espressione o si collega con la malavita organizzata. È così stravagante ritenere che il rischio incontrato per mettere a tappeto l’allegra brigata dei vendemmiatori di Cuneo è stato nullo, mentre se si vanno a sfrugugliare i camorristi che smistano la manodopera per la raccolta del pomodoro nelle aziende del Sud si rischia di prendersi un proiettile? Ma il compito dello Stato non è prioritariamente quello di accertare le grandi (e spesso plurime) violazioni del diritto anziché dedicarsi a combattere con le quisquilie? Italia Oggi, qualche giorno fa, ha pubblicato la lettera di un lettore che faceva sapere di essere stato multato dalla Guardia di finanza perché usciva da un bar dove (lo diceva lo scontrino, anche qui: carta canta) aveva bevuto un’ora e mezza prima un caffè. Il milite quindi non lo ha ritenuto espressivo della consumazione fatta. Il cliente ha spiegato che lui è un pensionato che non ha niente da fare e che frequenta quel bar perché lì trova cinque quotidiani (con la bacchetta di legno alla viennese per evitare che siano sottratti, facendo finta di niente) e che quindi il tempo intercorso tra l’orario dello scontrino e l’uscita dal bar corrispondeva al periodo da lui dedicato alla lettura dei giornali. Non c’è stato nulla da fare. L’unica reazione è che, la prossima volta, anche se prende il caffè appena entrato, il cliente multato, si farà fare lo scontrino al momento dell’uscita. Anche in questo caso si potrebbe chiedere agli organi di controllo quante volte sono entrati nei centri sociali più grossi e aggressivi per accertare se emettono gli scontrini sulle consumazioni, se pagano i diritti Siae sulla musica diffusa in pubblico, se sono in ordine con i registri. La risposta sarebbe: no. Perché? Perché quelli ti menano. Ma lo Stato non dovrebbe opporsi, in primis, contro quelli che vogliono menarlo? E infine un episodio, altrettanto allucinante, nella sua miseria e assurdità, di cui sono stato testimone. Piccola vigna oltre i limiti estremi della ragionevole coltivazione dei vitigni, sull’Appennino tosco-emiliano. Nel campo c’è un vecchietto, piegato in due dall’artrosi che armeggia, laborioso, tra i filari. Sulla strada sterrata, si ferma una vettura con due persone. Una resta alla guida. L’altra si mette a gridare e gesticolare. Il vecchietto, un po’ perché è diffidente nei confronti degli estranei e un po’ perché è sordo, continua il suo lavoro, facendo finta di niente. Allora il tizio che era rimasto in macchina (che evidentemente teme di sporcarsi le scarpe se cammina sui campi che dovrebbe sorvegliare) comincia a strombazzare e l’altro, per imporre visibilmente le ragioni dello Stato, perdincibacco, agita una paletta. Il vecchietto allora, pensando che ci sia un’altra coscrizione obbligatoria come l’ultima volta che lo avevano portato in Albania, si avvicina guardingo. Viene sottoposto a serrato interrogatorio. "Per chi lavora?". "Per me", risponde il vecchietto. "Di chi è la terra?". "Quella poca che c’è è mia". I due venivano dalla città capoluogo che dista, dal posto del sopralluogo, 40 chilometri. Avevano quindi gettato via una mezza giornata di lavoro per setacciare una zona ricca di povertà, un’area marginale, fatta di aziende abbandonate perché nessuno può o vuole coltivarle. Chi li aveva mandati lì non aveva evidentemente calcolato che in quella zona non vale la pena mobilitare risorse perché non c’è niente da raccogliere come contropartita. Possibile che non ci fossero aziende e cantieri più importanti da sottoporre a controllo? Possibile che tutte le imprese private (e quelle pubbliche che usano il cervello) facciano il calcolo fra il costo delle risorse impiegate in un’attività rispetto ai risultati che si possono ottenere e invece gli organi dello Stato se ne astraggano troppo spesso? Giustizia: beni confiscati alle mafie, l’Agenzia è ripartita. 3.550 consegne in un anno Redattore Sociale, 6 ottobre 2015 Dopo mesi di stop l’organismo è tornato a pieno regime, ma il direttore Postiglione avverte: servono più sedi e più personale. Gestiti attualmente 6.700 beni immobili in confisca definitiva in e circa 700 aziende. E il ddl di riforma sta per arrivare alla Camera. Circa 3.350 beni confiscati consegnati in un solo anno, ma all’Agenzia nazionale per i beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata mancano ancora sedi e personale per funzionare al meglio. Ad un anno dalla presentazione del disegno di legge a firma del ministro dell’Interno, Angelino Alfano, e del ministro della Giustizia, Andrea Orlando, per rafforzare il contrasto alla criminalità e migliorare la gestione dei beni confiscati, l’attuale direttore dell’Agenzia nazionale per i beni sequestrati e confiscati, il prefetto Umberto Postiglione, fa il punto sulle attività dell’agenzia, dallo stop durato diversi mesi durante lo scorso anno (per la mancata nomina del consiglio direttivo) ad oggi. I beni confiscati alle mafie sono tornati alla ribalta in questi giorni per via di un’inchiesta avviata dalla procura di Caltanissetta sulla gestione dei beni sequestrati che ha coinvolto la Sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo, provocando uno scossone all’interno della magistratura siciliana. Sotto la lente d’ingrandimento della magistratura nissena, le nomine degli amministratori giudiziari dei beni sequestrati ai boss. Tuttavia, nei prossimi giorni il tema beni confiscati potrebbe tornare ad interessare il dibattito politico per via dell’approdo in Aula del disegno di legge di riforma. In Commissione giustizia alla Camera, infatti, sono pronti a passare il testo all’Aula dopo un anno di lavoro che ha visto confluire nel disegno di legge di iniziativa popolare n. 1138, quello che riguarda le aziende sequestrate e confiscate, anche il ddl 1687 presentato dal governo e i testi prodotti dal lavoro della commissione parlamentare antimafia, guidata da Rosy Bindi. Un testo da cui il prefetto Postiglione si aspetta una svolta, anche in termini numerici. "Ho cercato, a partire dallo scorso anno, di rafforzare il personale dell’agenzia - spiega Postiglione: da 60 unità complessive siamo passati a 99, ma siamo ancora pochi. Mi auguro che da questa nuova normativa possa venire fuori anche qualcosa di quello che noi abbiamo suggerito". Al primo posto, dunque, un problema noto: quello della carenza di personale. "Ho segnalato l’esigenza di portare a 300 il numero del personale - spiega Postiglione, allargando il raggio delle competenze a quelle specializzazioni che sono poco presenti ad oggi nell’agenzia. Ci servono tecnici, perché abbiamo tanti immobili e abbiamo bisogno di capire in che condizioni sono e come risolvere problemi di debolezza strutturale. Poi, abbiamo bisogno di esperti nella gestione delle aziende". C’è poi la questione delle sedi dell’agenzia sul territorio. "Ho chiesto di conservare le sedi dell’agenzia - spiega Postiglione, perché c’era una corrente di pensiero che voleva concentrare l’agenzia a Roma e far fare tutto ai nuclei di supporto presso le prefetture. Nuclei che non avrebbero avuto lo stesso peso da sostenere: quello di Udine, magari, avrebbe avuto solo un bene, mentre quello di Palermo il 40 per cento dei beni confiscati. Una sproporzione così grande che mi sembra giustifichi la presenza dell’agenzia a Palermo". Di qui la richiesta di allargare la presenza dell’agenzia, soprattutto al nord. "Spero che nella prossima legge ci sia l’aumento delle sedi dell’agenzia - aggiunge il prefetto, perché abbiamo territori non sufficientemente coperti. Per tutto il nord abbiamo solo un’agenzia a Milano con sette persone impiegate. Abbiamo bisogno di una sede a Torino, una a Bologna e ne serve anche una a Bari. Ne servirebbero almeno altre tre, ma se ce ne fanno aprire una a Catania sarebbe meglio". Un allargamento che, per quanto riguarda il personale, non farebbe neanche lievitare la spesa per le casse dello Stato. "Il potenziamento dell’agenzia si può fare con personale già in servizio - spiega Postiglione. C’è tanto personale delle province che non sanno dove metterlo. Lo possono dare a noi tenendo presente che non è una spesa, ma un aumento di efficienza". Sul tavolo del prefetto, però, c’è anche il rapporto con la magistratura, spiega Postiglione. "C’è bisogno di raggiungere migliori intese e anche su questo stiamo lavorando - aggiunge il prefetto. La legge dice che in materia di relazione finalizzata alla consegna il prima possibile del bene alla società, agenzia e magistratura devono collaborare non solo sulla base di quello che dice la legge, ma anche su linee guida che devono essere emanate dall’agenzia. Noi abbiamo la ferma intenzione di concordare con i magistrati con maggiore esperienza tutte le disposizioni che cercheremo di inserire nelle linee guida. Questo sarà un ulteriore passo avanti a cui stiamo iniziando a lavorare". Intanto, nelle cinque sedi (Roma, Reggio Calabria, Milano, Palermo e Napoli), le attività dell’agenzia sono riprese "a pieno ritmo", rassicura il prefetto. "Dal luglio dello scorso anno a luglio di quest’anno abbiamo consegnato complessivamente 3.350 beni - aggiunge -. Sono parecchi rispetto al totale dei beni: oggi abbiamo 6.700 beni immobili in confisca definitiva in gestione all’agenzia e circa 700 aziende, ma bisogna fare attenzione perché in questo ultimo caso può trattarsi anche di un’attività gestita da una sola persona con partita iva". Un anno di lavoro "estremamente impegnativo", precisa Postiglione, che ha portato a raggiungere obiettivi importanti, tra cui l’assegnazione di 300 alloggi di Palermo alle forze dell’ordine, circa 80 mila metri quadri di archivi al tribunale dei minori e agli archivi notarili di Palermo, mentre i 33 camion che appartenevano a Giuseppe Grigoli, prestanome di Matteo Messina Denaro, sono stati affidati ai vigili del fuoco per andare a implementare i mezzi della colonna mobile di soccorso. Ma non è tutto. "Al Comune di Palermo - spiega il prefetto - abbiamo dato 50 alloggi dando un reddito annuo minimo di 500 mila euro al Comune a condizione che questi fondi vengano destinati all’erogazione di buoni casa agli aventi diritto. Poi abbiamo dato centinaia di alloggi sempre a Palermo per assegnarli ai primi in classifica dell’emergenza abitativa". Segnali importanti per una comunità segnata dal fenomeno mafioso, spiega Postiglione. "Lo stato ha puntato su queste attività per confrontarsi con la criminalità organizzata e batterla - conclude -, perché dimostrare capacità ed efficienza, soprattutto con il dare case ai poveri ricorrendo al patrimonio sottratto alla criminalità. Sono messaggi di legalità percepibile e servono a dare il senso della legalità, che altrimenti sfugge, a quelle persone che mai andrebbero a mettersi a ragionare di legalità". Giustizia: beni confiscati alle mafie. Libera "la Camera approvi la riforma entro Natale" Redattore Sociale, 6 ottobre 2015 A chiedere tempi rapidi il responsabile di settore dell’associazione, Davide Pati. In Commissione giustizia pronto il testo da far arrivare in aula. E sull’inchiesta che ha coinvolto gli amministratori giudiziari a Palermo: "Sintomo di una debolezza del sistema di gestione". Basta proroghe, il Parlamento dia priorità al ddl sulla riforma dei beni confiscati e approvi il testo almeno alla Camera già prima di Natale. A chiedere tempi rapidi per la calendarizzazione del testo sui beni confiscati è Davide Pati, responsabile per i Beni confiscati di Libera - associazioni, nomi e numeri contro le mafie. Ad un anno dalla presentazione del ddl da parte del governo (a doppia firma Alfano e Orlando), il testo è ora in Commissione giustizia alla Camera dei deputati, confluito nel disegno di legge di iniziativa popolare n. 1138 assieme ai testi emersi dai lavori della Commissione parlamentare antimafia, guidata da Rosy Bindi. Il passaggio in aula, però, è alle porte. "In questi giorni si sta chiudendo l’iter in commissione giustizia alla Camera dei deputati con gli ultimi pareri sia del relatore, Davide Mattiello, sia del governo, che arriveranno a giorni - spiega Pati - e finalmente sarà pronto il ddl 1138 collegato con gli altri ad andare in Aula alla Camera. Auspichiamo che venga data priorità alla discussione sul ddl e si arrivi all’approvazione alla Camera prima di Natale. Non ci possono essere più proroghe. È urgente che questa riforma venga approvata". Positivo il giudizio sulla ripresa dei lavori dell’Agenzia, guidata dal prefetto Umberto Postiglione, dopo un’impasse durata mesi. "Dei passi in avanti sono stati fatti - spiega Pati -. L’agenzia nazionale, pur tra le mille criticità, è un organo che adesso funziona e nell’ultimo anno ha destinato più di 3mila beni. Ha recuperato i ritardi di un anno senza beni destinati". Tuttavia, per Pati, il numero dei beni sia sequestrati che confiscati "impone un cambio di passo" che si spera possa arrivare proprio dal ddl atteso in aula. Un testo che per Pati riorganizzerà l’agenzia "con una maggiore attenzione alla sua potenzialità rispetto alle funzioni che ha, con più personale, con più strumenti e un rafforzamento nella sua capacità di gestione dei beni e con il passaggio dell’agenzia presso la presidenza del Consiglio". Un passaggio "importante", spiega Pati, perché sui beni confiscati servono "competenze che non sono esclusivamente dell’Interno, ma anche di altri ministeri, dall’Economia allo Sviluppo economico, dal ministero del Lavoro e delle Politiche sociali al ministero dell’Agricoltura, fino a quello delle Infrastrutture, dei Beni culturali e dell’Istruzione. Tanti ministeri possono dare un contributo di professionalità, di competenze e di risorse". Ma il futuro della gestione dei beni confiscati, passa anche per i fondi europei, spiega il dirigente di Libera. "Il 16 luglio scorso il dipartimento per le Politiche di coesione territoriale con l’Agenzia per la coesione territoriale ha presentato uno studio sul tema dei beni confiscati propedeutico ad un piano di azione nazionale dal titolo "Beni confiscati e coesione territoriale" - racconta Pati. Un piano di azione nazionale che prevede l’utilizzo di fondi strutturali e di fondi della programmazione 14-20 per la valorizzazione e l’effettivo riutilizzo dei beni confiscati". Tuttavia, a far parlare di nuovo in questi giorni di beni confiscati, non sono stati i risultati raggiunti nell’ultimo anno e neanche l’imminente arrivo in aula della riforma. A riaprire il dibattito sulla gestione dei beni sottratti ai boss della mafia, un’inchiesta della procura di Caltanissetta sulle nomine degli amministratori giudiziari dei beni sequestrati decise dalla Sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo. Una vicenda su cui Libera ha le idee chiare. Al di là di responsabilità che la magistratura accerterà, "Libera ha sempre chiesto che rispetto agli amministratori giudiziari ci sia una trasparenza degli incarichi e che ci sia una rotazione degli incarichi e un tetto ai compensi - spiega Pati. Avevamo chiesto con forza che quell’albo degli amministratori giudiziari istituito nello stesso giorno in cui venne istituita l’Agenzia nazionale, quindi parliamo di marzo 2010, questo albo venisse effettivamente attuato". Per Pati, i fatti di Palermo sono un "sintomo di una debolezza di un sistema di gestione" degli stessi beni. "La gestione di beni di un valore complessivo di miliardi di euro come quelli presenti a Palermo non può essere lasciata solo a tre giudici e ad alcuni amministratori - spiega Pati -. Bisogna che il ministero della Giustizia e il Consiglio superiore della magistratura adottino tutti i provvedimenti che consentano di migliorare e rafforzare la capacità di gestione. Su questo dobbiamo dar atto al ministro Orlando che si è subito mosso e ha presentato in Consiglio dei ministri la scorsa settimana schema di decreto attuativo per attuare l’albo degli amministratori giudiziari". Giustizia: processo civile, sono 120mila le cause da tagliare entro maggio di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 6 ottobre 2015 Ridurre in maniera drastica le cause a rischio di risarcimento per eccessiva durata dei giudizi, costate sinora circa 750 milioni di euro. Con una tabella di marcia che, nell’arco dei prossimi otto mesi prevede prima, entro quattro mesi, l’azzeramento dei 44.639 procedimenti del secolo scorso, iscritti cioè a ruolo fino al 2000, e, poi, delle 73.928 cause iscritte negli anni 2001-2005. Questi gli obiettivi della fase operativa del Progetto Strasburgo 2, messo a punto dal ministero della Giustizia. Soprattutto il primo da centrare a ogni costo, mettendo in conto anche un possibile innalzamento lieve della giacenza fisiologica delle cause più recenti. A dare abbrivio al Progetto è stato il Csm che, nel giugno scorso, in un’ampia delibera sulle buone prassi degli uffici giudiziari ha prima sottolineato l’efficacia del censimento dell’arretrato fatto dal ministero negli ultimi mesi e poi raccomandato ai vertici degli uffici stessi l’adozione di misure organizzative "come quelle adottate dal Progetto Strasburgo 2". Misure che, sintetizzate in una bozza di circolare che i capi degli uffici potrebbero adottare, vanno dalla valorizzazione del ruolo del giudice nella direzione del procedimento all’esclusione dei rinvii a vuoto alla previsione della trattazione orale come regola. Raccomandazioni certo, perché il crinale tra queste e le indebite ingerenze nell’autogoverno della magistratura può essere, o essere considerato, assai facile da varcare, ma a via Arenula si nega qualsiasi tentazione. Nello stesso tempo, Mario Barbuto, a capo del dipartimento dell’Organizzazione giudiziaria, invita a considerare destituito di fondamento l’adagio per cui la velocità delle sentenza va spesso a danno della qualità e poi puntualizza che l’obiettivo vero non è tanto, o non solo, l’abbattimento dell’arretrato, quanto piuttosto il rispetto di tempi ragionevoli nella definizione delle controversie. Determinante, per inquadrare il problema in termini reali, l’opera di conoscenza di cui lo stesso Barbuto si è fatto promotore e che ha permesso innanzitutto di depurare i dati iniziali dalle "false pendenze" riducendo il numero degli affari civili giacenti da 4,8 a 4,5 milioni. Per effetto dell’aggiornamento dei dati del censimento, le cause ultra-triennali pendenti al 31 dicembre 2014 (cioè quelle iscritte a ruolo fino al 2011 e quindi soggette al rischio Pinto) sono diminuite da 1.117.769 a 930.477, con un abbassamento del tasso di invecchiamento delle pendenze globali che passa dal 32% al 29,5 per cento. Anche per eliminare l’alibi degli organici, il personale in arrivo sarà destinato alle sedi in maggiore sofferenza: 98 funzionari giudiziari e 1.031 unità amministrativi per effetto del bando di mobilità esterna e circa 2mila in via di assunzione. Giustizia: l’Anm denuncia "con il processo telematico giudici ridotti a fare i cancellieri" di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 6 ottobre 2015 Con il potenziamento del processo civile telematico è nata un’inedita figura, quella del magistrato-cancelliere. Con relativo aggravio di lavoro per le toghe e appesantimento dei profili di responsabilità. Lo denuncia l’Anm in un documento che mette nel mirino le criticità del processo digitale dopo che, da quest’estate, con il decreto legge n. 83, è stata estesa la possibilità di deposito online degli atti. Un colpo d’acceleratore, che, traspare, dalla nota dell’Associazione magistrati, è stata troppo brusca, compromettendo quel carattere di gradualità che sinora aveva caratterizzato l’introduzione dell’innovazione bioecologica in ambito processuale, cui l’Anm continua a dichiararsi favorevole. Tre in particolare sono gli aspetti critici sui quali i magistrati mettono l’accento. Innanzitutto l’impropria attribuzione di funzioni e compiti di cancelleria: il giudice, sottolinea l’Anm, deve controllare, in ogni fascicolo d’udienza, se c’è stato il deposito di atti e documenti e provvedere all’apertura degli allegati e alla stampa del relativo contenuto e inserimento nel fascicolo. Un’attività che, sino all’estate era almeno circoscritte agli e documenti depositati successivamente a quelli introduttivi e che, invece, adesso è stata allargata ogni atto e documento. La prima conseguenza, e successiva criticità. l’aggravio della responsabilità del giudice per compiti che sviliscono la funzione giurisdizionale. Ultimo aspetto da censurare è quello del rallentamento dei tempi di studio della causa "tenuto conto della non duttilità dello strumento informatico, che non consente l’immediata individuazione degli atti depositati". Per l’Anm, allora, allo stato attuale, il binario cartaceo non può essere abbandonato del tutto. Va, piuttosto, disciplinato, come peraltro dovrebbe fare un futuro decreto del ministero della Giustizia. A poco o nulla sono infatti serviti i protocolli siglati a livello locale con l’avvocatura per il deposito della copia di cortesia: spesso questa viene depositata in un cassetta intestata al magistrato che, da solo, deve provvedere al suo inserimento nel fascicolo. Giustizia: Camere Penali "nell’interesse di tutti cittadini difenderemo le specializzazioni" camerepenali.it, 6 ottobre 2015 La specializzazione è stata realizzata non in favore di questa o quella avvocatura, e tanto meno in favore dell’avvocatura penale, ma nell’esclusivo interesse dei cittadini che, come ricordato anche dal Ministro Orlando, hanno diritto di scegliere un professionista tecnicamente attrezzato ed esperto. Le questioni relative alla Specializzazione investono tutte le associazioni forensi ma riguardano i rapporti dell’intera avvocatura con il C.N.F., ed è pertanto con tale interlocutore che oggi appare opportuno confrontarsi. Tutte le associazioni sono ovviamente libere di promuovere "incontri" sul tema, ma l’O.U.A. non può arrogarsi il potere di "convocare" l’Unione delle Camere Penali Italiane per realizzare un simulacro di confronto. Non si tratta, infatti, solo di una questione di metodo, ma soprattutto di merito: perché il Presidente Casiello ci convoca? Per discutere di quale "ordine del giorno", se la decisione di impugnare al T.A.R. il Regolamento è già stata presa ed annunciata? La pretesa della Presidente dell’O.U.A. di "rappresentare la maggioranza degli avvocati", così come abbiamo letto dalle colonne del Sole24ore, è smentita dal fatto notorio che, in realtà, l’ O.U.A. non vive del contributo volontario di singoli avvocati che si riconoscono in tale organismo, ma del contributo che alcuni Ordini forensi ritengono di versare, determinando così una "rappresentanza" del tutto virtuale. L’Unione, come tutti sanno, non ha mai coltivato interessi corporativi, ma si batte per la tutela dei diritti di tutti i cittadini, spesso contro interessi sindacali di altre categorie e di altre associazioni. In questo spirito ideale sono state compiute battaglie e raggiunti traguardi, come quello della riforma dell’art. 111 della Costituzione, nell’interesse di una giustizia più giusta e per la realizzazione dell’equo processo. Anche la conquista della Specializzazione è stata realizzata, non in favore di questa o quella avvocatura, e tanto meno in favore dell’avvocatura penale, ma nell’esclusivo interesse dei cittadini che, come ricordato anche dal Ministro Orlando, hanno diritto di scegliere in relazione ai propri interessi ed alle proprie necessità un professionista tecnicamente attrezzato ed esperto nel settore di riferimento. Questo è il fondamento della legge per la quale ci siamo battuti e che non dovrà essere stravolto. Ora l’O.U.A. lamenta trattamenti diseguali e eccessive frammentazioni, ma dimentica di avere sempre guardato quantomeno con diffidenza a questa importante riforma, e di non aver voluto fornire alcun contributo tecnico nel corso del suo iter normativo. Una maggiore attenzione da parte dell’O.U.A. e di altre associazioni avrebbe forse consentito una diversa formulazione del testo che tenesse conto degli interessi dei civilisti, sempre che tali interessi venissero a coincidere con quelli di tutti i cittadini. Non vorremmo che dietro a tale critica, viste le iniziative anche giudiziarie intraprese, si celasse, al contrario, l’intenzione di far fare all’avvocatura un passo indietro, sottraendo ai cittadini uno straordinario strumento di tutela, di trasparenza e di consapevolezza. L’Unione delle Camere Penali Italiane, in cui tutti i penalisti si riconoscono ed alla quale volontariamente aderiscono, può legittimamente farsi vanto di essersi battuta, da sempre, per il diritto di tutti i cittadini a essere assistiti da un avvocato forte, sotto il profilo culturale, professionale e deontologico, l’unico in grado di assicurare a tutti i cittadini, indipendentemente dal censo e dalla condizione sociale, un processo giusto e la tutela della propria libertà. Giustizia: Mafia Capitale. Corte: pericolo evasioni, processo nell’aula bunker di Rebibbia di Vincenzo Imperitura Il Tempo, 6 ottobre 2015 In otto mesi 130 udienze nel penitenziario di Rebibbia Stabilito dai giudici il calendario: finirà a luglio. Decine di migliaia di pagine di atti, ore e ore di intercettazioni telefoniche, più di cinquanta imputati (tra quelli materialmente alla sbarra e quelli che seguiranno il dibattimento in video conferenza): ha le stimmate dei maxiprocessi per mafia che si celebrano solitamente a Palermo o a Reggio Calabria, il dibattimento su Mafia Capitale che prenderà il via il prossimo 5 novembre. Un processo monstre che muoverà i suoi primissimi passi nell’aula Occorsio (l’unica in grado contenere tutte le parti) della cittadella giudiziaria di piazzale Clodio prima di muoversi nella più versatile aula bunker del carcere di Rebibbia dove i collegamenti in video conferenza con le carceri dove tanti imputati sono ancora detenuti sono più semplici. La scelta sull’aula bunker del carcere è maturata anche per ragioni di sicurezza, tanto che il presidente del collegio ha comunicato agli studi legali che "sussistono gravi ragioni di sicurezza in relazione al numero degli imputati detenuti in cella, oltre alla diversità e alla distanza dei luoghi di detenzione, con i conseguenti rischi di evasione connessi alle reiterate traduzioni dei detenuti". Il presidente della decima sezione penale Rosanna Iannello, in vista del lavoro che attende tutte le parti in causa, ha già stilato e fatto consegnare agli avvocati un calendario delle udienze: il processo avrà una sorta di corsia preferenziale e dal 5 novembre a luglio (quando la fase dibattimentale dovrebbe essere ormai esaurita) saranno oltre 130 le udienze che dovranno stabilire la verità giudiziaria sul "Mondo di mezzo" scoperto dalla distrettuale antimafia capitolina. Un vero tour de force che andrà avanti alla velocità di quattro udienze settimanali nelle quali, solo per fare l’appello iniziale (tra imputati, parti civili e avvocati) potrebbe però passare tranquillamente ore. E così, il prossimo 5 novembre potrebbero sfilare in aula gli imputati considerati al vertice del Mondo di mezzo: a partire da Massimo Carminati, "Er cecato", l’uomo legato all’eversione di destra e individuato dalla Procura come esponente principale di Mafia Capitale. Carminati è rinchiuso in regime di carcere duro (unico del gruppo ad essere detenuto al 41 bis) nel penitenziario di Parma. In aula dovrebbe essere presente anche Salvatore Buzzi, l’uomo considerato come il braccio finanziario ed economico della banda detenuto in Sardegna a cui il tribunale ha già negato due distinte richieste di patteggiamento e la cui difesa ha già annunciato di volere citare 250 testimoni chiamando in causa i vertici delle istituzioni romane e regionali. Nel maxi procedimento sono confluite i due distinti filoni della maxi inchiesta dell’antimafia: quello legato agli arresti del dicembre del 2014 e quello relativo alla seconda tranche dell’indagine con gli arresti del giugno scorso. Nel primo filone finirono agli arresti, oltre a numerosi presunti scagnozzi di Carminati che si occupavano della riscossione dei crediti e che erano coinvolti nella gestione di alcuni locali a Roma Nord, anche l’ex amministratore di Ama legato ad Alemanno, Franco Panzironi, e Luca Odevaine, prima vice capo di gabinetto con Walter Veltroni, poi capo della polizia provinciale con Nicola Zingaretti e infine al Coordinamento nazionale sull’accoglienza per i richiedenti asilo del ministero dell’Interno. Odevaine è considerato dagli inquirenti come il perno attraverso il quale il "Mondo di mezzo" era riuscito a infiltrarsi nel business dell’accoglienza agli immigrati. Nel secondo filone dell’indagine finirono agli arresti Luca Gramazio - ex capogruppo Pdl prima in Campidoglio e poi in consiglio regionale - Mirko Coratti (ex presidente Pd dell’aula Giulio Cesare), Pierpaolo Pedetti (Pd) Massimo Caprari (Centro Democratico), Giordano Tredicine, Daniele Ozzimo (ex consigliere comunale e poi assessore alla Casa nel governo del sindaco Marino), e Andrea Tassone, ex presidente del municipio di Ostia. Giustizia: Mafia Capitale. Difesa di Buzzi chiama testimoniare Letta, Gabrielli, Zingaretti Il Velino, 6 ottobre 2015 Diddi: pronta la lista delle 250 persone chiamate testimoniare. Il processo si apre a Rebibbia il prossimo 5 novembre. Saranno chiamati a testimoniare per il processo per Mafia Capitale circa 250 persone, tra cui "molti nomi noti tra cui il presidente della Regione Nicola Zingaretti, il sindaco di Roma Ignazio Marino, l’ex sindaco Gianni Alemanno, l’attuale Prefetto Franco Gabrielli, gli ex Prefetti Giuseppe Pecoraro e Mario Morcone, e l’ex sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Gianni Letta". Lo ha annunciato Alessandro Diddi, l’avvocato di Salvatore Buzzi, uno dei principali imputati del processo che si aprirà a Roma il prossimo 5 novembre, durante un’intervista rilasciata al sito Affaritaliani.it. Buzzi è detenuto da dieci mesi nel carcere di Nuoro sotto regime di 41bis. Un processo che solo per la figura del fondatore della cooperativa "29 giugno" prevede l’acquisizione di circa 100mila contatti telefonici: "3.600 ore di intercettazioni - spiega il suo avvocato - solo per quello che riguarda il mio cliente dal settembre 2012 al dicembre 2014. Un grosso problema anche perché fino ad ora le intercettazioni non sono state disponibili: la Procura ha comunicato ai legali delle difese che sarà allestita una apposita sala per l’ascolto. Iniziativa che ritengo assolutamente inutile". Diddi si è detto anche preoccupato per i costi che la difesa sta affrontando per l’acquisizione degli atti relativi al suo assistito e senza contare i file audio "abbiamo speso tra i 10 e i 15mila euro. Numeri che rischiano di inficiare la possibilità di difendersi", ha concluso Diddi. Giustizia: caso Crocetta; "pubblicarono notizie false", chiesto il giudizio per due cronisti Corriere della Sera, 6 ottobre 2015 La Procura di Palermo ha chiesto il giudizio immediato per Piero Messina e Maurizio Zoppi, i due giornalisti del settimanale L’Espresso che, lo scorso luglio, hanno svelato l’esistenza di un’intercettazione tra il governatore siciliano Rosario Crocetta e il suo medico personale Matteo Tutino, agli arresti domiciliari per truffa. Nella presunta intercettazione, diventata subito un caso politico, il chirurgo avrebbe augurato all’allora assessore alla Salute Lucia Borsellino di saltare in aria "come il padre". Poche ore dopo la diffusione della notizia, la telefonata è stata smentita dal capo dei pm palermitani, Francesco Lo Voi. E, in seguito, Lo Voi è intervenuto più volte per negare che una conversazione di quel tenore fosse agli atti di alcun procedimento penale aperto dal suo ufficio. Mentre il settimanale ribadiva che l’intercettazione esisteva ed era stata ascoltata dai cronisti. Adesso, riporta l’Ansa, i pm hanno deciso di saltare l’udienza preliminare chiedendo al gip di emettere un decreto di giudizio immediato. Una scelta possibile quando la Procura ritenga "evidente" la prova del reato e entro 90 giorni dalla commissione del reato. Le accuse per i due giornalisti incriminati, interrogati più volte dal procuratore e dall’aggiunto Leonardo Agueci, sono di calunnia e diffusione di notizia falsa. Se il gip accoglierà l’istanza (entro 5 giorni), gli imputati potranno scegliere fra rito ordinario o abbreviato. Insieme alla richiesta di immediato i pm hanno depositato una breve memoria in cui si ricostruisce il caso, i verbali di interrogatorio dei testimoni sentiti - una decina, e fra questi Lucia Borsellino - un giornalista del giornale La Sicilia e diversi militari del Nas. Agli atti del gip anche alcune intercettazioni di conversazioni dei due indagati e le relazioni dei carabinieri che hanno indagato sulla vicenda. Il reato di calunnia è stato attribuito per primo a Messina. Il quale, dopo le polemiche suscitate dalla pubblicazione della notizia e dopo la smentita della Procura, sarebbe andato da un ufficiale del comando provinciale dei carabinieri di Palermo rivelandogli di essere stato informato dell’intercettazione dall’ex capo del Nas, Mansueto Cosentino, ora in servizio in Lombardia. Una versione sostenuta in seguito anche da Zoppi, ma negata categoricamente dal comandante dei Nas. Anche l’Ordine dei giornalisti ha avviato un’indagine conoscitiva sulla vicenda. Phishing, non c’è reato se manca la consapevolezza della provenienza illecita del denaro di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 6 ottobre 2015 Corte d’Appello di Palermo - Sezione IV penale - Sentenza 18 marzo 2015 n. 1024. Il phishing, ovvero la tecnica mediante la quale il criminale informatico cerca di procurarsi, attraverso raggiri di varia natura perpetrati su internet dati riservati al fine di impossessarsi di somme di denaro da ignari correntisti, è inquadrabile nel reato di riciclaggio di cui all’articolo 648-bis del codice penale. Tale condotta è punibile solo se c’è la consapevolezza dell’illecita provenienza del denaro oggetto delle operazioni di trasferimento, non essendo sufficiente a integrare il dolo il mero sospetto della illiceità. Questo è quanto affermato dalla sentenza della Corte d’appello di Palermo 1024/2015. Il caso - La ignara protagonista della vicenda è una ragazza che, in cerca di lavoro, aveva risposto ad un annuncio pubblicato sul web da una falsa società che era alla ricerca di amministratori per gestire la propria filiale italiana. La ragazza, dopo ave inviato il suo curriculum, veniva selezionata dagli organi di vertice di questa società e firmava un finto contratto di lavoro part-time ben retribuito. Per i primi mesi di lavoro il compito della nuova assunta avrebbe dovuto consistere nel trasferimento di somme di denaro accreditate sul suo conto Postepay ad altro conto intestato ad un cliente ucraino, previa decurtazione della propria provvigione. La ragazza aveva subito ricevuto sulla sua carta prepagata due ricariche di poco superiori a 1.000 euro in due giorni successivi e aveva proceduto a sua volta al trasferimento delle somme sul conto indicatole. Il secondo trasferimento veniva però bloccato da Poste Italiane, in quanto oggetto di frode informatica. In seguito, con la denuncia da parte della società dai cui conti erano stati sottratti i soldi inviati, le indagini e l’imputazione nei confronti della ragazza per il reato di riciclaggio di cui all’articolo 648-bis del Cp. La decisione del Gup - In sede di giudizio abbreviato, l’imputata riteneva di essere stata raggirata e produceva le mail scambiate con gli amministratori della società che l’aveva assunta, oltre alla comunicazione pubblicata da Poste italiane sul portale "Anti-phishing Italia", con la quale si allertavano gli utenti che la società in questione era in realtà uno strumento di truffe e riciclaggio online. Il giudice di prime cure, tuttavia, non aveva dubbi sulla responsabilità penale della ragazza e affermava che la stessa aveva contribuito alla "triangolazione" "che non aveva altro scopo che quello di occultare il denaro proveniente da un furto operato da ignoti per via informatica". Per il Gup sussistevano, infatti, tutti gli elementi della fattispecie in quanto la ragazza aveva "non soltanto messo a disposizione il suo conto corrente - con funzione di schermo e di conto di transito - ma, una volta ricevuto l’accredito del denaro, lo aveva prelevato e, dedottane la provvigione pattuita, lo aveva trasferito ad un soggetto sconosciuto e non identificabile". Quanto all’elemento soggettivo, il dolo era rinvenibile "nella condotta dell’imputata che, rispondendo ad una offerta di lavoro dai connotati peculiari ed atipici, tuttavia smaccatamente fasulla, accettava quantomeno il rischio di concorrere al perfezionamento del reato di riciclaggio". In sostanza, per il Gup l’ingenuità della ragazza non poteva escludere il dolo. La decisione della Corte d’appello - Di diverso avviso si è mostrata però la Corte d’appello che ha invece assolto l’imputata perché il fatto in esame non costituisce reato, non ritenendo integrato l’elemento soggettivo del delitto di riciclaggio. I giudici accolgono infatti i motivi di appello della difesa della ragazza che facevano leva in sostanza sulla ingenuità mostrata da questa attraverso sia l’invio del curriculum, sia la tracciabilità delle operazioni effettuate con la sua carta prepagata. Per la Corte, è vero che la condotta del soggetto che riceva terzi i proventi del phishing è, in linea astratta, inquadrabile nella fattispecie di cui all’articolo 648-bis del Cp ; tuttavia, è anche vero che in tali ipotesi è necessaria la consapevolezza da parte dell’agente della provenienza illecita del denaro, nonché della stessa illiceità delle operazioni da compiere. E nel caso di specie, la giovane età, le difficili condizioni economiche e l’ingenuità mostrata dalla ragazza sono tutti elementi che tendono a far escludere tale consapevolezza non potendo il "mero sospetto dell’illiceità delle operazioni da lei compiute" essere sufficiente ad integrare l’elemento soggettivo del reato. Violenza sessuale anche se il rifiuto della moglie è "implicito" di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 6 ottobre 2015 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 5 ottobre 2015 n. 39865. In un contesto di ripetute sopraffazioni da parte del marito, quando i "rapporti sessuali ordinari" tra i coniugi siano ormai cessati da tempo, il reato di violenza sessuale può scattare anche in assenza una opposizione palese da parte della donna, bastando un "rifiuto implicito". Lo ha stabilito laCorte di cassazione, sentenza 39865/2015, rigettando il ricorso di un uomo. La vicenda - I giudici di Piazza Cavour confermano dunque tutte le accuse, compresi i maltrattamenti in famiglia, ai danni di un uomo di 35 anni più volte querelato per lesioni dalla moglie nel corso di diversi anni. E partendo dal livello "profondamente deteriorato" del rapporto coniugale, con la moglie sottoposta "ad ogni tipo di angherie", la Cassazione ha ritenuto "pienamente logica" l’argomentazione della Corte di Appello secondo cui l’episodio di violenza "doveva considerarsi vero (e non semplicemente verosimile)" proprio perché "fatto isolato sotto il profilo temporale" e dunque sganciato "da una relazione sessuale ordinata o se si vuole, discontinua, ma pur sempre presente nella vita di coppia". La motivazione - L’articolo 143 del codice civile, ricorda la Suprema corte, prevede che "con il matrimonio il marito e la moglie acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri", e che dal matrimonio "deriva l’obbligo reciproco alla fedeltà, all’assistenza morale e materiale, alla collaborazione nell’interesse della famiglie e alla coabitazione". Per cui "è da escludere che sussista un diritto assoluto del coniuge al compimento di atti sessuali inteso come mero sfogo all’istinto sessuale contro la volontà del partner". Tanto più, aggiungono i giudici, se tali rapporti avvengano "in un contesto di sopraffazioni, infedeltà e/o violenze che costituiscono l’opposto rispetto al sentimento di stima, affiatamento e reciproca solidarietà in cui il rapporto sessuale si pone come una delle tante manifestazioni" (n. 36962/2007). Del resto, prosegue la sentenza, per il reato di violenza sessuale "è sufficiente qualsiasi forma di costringimento psico-fisico idonea ad incidere sull’altrui libertà di autodeterminazione senza che rilevi in contrario l’esistenza di un rapporto di coppia coniugale o para-coniugale tra le parti". E ciò in quanto il rapporto coniugale "non degrada la persona del coniuge a mero oggetto di possesso dell’altro coniuge con la conseguenza che laddove l’atto sessuale venga compiuto quale mera manifestazione di possesso del corpo, esso acquista rilevanza penale". (n. 14789/2004). Non basta, dunque, ad escludere il reato la circostanza che la donna "non si opponga palesemente ai rapporti sessuali, subendoli, laddove risulti la prova che l’agente, per le violenze e minacce poste in essere nei riguardi della vittima in un contesto di sopraffazione ed umiliazione, abbia la consapevolezza di un rifiuto implicito al compimento di atti sessuali" (n. 16292/2006). Così, conclude la Cassazione, sebbene la libertà sessuale vada intesa come libertà di espressione e di autodeterminazione afferente alla sfera esistenziale della persona, e dunque inviolabile, è del pari innegabile che tale libertà non è indisponibile, "occorrendo pur sempre una forma di collaborazione reciproca tra soggetti che vengono in relazione (sessuale) tra loro". Sì al danno biologico del dipendente per illegittima mancata nomina a carica pubblica di Vittorio Italia Il Sole 24 Ore, 6 ottobre 2015 Un Avvocato dello Stato ha partecipato, con altri tre Avvocati, alla procedura per la nomina di quattro Vice Avvocati dello Stato. Il Consiglio dei ministri ha nominato gli altri, e ha deciso di soprassedere alla sua posizione, poiché quest’Avvocato era coinvolto in un procedimento penale, che però era solo iniziato, e secondo una sentenza (ancora sottoposta al vaglio della Cassazione), questi fatti con rilevanza penale erano caduti in prescrizione. L’Avvocato ha proposto ricorso al Tar, sostenendo di aver subìto, tra l’altro, dei danni morali, e ha anche chiesto il danno biologico (o all’integrità fisico-psichica) per la turbativa indotta dalla situazione affettiva e di danno esistenziale, e ha chiesto il risarcimento. Il Tar ha accolto il ricorso, e ha stabilito un risarcimento a titolo di danno patrimoniale per 72.000 euro. L’Avvocato ha interposto appello contro questa sentenza, riproponendo con ulteriori argomenti gli stessi motivi, e il Consiglio di Stato, Sezione IV, con la sentenza del 21 settembre 2015, n. 4375, ha accolto il ricorso, annullando in parte la precedente sentenza. La sentenza. I giudici sono pervenuti al dispositivo con un’ampia motivazione, i cui punti essenziali possono essere così sintetizzati: 1) Il danno biologico ed esistenziale deve essere provato, anche nel suo legame con i fatti basati su presunzioni semplici; 2) Il danno cosiddetto esistenziale consisteva, in questo specifico caso, nella "mancata acquisizione di prestigio", che costituiva un elemento della personalità e della posizione del ricorrente; 3) La mancata nomina è stata causata, come elemento preclusivo, dal fatto che l’Avvocato era stato coinvolto in un procedimento penale, iniziato con una informazione di garanzia del 1990, e proseguito con un rinvio a giudizio nel 1994, e concluso con una sentenza di prescrizione nel 2000, ma che è stata impugnata con ricorso per Cassazione; 4) Il danno si è tradotto in una tensione, stato di disagio, ansia e turbativa per questa mancata nomina che ha leso il prestigio e le aspettative del ricorrente; 5) Le prove del danno sono costituite da certificati medici attestanti "tachicardia parossistica con cardiopalmo", "probabile somatizzazione", il tutto avvenuto nel periodo immediatamente successivo alla mancata nomina; 6) Il risarcimento è stato determinato in via equitativa, ed è stato attribuita all’Avvocato una somma corrispondente a 17 mesi del trattamento economico netto, che spetta a un Avvocato dello Stato alla IV classe di stipendio. Valutazione della sentenza. La sentenza è corretta, e merita di essere condivisa. Nel caso di specie, la responsabilità dell’amministrazione è dipesa dal fatto che è stata considerata preclusiva alla nomina a un’alta carica dello Stato la sola "pendenza" di un procedimento penale (nella sentenza non è stato precisato di quale procedimento penale si trattava). Si è comunque trattato di un caso singolare, che non può essere assunto come parametro, nel senso che ogni concorrente a una nomina o a un pubblico concorso non può invocare il risarcimento dei danni morali se non ha ottenuto la nomina, o se non ha vinto il concorso. Il risarcimento del danno è la conseguenza dell’azione dolosa o colposa, che provoca un danno ingiusto, come è stabilito dall’ articolo 2043 del Codice civile. Conseguenze per gli altri enti. La sentenza può fornire utili insegnamenti per l’attività degli altri Enti, nei quali possono aver luogo delle nomine o si possono svolgere dei pubblici concorsi. È necessario che eventuali elementi preclusivi (una denuncia, un rinvio a giudizio) siano considerati con particolare attenzione da parte dell’ amministrazione, prima di considerarli determinanti per la mancata nomina o per la mancata vittoria in un pubblico concorso. Limiti all’estensibilità della disciplina del processo penale al procedimento disciplinare Il Sole 24 Ore, 6 ottobre 2015 Ordinamento giudiziario - Procedimento disciplinare - Estensibilità della disciplina del processo penale - Limiti. In tema di procedimento disciplinare a carico di magistrati, i richiami al codice di procedura penale contenuti nell’articolo 16, comma 2 ed articolo 18, comma 4 d.lgs. n. 109/2006 devono interpretarsi restrittivamente e solo nei limiti della compatibilità, dovendo applicarsi, per il resto, le regole del codice di procedura civile, sicché resta esclusa l’applicabilità delle norme del codice di procedura penale sull’assunzione e valutazione delle dichiarazioni rese da persone imputate in procedimenti connessi o di reati collegati, trattandosi di disposizioni riferibili esclusivamente ai rapporti tra procedimenti penali, le cui specifiche finalità giustificano limitazioni all’acquisizione della prova in deroga al principio fondamentale di ricerca della verità materiale. • Corte di cassazione, sezione Unite, sentenza 4 settembre 2015 n. 17585. Ordinamento giudiziario - Procedimento disciplinare - Estensibilità della disciplina del processo penale al procedimento disciplinare - Limiti - Disciplina del codice di procedura civile - Applicabilità. In tema di procedimento disciplinare a carico di magistrati, i richiami al codice di procedura penale contenuti negli articoli 16, secondo comma e 18, quarto comma, d.lgs. n. 109/2006 vanno interpretati restrittivamente e solo in quanto compatibili, dovendo per il resto ritenersi applicabile la disciplina dettata dal codice di procedura civile, restando, così, inutilizzabili le norme del codice di procedura penale afferenti la fase anteriore all’apertura del dibattimento. • Corte di cassazione, sezioni Unite, sentenza 25 gennaio 2013 n. 1771. Ordinamento giudiziario - Procedimento disciplinare - Deposito del fascicolo delle indagini e richieste del PG- Comunicazione all’incolpato - Facoltà dell’incolpato prenderne visione ed estrarne copia - Possibilità di deposito di memoria difensiva -Comunicazione della data dell’udienza camerale per la decisione su richiesta di non luogo a procedere - Necessità - Esclusione. La comunicazione all’incolpato dell’avvenuto deposito del fascicolo delle indagini effettuate dal P.G. e delle sue richieste conclusive, con facoltà per il primo di prenderne visione ed estrarne copia ai fini della presentazione di una memoria difensiva, è idonea ad assicurare i diritti di contraddittorio e di difesa di cui agli articolo 24 e 111 della Costituzione, è pertanto esclusa la necessità di comunicazione all’incolpato anche della data dell’udienza camerale per la decisione sulla richiesta di non luogo a procedere. Il provvedimento con cui la sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura, all’esito della predetta udienza camerale, rigetti la richiesta di non luogo a procedere, con conseguente obbligo per il Procuratore di formulare l’incolpazione ha natura interlocutoria, rimettendo all’udienza pubblica la definitiva decisione; l’esercizio di difesa e contraddittorio dell’incolpato è differito all’udienza pubblica. • Corte di cassazione, sezioni Unite, sentenza 25 gennaio 2013 n. 1771. Ordinamento giudiziario - Procedimento disciplinare - Impugnazioni - Ordinanze della Sezione disciplinare del CSM - Esclusione della ricorribilità per cassazione - Disciplina delle impugnazioni prevista dal Codice di procedura penale - Applicabilità - Esclusione - Estensibilità della disciplina del processo penale al procedimento disciplinare - Limiti. Le ordinanze della Sezione disciplinare del CSM che decidono sulle istanze di ricusazione non sono impugnabili con il ricorso per cassazione, in quanto l’articolo 24 del d.lgs. n. 109/2006, nel richiamare la disciplina delle impugnazioni prevista dalle norme processuali penali, si riferisce esclusivamente ai provvedimenti cautelari e alle decisioni di merito, restando esclusa l’estensibilità all’intero procedimento disciplinare della normativa del codice di procedura penale, il cui richiamo è espressamente limitato dal legislatore allo svolgimento di specifiche attività, come la discussione dibattimentale e le attività d’indagine. • Corte di cassazione, sezioni Unite, sentenza 8 luglio 2009 n. 15969. Abruzzo: nomina Garante detenuti, cresce il sostegno alla candidatura di Rita Bernardini abruzzoweb.it, 6 ottobre 2015 "Il sostegno personale del presidente dell’Unione delle Camere Penali Beniamino Migliucci e quello del presidente delle Camere Penali di L’Aquila Gian Luca Totani; il veemente intervento di Barbara Alessandrini su L’Opinione, unito alla "profonda ammirazione" del presidente nazionale (‘85-’09) dei Medici Penitenziari Francesco Ceraudo e alla caustica vignetta di Vincino: sono in tanti in queste ore a unirsi ad Adriano Sofri, Paolo Tancredi, Luigi Manconi, Ristretti Orizzonti e l’Unione delle Camere Penali in quello che è divenuto ormai un vero e proprio appello contro l’illegittima esclusione della candidatura di Rita Bernardini a Garante dei Detenuti d’Abruzzo, che fornisce l’immagine di un Paese in fuga dalle proprie responsabilità". Lo scrive in una nota Amnistia, Giustizia e Libertà Abruzzi. "Dalle sentenze della Corte europea dei Diritti dell’Uomo alla più recente chiamata del Santo Padre, la perentorietà di una legge di amnistia e di indulto, rivolta alle migliaia di detenuti che vivono in condizioni disumane e ai milioni di cittadini vittime di una giustizia irragionevolmente lunga, è ormai innegabile: eppure - prosegue la nota - lo Stato italiano continua a ignorare i messaggi, a partire da quello rivolto alle Camere dall’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano l’8 ottobre 2013". "Da anni i Radicali di Marco Pannella chiedono indulto, amnistia, giustizia e libertà per un paese in flagranza di reato contro i diritti umani fondamentali, sforzandosi di ‘essere speranzà al fianco di chi non ne ha più. Rita Bernardini, deputata nella XVI legislatura, storica militante radicale e segretaria di Radicali Italiani, instancabile attivista per i diritti dei detenuti, dopo anni trascorsi tra ispezioni degli istituti di pena e lunghi scioperi della fame, con questo spirito si è candidata a Garante dei Detenuti della Regione Abruzzo, ed è stata scartata in via amministrativa a causa delle condanne penali ricevute per atti di disobbedienza civile volti alla legalizzazione della cannabis". Gli avvocati Giuseppe Rossodivita, Paolo Mazzotta e Vincenzo Di Nanna, segretario di Amnistia, Giustizia e Libertà Abruzzi, hanno già presentato ricorso al Tar, sollevando l’infrazione del bando e della legge Severino. "Sono sempre di più - conclude la nota - le personalità autorevoli che chiedono alla Regione Abruzzo un atto di ragionevolezza, che rappresenti un primo passo verso la fine di un’emergenza umanitaria riconosciuta presso le più alte sedi, il cui termine è sempre più irrimandabile". Ferrara: l’addio del Comune a Massimo Pavarini "una risorsa importante per la città" estense.com, 6 ottobre 2015 L’amministrazione comunale ricorda la figura di Massimo Pavarini, ordinario di diritto penale e diritto penitenziario dell’Alma Mater di Bologna, recentemente scomparso. Studioso di fama internazionale di diritto penale e criminologia, si è particolarmente distinto per gli studi e le ricerche tematiche sulle politiche di sicurezza urbana, producendo numerosi lavori e pubblicazioni. Sempre attento all’evolversi delle politiche penali del nostro Paese ha prodotto visioni innovative dell’esecuzione penale mettendo in luce contraddizioni ed inefficacia della pena detentiva. Collaboratore della Regione Emilia-Romagna ha elaborato proposte per l’intervento del governo locale nei progetti di reinserimento sociale dei detenuti e per l’accesso alle misure alternative alla detenzione, che hanno coinvolto anche i servizi sociali della città di Ferrara. Anima della Commissione regionale per il lavoro dei detenuti ha costruito la progettazione per l’avviamento al lavoro in spazi extra-murari dei detenuti ristretti nelle carceri del territorio emiliano romagnolo, curando direttamente il raccordo tra gruppo di progetto e le realtà comunali. Impegnato in numerose iniziative pubbliche e seminariali e nella formazione degli operatori sociali del nostro territorio ne è stato un sicuro punto di riferimento per il contributo scientifico e culturale e per la non comune disponibilità. Sono ancora ben ricordati i lavori prodotti in collaborazione con le istituzioni cittadine, uno per tutti il "Vademecum per non andare in galera, se possibile…" realizzato con il Servizio sociale del Comune di Ferrara. Pescara: 42enne muore in carcere, rinvenuto senza vita appartenente a famiglia rom Ansa, 6 ottobre 2015 Deceduto nella Casa circondariale San Donato di Pescara molto probabilmente per cause naturali. È accaduto la notte scorsa intorno alle 3 quando Gino Spinelli, 42 anni, residente a Città S. Angelo (Pescara) e appartenente ad una nota famiglia rom pescarese, é stato rinvenuto privo di vita dagli agenti penitenziari. L’allarme é scattato immediatamente con l’arrivo del medico del carcere. È stato richiesto al 118 anche l’intervento al S. Donato di una ambulanza medicalizzata, ma all’arrivo dei sanitari l’uomo era già ceduto. Sul corpo nessun segno di violenza. Spinelli era in carcere per reati comuni. Perugia: i detenuti protestano "poche pene alternative ed eccesso di potere disciplinare" di Christian Cinti Giornale dell’Umbria, 6 ottobre 2015 Allungare lo sguardo dietro le sbarre mette in relazione con un "universo parallelo", in cui esistono regole e sistemi ben precisi. Sicuramente calibrati su una esistenza che, chi sta fuori dal carcere, può soltanto lontanamente immaginare. Figura di tutela per chi vive recluso è il garante dei detenuti: per l’Umbria si tratta dell’avvocato Carlo Fiorio, torinese classe 1965, eletto nell’aprile dello scorso anno, che nei giorni scorsi ha presentato alla giunta regionale la relazione relativa all’attività svolta nel 2014. I numeri. Dal primo giugno 2014 al 28 febbraio 2015, la popolazione penitenziaria umbra è diminuita di 220 unità, passando da 1.563 a 1.343 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 1.324 posti. "Dei 1.324 detenuti nei quattro istituti umbri (Perugia, Terni, Spoleto e Orvieto) alladatadel28 febbraio 2015, 1.033 sono definitivi mentre 310 sono in custodia cautelare. Gli stranieri - spiega la relazione - sono 386 e le donne 41. Al 31 dicembre 2014, nessun bambino sotto i tre anni di età risulta ospitato presso l’asilo nido istituito nella casa circondariale di Perugia". Oltre le sbarre. La relazione del garante sottolinea le difficoltà che il sistema umbro incontra nell’applicazione delle pene alternative alla detenzione. Rispetto al complesso della popolazione carceraria, sono soltanto 6 i detenuti in regime di semilibertà. "Con riferimento alle dinamiche deflattive, la legge 190 del 2010 (la cosiddetta "svuota carceri" che consente - in alcuni casi - di trascorrere gli ultimi dodici mesi di pena ai domiciliari, ndr) ha condotto nel corso di un lustro a sole 311 dimissioni dal contesto penitenziario umbro. Ed anche le tradizionali alternative alla detenzione non paiono sperimentate in modo adeguato sul territorio umbro". Incontri e scontri. Linea rossa anche sotto al bilancio di ispezioni e colloqui, ossia la possibilità che consente al garante di entrare in contatto con i detenuti. "Sul punto si registra una radicale ed ingiustificata posizione di chiusura da parte dell’amministrazione penitenziaria" così come viene stigmatizzata la "negata possibilità di delegare i collaboratori del garante per l’effettuazione dei colloqui" che vengono limitati alle "sole condizioni di vita del detenuto (...) senza alcun riferimento al processo o ai processi in corso". Parola ai detenuti. Il garante ha effettuato 31 visite agli istituti umbri e 222 colloqui con i detenuti che "lamentano generalmente lo stato delle camere di pernottamento (ridotte dimensioni e basa temperatura), la scarsa qualità del cibo e l’impossibilità di detenere il personal computer. Si denuncia, talora, l’uso eccessivo del potere disciplinare, ovvero le modalità atipiche con cui detto potere sarebbe esercitato". Parola agli agenti. Dal 2008 al 18 febbraio 2014 le carceri umbre hanno assistito a 1.682 episodi di autolesionismo. Tra luglio e fine settembre il penitenziario di Terni è stato un "palcoscenico" delicato con diversi episodi di "ferimenti e colluttazioni" contro gli agenti di polizia penitenziaria. Episodi che sono il risultato della "evidente pessima organizzazione lavorativa e detentiva della struttura ternana" per la quale il Sindacato autonomo di polizia penitenziaria (Sappe) chiede l’avvicendamento del direttore della struttura e del comandante del reparto di polizia penitenziaria "con altri dirigenti e funzionari evidentemente più stimolati professionalmente". Cremona: Franco Bordo (Sel); piove nelle celle, nel nuovo padiglione molti disagi di Daniele Rescaglio Il Giorno, 6 ottobre 2015 "Troppa fretta di aprire, bisognava aspettare", dicono adesso. I rappresentanti della polizia penitenziaria. Nel mirino la situazione dei carcere di Cremona in via Ca dei Ferro. Il nuovo padiglione, inaugurato non più tardi di un paio di anni fa, costato otto milioni di euro e terminato nel 2009, bloccato poi per alcuni problemi di agibilità, presenta ora problemi strutturali importanti, Quando piove l’acqua arriva nelle celle, creando non pochi problemi di confusione tra i detenuti. Una situazione stilla quale già più volte sì è intervenuti, come sottolinea anche il deputato Franco Bordo (Sel), che più volte si è speso in parlamento sulla situazione carcere. "Alcuni interventi sono stati effettuati, ma certo ho in animo di tornate a fare un sopralluogo nei prossimi giorni per capire come stanno le cose effettivamente", spiega. Ora si è scoperto che l’attacco dell’idrante per i vigili del fuoco ha la pompa costruita e montata al contrario, quindi è inutilizzabile. Riscontrato inoltre il malfunzionamento dell’impianto di sollevamento acque, che causa l’allagamento del piano interrato. Secondo il sindacato invece l’apertura delle celle con i detenuti liberi di circolate è spesso causa di risse che mettono anche a rischio la sicurezza degli agenti. Non sono solo questi i guai del padiglione che doveva servire a risolvere pesanti situazioni di sovraffollamento. Ce ne sono anche a livello di gestione: un dirigente in missione e una situazione organizzativa che si riflette su tutta la struttura. Altro punto dolente è l’applicazione della scelta del Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) di introdurre la sorveglianza dinamica per rispettare le condanne e i richiami arrivati dalla Corte di Strasburgo in materia di diritti dei detenuti. In soldoni, ciò comporta celle aperte per molte ore dei giorno con decine di detenuti sorvegliati da un solo agente; negli ultimi mesi più volte sono stati denunciati episodi di violenza all’interno del carcere. La prossima visita di Franco Bordo potrebbe essere l’occasione affinché nei palazzi romani si tonti a parlare del carcere di Cà del Ferro e delle sue problematiche. Roma: apre lo Sportello "Spasmos" per dare un aiuto alle donne vittime di stalking Redattore Sociale, 6 ottobre 2015 Un luogo reale di ascolto, assistenza e sostegno alle vittime di violenza. Il progetto, ideato da Artemisia Onlus per la tutela delle donne vittime dei fenomeni di stalking e mobbing, prevede un servizio completamente gratuiti attraverso l’assistenza di uno staff altamente specializzato e in formazione continua. Un luogo reale di ascolto, assistenza e sostegno alle vittime di violenza. Nasce a Roma lo sportello Spasmos, un progetto ideato da Artemisia Onlus per la tutela delle donne vittime dei fenomeni di stalking e mobbing, intesi come "forme di molestia assillante di tipo criminale, psicologico, burocratico e amministrativo, che stanno assumendo connotati sempre più rilevanti e allarmanti nella società attuale". L’iniziativa è stata presentata oggi in Campidoglio, presso la sala Carroccio, alla presenza, tra gli altri, di Mariastella Giorlandino, titolare dei centri clinico-diagnostici Artemisia Lab, e Luigi Iavarone, responsabile dello sportello. "La violenza e tutte le forme di abusi e vessazioni- è emerso dalla conferenza- costituiscono una violazione ai diritti umani. Lo sportello Spasmos persegue esclusivamente finalità di solidarietà sociale. Si tratta di un luogo reale di ascolto, assistenza e sostegno alle vittime di violenza, offrendo in servizio completamente gratuiti attraverso l’assistenza di uno staff altamente specializzato e in formazione continua, composto di psicologi, medici, sociologi, avvocati, specialisti di prevenzione e protezione e criminologi". Lo sportello è raggiungibile per un primo approccio al numero verde 800.967.510, attivo 24 ore su 24, dove risponde "personale altamente qualificato che, nel più totale rispetto della privacy, aiuterà tutte le persone che subiscono forme di molestia reiterata e violenza psicologica, fisica, sessuale, economica e qualsiasi altra forma di coazione riconducibile o collegabile al fenomeno degli abusi". La sede operativa di Spasmos è a Roma, in via Velletri 10. "L’incertezza sul futuro, la precarietà e la flessibilità - è emerso ancora dalla conferenza- oltre che il clima di competitività estrema, la paura di perdere il lavoro e l’emarginazione sociale e professionale sono all’origine dello stato di disagio per molte persone, che talvolta evolve in vere e proprie patologie. È proprio da queste riflessioni, dunque, è nata l’idea di realizzare questo sportello, per analizzare e prevenire tutte quelle forme di disagio psico-fisico che le persone manifestano riguardo a particolari condizioni di lavoro e di vita". Il progetto, intanto, si inserisce all’interno di un fitto calendario di azioni pianificato da Artemisia Onlus sui temi della prevenzione medica, che prevede "dal prossimo 9 al 15 ottobre giornate volte al supporto psicologico dell’infanzia e della famiglia; dall’8 al 19 marzo 2015 giornate per la donna con pap test e mammografie gratuite; il mese di aprile verrà invece dedicato al papà, con visite cardiologiche mirate; a maggio, invece, ci saranno giornate di prevenzione contro il tumore al collo dell’utero". Nel corso del 2015, infine, partirà il servizio "Dopo di noi", finalizzato "ad individuare percorsi di sostegno economico finanziario alle famiglie, con figli disabili non autonomi, che perdono i genitori, mediante l’istituto delle case famiglie che possano fornire assistenza integrata e ausilio mirato a situazioni altrimenti non sostenibili". Alba: il Sindaco Marello insieme ad assessori e consiglieri al mercatino "Valelapena" targatocn.it, 6 ottobre 2015 In tutto una decina di gazebo con il vino "Valelapena", il miele "Dolce Bottino", le nocciole, la marmellata d’uva e le piantine nate nel carcere. Domenica 4 ottobre il Sindaco di Alba Maurizio Marello insieme agli assessori Massimo Scavino, Fabio Tripaldi, Rosanna Martini ed Alberto Gatto accanto ai consiglieri Pierangela Castellengo e William Revello ha visitato il mercatino "Valelapena" con i prodotti realizzati in alcuni carceri italiani e sui terreni confiscati alle mafie. Accanto al "Mercato della Terra", durante la prima domenica di Fiera Internazionale del Tartufo Bianco d’Alba, anche quest’anno in piazza San Giovanni Pertinace la quinta edizione dell’iniziativa con il nome del vino prodotto con le uve coltivate nella Casa di Reclusione "Giuseppe Montalto" di Alba. In tutto una decina di gazebo con il vino "Valelapena", il miele "Dolce Bottino", le nocciole, la marmellata d’uva e le piantine nate nel carcere diretto da Giuseppina Piscioneri con il supporto dell’agrotecnico Giovanni Bertello ed il formatore Sergio Pasquali, accanto al Comandante della Polizia Penitenziaria Giuseppe Colombo e al Garante regionale dei diritti dei detenuti e delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà Bruno Mellano. Intorno gli altri prodotti: "Marte - Cose buone da dentro", il charity shop torinese promosso da 14 realtà piemontesi che lavorano nelle carceri e che raccoglie i prodotti di qualità, alimentari e non realizzati negli istituti di pena di tutta Italia, dalla Valle d’Aosta alla Sicilia; "Ferro e Fuoco & La Gang del Truciolo" con articoli in ferro battuto e legno realizzati nelle case di reclusione di Fossano e Saluzzo; "Cascina Macondo" con le produzioni artistiche di ceramica Raku della Casa di Reclusione di Saluzzo; i prodotti dei laboratori creativi dell’Istituto Penitenziario Minorile "Ferrante Aporti" di Torino realizzati da Foorcoop; "Creazioni al Fresco" del carcere femminile di Genova Pontedecimo; "Italforno" la focaccia, i dolci ed il pesto dell’Istituto penitenziario di Genova Marassi. Verona: la corsa dietro le sbarre, gareggiano (anche) i detenuti di Matteo Sorio Corriere Veneto, 6 ottobre 2015 Il circuito è di 993 metri. Parliamo della strada perimetrale interna alle mura del carcere di Montorio. Per ogni squadra, 6 atleti: tre detenuti e tre esterni che arrivano dal mondo là fuori. Si chiama "Verona Marathon corre dentro" e tutto succederà sabato 31 ottobre, dalle 9, nella Casa Circondariale di via San Michele, poco fuori città. Gianni Poli, bresciano di Lumezzane, classe 1957, vincitore della Maratona di New York nel 1986, argento agli Europei 1990 e bronzo in Coppa del Mondo e Coppa Europa di maratona, dice da testimonial dell’iniziativa: "Qui a Verona state lanciando un sassolino importante. La corsa ti entra dentro poco per volta e t’intriga perché diventa una sfida con te stesso. Sono convinto che gli atleti esterni aiuteranno i detenuti a capire il valore di questo sport". Funziona così: base logistica nel campo sportivo del carcere, gara a staffetta, 24 squadre, in tutto 144 concorrenti, 72 detenuti e 72 atleti esterni, ogni atleta percorre un giro, il cronometraggio è elettronico (un bracciale per squadra), quarti di finale, semifinale e finalissima con le 6 migliori squadre. Soprattutto: "I detenuti che si distingueranno per qualità sportive e comportamentali potranno partecipare, il 15 novembre, alla Cangrande Halfmarathon, la mezza maratona che si svolge in contemporanea alla Verona Marathon". Lo sottolinea Maria Grazia Bregoli, direttrice del carcere, che porta avanti l’iniziativa insieme a Fidal, G.a.a.c 2007 Verona Marathon Asd e Verona Marathon Eventi: "È un’occasione per stare insieme in maniera diversa, i detenuti vedranno la società esterna entrare all’interno del carcere, il nostro è un messaggio di solidarietà civile". Gli allenatori legati alla Verona Marathon hanno già iniziato la preparazione atletica con i detenuti chiamati a gareggiare. Fuori, intanto, ci sono già le squadre di atleti esterni: dalla Fondazione Bentegodi all’Atletica Insieme Bussolengo, dal Team Verona Marathon a quelli di Straverona Running, dall’Atletica Lupatotina ai runner di Agsm, passando per gli atleti dell’Atletica Bovolone, Mirrors Marathon, Decathlon, Zueeg, Avis Malavicina, Acque Veronesi, Iron Woman, Gp Polizia Penitenziaria, Gp Corriamo da Dio e Gp Valdalpone De Megni. Rimarca l’assessore allo Sport, Alberto Bozza: "Lo sport è un diritto di tutti e, in quanto strumento di aggregazione, non deve avere limiti e confini". Lecce: gli attori-detenuti della compagnia "Io Ci Provo" tornano sul palco del "Paisiello" leccenews24.it, 6 ottobre 2015 Non è la prima volta che la compagnia "Io Ci Provo", che prende il nome dall’omonimo laboratorio/percorso teatrale guidato dalla regista Paola Leone all’interno della sezione maschile della Casa Circondariale "Borgo San Nicola" di Lecce, calca il palco dello storico teatro del capoluogo salentino. E siamo certi che non sarà l’ultima. E così, 11 detenuti/attori porteranno in scena martedì 6 ottobre, nella splendida location del Teatro Paisiello di Lecce, lo spettacolo "Happy Birthday Barbablù". Esattamente un anno fa, in concomitanza con la visita della giuria per la candidatura di Lecce a Capitale Europea della Cultura 2019, la compagnia "Io Ci Provo" era uscita dalle mura dell’istituto penitenziario. E proprio in quell’occasione l’amministrazione comunale si era impegnata ufficialmente a sostenere il progetto, aprendo le porte dello storico Teatro Paisiello, nel cuore del capoluogo salentino alla compagnia. Ogni anno. Un riconoscimento importante per un progetto che, nel suo piccolo, sta rivoluzionando lo sguardo sul carcere e sui suoi abitanti. Quest’anno lo spettacolo è inserito all’interno della programmazione di Lecce2015 - Capitale Italiana della Cultura, a suggellare il legame con il Comune di Lecce che mira a farlo diventare un appuntamento stabile. Il laboratorio "Io ci provo" che prende il via nel 2011, con l’intento di sperimentare un teatro politico che si racconta e ci racconta la società attuale, promuovendo il teatro come forma artistica e culturale capace di realizzare la sua vocazione storica di luogo di costruzione e formazione di una cittadinanza attiva, capace di includere, promuovere e valorizzare le differenze è come si suole dire un esperimento riuscito. Un lavoro dal basso, quotidiano, che quest’anno ha rafforzato ancor più il ponte dentro-fuori, attraverso diversi percorsi di sensibilizzazione, in primis quello attivato nelle scuole superiori di Lecce. Circa 100 studentesse e studenti hanno partecipato ai laboratori di "Io Ci Provo", entrando in contatto con un’altra faccia del carcere, quella possibile, quella che mira a superare barriere e pregiudizi verso una piena inclusione sociale. I detenuti che, grazie all’articolo 21 della Legge n° 354 del 1975 (Ordinamento Penitenziario), hanno la possibilità di uscire dal carcere svolgere un’attività lavorativa retribuita regolarmente, hanno un contratto da attore reale, a dimostrazione che il lavoro culturale deve essere riconosciuto e retribuito al pari di altri lavori, dimostrando così che nella cultura si può ancora investire. Nello spettacolo un uomo, giovane, bello, spregiudicato e cattivo, viene raccontato dagli occhi e dai ricordi dei suoi "amici", dei suoi genitori, delle sue mogli, nel giorno del suo compleanno. Barbablù, il più temibile delle fiabe, si confessa e ci racconta cosa significa volere bene al Dio sbagliato, come ci si sente quando si capisce che quel Dio sbagliato è ormai la propria voce, il tuo stesso sangue, la tua stessa vita. C’è possibilità di salvarsi? Chi mi può salvare? E chi mi può veramente condannare? Proviamo a raccontare quello che vediamo e che fa parte della nostra esistenza senza giudizio, soltanto prendendo atto che pure questo può accadere quando si viene catapultati nella vita. Non cerchiamo la risposta ma ascoltiamo le domande. Un breve estratto dello spettacolo sarà inoltre presentato sabato 7 novembre sul palco del Teatro Politeama Greco di Lecce durante la quarta edizione di TedxLecce. Milano: il teatro del carcere minorile "Beccaria" apre la stagione 2015/16 La Presse, 6 ottobre 2015 Oggi, martedì 6 ottobre alle 18.30, a conclusione della seconda fase di ristrutturazione del Teatro interno al Carcere Minorile Cesare Beccaria di Milano, verrà presentata la sala teatrale totalmente ristrutturata, segnando l’inizio della stagione 2015/16. Alla cerimonia del 6 ottobre saranno presenti il Capo Dipartimento della Giustizia Minorile Francesco Cascini, il Sindaco di Milano Giuliano Pisapia, il Sovrintendente del Teatro alla Scala Alexander Pereira, l’Amministratore Unico di Mapei Giorgio Squinzi e il Piccolo Teatro di Milano. Sul palco si esibiranno i giovani attori detenuti e gli operatori Puntozero con alcune scene tratte da "Sogno di una notte di mezza estate" di William Shakespeare con regia di Giuseppe Scutellà, come esito dei laboratori condotti da Puntozero all’interno dell’istituto. L’associazione Puntozero ha potuto raggiungere questo traguardo grazie al vitale contributo economico concesso al progetto dalla Fondazione Marazzina Onlus. Il Teatro alla Scala di Milano, che è accanto all’associazione dal 2005 e nel 2007 ha destinato al Teatro del Beccaria le poltrone dopo il restauro del Piermarini, ha fornito un sostegno fondamentale coordinando i lavori, con il coinvolgimento di Mapei che a sua volta ha contribuito con la fornitura gratuita dei propri prodotti e una donazione. Il Piccolo Teatro di Milano - Teatro d’Europa, a seguito della recente firma della Convenzione con il Direttore Sergio Escobar, nel maggio 2016 realizzerà un workshop formativo sulla Commedia dell’Arte con Ferruccio Soleri, e nella stagione 2016-17, sulla scia del successo riscosso dallo spettacolo ‘Errare humanum est. Il carcere minorile spiegato ai ragazzì, presentato al Teatro Grassi nel novembre 2014, ospiterà di nuovo la Compagnia dei giovani attori creata dall’Associazione Puntozero dell’Istituto Penale per Minorenni Cesare Beccaria di Milano. Il ripristino del Teatro interno al carcere minorile e l’inizio dell’attività teatrale permanente renderà tale luogo un nuovo punto di produzione culturale aperto ed accessibile all’intera cittadinanza, contribuendo ad arricchire l’offerta culturale della città di Milano e ad attenuare l’idea del carcere come istituzione punitiva, rompendo il "cono d’ombra" ed aiutare così a superare stereotipi e pregiudizi, facilitando la comunicazione tra "dentro" e "fuori" attraverso l’accessibilità della cittadinanza. Rilevante da un punto di vista sociale anche l’opportunità data ai giovani detenuti sia di calcare le scene in qualità di attori, sia di apprendere un mestiere teatrale (tecnico luci, macchinista teatrale, falegname, ecc.) spendibile anche in esterno per raggiungere una propria autonomia e determinare un proprio riscatto personale e sociale. Migranti, tra Ue e Turchia confronto difficile di Beda Romano Il Sole 24 Ore, 6 ottobre 2015 Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha compiuto ieri un’attesa visita presso le istituzioni europee a Bruxelles durante la quale ha sostenuto con forza le sue ragioni nella crisi siriana. Pur ribadendo che l’ingresso della Turchia nell’Unione Europea rimane "una scelta strategica" dell’establishment turco, gli incontri hanno evidenziato incomprensioni tra Ankara e Bruxelles. Le parti hanno però deciso di creare un gruppo di lavoro con cui discutere dell’emergenza rifugiati. Si sono moltiplicati nelle ultime settimane i motivi di screzio tra Europa e Turchia. Quest’ultima è un importante Paese di transito per migliaia di rifugiati in arrivo dalla Siria e dall’Iraq. In un incontro straordinario in settembre, i capi di Stato e di Governo dei Ventotto hanno sostenuto l’importanza di collaborare con Ankara per trovare il modo per arginare l’arrivo di rifugiati. Ieri il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk ha trasmesso il messaggio al suo interlocutore turco. "È innegabile che l’Unione Europea debba meglio controllare le sue frontiere - ha spiegato Tusk in una dichiarazione congiunta alla stampa. Ci aspettiamo che la Turchia faccia altrettanto". L’ex premier polacco ha poi aggiunto: "Dobbiamo frenare l’arrivo di migliaia di migranti in Europa. Non possiamo farlo da soli. Abbiamo bisogno dell’aiuto della Turchia". Secondo gli ultimi dati, 630mila migranti sono entrati clandestinamente nell’Unione dall’inizio dell’anno. Secondo Bruxelles, Ankara non starebbe facendo abbastanza per lottare contro le mafie locali che organizzano il trasferimento delle persone da Est verso Ovest. Viceversa, il governo turco - che il 1° novembre affronta difficili elezioni legislative - propone la nascita di una zona-cuscinetto in Siria. Questa ipotesi non piace a molti Paesi occidentali perché sembra essere il tentativo turco di frenare l’avanzata verso Ovest dei curdi, una comunità presente anche in Turchia, oltre che in Siria e in Iraq. Erdogan ha ribadito ieri le richieste turche: oltre alla nascita di una zona-cuscinetto in Siria, il presidente ha chiesto più denaro per attrezzare le forze contrarie al regime siriano e il divieto di sorvolo alla frontiera turco-siriana. Proprio ieri, Ankara ha protestato per l’incursione di aerei russi in territorio turco. C’è di più, Erdogan ha criticato i partner occidentali: "Non ci possono essere terroristi buoni e terroristi cattivi. Mi auguro che gli europei dimostrino sensibilità su questo punto". Il riferimento è una critica esplicita ai Paesi che fanno la guerra all’Isis ma difendono il PKK, il partito dei lavoratori del Kurdistan, un movimento che la Turchia considera alla stregua di un gruppo terroristico. Ciò detto, secondo un diplomatico a conoscenza del contenuto dei colloqui, Tusk ed Erdogan hanno deciso, nel tentativo di mantenere i canali aperti, di creare "un gruppo di lavoro di alto livello" per discutere di tutte le questioni sul tavolo (lotta ai trafficanti, controllo delle frontiere, zone-cuscinetto). "Si tratta di un cambiamento di posizione - notava ieri il diplomatico. Finora Ankara insisteva solo sulle zone-cuscinetto". Ciò detto, l’incontro ha mostrato le tensioni tra Europa e Turchia, a cui contribuisce una posizione europea contraddittoria. Per semplificare la selezione dei migranti in arrivo da Est, la Commissione europea ha proposto ai Ventotto di stilare una lista di Paesi sicuri, i cui cittadini non potrebbero chiedere asilo. Della lista fanno parte tutti i Paesi dell’allargamento, inclusa la Turchia. La proposta legislativa, tuttavia, ha provocato una spaccatura tra i governi dell’Unione. Alcuni sono contrari alla presenza di Ankara nella lista, a causa dei dubbi sul rispetto dei diritti umani nel Paese. Altri invece sono favorevoli, fosse solo perché il Paese è candidato all’ingresso nell’Unione. Consapevole delle imbarazzanti spaccature europee, Erdogan ha voluto sottolineare in una dichiarazione alla stampa che l’adesione all’Unione rimane "una scelta strategica" della Turchia. L’Arci: con gli hotspot l’Italia accetta la reintroduzione della detenzione Redattore Sociale, 6 ottobre 2015 Arci critico chiede di lasciare Lampedusa alla sua "naturale cultura dell’accoglienza". La fase "pilota" dell’operazione ha avuto inizio lo scorso 17 settembre: l’Europa cambi subito strategia! L’approccio hotspot non può essere applicato. "Gli hotspot sono luoghi di detenzione dove le persone verranno selezionate sulla base della nazionalità e della disponibilità a farsi foto-segnalare. L’Italia ha accettato la reintroduzione della detenzione su larga scala e il ricorso a metodi poco o per niente rispettosi dei diritti delle persone, in cambio della riallocazione di qualche migliaio di eritrei e di un po’ di soldi". È il commento preoccupato di Arci che critica le decisioni assunte in merito alla gestione degli arrivi dei migranti. "L’operazione formalmente ha avuto inizio lo scorso 17 settembre anche se le procedure sono tutte in fieri e in fase sperimentale. - sottolinea l’organizzazione - Siamo nella fase cosiddetta ‘pilotà dell’approccio hotspot eppure in queste ore nigeriani, gambiani e maliani arrivati a Lampedusa hanno già ricevuto un provvedimento di espulsione. Solo ieri sull’isola è scoppiata una rivolta contro i rischi di rimpatrio forzato, contro il mancato accesso alla procedura di asilo". "Se di settimana pilota si tratta, che l’Europa cambi subito strategia! L’approccio hotspot non può essere applicato a Lampedusa. Non può perché non dobbiamo correre il rischio di imprigionare le persone limitandone la libertà di movimento", chiede Arci che ricorda come "secondo quanto comunicato dalla Comunità Europea non potranno uscire dagli hotspot le persone che non si lasceranno identificare. Un approccio quindi che lega indissolubilmente il bisogno di protezione alla volontà di farsi identificare, chiedendo ai migranti di fidarsi delle procedure e dei tempi di trasferimento nonostante ad oggi ci siano persone in attesa da più di un anno". "Lampedusa deve essere lasciata alla sua naturale cultura dell’accoglienza, - chiede - permettendole di continuare ad essere un centro di primo soccorso ed accoglienza, un centro di transito nel quale rifocillare e far riposare le persone appena salvate in mare. L’accesso alla procedura, già adesso non sempre tutelata e lineare, non può essere costretta nei tempi dettati dalle paure della Comunità Europea. Un’operazione condivisa, una partecipazione di responsabilità verso un sistema europeo comune di asilo che accogliamo con favore basato però su una discriminazione: possono essere ricollocate solo le nazionalità con un tasso medio europeo di riconoscimento della protezione del 75%. Un vizio razzista che mette in discussione l’efficacia dell’operazione nonché la natura soggettiva del diritto di asilo. Infine, non possiamo non ribadire che oggi la priorità è aprire canali di ingresso umanitari per evitare nuovi morti di frontiera, e insieme adottare con urgenza misure che garantiscano un’accoglienza dignitosa". L’agenzia Ue per i migranti chiede lager e più rimpatri di Francesco Borgonovo Libero, 6 ottobre 2015 Frontex spara a zero sulla politica europea sui rifugiati: "Il problema non sono i profughi ma i clandestini". Gli hotspot? "Inutili. Meglio centri di detenzione". Vertici a ripetizione, incontri fra premier e ministri, interviste roboanti e proclami a tamburo: peccato si sia rivelato tutto inutile. Il modo in cui l’Unione Europea (e i governi dei Paesi che ne fanno parte, soprattutto il nostro) sta gestendo la crisi migratoria è sbagliato a partire dalle fondamenta. Chi lo dice? L’Europa medesima, nella persona di Fabrice Leggeri, direttore di Frontex, cioè l’autorità che ha il compito di tutelare le frontiere. Parlando con un’agenzia di stampa francese, questo signore ha sbriciolato i provvedimenti che ci sono stati presentati - in primis da Renzi - come soluzioni all’Invasione. Tanto per cominciare, a Bruxelles si sono concentrati sui profughi mentre il vero problema sono i clandestini. "Alla fine di settembre", ha spiegato Leggeri, "abbiamo registrato circa 630 mila passaggi illegali delle frontiere". Entro la fine dell’anno, ragionevolmente arriveremo a 800 mila. Quasi un milione di persone giunte in Europa irregolarmente. Un numero enorme, che non sarà suddiviso in quote e non sarà spartito fra i vari Stati. Che sarebbe finita così era chiaro fin da subito, proprio come il fatto che i Paesi più colpiti sarebbero stati l’Italia e la Grecia. Però l’Europa non ha fatto nulla per impedire questi arrivi, e in assenza di azioni comunitarie ogni nazione ha agito come le pareva. Risultato: c’è chi si è tutelato difendendo i confini e chi non lo ha fatto, ad esempio noi. Per impedire gli arrivi in massa, però, secondo Leggeri sarebbe stato utile mandare polizia e guardie "alle frontiere esterne", invece che sui confini interni. "La vera frontiera della Francia è certamente Ventimiglia, ma anche Lampedusa, Lesbo, Mettila", ha aggiunto il capo di Frontex. Significa che sarebbe stato necessario schierare personale in forze in Italia, in Grecia, in Spagna. Ma nessuno ci ha pensato, nessuno lo ha fatto. E mentre ci occupavamo di piazzare alcune migliaia di profughi, un numero quasi uguale di clandestini giungeva indisturbato sulle nostre coste. Dirà qualcuno: adesso ci sono gli hotspot, cioè i centri di identificazione come quello di Lampedusa, dove i flussi di immigrati saranno scremati, si deciderà chi ha diritto di entrare e chi no. Peccato che - come del resto dimostra la pietosa situazione proprio del centro di Lampedusa - gli hotspot siano un inutile placebo. Tanto per cominciare, non riescono a identificare quasi nessuno. E qualora si riesca a stabilire la provenienza di uno straniero, rimpatriarlo è quasi impossibile. "In media", ha detto Leggeri, "solo il 39% delle decisioni di allontanamento vengono effettivamente applicate". Cioè: anche quando ci rendiamo conto che ospitiamo clandestini che dovrebbero rientrare nei loro Paesi, li lasciamo qui. L’obiettivo di Frontex è di avere a disposizione, entro la fine dell’anno, 60 aerei per provvedere ai rimpatri. Ma sembra abbastanza improbabile che si riesca a ottenere qualche risultato concreto. Per rimpatriare le persone servono accordi con i Paesi d’origine. E l’Europa questo argomento piuttosto delicato deve ancora affrontarlo. Inoltre, bisogna evitare che gli immigrati si diano alla macchia, cosa accaduta piuttosto di frequente negli ultimi mesi. Su questo punto, Leggeri è chiarissimo: "Siamo realisti: se vogliamo poter rinviare ai Paesi di origine i migranti irregolari, sono necessari dei centri di detenzione, in particolare all’interno degli hotspot". Non è la prima volta che le istituzioni europee ci dicono che la detenzione degli stranieri è necessaria, in questa situazione di emergenza. Ma ovviamente in Italia nessuno ha preso sul serio la faccenda. Anzi, i più continuano a ripetere che dobbiamo aprire ulteriormente facilitare gli ingressi, che i centri di accoglienza sono dei lager. Negli ultimi giorni, vicino alle coste greche, sono stati recuperati 1743 immigrati. Loro ce l’hanno fatta ad arrivare vivi. Altri no, e come al solito tocca fare il conto delle salme: 95 sono i corpi trovati in Libia, uomini e donne defunti nel tentativo di raggiungere l’Italia. Due invece sono i cadaveri di bambini che giacevano domenica sulla spiaggia ellenica di Kos. Questi sono i risultati del fallimento europeo. Pena di morte. Uccidere un uomo è come uccidere un re di Aldo Masullo Il Mattino, 6 ottobre 2015 Dagli Usa all’Arabia l’atrocità della pena di morte che non si ferma. Il 24 settembre scorso il Papa Francesco dinanzi al Congresso degli Stati Uniti invocava l’abolizione della pena di morte ed insieme la cessazione del traffico delle armi, che all’ingrosso o al minuto è il più potente incentivo ad uccidere. Intanto in uno degli Stati dell’Unione non si fermavano i preparativi per l’esecuzione capitale di una donna, cosa che dopo pochi giorni implacabilmente avvenne. Né si fermava nel regno dell’Arabia Saudita la procedura per mettere a morte un ragazzo, Ali Mohammed Al-Nimir. Si tratta di due casi esemplari. La donna americana era stata condannata per avere istigato un amico a ucciderle il marito. Il ragazzo arabo era incolpato di aver preso parte ad una manifestazione contro il governo al tempo della mal finita "Primavera". La donna americana è stata "civilmente" soppressa con la famigerata iniezione letale. La morte violenta che attende il ragazzo non ha nulla di tecnologico ma, pur in uno Stato che spende miliardi in tecnologie soprattutto belliche, è tanto primitiva quanto macabra: il reo sarà decapitato e il cadavere verrà crocifisso ed esposto al pubblico fino alla putrefazione. Così, non basta che il mondo sia insanguinato dalla violenza armata di guerre guerreggiate, di imprese terroristiche e di private follie. Rinforzano la strage con la loro sinistra legalità le condanne capitali irrogate dalle "giustizie" di vari potentissimi Stati. Intanto, mentre sembrava che stesse finalmente affermandosi il divieto suggestivamente espresso dai radicali italiani con il monito biblico "nessuno tocchi Caino", cioè nessuna "giustizia" ha diritto di mettere a morte sia pure il più feroce assassino, i patiboli continuano a seminare di legalmente assassinati molti luoghi del mondo "civile". Il boia con la siringa letale non è meno osceno del boia con la scimitarra. Dovunque e comunque vengano compiute esecuzioni capitali, sempre di assassinii si tratta "in nome della legge", dunque vilmente al riparo dall’apparire assassini. Ma assai diverse sono le pulsioni che in varie grandi culture, come nei due casi qui citati l’americana e l’araba, non cessano di favorire la pena di morte, anche se in America sembra rafforzarsi la tendenza ad abolirla. La nazione americana raccolta sotto la bandiera degli Stati Uniti ha il suo nucleo primario nel puritanesimo dei pionieri anglosassoni e nell’individualismo degli allevatori della "grande frontiera". Per costoro la tutela di un ordine sociale minimo stava in una giustizia sommaria, all’insegna dell’arcaico ed elementare criterio di "occhio per occhio, dente per dente". Lo hobbesiano "uomo lupo per l’altro uomo" non poteva covare dentro dì sé altro spirito di riparazione dell’ingiustizia se non quello della vendetta. Alla fine nelle fibre culturali dello Stato americano maturo questo spirito si è istituzionalizzato: lo Stato, assumendo il monopolio della giustizia, si è sostituito al privato nel gestirne la vendetta. La pena capitale e la sua esecuzione rappresentano, nella parte conservatrice della cultura americana, il doveroso ruolo dello Stato di esercitare al posto e per conto dell’individuo la vendetta risarcitoria. Nella cultura dell’Arabia Saudita ben altra pulsione spinge il potere a praticare la pena di morte nelle forme più atrocemente spettacolari come la decapitazione, non senza qualche segreto preliminare di adeguate torture e contorni di macabra spettacolarità. L’Arabia Saudita è una monarchia assoluta, senza parlamento e senza legislazione laica. Ricchissima com’è per gli enormi giacimenti di petrolio e di gas, essa accorda un diffuso anche se ineguale benessere ma esige da tutti, cittadini o immigrati, la piena sottomissione. La condanna a morte esprime appieno l’intransigente pretesa d’incondizionata sottomissione: punire teatralmente qualcuno per sottomettere tranquillamente tutti gli altri! Nello Stato del monarca assoluto la pena di morte è il più poderoso strumento di pedagogia politica. Qui si coglie un fondamentale elemento antropologico. Se non ci si accontenta di uccidere, ma s’infierisce contro il corpo morto, anzi esponendone la carne straziata si solennizza il proprio accanimento, questo avviene perché si conserva la coscienza profonda del primitivo sentire che l’altro che ci aggredisce o che noi aggrediamo è corpo, corpo di uomo, ed è il suo corpo che deve essere distrutto. Il corpo di un qualsiasi animale come di qualsiasi cosa naturale, è "a disposizione", è di tutti; poi, nelle costruzioni sociali storiche, diventa esclusivo possesso di qualcuno, si privatizza secondo le regole sociali che storicamente organizzano la disuguaglianza, come ebbe l’audacia intellettuale di proclamare Rousseau. Ma il corpo umano non è "a disposizione", né può essere di alcuno. Esso è destinato dalla sua capacità relazionale a sviluppare una funzione autointerpretante e autoreferenziale che viene identificata con il nome "io". Ogni corpo d’uomo, se è di qualcuno, lo è soltanto del proprio io, così come l’io non è che una funzione del corpo. Il corpo pensante è auto-appartenenza. Il cosiddetto soggetto non è il mero corpo né il puro io, ma l’inarrestabile unità dinamica di corpo e io. Il corpo e il suo io sono una sola cosa, inseparabili. Il corpo è io e l’io è corpo. Il corpo ha la inviolabile sovranità su di sé. Un corpo d’uomo non è di nessuno, né della società né dello Stato né di alcun altro potere, ma si auto-appartiene ed, esprimendosi nell’io, è centro assoluto: perciò non può legittimamente essere torturato o messo a morte da nessun potere comunque costituito. Uccidere un uomo, anche il più malvagio o il più miserabile, è un regicidio. Perciò neanche il regicida può essere legittimamente messo a morte. I corpi di animali in genere meritano relativa pietà. Il corpo umano esige assoluto rispetto. È evidente che, se ogni corpo d’uomo è il sovrano di sé, è il suo re, nessuno può pretendere dì essere sovrano di altri uomini. Se nel mondo qualcuno ancora c’è istituzionalmente sovrano d’altri, contestarlo è un diritto, anzi un dovere. È ciò che nell’entusiasmo dei suoi diciassette anni, trascinato dalle caduche speranze della "primavera araba", insieme con molti altri osò pacificamente fare Alì Mohammed, suddito dell’Arabia saudita. Per questa "colpa", commessa da lui minorenne, da anni giace torturato in un carcere e alla fine lo attende l’atroce supplizio per mano del boia. Il vilipendio del suo corpo che, decapitato e poi crocifisso, sarà esposto al pubblico ludibrio denuncia come nel corpo di ogni suddito il potere assoluto veda l’estrema minaccia della rivolta contro la sua pretesa di sottometterlo. Battersi in tutti i possibili modi per la salvezza del malcapitato ragazzo Ali è non solo impulso di compassione ma anche ragionata rivendicazione dell’assoluta dignità di ogni corpo di uomo. Brasile: caso Pizzolato. Ministro Orlando "non credo a soluzione diversa da estradizione" Ansa, 6 ottobre 2015 "Bisogna affrontare la questione per quanto riguarda le modalità di consegna e analizzare il procedimento aperto. Ma non penso ci siano le condizioni per una soluzione diversa". È quanto ha detto il ministro della Giustizia Andrea Orlando interpellato in merito all’estradizione in Brasile di Henrique Pizzolato, ex banchiere italo-brasiliano condannato in Brasile per il giro di tangenti "Menselao", la tangentopoli scoppiata nel Paese sudamericano nel 2005 e catturato in Italia, a Maranello, dove fuggì. Lo scorso aprile il ministero della Giustizia aveva dato il suo assenso all’estradizione in Brasile, poi oggetto di una serie di ricorsi. L’ultima decisione è arrivata pochi giorni fa dal Consiglio di Stato, che ha respinto l’istanza di Pizzolato e ha dato il via libera all’estrazione. Contro il suo trasferimento in un carcere brasiliano si è ripetutamente espresso, anche in questi giorni, il senatore Luigi Manconi, presidente della commissione Diritti umani, che ha presentato a Orlando una interrogazione urgente. Guerra e Manconi(Pd): interrogazione urgente a ministro "Poche ore fa abbiamo presentato un’interrogazione urgente al ministro della Giustizia a proposito della vicende di Henrique Pizzolato. Il cittadino italo-brasiliano, detenuto nel carcere di Modena rischia di essere estradato entro brevissimo tempo in Brasile, dove lo attendono una condanna a oltre dodici anni e gravi rischi per la sua stessa incolumità". Lo segnalano in una nota i senatori Pd Cecilia Guerra e Luigi Manconi. "L’estradizione di una persona titolare della cittadinanza italiana - proseguono - è consentita dal fatto che il Brasile non ha ancora firmato il trattato, sottoscritto dall’Italia, che permetterebbe a Pizzolato di scontare la sua pena in un carcere italiano. Oltre tutto, il prossimo 14 dicembre, è prevista la prima udienza di un procedimento giudiziario che vede imputato Pizzolato, il quale, se estradato, vedrebbe gravemente compromesso il proprio diritto costituzionale alla difesa". In ogni caso, continuano i senatori, "troviamo singolari tanto zelo e tanta precipitazione, considerato che si tratta di una vicenda assai delicata, dove sono a rischio i diritti fondamentali della persona; che le condizioni della carceri brasiliane sono state oggetto di gravissime denunce da parte di tutte le organizzazioni umanitarie; e, che, in fine, le garanzie fornite dalle autorità brasiliane possono valere, al più, per un periodo limitato della detenzione di Pizzolato in Brasile. Perché dunque questa estradizione adottata con motivazioni controverse e con qualche indubbia forzatura? Quali pressioni ha subito e subisce il governo italiano?". Afghanistan: Msf "sì, è stato un crimine di guerra, ora serve un’inchiesta indipendente" di Giuliano Battiston Il Manifesto, 6 ottobre 2015 Dopo la strage Medici senza frontiere lascia Kunduz: "Disgustati dalle parole del governo di Kabul". Un vero e proprio crimine di guerra. Non un "effetto collaterale". Per Medici senza frontiere (Msf) l’attacco aereo statunitense che nelle prime ore di sabato ha colpito il centro traumatologico di Kunduz, nel nord dell’Afghanistan, provocando 23 vittime civili è una chiara violazione del diritto internazionale. "Con il fondato sospetto che sia stato commesso un crimine di guerra, Msf chiede che sull’evento venga condotta un’inchiesta completa e trasparente da parte di un ente indipendente internazionale". Così ha dichiarato ieri Christopher Stokes, direttore generale dell’organizzazione non governativa. Per Stokes, "affidarsi soltanto a un’inchiesta condotta da uno degli attori del conflitto sarebbe del tutto insufficiente". Una risposta indiretta al presidente statunitense Barack Obama, che ha assicurato che le autorità militari a stelle e strisce condurranno, nei tempi necessari, un’inchiesta sull’accaduto. E ancora di più al segretario alla Difesa Usa Ashton Carter che ha confermato che è già stata avviata un’inchiesta congiunta della Nato, degli Stati Uniti e della controparte afghana. Carter ha messo le mani avanti: "Lì la situazione è confusa e complicata, potrebbe volerci del tempo per conoscere i fatti, ma li conosceremo e li condivideremo in modo completo e trasparente". Medici senza frontiere, evidentemente, non si fida. Anche perché sui fatti si discute già. Nei giorni scorsi alcuni esponenti del governo di Kabul avevano dichiarato che all’interno della struttura di Msf si sarebbero nascosti dei Talebani. Una tesi ribadita dal governatore in pectore della provincia di Kunduz, Hamidullah Danishi. "Il campus dell’ospedale era usato al 100% dai Talebani", ha detto Danishi citato ieri dal New York Times. "L’ospedale ha un ampio giardino e i Talebani erano lì. Abbiamo tollerato i loro spari per qualche tempo", ha aggiunto. Una tesi che non regge affatto, secondo Msf. "Siamo disgustati dalle recenti dichiarazioni provenienti da qualche autorità governativa afghana per giustificare l’attacco sul nostro ospedale di Kunduz. Queste dichiarazioni - recita un comunicato - implicano che le forze afghane e americane abbiano deciso insieme di radere al suolo un ospedale completamente funzionante - con più di 180 persone tra membri dello staff e pazienti - perché sostenevano che ci fossero dei Talebani". Per Msf si tratta dell’"ammissione di un crimine di guerra". Senza giustificazioni: "nessun membro del nostro staff ha registrato alcun combattimento dentro il compound dell’ospedale, prima dell’attacco aereo americano". E sulle ragioni dell’attacco ieri è intervenuto anche il generale Campbell, a capo delle forze Usa in Afghanistan, che in una conferenza stampa al Pentagono - farcita di "no comment" e di "investigheremo" - ha provato a scaricare la responsabilità sugli afghani: "ci hanno chiesto di intervenire le forze di sicurezza afghane, finite sotto il fuoco nemico". Quasi a lavarsene le mani. Sui risultati dell’inchiesta e sulla ricostruzione dei fatti, dunque, ci sarà battaglia. Ma rimangono i fatti. E le salme delle vittime: 23. Tredici tra medici e dipendenti dell’organizzazione, 10 tra i pazienti, tra cui tre bambini. Trentasette i feriti, anche gravi, di cui 19 fanno parte dello staff di Medici senza frontiere, che nel frattempo ha evacuato il proprio personale e chiuso la struttura sanitaria di Kunduz, devastata dai raid americani. Intanto emergono altri dettagli sull’attacco aereo. Lajos Zoltan Jecs, infermiere di Medici senza frontiere, è un testimone. Nella notte tra venerdì e sabato scorso si trovava nella cosiddetta "stanza di sicurezza", esterna rispetto all’edificio che ospita il centro traumatologico. Ha raccontato di essere stato svegliato intorno alle 2 del mattino di sabato da una forte esplosione, di essere stato chiamato da un collega ferito, di aver cercato i sopravvissuti. Qualcuno aveva già raggiunto le camere di sicurezza, altri cominciavano a riemergere dalle macerie, feriti. Quando si è affacciato per guardare all’interno di uno degli edifici in fiamme - ha raccontato - ha trovato una situazione indescrivibile: "Nell’unità di terapia intensiva 6 pazienti stavano bruciando nei loro letti". "Un paziente era sul tavolo operatorio, morto, nel mezzo della distruzione". Poi il controllo degli altri edifici. Il tentativo di salvare i feriti. "Abbiamo effettuato un intervento di chirurgia urgente per uno dei nostri dottori". Non è stato sufficiente. "Sfortunatamente è morto sul tavolo operatorio". "Abbiamo visto i nostri colleghi morire". Per Lajos Zoltan Jecs il bombardamento è "del tutto inaccettabile". Incomprensibile. "Come può essere accaduto?".