L’appello per il direttore della Casa di Reclusione di Padova, Salvatore Pirruccio Il Mattino di Padova, 5 ottobre 2015 Raccolta di firme contro la decisione del ministero di sollevare dal suo incarico un direttore considerato capace di trasformare il carcere di Padova in un penitenziario-modello. "Salvatore Pirruccio non è più al suo posto, a dirigere la Casa di reclusione di Padova, un carcere complesso, ma vivo, innovativo, "umano", un carcere che per molti aspetti può essere portato ad esempio di come la pena deve essere scontata in modo dignitoso e civile, se vogliamo davvero che la società sia più sicura. La lettera aperta che segue, noi che da anni operiamo all’interno di questo istituto a vario titolo la vogliamo indirizzare proprio alla società, che chiede giustamente più sicurezza. Ma vogliamo anche chiedere al Ministro della Giustizia Andrea Orlando, che ha da poco istituito gli Stati Generali dell’esecuzione della pena per dar vita a "un nuovo modello di esecuzione penale e una migliore fisionomia del carcere, più dignitosa per chi vi lavora e per chi vi è ristretto": Perché? perché è stato "rimosso" un direttore che dirige uno dei pochi carceri che già in buona parte rispondono a questo modello? A chi conosce e apprezza gli importanti risultati del lavoro di Salvatore Pirruccio alla guida della Casa di reclusione di Padova chiediamo di sottoscrivere l’appello che segue. Un direttore che rispetta la Costituzione: meglio "promuoverlo per rimuoverlo"? È un vizio del nostro Paese, questo, che non riguarda solo le carceri: se qualcosa funziona, rischia di suscitare più il fastidio che l’entusiasmo. Perché mette in luce ancora di più tutte le situazioni analoghe che invece non funzionano. In carcere poi questo succede spesso perché le cose che non funzionano sono tante, sono molte di più di quelle che funzionano. La Casa di reclusione di Padova, con tutti i suoi non pochi problemi, però funziona, e funziona bene per lo meno per il numero di detenuti che dovrebbero esserci se non ci fosse ancora in parte il sovraffollamento. È un carcere, dove si sperimentano forme di pena "dignitose e sensate". Qualche esempio? L’umanizzazione vera dei rapporti delle persone detenute con le famiglie, attraverso due telefonate al mese in più per tutti, la possibilità di chiamare indistintamente i telefoni fissi e cellulari autorizzati, l’uso di Skype per i colloqui, se le famiglie sono troppo lontane. E ancora, la redazione di Ristretti Orizzonti, la sperimentazione del confronto vero con la società grazie a un progetto che porta in carcere ogni anno migliaia di studenti; il coinvolgimento dei circuiti di Alta Sicurezza nelle attività; il lavoro, grazie alle cooperative sociali Giotto, Altra Città, Volontà di Sapere, Work Crossing che sperimentano, investono, accettano la sfida di produrre con qualità in un luogo considerato senza qualità per definizione; la scuola, l’istituto Parini di Camposampiero e l’Istituto Einaudi-Gramsci di Padova e un Polo Universitario che hanno permesso a tanti detenuti di completare gli studi e dare così una svolta alla propria vita; un volontariato attivo sia in carcere che nell’accoglienza sul territorio, a partire dallo "storico" Gruppo Operatori Carcerari fino a Telefono azzurro che assiste bambini e famiglie delle persone detenute durante i colloqui e, in ultimo, lo sport con una squadra, la ASD Polisportiva Pallalpiede, che partecipa al campionato di terza categoria della FIGC-LND. Tutto questo può accadere perché le persone GIUSTE si sono incontrate, persone che avevano voglia di ridurre il più possibile i danni prodotti da un carcere solo punitivo, e con loro un direttore che non fa miracoli, ma fa semplicemente il suo mestiere con sano buon senso. Cioè non crea ostacoli a tutti quelli che hanno voglia di far funzionare il carcere non come una galera, ma come un luogo di espiazione della pena dove la vita dovrebbe assomigliare il più possibile alla vita vera. Un direttore che con umiltà, senza apparire, ha saputo assumersi tutte le sue responsabilità e fare scelte coraggiose, anche se in molti casi non sostenuto adeguatamente. Il Ministro ha recentemente affermato che bisogna decentrare, quindi spostare personale qualificato verso le carceri, è lì, in frontiera, che va rafforzata la presenza di persone capaci di sperimentare strade nuove per risolvere i problemi e rendere più umane delle carceri che oggi di umano hanno ancora poco. E invece cosa stanno facendo? Stanno parcheggiando in un Provveditorato un direttore, che ha gestito in questi anni egregiamente un carcere, dove non c’è da vergognarsi a portare in visita ospiti da altri Paesi. I problemi sicuramente ci sono, e non pochi, per la semplice ragione che dove si mettono in campo tantissime iniziative impegnative e innovative, si possono anche fare degli errori, dove invece non si fa nulla e c’è il deserto, lì è facile mantenere un ordine apparentemente perfetto. A Padova è successo che alcuni agenti siano stati coinvolti in traffici di cellulari e droga, succede spesso che dove c’è gente privata della libertà ci sia anche chi se ne serve per i suoi traffici, una piccola parte di società marcia dentro e fuori dal carcere, a fronte di tante persone che il loro lavoro invece lo fanno con umanità e responsabilità. C’è stata una inchiesta, e ci sono state le prime condanne, ma questo cosa ha a che fare con il destino di un direttore stimato e attento a gestire il suo carcere in modo civile, umano, aperto alla società? Niente, vorremmo dire, e invece purtroppo c’entra eccome: perché in giro per l’Italia di carceri che non rispettano la Costituzione, che non permettono di scontare la pena in modo costruttivo ce ne sono tante, e i loro direttori sono saldi al loro posto da anni, e nessuno va a vedere se e come viene rispettata la legge, se e come al loro interno le persone detenute scontano la pena in modo "rabbioso", o piuttosto in modo sensato e dignitoso, l’unico che consente davvero di prendere coscienza delle proprie responsabilità. E invece il direttore della Casa di reclusione di Padova è stato "rimosso" e mandato al Provveditorato dell’Amministrazione penitenziaria. Il personale, gli operatori, i volontari che in questi anni hanno messo l’anima, a fianco di questo direttore, per rendere il carcere più umano hanno oggi l’impressione che impegnarsi, assumersi delle responsabilità non serve a niente, non solo perché sei trattato come chi si imbosca e di responsabilità non se ne assume proprio, ma anche perché, esponendoti, rischi di essere emarginato. Noi tutti, che operiamo nella Casa di reclusione di Padova, non abbiamo voglia di discorsi di circostanza: l’unica cosa che per noi avrebbe un senso è che ci restituissero Salvatore Pirruccio, il direttore che abbiamo imparato ad apprezzare. Dicono che la decisione è stata presa, e nessuno tornerà indietro, ma noi diciamo che le Istituzioni, quando sono capaci di ammettere di aver fatto una scelta sbagliata, danno una prova di forza se sanno tornare indietro. In questi mesi sono in corso gli Stati Generali dell’esecuzione della pena, che il Ministro ha voluto per avviare "un ampio e approfondito confronto che dovrà portare concretamente a definire un nuovo modello di esecuzione penale e una migliore fisionomia del carcere, più dignitosa per chi vi lavora e per chi vi è ristretto". Al Ministro allora chiediamo: che senso ha rimuovere un direttore che per molti versi questo modello già lo sta sperimentando con successo? Per questo chiediamo una cosa semplicissima: che il direttore completi la sua carriera nel carcere che ha contribuito a trasformare in un laboratorio, dove le persone la loro condanna la scontano nello spirito della Costituzione. Redazione di Ristretti Orizzonti Don Marco Pozza, Parroco carcere Due Palazzi, Diocesi di Padova Giotto Cooperativa Sociale AltraCittà Cooperativa sociale Volontà di Sapere Cooperativa Sociale Work Crossing Cooperativa Sociale Gruppo Operatori Carcerari Volontari I docenti della sezione carceraria dell’Istituto Einaudi-Gramsci Associazione Granello di Senape Padova Associazione Antigone (sezione Veneto) Teatrocarcere Due Palazzi/BelTeatro Telefono Azzurro ASD Polisportiva Pallalpiede Nairi Onlus Fabio Schiavon e Giuseppe Faccini, Catechisti Giustizia: cosa resta della politica se la tv diventa il nemico di Ilvo Diamanti La Repubblica, 5 ottobre 2015 Lo scontro tra leader e giornalisti in Italia si infiamma quando i protagonisti sono il centro-sinistra e i programmi di Rai 3. Fino a far evocare "l’editto bulgaro". Ma è difficile assimilare Renzi a Berlusconi. La polemica tra leader politici e giornalisti tv è una costante in Italia, da almeno un paio di decenni. Ma il discorso cambia quando le tensioni si accendono fra esponenti di centro-sinistra e programmi di Rai 3. La rete "amica". Storicamente. Così, i dissensi espressi dal premier contro il Tg3 e, anzitutto, contro Ballarò, il talk "politico" del martedì, hanno suscitato sorpresa e molte critiche. Intimidazioni all’autonomia e alla libertà dell’informazione. Tanto che si è parlato di "editto bulgaro". Echeggiando le dichiarazioni di Silvio Berlusconi - al tempo capo del governo - pronunciate a Sofia, nel 2002, contro Michele Santoro, Enzo Biagi e Daniele Luttazzi. Puntualmente allontanati dalla Rai. Tuttavia, è difficile assimilare Renzi a Berlusconi. Nonostante le analogie. Perché Renzi non è affetto né afflitto dal conflitto di interessi. Non è proprietario dell’azienda concorrente della Rai. Non può trarre vantaggi economici e di affari dalle sorti delle reti radiotelevisive pubbliche. Peraltro, mi riesce difficile anche vedere i vantaggi politici di questa iniziativa. Perché non solo il Tg3, ma, soprattutto, Ballarò ora appaiono più forti. Ballarò, in particolare. Subisce, da oltre un anno, la crisi che investe tutti i talk politici. "Affaticati" dalla moltiplicazione di programmi analoghi, a ogni ora del giorno, in ogni rete. Penalizzati dal deteriorarsi del "contenuto e dei protagonisti della politica italiana": i partiti e i politici. Ballarò, per questo, ha continuato a perdere ascolti. Non solo per la concorrenza, su La7, del clone guidato dal suo storico conduttore, Giovanni Floris. Ma, come si è detto, per l’esaurirsi di un format. L’intervento di Renzi e di alcuni parlamentari a lui vicini, come Michele Anzaldi, rischia però di produrre un esito opposto alle intenzioni. Perché adesso sarà difficile "metter mano" su Ballarò e sui programmi di informazione di Rai 3 senza evocare editti bulgari. Senza riesumare i fantasmi della censura. L’ombra del Cavaliere. Risulta difficile, per questo, sovrapporre l’immagine di Renzi a quella di Berlusconi. Per la stessa ragione, è difficile scacciare questo accostamento. Non per ragioni polemiche. Matteo Renzi: non è il "Cavaliere mascherato". Ma è indubbio che sia, anzi è, un leader post-berlusconiano. Come, peraltro, lo sono tutti i leader e tutti i partiti "dopo" Berlusconi. Perché, lo sappiamo, "dopo" Berlusconi la politica è cambiata. Meglio: era già cambiata da tempo. Ma la sua discesa in campo ha impresso un’accelerazione evidente a questa trasformazione. I partiti si sono personalizzati. E, allo stesso tempo, hanno progressivamente abbandonato la società e il territorio. Sostituiti dai media. E, in particolare, dalla televisione. In misura crescente, ma ancora più limitata, dalla rete. Rammentiamo, a questo proposito, i dati dell’ultimo sondaggio di Demos-Coop, dedicato al rapporto fra "Gli italiani e l’informazione" (novembre 2014). L’indagine, infatti, rileva come oltre l’80% degli italiani, per informarsi, utilizzi quotidianamente la televisione. Mentre quasi il 50% ricorre a Internet (10 punti in più rispetto al 2012). Molto minore è, invece, l’accesso ad altri media. Radio (39%) e quotidiani (24%), in particolare. Se, però, ci concentriamo sul pubblico dei talk, la specificità di Ballarò risulta molto chiara. Un anno fa, almeno, (e non c’è motivo di credere che l’orientamento, da allora, sia mutato) la trasmissione condotta da Giannini riscuoteva il gradimento del 55% della base del Pd. Era, inoltre, apprezzata da circa il 60% tra gli elettori di sinistra. In altri termini: per quanto in declino di ascolti, Ballarò costituisce (o almeno costituiva) un riferimento attendibile e credibile per la maggioranza degli elettori del Pd. E soprattutto per le componenti di sinistra. Così si spiega la "sensibilità reattiva" di Renzi e del suo Pd, il PdR, nei confronti dei programmi di informazione e dei talk politici della Terza rete. Al Premier, infatti, come ha ben sottolineato ieri Eugenio Scalfari, "piace piacere". A tutti. Ma, soprattutto, alla base elettorale del suo partito. Per la stessa ragione, è attento ai luoghi dove si forma l’opinione ostile alla sua politica. Soprattutto nel suo partito. Perché l’opposizione più insidiosa al PdR, in questa fase, proviene dalle fila del Pd senza la R. Così Renzi - e gli esponenti che gli sono più vicini - criticano le reti e i talk televisivi perché lì si è trasferita la politica. Inseguendo, si dice, il "modello americano" del partito "elettorale". Ma negli Usa si vota spesso, per selezionare i candidati ed eleggere diverse cariche. E i partiti - non ideologici, né burocratici - in campagna elettorale riescono a coinvolgere molti volontari, che fanno "porta a porta". Mentre in Italia i leader vanno in Tv, a "Porta a porta", per farsi intervistare da Bruno Vespa. Negli Usa, inoltre, i partiti elaborano mappe aggiornate delle principali città, con gli orientamenti elettorali precisati quartiere per quartiere, strada per strada. Un "controllo politico" sulla società e sul territorio che, in Italia, avveniva solo al tempo dei partiti di massa. Ma oggi, in Italia, non c’è più religione politica. Il che è meglio. Ma c’è anche poca politica. Dopo Berlusconi, nell’epoca del post-berlusconismo, sono scesi in campo i "post-partiti" (evocati dal titolo di un recente saggio di Paolo Mancini, per il Mulino), guidati da leader post-politici. Abili e visibili in Tv. E sulla Rete. Come Matteo Renzi. Leader del Post-Pd. Oltre Berlusconi, per tecnologia e stile di comunicazione. Così, chi crede ancora nella politica come luogo di partecipazione sociale e di organizzazione del territorio, oltre che di decisione pubblica, oggi rischia di scoprirsi fuori luogo e fuori tempo. A-topico e A-cronico. Ma è un rischio che, forse, vale la pena di affrontare. Giustizia: progetto "Ferranti", la riforma del processo penale si gioca sulle deleghe di Alberto Cisterna Il Sole 24 Ore, 5 ottobre 2015 La Camera, non senza dure polemiche, ha approvato il Ddl Ferranti ora all’esame del Senato. Un atto complesso che, con i suoi 33 articoli, si propone di mettere mano al processo penale, al codice penale e all’ordinamento penitenziario. Dentro, tra l’altro, ben cinque deleghe legislative al Governo: a) per la riforma del regime di procedibilità per taluni reati, per la revisione delle misure di sicurezza e per il riordino di alcuni settori del codice penale (articolo 7); b) per la revisione della disciplina del casellario giudiziale (articolo 8); c) per l’adozione di norme di attuazione, di coordinamento e transitorie nelle citate materie (articolo 9); d) per la riforma del processo penale (in realtà, soprattutto, le sole intercettazioni) e dell’ordinamento penitenziario (articolo 29); e) per l’adozione di norme di attuazione, di coordinamento e transitorie in queste materie (articolo 32) con tanto di possibilità di adottare entro un anno disposizioni correttive e integrative (articolo 33). Le finalità del disegno di legge e gli interessi in gioco - Insomma, alla fine del percorso, è lecito attendersi il conio di alcune centinaia di nuove norme che dovrebbero, nell’intento della maggioranza parlamentare e del Governo, "recuperare il processo penale ad una durata ragionevole" e di garantire il "rafforzamento delle garanzie dei diritti, specialmente dell’imputato". Attesa l’ampiezza della manovra normativa era lecito attendersi un dibattito molto approfondito e un’attenzione alta degli operatori giudiziari non insterilita (e sterilizzata) dalle solite polemiche sulle intercettazioni e il diritto di cronaca. Un binomio ormai inscindibile che la dice lunga sul ganglio di interessi che sono messi in discussione dalla modifica del regime delle captazioni, ma che nulla ha a che vedere con i diritti dei cittadini coinvolti, nel 99% dei casi, in procedimenti nei quali non vengono disposte intercettazioni e, nel 99,99% dei casi, in vicende che non interessano le cronache mediatiche. Il regime dell’archiviazione e la durata delle indagini preliminari (articolo 11), le modifiche in materia di riti speciali, udienza preliminare, istruzione dibattimentale e struttura della sentenza di merito (capo II) e, soprattutto, la cosiddetta "semplificazione delle impugnazioni" (capo III) potrebbero avere un’incidenza notevole sull’assetto della giustizia penale in cui - sempre più e del tutto inopinatamente - acquisiscono margini di rilevanza assetti organizzativi (articolo 11), burocratici (articolo 25) e disciplinari (articoli 12 e 27) che non hanno alcuna diretta incidenza sul gradiente di tutela delle parti private. Quasi che si possano risolvere i problemi drammatici del giusto processo con protocolli "in house" oscillanti tra la responsabilità civile e quella disciplinare del singolo magistrato, senza alcun coinvolgimento degli altri protagonisti del processo sugli assetti della giurisdizione e sulla organizzazione degli uffici. Da questo punto di vista, purtroppo, anche questo disegno di legge muove dalla considerazione del cittadino quale mero utente della giustizia i cui apparati devono al più presto sbrogliare l’affaire in una logica aziendalistica che sta erodendo il prestigio finanche dei più alti consessi giurisdizionali. Il contenuto delle deleghe e i possibili risvolti. Com’è dato a tutta prima rilevare il "nocciolo" del provvedimento si concentra sulle deleghe e sui criteri e principi cui si devono uniformare. Le modifiche sul versante dell’ordinamento penitenziario e delle misure di sicurezza puntano espressamente a "una diversa regolazione degli equilibri tra le opposte istanze di finalità rieducativa della pena e di sicurezza sociale" incidendo sulle garanzie locutorie che vengono, sostanzialmente, contratte al fine di rendere più celeri le pronunce della magistratura di sorveglianza. Così, ad esempio, l’articolo 31, comma 1, lettera a) prevede che la delega debba perseguire la "semplificazione delle procedure, anche con la previsione del contraddittorio differito ed eventuale, per le decisioni di competenza del magistrato e del tribunale di sorveglianza, fatta eccezione per quelle relative alla revoca delle misure alternative alla detenzione". Mentre la successiva lettera b) autorizza una dilatazione considerevole delle misure alternative stabilendo la "revisione delle modalità e dei presupposti di accesso alle misure alternative, sia con riferimento ai presupposti soggettivi (soggetti recidivi in primo luogo, N.d.e.) sia con riferimento ai limiti di pena, al fine di facilitare il ricorso alle stesse, salvo i casi di eccezionale gravità e pericolosità e in particolare per le condanne per i delitti di mafia e terrorismo anche internazionale". Addirittura "rivoluzionario" l’articolo 7 che, dopo qualche secolo di scienza penalistica, demanda al Governo la "revisione della disciplina delle misure di sicurezza, particolarmente in relazione ai presupposti di applicazione, al fine della rivisitazione del regime del cosiddetto "doppio binario", che prevede l’applicazione congiunta di pena e misure di sicurezza, nella prospettiva del minor sacrificio possibile della libertà personale, fatta salva la necessità in casi particolari della migliore tutela della collettività". Tra i presupposti di applicazione, com’è noto, rientra la pericolosità sociale del soggetto la quale, a sua volta, è presa in esame dal settore delle misure di prevenzione personale regolate dal Codice antimafia. C’è da augurarsi che, nell’esercizio della delega, questo profilo sia preso in considerazione al fine di evitare l’inevitabile contaminazione dal settore delle misure di sicurezza a quello delle misure di prevenzione, già in fibrillazione su questo versante alla luce dell’introduzione dell’actio in rem e della necessità di upgrading concettuale di una categoria rimasta priva di un adeguamento ai mutati scenari della minaccia criminale. Gli inasprimenti sanzionatori. Anche questa legislatura non si è fatta mancare una concessione alle politiche securitarie. L’inasprimento delle pene per il delitto di cui all’articolo 416-ter del Cp in materia di scambio elettorale politico-mafioso (reato sostanzialmente abrogato dalla novella 62/2014) con la (quasi) equiparazione alla condotta di partecipazione ex articolo 416-bis del Cp (il mimino è sei anni anziché sette) (articolo 3 del Ddl); le modifiche all’articolo 624-bis del Cp in materia di furto in abitazione e furto con strappo con l’innalzamento della pena pecuniaria e del minimo della reclusione da uno a tre anni e, nell’ipotesi aggravata del terzo comma, da tre a quattro anni e della multa; il nuovo giudizio di bilanciamento secondo cui, per questi reati, "Le circostanze attenuanti, diverse da quelle previste dagli articoli 98 e 625-bis, concorrenti con una o più delle circostanze aggravanti di cui all’articolo 625, non possono essere ritenute equivalenti o prevalenti rispetto a queste e le diminuzioni di pena si operano sulla quantità della stessa risultante dall’aumento conseguente alle predette circostanze aggravanti" (articolo 4); la modifica all’articolo 625 del Cp in materia di circostanze aggravanti del delitto di furto con ulteriori inasprimenti della multa e dei minimi edittali (articolo 5); e, infine, le modifiche all’articolo 628 del Cp in materia di rapina con il minimo portato da tre a quattro anni, nell’ipotesi semplice, e da quattro anni e sei mesi a cinque anni nelle ipotesi del terzo comma con una nuova regola di computo delle circostanze ("Se concorrono due o più delle circostanze di cui al terzo comma del presente articolo, ovvero se una di tali circostanze concorre con altra fra quelle indicate nell’articolo 61, la pena è della reclusione da sei a venti anni e della multa da euro 1.538 a euro 3.098") (articolo 6) sono di certo insufficienti a svolgere una reale funzione dissuasiva e di prevenzione per questi reati di grande allarme sociale. Un altro cluster di modifica riguarda l’articolo 610 del Cp dove si prevede, per il delitto di violenza privata, la punibilità a querela della persona e la si confina alla procedibilità d’ufficio alle sole ipotesi aggravate del comma 2. Con l’eccezione, quanto alla procedibilità, che "si procede in ogni caso d’ufficio se il fatto è commesso a danno di minore o di persona in stato di infermità o deficienza psichica. Si procede d’ufficio altresì se ricorrono circostanze aggravanti ad effetto speciale". Parimenti si intende incidere sul reato di minaccia a protezione delle fasce sociali più deboli stabilendosi, all’articolo 612 comma 2, che "… la minaccia è grave, o è fatta in uno dei modi indicati nell’articolo 339 o se è commessa a danno di minore o di persona in stato di infermità o deficienza psichica o se ricorrono circostanze aggravanti ad effetto speciale" con un ampliamento delle ipotesi in cui la minaccia deve presumersi "grave" ai fini dell’ipotesi più severamente punita (articolo 7). La spinosa questione delle intercettazioni. Costituisce, come detto, uno dei terreni di maggiore fibrillazione. La delega, effettivamente, consegna al Governo margini abbastanza ampi di manovra e, se si eccettua il reato di divulgazione abusiva delle captazioni fraudolente (si veda altro articolo), non individua paletti rigidi entro cui dovrà esercitarsi la legislazione secondaria (articolo 30). I princìpi e i criteri direttivi per la riforma del settore mirano, con piena consapevolezza e con intento esplicito, a garantire "la riservatezza delle comunicazioni e delle conversazioni telefoniche e telematiche oggetto di intercettazione, in conformità all’articolo 15 della Costituzione, attraverso prescrizioni che incidano anche sulle modalità di utilizzazione cautelare dei risultati delle captazioni e che diano una precisa scansione procedimentale per la selezione di materiale intercettativo nel rispetto del contraddittorio tra le parti e fatte salve le esigenze di indagine, avendo speciale riguardo alla tutela della riservatezza delle comunicazioni e delle conversazioni delle persone occasionalmente coinvolte nel procedimento, in particolare dei difensori nei colloqui con l’assistito, e delle comunicazioni comunque non rilevanti a fini di giustizia penale". Due brevi chiose: la questione delle precauzioni nell’uso delle conversazioni intercettate viene circoscritta alla fase cautelare nella consapevolezza che è in quel momento che il materiale viene utilizzato dalla stampa e messo in circolazione presso la pubblica opinione. Par chiaro che ogni soluzione dovrà necessariamente prevedere una sorta di "principio del minor danno" con la trascrizione nei provvedimenti giudiziali e nelle informative di polizie delle sole conversazioni strettamente necessarie ai fini propri dell’atto (richiesta o ordinanza applicativa di misura in genere). Significativo, poi, il riferimento ai colloqui con i difensori, tenuto conto che la disciplina dell’articolo 103 del Cpp (anche in ragione di alcuni pronunciamenti di legittimità talvolta opinabili e di soluzioni pretorie in alcune parti, quanto meno, praeter legem) si è rivelato inidoneo a tutelare il fondamentale diritto alla totale segretezza delle conversazioni tra l’indagato e il proprio avvocato. Mette conto evidenziare, invece, che la delega prevede "la semplificazione delle condizioni per l’impiego delle intercettazioni delle conversazioni e delle comunicazioni telefoniche e telematiche nei procedimenti per i più gravi reati dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione". La formula c’è da augurarsi sia solo apparentemente anodina. Più che "impiego", termine che rinvia all’articolo 270 del Cpp, è corretto ritenere si tratti della più agevole possibilità di "disporre" le intercettazione in questi casi con le stesse modalità previste per i delitti di criminalità organizzata dall’articolo 13 del Dl 152/1991. Si tratta di una soluzione a lungo auspicata dagli inquirenti che, ovviamente, tiene conto dell’estremo allarme sociale che questi delitti suscitano e della loro sostanziale equiparazione, sotto il profilo del danno e del pericolo per le istituzioni, alle mafie tradizionali. Ulteriori passi della delega riguardano i poteri di impugnazione dei pubblici ministeri di primo e secondo grado (articolo 30, lettera e e f) e la ricorribilità per cassazione soltanto per violazione di legge delle sentenze emesse in grado di appello nei procedimenti per i reati di competenza del giudice (lettera d). Dal primo angolo visuale davvero notevole la previsione della legittimazione del Pm ad appellare la sentenza di condanna solo quando abbia modificato il titolo del reato o abbia escluso la sussistenza di una circostanza aggravante a effetto speciale o che stabilisca una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato, sulla falsariga di quanto accade per il giudizio abbreviato. Giustizia: come battere la ‘ndrangheta che sa unire mitra e tulipani di Lionello Mancini Il Sole 24 Ore, 5 ottobre 2015 Inquieta - ma offre anche utili spunti - l’ultima operazione contro la ‘ndrangheta, condotta dalle Procure di Roma e Reggio Calabria coordinate dalla Direzione nazionale antimafia (Dna) ed eseguita da Polizia, Carabinieri, forze dell’ordine olandesi. I fatti meritano qualche dettaglio per le loro peculiarità, inedite anche per gli investigatori più navigati. Il 28 settembre, le Procure di Reggio e di Roma, coordinate dalla Dna, hanno disposto 54 fermi all’esito di due distinte operazioni, dopo lunghe indagini sulle famiglie dei Commisso di Siderno (RC), con proiezioni in Canada e Olanda, e dei Coluccio di Marina di Gioiosa Jonica (RC). Questi ultimi, sarebbero diventati "riferimento della mafia per il traffico della marijuana": una diversificazione significativa, rispetto al consueto smercio di cocaina. Quanto ai Commisso, è stato trovato il loro arsenale a disposizione - ha precisato il Pm reggino Nicola Gratteri - di "un esercito di 500 killer". Ma le stesse cosche facevano affari anche con i tulipani ("una delle figure di spicco è titolare di società di import-export di fiori anche in Olanda, nelle quali veniva investito il denaro da riciclare") e pure con la cioccolata, avendo fatto rubare con vari escamotage circa 250 tonnellate di prodotti Lindt (valore: 7,5 milioni). Come? "La Inge. Ma Trading di Lodi si occupa di stoccare e preparare i prodotti Lindt per i mercati di Polonia, Austria e Svezia. Nella ditta lodigiana, i dipendenti (assunti irregolarmente), sottraevano dai colli vari chili di cioccolata, riempiendone altri con scatole marchiate Lindt ed etichette falsificate". Cosa indica questo intenso lavorio tra marijuana, mitra, cioccolatini e tulipani? "La grande flessibilità della ‘ndrangheta nell’adattarsi al mercato, addirittura prevedendone i segmenti più promettenti", ha spiegato il capo della Dda di Roma, Michele Prestipino. Non servono molte altre parole per chiarire il termine "inquietante". In queste carte si trova l’ennesima riprova che i focolai delle ‘ndrine sono tuttora in Calabria, nonostante i colpi subìti dalla repressione; si confermano la capacità di eseguire ovunque e in qualunque settore, gli ordini impartiti dal Reggino, senza distinzione tra affari illeciti e legali; e la perversa intelligenza multitasking applicabile al furto metodico di cioccolato, all’import-export di fiori o di erba, all’accumulo di mitragliette e pistole sempre pronte alla bisogna. Alla luce di simili performance, è allarmante immaginare quanto sia facile, per i criminali, aggiudicarsi semplici lavori da ruspa, subappalti nelle grandi opere, conquistare quote di società svagate o strangolate dal credit crunch. Se Paesi attenti all’etica come Olanda o Canada si scoprono (di nuovo) il comodo nido di un simile verminaio - bonificato dall’Italia con i suoi investigatori e le sue intercettazioni - è facile immaginare i vantaggi derivanti dalle stesse superficialità e complicità in ogni parte del nostro Paese, data la diffusa pratica di illegalità, la burocrazia impossibile, il generale lassismo verso regole anche minimali. Ma questi stessi fatti mostrano anche i segnali del ritrovato senso di collaborazione tra uffici giudiziari e di coordinamento tra forze di polizia, piuttosto in sordina dai tempi delle retate di Crimine (2011) ordinate tra Milano e Reggio Calabria. Ogni volta che tale modalità virtuosa viene praticata, i risultati sono ottimi, talora clamorosi e fanno compiere grandi passi avanti alla repressione e all’analisi delle strategie criminali. Fu ancora la convinta unità d’azione tra le Procure reggina e milanese a permettere di incriminare mazzi di imprenditori e professionisti (compresi due magistrati), esponenti tipici della sfuggente area grigia. Non sempre il coordinamento spettante alla Dna è apprezzato dalle Procure distrettuali, a volte scettiche, altre riottose. Eppure è un fatto che i professionisti del crimine possono essere contrastati solo da professionisti dell’Antimafia. Ma ciò accade se questi ultimi accettano con umiltà di fare fronte comune, seguendo le procedure, rispettando le competenze, attuando gli scambi di informazioni, carte e analisi, caratteristici del lavoro di pool. Giustizia: a Bari una sentenza shock "non c’entra la mafia con la strage dei boss" di Gabriella De Matteis e Giuliano Foschini La Repubblica, 5 ottobre 2015 Quattro morti. Due tentati omicidi. Spari in mezzo alla folla, prima in un mercato e poi, la domenica mattina, dopo la messa, nella piazza di un quartiere. I comando, i kalashnikov, due capi clan ammazzati. Eppure tutto questo non fu mafia, dice oggi un tribunale, ma una semplice guerra di onore. C’è una storia che sta tenendo banco in questi giorni a Bari. La storia è quella dell’agguato a Giacomo Caracciolese, boss ammazzato il 5 aprile del 2013 alle 10 del mattino nel mezzo di un mercato, da uomini del clan Fiore. E la risposta a quell’assassinio: il triplice omicidio avvenuto il 19 maggio, un mese dopo, dove furono uccisi Vitantonio Fiore, considerato uno dei mandanti dell’omicidio Caracciolese, e altre due persone, Antonio Romito e Claudio Fanelli. Anche questa un’esecuzione da guerra: la domenica mattina, un kalashnikov in mano, con Fiore che muore con il giubbotto antiproiettile crivellato dai colpi. "Uno scenario da guerra" disse l’allora sindaco, Michele Emiliano che chiese la convocazione del comitato nazionale per l’ordine pubblico al ministro degli Interni, Angelino Alfano. Ora quella storia è arrivata a un processo. Alle prime condanne. E, a sorpresa, è sparita la parola "mafia". Il tribunale del Riesame prima, la Cassazione poi, e ora il Gup, hanno infatti elevato pesanti condanne (anche un ergastolo, insieme ad alcune assoluzioni) per i responsabili di quell’eccidio ma non hanno ritenuto ci fossero le condizioni per riconoscere l’aggravante mafiosa. "È un delitto maturato per motivi passionali" hanno detto, perché secondo le dichiarazioni di alcuni pentiti, compresa la moglie di Fiore, a far scatenare il fuoco furono le avances di Caracciolese alla sorella di Fiore. L’onore da pulire con il sangue non era quello mafioso ma quello familiare, hanno dunque sostenuto. Una tesi, probabilmente solida dal punto di vista giuridico, ma assolutamente lontana dalla realtà. Per festeggiare gli omicidi suonarono clacson nei quartieri e spararono fuochi di artificio, "Ma tu sai come voglio andare? Col kalashnikov che gli devo menare trenta colpi, gli devo menare prima una raffica in testa... dietro la schiena che poi mi avvicino col piede lo devo girare e gli devo cantare la canzone "e il coccodrillo come fa... parapaparapara..." che il cornuto del padre lo deve fare", dicevano gli uomini di Caracciolese, intercettati dalla Polizia, mentre organizzavano l’agguato di risposta. E Fiore aspettava la risposta, tant’è che la moglie ha raccontato ai magistrati che il marito le confidava: "A me solo con il kalashnikov mi possono uccidere", per questo "portava sempre il giubbotto antiproiettile". D’altronde, a differenza di quanto accaduto a Napoli con il sindaco De Magistris che si è indignato per le parole della presidente della commissione antimafia, Rosi Bindi, che aveva definito la "camorra un dato costituente di Napoli", è stato il sindaco di Bari, Antonio Decaro, a chiedere al tribunale che venisse riconosciuta l’aggravante mafiosa. Pretendendo dai clan il risarcimento per i danni d’immagine subiti dalla città. "Lo facciamo perché l’unica maniera per riconoscere la criminalità organizzata è ammetterla - dice oggi - farla vedere, mostrarla nella sua brutalità" dice oggi. "Il nostro punto di vista - spiega l’avvocato Michele Laforgia dello studio Polis che ha curato la costituzione di parte civile del Comune - è che le modalità con le quali si è verificato quell’omicidio siano intrinsecamente mafiose. Nel merito aspettiamo di leggere le motivazioni della sentenza, ma non è possibile distinguere l’onore mafioso da quello non mafioso in certi ambienti. La criminalità organizzata esiste nel nostro territorio. Noi ci dobbiamo confrontare, riconoscerla e combatterla. L’unica cosa da non fare è negarla". "L’onore di cui si parla in questo caso" ha spiegato il sostituto procuratore, Roberto Rossi, che ha discusso l’accusa, "non è certo quello di tipo sessuale. Ma quello criminale. L’onore è quello della famiglia: sono talmente violento, talmente forte, che non posso accettare alcuna offesa. Il prestigio criminale è alla base di un’associazione a delinquere e secondo noi quella è stata una delle esibizioni più muscolari della mafia barese degli ultimi anni". Giustizia: intervista Carofiglio "il formalismo dei magistrati ha ucciso il buon senso" di Giuliano Foschini La Repubblica, 5 ottobre 2015 Gianrico Carofiglio per anni, da magistrato, si è occupato di mafia a Bari. Ora ha appena pubblicato "Con parole precise" (Laterza), un brevario di scrittura civile. Carofiglio, come può un triplice omicidio con i kalashnikov non essere mafia? Può la giustizia perdere il contatto con la realtà? "Non ho letto gli atti del processo e non mi azzardo a dare giudizi sulla specifica vicenda ma in termini generali è vero che talvolta l’eccesso di formalizzazione del ragionamento giudiziario può produrre un distacco dalla vita reale e soprattutto dalle regole che ne governano l’interpretazione. Un triplice omicidio commesso in pieno giorno, platealmente da appartenenti a un’associazione mafiosa e platealmente festeggiato quasi a dare un segno di supremazia criminale, sembra difficile da classificare come un reato comune e non mafioso. Il principale strumento di lavoro di un buon magistrato è, dovrebbe essere, il buon senso". Il procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti, ha detto che il primo passo per sconfiggere la mafia è riconoscerla. Che parole servono? "Prima di tutto bisogna capire quali sono le parole sbagliate: quelle enfatiche, quelle retoriche, quelle consumate. Quelle che nutrono i luoghi comuni. Fra questi i peggiori sono quelli per cui la mafie sarebbero invincibili e lo Stato non avrebbe fatto nulla, in questi anni per sconfiggerle davvero. Sono sciocchezze. Ovviamente c’è molto ancora da fare, soprattutto in certe parti del territorio, nella lotta a nuove e vecchie forme mafiose e in generale nell’aggressione dei patrimoni criminali, ma i risultati raggiunti negli ultimi vent’anni sono straordinari. Credo che nessun Paese del mondo possa vantarne di simili". L’intercettazione ambientale non può avvenire in qualunque luogo si trovi il soggetto di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 5 ottobre 2015 Corte di cassazione - Sezione VI penale - Sentenza 26 giugno 2015 n. 27100. L’intercettazione telematica, tramite agente intrusore (virus informatico), che consenta l’apprensione delle conversazioni tra presenti mediante l’attivazione, attraverso il virus informatico, del microfono di un apparecchio telefonico smart-phone, non è giuridicamente ammissibile consentendo la captazione di comunicazioni in qualsiasi luogo si rechi il soggetto, portando con sé l’apparecchio. Lo ha precisato la Cassazione con la sentenza n. 27100 del 2015. Inf atti, proseguono i giudici della sesta sezione penale, si tratta di metodica che, consentendo l’apprensione delle conversazioni senza limitazione di luogo, contrasta, prima ancora che con la normativa codicistica, con il precetto costituzionale di cui all’articolo 15 della Costituzione, giacché l’unica opzione interpretativa compatibile con il richiamato dettato costituzionale è quella secondo cui l’intercettazione ambientale deve avvenire in luoghi ben circoscritti e individuati ab origine e non in qualunque luogo si trovi il soggetto. La specificità tecnica e giuridica delle intercettazioni ambientali - La conclusione non convince perché non coglie la specificità tecnica e giuridica delle intercettazioni ambientali e le differenze tra queste e le intercettazioni telefoniche. Queste ultime, in effetti, presuppongono l’esistenza di una specifica apparecchiatura o di un particolare sistema da sottoporre a intercettazione, in modo tale che per ciascuna operazione di intercettazione i dati di identificazione dell’apparecchio da sottoporre a verifica e controllo devono essere precisati nel decreto autorizzativo. Diverso discorso vale per le intercettazioni ambientali, di cui al comma 2 dell’articolo 266 del Cpp, che per la loro intrinseca natura non necessitano della individuazione degli apparecchi, ma si riferiscono ad ambienti in cui deve intervenire la captazione, con la conseguenza che devono considerarsi legittime, con possibilità di piena utilizzazione dei risultati, anche quando in corso di esecuzione intervenga una variazione dei luoghi in cui deve svolgersi la captazione. Ciò che è necessario e sufficiente è che nel decreto di autorizzazione siano specificamente indicate le situazioni ambientali oggetto di intercettazione. Il tema è quindi quello dell’adeguata motivazione su tale specificità ambientale, che ben può essere dettagliata, nel caso di interesse, facendo riferendo ai luoghi (comunque) frequentati dal possessore dell’apparecchio su cui è stato installato l’agente intrusore. Il richiamo operato dalla Corte ai principi costituzionali appare generico e aspecifico, non riuscendosi a cogliere quel plus di intrusione, rispetto a una intercettazione ambientale classica (ergo, disposta in un ambiente ben determinato e immutabile), allorquando si preveda la dinamicità del controllo con l’interessamento di ambienti diversi frequentati dal soggetto sottoposto a controllo. I precedenti - Dinamicità che, del resto, è stata in passato già consentita dalla giurisprudenza di legittimità, allorquando ha qualificato come legittima nel corso delle operazioni la variazione dei luoghi dove doveva svolgersi la captazione (sezione VI, 11 dicembre 2007, Sitzia e altri, in una vicenda in cui l’ autorizzazione dell’intercettazione ambientale aveva a oggetto la sala colloqui del carcere in cui era ristretto il soggetto e le operazioni erano proseguite presso la sala colloqui di altro istituto penitenziario in cui il medesimo era stato trasferito; sezione V, 6 ottobre 2011, Ciancitto, in cui la captazione ambientale era stata trasferita dalla vettura oggetto di autorizzazione ad altra vettura successivamente acquistata dall’indagato sottoposto a intercettazione; nonché sezione II, 15 dicembre 2010, Fontana e altri, in una fattispecie in cui l’intercettazione ambientale autorizzata in un determinato luogo è stata ritenuta legittimamente disposta anche nelle relative pertinenze). Ciò che rileva, piuttosto, a supporto di intercettazioni del tipo di che trattasi è l’adeguatezza della motivazione del provvedimento autorizzativo, che spieghi cioè la metodica tecnica utilizzata e quindi giustifichi la mobilità/dinamicità delle operazioni captative. Diffusione di fotografie senza consenso, è necessario l’interesse pubblico alla notizia di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 5 ottobre 2015 Corte d’Appello di Lecce - Sezione II civile - Sentenza 22 aprile 2015 n. 280. La pubblicazione senza consenso di una immagine ritraente i volti ben definiti di alcuni soggetti è legittima solo se sussiste un interesse pubblico alla diffusione della notizia. In caso contrario, lo sfruttamento non autorizzato della fotografia provoca un danno che può essere liquidato in via forfetaria sulla base del cosiddetto prezzo del consenso, anche con valutazione equitativa ex articolo 1226 del Cc. Questo è quanto affermato dalla Corte d’appello di Lecce nella sentenza 280/2015. Il caso - La vicenda, alquanto singolare, nasce con la pubblicazione su un quotidiano di una fotografia che ritraeva tre persone (tra cui un minore) mentre circolavano all’interno di un’autovettura in una via del capoluogo salentino. La fotografia, che ritraeva anche dei passanti non riconoscibili, era correlata da un articolo sulla "corsa allo shopping natalizio". Le persone fotografate non avevano gradito vedere la loro immagine pubblicata a loro insaputa e perciò avevano adito l’autorità giudiziaria chiedendo un risarcimento dei danni patrimoniali per l’illegittima pubblicazione. Il Tribunale aveva accolto la richiesta ritenendo non sussistente alcuna specifica condizione per la pubblicazione dell’immagine, nella specie l’interesse pubblico alla notizia, come sancito dagli articoli 10 del Cc e 96-97 della legge 633/41, sulla "Protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi al suo esercizio". Il giudice di primo grado aveva poi liquidato il pregiudizio subito in via equitativa sulla base del cosiddetto prezzo del consenso alla pubblicazione, ovvero sulla "somma che si sarebbe potuto ottenere in caso di consenso alla stessa", quantificandolo in 2.500 euro totali. L’editore aveva impugnato la sentenza in appello lamentandosi sia della errata interpretazione della legge in materia di diritto d’autore, sia dei criteri di calcolo della quantificazione del danno. La Corte d’appello tuttavia ha confermato in pieno la sentenza di primo grado. L’interesse pubblico alla notizia - In primo luogo, i giudici pugliesi smontano la tesi sostenuta dall’appellante per il quale la pubblicazione della fotografia rispondeva a "ragioni di utilità sociale, rappresentata dalla esigenza di documentare l’ingorgo del traffico natalizio" e per tale motivo il diritto alla privacy della persona ritratta doveva cedere rispetto al diritto di cronaca, "essendovi interesse pubblico alla diffusione della notizia del traffico caotico". Per la Corte d’appello tale notizia non ha alcun collegamento con fatti di interesse pubblico. Anzi, sottolineano i giudici, una informazione di questo tipo ben poteva essere data "senza utilizzare il ritratto delle persone interessate (tra cui un minore), potendo l’ingorgo del traffico natalizio essere mostrato anche da foto ritraenti una visione d’insieme della strada bloccata". La quantificazione del danno - In secondo luogo, alla Corte pare giusta le scelta del giudice di primo grado sull’utilizzo di un criterio equitativo per la liquidazione del danno. Per i giudici, infatti, non potendosi prendere in considerazione il valore materiale dello scatto fotografico, corrispondente al prezzo medio di una fotografia, come invece richiesto dall’appellante, il danno per la pubblicazione illecita di una immagine altrui deve essere calcolato in base alla somma corrispondente al compenso che la persona ritratta "avrebbe presumibilmente richiesto per dare il suo consenso alla pubblicazione; somma da determinarsi in via equitativa, con riferimento al vantaggio economico conseguito dall’autore della illecita pubblicazione". Capitale illecito, non c’è scampo Italia Oggi, 5 ottobre 2015 Non è necessario, in presenza di fondi illeciti, riscontrare la idoneità dissimulatoria della condotta di reimpiego per configurare il reato. Anche nel caso di operazioni tracciate è possibile far scattare la sanzionabilità penale. Sono le deduzioni traibili dalla recentissima sentenza della Cassazione penale dello scorso 17/9/15, n. 37678, con la quale si condanna un imprenditore per reimpiego di denaro di provenienza illecita ai sensi dell’art. 648-ter c.p. La situazione contestata. Nel caso di specie, i ricorrenti chiedevano il dissequestro di conti correnti, libretti di deposito, titoli e quote di fondi comuni vincolati con decreto di sequestro preventivo in relazione ai reati di associazione a delinquere finalizzata alla consumazione di truffe e appropriazioni indebite e al reato di riciclaggio. Ciò sulla base dell’assunta non configurabilità nei loro confronti del reato di impiego di denaro di provenienza illecita poiché questo avrebbe richiesto una condotta idonea a ostacolare l’identificazione della provenienza delittuosa dei beni reimpiegati. Tale assunto avrebbe trovato ulteriore conferma nella nuova norma sull’autoriciclaggio, che a sua volta richiede una concreta azione dissimulatoria. In altri termini, il ricorrente evidenziava che gli elementi emersi, e in particolare la tracciabilità delle operazioni di asserito reimpiego, erano incompatibili con l’imputazione in quanto la condotta contestata, evidentemente non era idonea a ostacolare la provenienza dei beni. In pratica il delitto previsto dall’art. 648-ter c.p., nella prospettiva difensiva, doveva considerarsi una specie del genus "riciclaggio". Il parere della Cassazione. In merito alla necessità della finalità dissimulatoria del reimpiego, rileva la Suprema corte, si registra un contrasto di giurisprudenza. Secondo un orientamento (Cass. sez. 2, n. 9026 dep. il 25/2/2014) per la configurabilità del reato di cui all’art. 648-ter cod. pen. non è necessario che la condotta di reimpiego sia idonea a ostacolare l’individuazione o l’accertamento della provenienza illecita dei beni poiché il legislatore ha voluto tutelare la genuinità del libero mercato da qualunque forma di inquinamento causato dall’immissione di somme di provenienza illecita. Neppure giova a escludere la configurabilità del reato, l’eventuale liceità o meno dell’attività economica o finanziaria nella quale siano reimpiegate le somme di denaro illecite. D’altro canto, invece, le fattispecie criminose di riciclaggio e reimpiego, pur a forma libera, richiedono che le condotte siano caratterizzate da un tipico effetto dissimulatorio, avendo l’obiettivo di ostacolare l’accertamento o l’astratta individuabilità dell’origine delittuosa del denaro (Cass. sez. 2, n. 39756 del 5/10/2011; Cass. sez. 1, n. 1470 dep. 11/01/2008, Cass. sez. 6, n. 13085 dep. 20/3/2014). A dirimere la questione, afferma la Cassazione, è decisivo l’intervento delle Sezioni unite (Cass. Ss. Uu., n. 25191 del 27/2/2014) secondo cui l’art. 648-ter configurava, come illecito penale, l’impiego in attività economiche o finanziarie di quegli stessi proventi illeciti (denaro, beni e altre utilità) richiamati nella descrizione dell’oggetto materiale del delitto di riciclaggio con la ratio di non lasciare vuoti di tutela a valle dei delitti di riciclaggio e ricettazione e di sanzionare anche la fase terminale delle operazioni. In pratica ci si preoccupa di colpire tutte quelle operazioni insidiose in cui il denaro di provenienza illecita, immesso nel circuito lecito degli scambi commerciali, tende a far perdere le proprie tracce, camuffandosi nel tessuto economico-imprenditoriale. Ciò rende possibile la responsabilità per la condotta anche quando non è dato provare che l’agente che impiega il bene proveniente da delitto sia consapevole di tale provenienza e svincolando la sanzionabilità della condotta dalla necessità della prova della idoneità dissimulatoria della azione criminosa. Nel riciclaggio in manette anche il consulente. Molto rigoroso e pressante l’intervento della giurisprudenza volto a sanzionare i reati di riciclaggio e "collaterali" quali la ricettazione, il reimpiego e l’autoriciclaggio di cui agli artt. da 648 a 648-ter.1 c.p. La severità dei giudici sul tema giunge spesso alle imputazioni per concorso nel reato fino alla previsione dell’applicazione degli arresti domiciliari nei confronti del commercialista, benché incensurato, ma che si sia adoperato per favorire il riciclaggio dei proventi delittuosi del cliente (Cass. pen. sez. II, 18/07/2014, n. 43130). Dall’esame delle pronunce si può notare quanto l’azione di contrasto del legislatore, culminata con la recente introduzione del reato di autoriciclaggio, sia fortemente supportata dall’azione giudiziaria e al contempo si possono desumere interessanti orientamenti fra cui quello che attiene alla possibilità di mutamento nella qualificazione del reato. Quest’ultimo, infatti, può dare luogo a imputazioni in prima istanza, per esempio, come ricettazione piuttosto che come riciclaggio o come reimpiego, ciò non toglie che lo stesso sia comunque condannabile anche se a seguito dell’opposizione dei ricorrenti risultasse inquadrabile diversamente. In tabella una sintetica carrellata delle pronunce più recenti sul tema. Se il giudice rafforza la mediazione di Marco Marinaro Il Sole 24 Ore, 5 ottobre 2015 Tribunale di Siracusa - Sezione II civile - Ordinanza del 5 luglio 2015. Il giudice che dispone la mediazione nel corso del processo civile evidenzia alle parti che al primo incontro l’attività di mediazione dovrà essere "concretamente espletata" con la partecipazione delle parti (sostanziali); inoltre il invita il mediatore a formulare la proposta conciliativa, anche se le parti non dovessero chiederglielo congiuntamente. Perviene a queste conclusioni l’ordinanza del Tribunale di Siracusa (estensore Rizzo) del 5 luglio 2015 che in una controversia in materia di appalto e dopo aver rigettato la richiesta di provvisoria esecutorietà del decreto ingiuntivo opposto, dispone l’avvio del procedimento di mediazione non senza precisare che la mediazione dovrà svolgersi effettivamente, nel solco dell’orientamento segnato dal Tribunale di Firenze e ripreso nei tribunali di tutta la Penisola. Le parti (sostanziali) assistite dai loro difensori dovranno dunque avviare la mediazione e partecipare al primo incontro durante il quale l’attività dovrà concretamente espletarsi. Il giudice siciliano poi nella medesima ordinanza invita il mediatore "ad avanzare proposta conciliativa pur in assenza di congiunta richiesta delle parti". L’invito ricalca quello contenuto nell’ordinanza del Tribunale di Firenze (estensore Ghelardini) del 30 giugno 2014 che aveva inaugurato questo tipo di provvedimenti diretti a sollecitare il mediatore ad una attività valutativa. In questo senso l’invito del tribunale costituisce sicuramente nella logica della mediazione demandata un autorevole impulso al mediatore che si troverà a dover gestire la procedura. In questa prospettiva va poi ricordata l’ordinanza del Tribunale di Vasto (estensore Pasquale) del 23 giugno 2015 il quale va oltre e, dopo aver ordinato la mediazione, dispone che in caso di mancato raggiungimento dell’accordo tra le parti il mediatore provveda comunque alla formulazione di una proposta conciliativa. A tal fine, le parti dovranno scegliere un organismo di mediazione che non preveda limitazioni a tale "potere" del mediatore. Una decisione quest’ultima improntata ancor più della altre a rafforzare lo schema della mediazione ordinata dal giudice e che sembra volerne di fatto integrarne la procedura in un alveo processuale regolamentato ove il mediatore diviene una sorta di ausiliario al quale il giudice rivolge inviti e prescrizioni. Invero, il mediatore - secondo la normativa attuale - non è un ausiliario del giudice. Non a caso non è il giudice che nomina il mediatore e non vi è un rapporto diretto con lo stesso. La mediazione - anche quella iussu iudicis - è extragiudiziale e si svolge fuori dal diretto controllo del giudice che non può, quindi, imporre alcunché al mediatore. Ciò non esclude la possibilità di indirizzare verso buone prassi ed eventualmente sollecitare attività ulteriori, come nel caso dell’invito alla proposta conciliativa (prevista ex lege), ma ovviamene rimessa alla valutazione del mediatore e nei limiti previsti dalla legge e, quindi, dal regolamento di procedura adottato dall’organismo prescelto dalle parti. Responsabilità magistrato per ritardo nel deposito di provvedimenti. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 5 ottobre 2015 Magistratura - Illeciti disciplinari per ritardo ultrannuale nel deposito di provvedimenti - Giustificabilità - Condizioni - Rapporto di proporzionalità con l’ampiezza e la gravità del ritardo - Necessità - Onere probatorio - Contenuto. La durata ultrannuale dei ritardi nel deposito dei provvedimenti giurisdizionali non comporta l’ingiustificabilità assoluta della condotta dell’incolpato, ma, trattandosi di inosservanza protrattasi ulteriormente e per un tempo considerevole rispetto alla soglia di illiceità considerata dal legislatore, è giustificabile solo in presenza di circostanze proporzionate all’ampiezza del ritardo, sicché quanto più esso è grave tanto più seria, specifica, rigorosa e pregnante deve essere la relativa giustificazione, necessariamente comprensiva della prova che, in tutto il lasso di tempo interessato, non sarebbero stati possibili diversi comportamenti di organizzazione e impostazione del lavoro, o che, comunque, essi non avrebbero potuto in alcun modo evitare il grave ritardo o almeno ridurne l’abnorme dilatazione. • Corte di cassazione, sezioni Unite civili, sentenza 8 luglio 2015 n. 14268. Magistratura - Responsabilità disciplinare del magistrato - Ritardo nel deposito di provvedimenti - Esigenza di smaltire ritardi già sanzionati - Irrilevanza. In tema di responsabilità disciplinare del magistrato va osservato che l’antigiuridicità del ritardo nel deposito di provvedimenti non è eliminata dall’esigenza di smaltire ritardi oggetto sanzioni disciplinari già disposte. • Corte di cassazione, sezioni Unite civili, sentenza 1 giugno 2015 n. 11291. Magistratura - Reiterato e grave ritardo nel deposito di alcuni provvedimenti - Procedimento disciplinare - Sussistenza di esigenze eccezionali - Onere di allegazione da parte del magistrato al fine di invocare la giustificabilità del ritardo nel deposito di provvedimenti. Il ritardo nel deposito delle sentenze e degli altri provvedimenti giurisdizionali integra l’illecito disciplinare di cui al Dlgs 109/2006, articolo 2, comma 1, lettera q) qualora sia oltre che reiterato e grave, anche ingiustificato. In tale prospettiva è stato affermato che, in tema di illeciti disciplinari riguardanti magistrati, ai fini dell’integrazione della fattispecie dell’illecito disciplinare, la durata di un anno nel ritardo nel deposito dei provvedimenti giurisdizionali rende ingiustificabile la condotta dell’incolpato, se non siano allegate da quest’ultimo e accertate dalla sezione disciplinare circostanze assolutamente eccezionali che giustifichino l’inottemperanza al precetto sui termini di deposito. La giustificabilità del ritardo nel deposito di provvedimenti da parte del magistrato deve, quindi, assumere, sotto il profilo dell’allegazione, il carattere della conferenza, pregnanza, oggettività, idoneità concreta ad escludere l’antigiuridicità della condotta. • Corte di cassazione, sezioni Unite civili, sentenza 16 gennaio 2015 n. 648. Magistratura - Magistrato di sorveglianza - Ritardo nel deposito dei provvedimenti - Giudizio di gravità - Termine di compimento dell’atto e relativo dies a quo - Individuazione - Fondamento. In tema di illecito disciplinare del magistrato di sorveglianza per ritardo nel deposito dei provvedimenti, ai fini del giudizio di gravità rileva il termine generale di "cinque giorni dalla deliberazione", fissato dall’articolo 128 Cpp, sicché il giudice disciplinare deve ricostruire, per ciascun procedimento di sorveglianza, lo schema tipico prefigurato dal legislatore, per individuare il momento in cui esso può essere definito con una "deliberazione", che sia ordinanza, decreto o parere. • Corte di cassazione, sezioni Unite civili, sentenza 24 ottobre 2014 n. 22611. Privacy: diffusione dati personali ed essenzialità dell’informazione. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 5 ottobre 2015 Privacy - Dati personali di carattere sanitario - Evento di interesse pubblico già ampiamente noto - Diffusione ulteriore ed eccessiva - Divieto - Legittimità - Fondamento. È legittimo il provvedimento con cui il Garante della privacy inibisca la diffusione, ulteriore ed eccessiva, di dati personali di carattere sanitario relativi a un evento di interesse pubblico già ampiamente noto nei suoi aspetti principali se la diffusione si rivela rispettosa del principio di essenzialità dell’informazione e lesiva del diritto fondamentale della dignità della persona. • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 16 aprile 2015 n. 7755. Privacy - Fatti di interesse pubblico - Limite dell’essenzialità dell’informazione - Congiunti del personaggio pubblico - Dati e fotografie pubblicate a mezzo stampa - Illegittimità. I limiti dell’essenzialità dell’informazione riguardo a fatti di interesse pubblico, che circoscrivono la possibilità di diffusione dei dati personali nell’esercizio dell’attività giornalistica, comportano il dovere di evitare riferimenti a congiunti del personaggio pubblico, non potendo la notorietà di quest’ultimo affievolire i diritti dei primi e, in particolare, dei minori. • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 6 dicembre 2013 n. 27381. Privacy - Diffusione di dati sensibili su libri o periodici - Condizioni - Nozione di "essenzialità" dell’informazione - Valutazione - Criteri che il giudice di merito deve seguire nel compiere la valutazione. Al giornalista è consentito divulgare dati sensibili senza il consenso del titolare né l’autorizzazione del Garante per la tutela dei dati personali, a condizione che la divulgazione sia "essenziale" ex art. 6 del codice deontologico dei giornalisti e cioè "indispensabile" in considerazione dell’originalità del fatto o dei modi in cui è avvenuto. La valutazione della sussistenza di tale requisito costituisce accertamento in fatto, che il giudice di merito deve compiere caso per caso, indicando analiticamente le ragioni per le quali ritiene che sussista o meno il suddetto requisito dell’essenzialità. • Corte di cassazione, sezione III, sentenza 12 ottobre 2012 n. 17408. Privacy - Trattamento dei dati personali - Attività giornalistica - Pubblicazione di fotografia di una persona in stato di detenzione - Liceità - Fondamento. In tema di trattamento dei dati personali, al di fuori delle ipotesi previste dell’articolo 114 del codice di procedura penale, la pubblicazione delle immagini di una persona privata della libertà personale deve ritenersi lecita, senza che venga in rilievo la possibilità che la stessa possa considerarsi inessenziale rispetto all’informazione; la pubblicazione dell’immagine di un imputato, trattandosi di un dato personale, deve essere trattata come la comunicazione delle generalità dell’imputato medesimo, pertanto, quando sia effettuata in relazione ad un fatto di interesse pubblico, deve considerarsi essenziale per l’esercizio del diritto di cronaca. • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 18 marzo 2008 n. 7261. Lettere: detenuti e diritti negati, la pena nella pena di Tania Careddu altrenotizie.org, 5 ottobre 2015 Essere dentro il "sistema giustizia" ed esserne esclusi. Un paradosso che investe i detenuti quando devono fare i conti con la risoluzione di questioni legali non connesse alla pena che stanno scontando. Ossia, sebbene siano esposti a linguaggi e procedure giuridiche, siano supportati da un avvocato, o lo sono stati prima della condanna definitiva, benché si relazionino con il magistrato di sorveglianza o con il giudice procedente, a causa della restrizione della libertà personale incontrano ostacoli che impediscono il normale accesso alla giustizia per tutto ciò che non concerne la storia penale per la quale sono detenuti. Per cui, benché gli istituti penitenziari offrano servizi volti a ovviare agli impedimenti, la reclusione rappresenta un ostacolo ingombrante a farsi parte attiva nella gestione delle loro questioni legali-amministrative. Esasperando la condizione afflittiva e intralciando la reale (?) finalità riabilitativa della detenzione. Sebbene la ricerca "Accesso alla giustizia in carcere: alcune evidenze basate su un questionario fra pari", condotta dalla Casa della Carità e dal Centro Studi Sofferenza Urbana, sia stata effettuata nelle carceri milanesi di Bollate e di San Vittore, i risultati ottenuti potrebbero essere estendibili. E sono problemi legati al diritto di famiglia, con annesse questioni riguardanti il patrimonio o il reddito (vedi sfratti e pignoramenti), o la perdita di sussidi e sostegni per il nucleo familiare, o problematiche aperte con la Pubblica Amministrazione, relative a sanzioni o a tasse. Oppure questioni legate al rilascio o al rinnovo di documenti, principalmente carta d’identità e patente. Non solo la detenzione rappresenta un motivo per rinunciare a risolverle ma sembra, anche, incrementarle. La sistemazione delle quali pare essere connessa pure a due fattori determinanti a stabilire la possibilità o meno di utilizzare gli strumenti messi a disposizione del carcere. E cioè la maggiore o minore mobilità per i detenuti all’interno della struttura penitenziaria e l’essere in attesa di giudizio. Condizione, quest’ultima, che sistema il detenuto-imputato in una posizione ancor più complessa (se possibile): escluso dalle logiche trattamentali, fa fronte anche a situazioni particolarmente restrittive che rendono meno agevole, rispetto a una più elevata mobilità degli altri reclusi, la fruizione dei mezzi offerti dall’istituto. E le difficoltà si acuiscono quando a essere coinvolti sono gli ospiti più vulnerabili, privi, cioè, di una rete di supporto (di solito familiare) o stranieri. E l’accesso alle cure e ai farmaci? Talvolta ostico tanto da sembrare una pena accessoria. Per esempio, l’inserimento dei detenuti in liste d’attesa ordinarie, li penalizza: l’opportunità di accedere alla visita, una volta arrivato il proprio turno, dipende dalla disponibilità delle scorte di polizia, non sempre assicurata. Da aggiungere a tutto ciò il mancato diritto alla scelta del medico di base, obbligati come sono a rivolgersi al medico di reparto, limitandosi così il diritto di ogni paziente - e quindi anche del recluso - a un rapporto personale, diretto e continuativo con lo stesso. Inoltre, la mancata restituzione degli esiti di eventuali analisi cliniche effettuate, l’utilizzo di cartelle cliniche cartacee che accompagnano il detenuto ma, quasi sempre, con grande ritardo, fanno perdere la sua storia clinica. La mancanza di libertà è un grave vulnus al patrimonio giuridico inalienabile di ogni essere umano. Tutela della salute e accesso equo alle cure compresi. Lettere: riforma della Costituzione, la politica deve tornare a valori concreti di Nitto Francesco Palma (Presidente Commissione Giustizia dei Senato) Il Mattino, 5 ottobre 2015 Caro Direttore, in Aula senza relatore, milioni di emendamenti, furbizie canguresche, regolamento stracciato, urla, risse verbali, gestacci, insulti di ogni genere. Ma davvero qualcuno crede che al Senato sì stia votando una riforma epocale della nostra Costituzione? Se taluno fosse così ingenuo o miope, realmente o strumentalmente poco importa, basterebbe ricordare che di tutto questo bailamme, o se si vuole "casino" giusto per adeguarci alla volgarità dei tempi, non vi è davvero traccia nei lavori preparatori della nostra Costituzione, quella vera, quella che tuttora ha dei passaggi di assoluta modernità. Una Costituzione, giova ricordarlo, che fu il frutto di una mediazione, o di un compromesso nel senso nobile richiamato da Amos Oz, tra due diverse visioni della società e della struttura stessa della democrazia, una mediazione realizzata da uomini che compresero che il loro compito non era quello di portare acqua alla propria bottega politica, ma quello, davvero assai nobile, di scrivere le regole, serie e durature, su cui fa rinascere e far ripartire il nostro grande Paese. Per loro la Costituzione non era una semplice legge ordinaria, modificabile anche rapidamente, né, tantomeno, uno strumento dove affermare la propria supremazia o realizzare accordi funzionali alla serenità interna di una parte. Una Costituzione che doveva essere il più possibile di tutti e che, proprio per questo, non poteva essere il prodotto di una sparuta maggioranza minoritaria. Erano altri tempi. La politica, forgiata dalle sofferenze del fascismo e della guerra civile, si fondava su valori, chiari, individuabili, tutti sintonici al progetto del futuro. Essere di destra o di centro o di sinistra equivaleva al tipo di società per cui ci si batteva. E la gente votava perché condivideva quel progetto e non perché affascinata da dettagli minori. Ora pare che tali classificazioni non abbiano più senso, e molti si beano di tale novità. Ma se le differenze hanno perso il loro significato ideale, la politica non è più riconoscibile, le azioni, meramente pragmatiche, sono finalizzate solo alla risoluzione del problema presente, senza alcuno sguardo lungo, e il consenso elettorale o scompare o si concentra sul più simpatico o sul più comunicativo o sul più che volete voi, cioè su un soggetto assolutamente intercambiabile e che può stare da una parte o dall’altra in modo indifferente. Ovvero su un voto di protesta che, a differenza del passato, non è destinato a retrocedere, almeno rebus sic stantibus. E se questo è vero, è così difficile capire che la politica deve tornare ad essere politica, e cioè ancorare la propria azione non a vuote parole, ormai trite e ritrite, ma a valori ideali concreti che disegnino il futuro del nostro Paese per il secolo in corso. Una politica che faccia non tanto per fare, ma che faccia (facendolo intendere) perché una determinata azione o legge è il tassello di quel disegno più grande di società che ha proposto agli elettori e per il quale ha ottenuto il relativo consenso. Certo se ciò dovesse accadere non vi sarebbe bisogno di demiurghi, ma non credo che ciò sia un problema, gli antagonismi si diluirebbero in un sano confronto e forse gli italiani tornerebbero a votare. Mi rendo conto che questo mio dire e forse un po’ antiquato o datato, ma davvero non credo che un antico pieno di valori (che sono cosa ben diversa dalle ideologie) possa essere sostituto da un nuovo colmo di vuoto. Peccato. Perché credo che la riforma della Costituzione, se percorsa con il metodo della condivisione e dell’incontro, poteva essere l’inizio per far rinascere la politica. Purtroppo non è andata così. Resta l’amarezza che i nostri nipoti, se mai avranno la sfortuna di leggere gli attuali preparatori, invece di soffermarsi a pensare sulle parole di Calamandrei e tanti altri, si sbigottiranno per qualche gesto di troppo e per qualche poco elegante porco e maiale. Si sbigottiranno, ma non credo che ne rideranno. Udine: muore nell’ospedale del carcere di Tolmezzo il boss della ‘ndrangheta Mancuso Messaggero Veneto, 5 ottobre 2015 È deceduto nell’ospedale del carcere di Tolmezzo, in provincia di Udine, il boss della ‘ndrangheta Pantaleone Mancuso, 68 anni, detto "Vetrinetta", di Limbadi, in provincia di Vibo Valentia, ritenuto uno degli esponenti apicali della ‘ndrangheta. Il boss si trovava nell’ospedale del carcere dal 19 settembre. L’aggravarsi di varie patologie non hanno lasciato scampo a Mancuso. Il 29 settembre il gip distrettuale di Catanzaro, Carlo Ferraro, sulla scorta di una perizia medica del dott. Giulio Di Mizio, aveva rigettato gli arresti domiciliari per Mancuso chiesti dalla difesa. Di diverso avviso era stato invece il Tribunale collegiale di Vibo Valentia (Barracco presidente, a latere giudici Papagno e Taricco) che qualche giorno prima, nell’ambito di un diverso procedimento penale, sulla scorta delle relazioni sanitarie del carcere di Tolmezzo aveva concesso al boss gli arresti domiciliari, non eseguiti poi per il successivo provvedimento del gip. Alla scarcerazione si era opposta il pm Marisa Manzini che aveva chiesto una perizia medica e sottolineato in udienza che Mancuso tra il 2011 e il 2012 avrebbe mantenuto rapporti con un ministro di culto autorizzato a prestare assistenza religiosa nel carcere di Tolmezzo. Mancuso, per il quale la Dda di Catanzaro aveva pure chiesto il carcere duro (41 bis), era coinvolto nelle operazioni antimafia Black money, Minosse 2 e Purgatorio 3. Milano: "Made in Carcere" ad Expo, vincitrice del concorso "We - Progetti per le donne" giornaledipuglia.com, 5 ottobre 2015 Per sei giorni Made in Carcere irrompe nella frenetica Esposizione Universale di Milano con uno speciale showcase di propri contenuti. Dal 2 al 7 ottobre, ad Expo, all’interno del Padiglione Italia, i manufatti, i progetti, i concetti, le esperienze, i nuovi obiettivi di Made in Carcere diventano uno spazio di riflessione sulla necessità di rivedere i modelli di business, mettendo accanto al profitto anche il benessere sociale ed ambientale, per una più corretta declinazione di "stare" sul mercato. Alle ore 14.30, proprio all’interno del Padiglione Italia di Expo, saranno presentati alcuni dei nuovi progetti sperimentali avviati, quali gli Orti Verticali in carcere e nelle scuole, "Dì di Sole" di Made in Carcere cioè una speciale linea di prodotti da forno (biscotti senza uova e senza latte) e la partnership di distribuzione dei nostri manufatti con "IReNeri" Zero Contraffazione, progetto contro emarginazione e contraffazione, finalizzato a trasformare i migranti da venditori abusivi in lavoratori 100% legali. L’occasione è data dal progetto "Distributore Automatico di Solidarietà" con cui Officina Creativa (Società Cooperativa Sociale da cui ha preso vita il brand "Made in Carcere" per cui lavora un gruppo di detenute degli istituti penitenziari di Lecce e Trani, tutte regolarmente assunte) è risultata tra i 24 progetti vincitori di "WE - Progetti per le donne", concorso nato con l’obiettivo di promuovere, nell’ambito della vetrina straordinaria di Expo Milano 2015, progetti realizzati allo scopo di migliorare la qualità della vita della donna, in collaborazione con il Ministero degli Affari Esteri e la Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori. "Distributore Automatico di Solidarietà": si tratta di piccoli dispenser (destinati a luoghi ad alta affluenza di persone, come stazioni, aeroporti, scuole, università) di manufatti vari (portachiavi, braccialetti, porta bottiglie, borse fashion di dimensioni più piccole) realizzati da detenute con materiali di recupero, disegnati da designer e stilisti particolarmente ingegnosi, in collaborazione con Accademie e scuole specifiche del settore. All’interno non mancherà uno dei manufatti più popolari di Made in Carcere, il braccialetto, finito addirittura al polso di Papa Francesco. Obiettivi: attraverso un gesto a costo contenuto, si può fare un acquisto, h24, che alimenta crescita e benessere sociale. Si afferma la validità del modello di sviluppo sostenibile, valorizzando il riuso dei materiali e offrendo un’altra chance a donne detenute, tessuti ed oggetti. Le donne detenute aprono così le porte dei carceri ad eleganza, estetica e di conseguenza all’etica, ricostruendo dignità, competenza ed autonomia economica. Importante la tangibilità di impatto ambientale ed inclusione sociale. Made in carcere e il Progetto Sigillo. La qualità e l’eticità dei prodotti realizzati all’interno delle sezioni femminili di alcuni istituti penitenziari italiani è certificata dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, attraverso il marchio "Sigillo". Il progetto, negli ultimi cinque anni, è servito a promuovere un modello di economia sostenibile facendo dialogare tra loro i laboratori sartoriali che operano a livello nazionale nelle carceri. Obiettivo dell’agenzia, prima nel suo genere in Italia e in Europa, è stato quello di curare le strategie di prodotto, comunicazione e posizionamento sul mercato di quanto realizzato dalle donne detenute attraverso vere e proprie imprese sociali. "La vita è cambiamento. Lento o veloce, ma continuo. Per noi la partecipazione ad Expo ed in particolare l’appuntamento di martedì 6 ottobre sono un’ulteriore occasione per scambiare progetti e sogni su quel cambiamento che vorremmo avvenisse - dice Luciana Delle Donne, fondatrice di Made in Carcere. Invitiamo tutti a venire a vedere, ascoltare, forse anche emozionarsi, assaggiare, magari indossare o anche solo riflettere per quello che siamo capaci di fare all’interno dei luoghi di detenzione". Milano: detenuta resta incinta in carcere a Bollate, il Sappe sollecita un'inchiesta Corriere della Sera, 5 ottobre 2015 Protagonista una detenuta serba di 30 anni, con un lungo fine pena (2040) per diversi reati tra i quali riduzione in stato di schiavitù e lesioni. "Bollate, ancora una gravidanza in carcere frutto di un rapporto sessuale tra le sbarre del penitenziario unanimemente classificato "a trattamento rieducativo avanzato". È quanto si legge in una nota diramata dal Sappe. "Il carcere milanese di Bollate è evidentemente fin troppo avanzato circa il trattamento e la rieducazione dei detenuti, se si pensa che in cinque anni si sono contate ben 3 gravidanze conseguenza di rapporti sessuali tra le sbarre, due detenute e una educatrice", commenta Donato Capece, segretario generale del Sindacato autonomo polizia penitenziaria Sappe. "Ci si è accorti di quest’ultima gravidanza perché la detenuta è stata portata in ospedale per un malore e qui ci si è accorti che era in attesa di un bimbo. Ovviamente grande è stata la sorpresa, anche se i due precedenti avrebbe dovuto indurre l’Amministrazione penitenziaria a riflettere seriamente su questi episodi, atteso che adesso la detenuta farà in modo di differire la pena non più in carcere per portare a termine la gravidanza". "Quando segnalammo il primo caso della detenuta rimasta incinta durante la detenzione, nel 2010, ci fu chi ebbe l’ardire di accusare noi del Sappe per avere resa nota la notizia, evidentemente scabrosa per chi preferisce tenere nascoste scomode verità. Ma diteci voi se è normale che una detenuta o un detenuto (ma anche un’educatrice carceraria...) possa diventare genitore a seguito di un rapporto sessuale consumato furtivamente tra le sbarre, favorito dal regime penitenziario "aperto" che limita al massimo i controlli di polizia anche durante i colloqui nell’area? E se anziché una gravidanza si fosse posto in essere un reato durante quei contatti avvenuti secondo un servizio di vigilanza dinamica che riduce drasticamente i controlli da parte della polizia penitenziaria?". Capece sollecita il ministro della Giustizia Andrea Orlando ed il capo dell’Amministrazione penitenziaria Santi Consolo "a disporre una immediata inchiesta ministeriale che chiarisca come ciò sia potuto accadere nel carcere di Bollate, non disgiungendo gli accertamenti ispettivi da una analisi complessiva sulla gestione del carcere milanese e sulla operatività e funzionalità degli uffici della contabilità e dei conti correnti di Bollate". Bologna: al via ciclo di film per raccontare quarant'anni di carcere riformato in Italia Ristretti Orizzonti, 5 ottobre 2015 Dalla collaborazione tra assemblea della Regione Emilia-Romagna, Garante regionale dei detenuti e Università di Bologna un ciclo di film per raccontare quarant'anni di carcere riformato in Italia. Da questa sera a Bologna cinque proiezioni gratuite commentate da esperti di diritto. L'11 novembre in programma una giornata di studi con Desi Bruno tra i relatori. Un ciclo di film e una giornata di studi per riflettere sul carcere in Italia negli ultimi 40 anni, dalla storica introduzione dell’ordinamento penitenziario nel 1975 a oggi: ad organizzare gli eventi, a partire da oggi, lunedì 5 ottobre, nell’Aula 3 dell’Alma Mater in piazza Scaravilli a Bologna, l’associazione Franco Bricola, con il patrocinio dell’Assemblea legislativa della Regione Emilia-Romagna e dell’Università di Bologna - Scuola di giurisprudenza e Dipartimento di Scienze giuridiche, e la collaborazione dell’Ufficio della Garante regionale delle persone private della libertà personale, Desi Bruno. La prima parte dell’iniziativa - “La riforma carceraria quarant’anni dopo” - è costituita da un ciclo di film sul carcere in Italia, che si snoderà in cinque incontri serali, dal 5 ottobre al 4 novembre. Le opere prescelte coprono il periodo che va da prima della riforma penitenziaria ai giorni nostri, con l’intento di restituire uno spaccato del variegato universo carcerario. Tutti i film saranno introdotti al pubblico dalla presentazione di studiosi di questioni penitenziarie, o dello stesso regista, come avverrà nell’incontro conclusivo. Primo appuntamento lunedì 5 ottobre alle 20.30 con “Detenuto in attesa di giudizio” di Nanny Loy del 1972, a seguire poi il 14 ottobre “The Experiment. Cercasi cavie umane” di Paul Scheuring del 2010, il 21 “Mery per sempre” di Marco Risi (1989), il 28 “Cesare deve morire” dei fratelli Taviani (2012) e, in conclusione, “I giorni scontati”, pellicola del 2012 di Germano Maccioni. La seconda parte si concretizzerà in una giornata di studi - il 6 novembre - sulla riforma del carcere: nella mattinata si ripercorreranno le ragioni e i limiti del riformismo penitenziario mediante il contributo critico della Scuola dei penalisti bolognesi. Nel pomeriggio si aprirà la discussione sulla realtà attuale del carcere: tra i protagonisti anche la Garante delle persone private della libertà personale dell’Emilia-Romagna, Desi Bruno. L’evento è stato dedicato alla memoria del professor Massimo Pavarini, scomparso lo scorso martedì 29 settembre, che in tutta la sua lunga e feconda carriera ha riflettuto e fatto riflettere, in Italia e nel mondo, da una prospettiva sociale e critica, sui temi del carcere e del suo superamento. Bollate (Mi): premiazione del concorso letterario "Artisti dentro", riservato ai detenuti sanmarinofixing.com, 5 ottobre 2015 Anche quest’anno una delegazione della Repubblica di San Marino ha preso parte all’evento di premiazione del concorso letterario "Scrittori Dentro" che si è svolto venerdì 2 ottobre presso la Casa di Reclusione di Bollate (Mi). Protagonisti i concorrenti delle Case di Reclusione di Milano, Padova, San Marino, Venezia, e Verona. "Pensieri sul cibo da dietro alle sbarre" è stato il tema a cui era legata questa seconda edizione del premio letterario, in omaggio ad Expo 2015. "Gli autori che hanno scritto, racconti e poesie, testimoniano l’alto valore psicologico del cibo, quale stimolatore di emozioni e ricordi: un elemento importante nella vita quotidiana di chiunque, un riferimento temporale e di socializzazione per chi è detenuto", ha commentato Sybil von der Schulenburg, presidente dell’Associazione Artisti Dentro Onlus ideatrice e organizzatrice del concorso. Vincitore della sezione "poesia" N. C. con "Profumo di pane". Per la sezione "prosa" il primo premio - un buono spesa alimentare di 400,00 euro - a S. P. con il racconto "Miele amaro". Alla prima edizione del concorso, svoltasi l’anno scorso, era risultata terza classificata la poesia "L’è una bela giurneda", di C.R. - Carcere dei Cappuccini. Novità di quest’anno è la prima edizione del premio di arte culinaria - che non poteva che chiamarsi "Cuochi dentro" - per incoraggiare la cucina creativa di cuochi amatoriali e professionisti in situazione di detenzione. Vincitore il piatto "Maky con sfoglia croccante" di D. S., una rivisitazione in chiave vegetariana di un classico della cucina giapponese. Da San Marino, che sostiene l’iniziativa con il patrocinio delle Segreterie di Stato Istruzione e Cultura e Interni e Giustizia al premio letterario Scrittori dentro, un importate segnale di continuità, a conferma dell’attenzione al tema del rispetto dei diritti umani in ogni contesto, che si tratti di detenuti o migranti o persone con disabilità. Bergamo: porte aperte all’ex carcere di Sant’Agata, si esibisce anche una band di detenuti L’Eco di Bergamo, 5 ottobre 2015 Un paio di camionette della polizia penitenziaria parcheggiate in via Salvecchio, diverse guardie carcerarie che si aggirano nei pressi del Circolino. Non è un’operazione di polizia, ma la "scorta" del gruppo "Officine Musicali Freedom Sound", band nata all’interno del carcere di Bollate che domenica 4 ottobre ha avuto la possibilità, in via eccezionale, di esibirsi fuori dalle sbarre. Il luogo del concerto non potrebbe essere più significativo, l’ex carcere di Sant’Agata in Città Alta. L’atmosfera è vivace e distesa, alta la partecipazione di pubblico, con circa una cinquantina di persone nella piccola sala e un continuo ricambio degli spettatori. L’iniziativa si inserisce nell’ambito della seconda edizione di "Ora d’Aria", conclusa ieri: gli spazi dell’ex carcere sono stati temporaneamente rimessi a disposizione della cittadinanza; l’affluenza alle visite guidate è stata particolarmente alta, tanto che domenica le guide hanno dovuto raddoppiare i loro turni. In questo contesto di "riscoperta" di un luogo della città a lungo dimenticato, si inserisce l’arrivo della rock band del carcere di Bollate. Cinque gli elementi: Angelo, chitarra e voce, Daniel al basso, Roland alla chitarra, Luca alle tastiere e Francesco alla batteria. "Il nostro scopo è non vanificare il tempo passato in carcere, ma renderlo utile e viverlo bene", ha commentato la voce del gruppo. Il concerto è stato trasmesso in diretta da Radio Popolare, nell’ambito della trasmissione "Jailhouse rock". L’ironia cinica sulle bombe intelligenti di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 5 ottobre 2015 In pochi minuti a Roma, il 19 luglio del 1943, caddero bombe "come neve" in piena estate, come canta Francesco De Gregori. A San Lorenzo soprattutto, ma anche al Prenestino e al Casilino, morirono circa 3 mila civili e i feriti furono quasi 11 mila. I bombardieri buttavano giù i loro ordigni per ottenere il massimo della potenza distruttiva, con la devastazione delle infrastrutture e con l’obiettivo di colpire duramente anche la popolazione civile. Chi sogghigna sarcastico sull’espressione "bombe intelligenti" dovrebbe ricredersi. Quelle che massacrarono Roma non erano "intelligenti": lo fossero state, il numero di morti sarebbe stato di gran lunga inferiore. Volete sostenere che tre o tremila morti sono la stessa cosa? Anche una sola vita sacrificata è uno scandalo. E non c’è guerra che non sia schifosa. Ma lo schifo non è sempre uguale. Sarebbe bello se la guerra fosse abolita, ma finché non riusciremo ad abolirla la minimizzazione del danno è la benvenuta. Non è cinismo sostenerlo. È cinismo negarlo. Piangiamo le vittime delle scellerate bombe Nato che hanno distrutto per errore un ospedale in Afghanistan. Ma non dovremmo sghignazzare sulle "bombe intelligenti". Fossero state ancora più intelligenti, non sarebbe accaduto il disastro. La guerra è schifosa, sempre. È diventata ancora più schifosa quando, nella modernità, si è perduta qualunque distinzione tra "civile" e "militare". Un conto è morire da soldato in combattimento. Un altro è morire, bambini, sotto un bombardamento. Per fortuna la nostra solidarietà è cambiata, in meglio: oggi consideriamo intollerabile la morte di un bambino sotto le bombe. Ma per piegare Hitler, durante la Seconda guerra mondiale Winston Churchill decise di radere al suolo le città tedesche. Winfrien Sebald, nella sua meravigliosa Storia naturale della distruzione ha raccontato come Churchill si opponesse alla volontà dei genitori inglesi di colpire solo le infrastrutture tedesche: no, per piegare la resistenza nazista, bisognava fiaccarne il morale annientando Dresda e tutti quelli, vecchi e bambini compresi, che vi abitavano. Il numero delle vittime è ancor oggi incalcolabile. Immaginiamo la sorte di tanti bambini tedeschi sotto tonnellate e tonnellate di bombe "non intelligenti"? Sarebbe stato più "intelligente" non fare la guerra a Hitler? La guerra fa schifo. Sempre. Ma renderla un po’ meno schifosa, nell’attesa della sua abolizione, forse è l’unica cosa intelligente da fare. Danni collaterali e terroristi, il dilemma di Camus di Marek Halter La Repubblica, 5 ottobre 2015 Lo scrittore francese Marek Halter: "Una bomba non ha stati d’animo, non sa riconoscere i buoni dai cattivi". Non può esserci una "guerra pulita". Una volta su tre i droni confondono una festa con un covo di jihadisti. Esistono guerre umanitarie ma non ci sono eserciti incolpevoli, perché una bomba non ha stati d’animo, non sa riconoscere i buoni dai cattivi e non sa mai che cosa colpirà. Una volta sarà un deposito di armi. Un’altra un covo di terroristi. Un’altra ancora una scuola oppure un ospedale, com’è accaduto due giorni fa a Kunduz, luoghi innocenti per eccellenza. Ora, poiché non può esserci una guerra "pulita", perché stupirsi quando si producono "danni collaterali" com’è appena accaduto in Afghanistan? È evidente che a provocare tragedie del genere sia spesso l’esercito americano, perché è il più ubiquo e il più potente del pianeta. L’abbiamo visto in Somalia, poi in Iraq e adesso in Afghanistan. Su quanto sta accadendo in Siria non ci è dato sapere, dal momento che da mesi il Pentagono non rilascia immagini dei suoi bombardamenti sulle postazioni dello Stato Islamico. Il modus operandi di Washington è sempre lo stesso ed è quello sbagliato: l’uso spropositato di raid aerei che, con il loro corredo di bombe "intelligenti", sbagliano immancabilmente obiettivi. Basterebbe elencare la quantità di stragi compiute negli ultimi anni nelle montagne del Pakistan, o nel deserto yemenita, dove una volta su tre i droni statunitensi confondono una festa di matrimonio o un mercato di cammelli con un campo di addestramento jihadista. Stavolta, tuttavia, dopo la distruzione dell’ospedale afgano di Medici senza frontiere, il governo di Kabul ha detto che vi si nascondevano terroristi e Washington ha promesso un’inchiesta esaustiva. Questo tipo di giustificazione a posteriori pone un problema morale, che è lo stesso che emerse durante l’ultimo conflitto tra Hamas e Israele, quando c’erano jihadisti che trovavano rifugio nelle scuole o appunto negli ospedali della Striscia di Gaza. Che fare, allora? Bombardare a rischio di colpire degli innocenti, di "danni collaterali", o non bombardare lasciando in vita potenziali kamikaze? Ricordo che negli Anni 60, a cena da amici, Jean-Paul Sartre pose una domanda analoga ad Albert Camus. Gli chiese: "Se la polizia cattura un terrorista che ha piazzato una bomba in una scuola, è giusto torturarlo per farsi dire dove ha messo il suo ordigno e salvare i bambini? Oppure, visto che la tortura è il più orrendo dei crimini, non va torturato col rischio di far saltare in aria tutta una scolaresca?". Sartre disse di non conoscere la soluzione. Camus diede invece una risposta definitiva. Disse: "Peggio per i bambini". Intendeva che qualsiasi cosa accada, non si può trasgredire un principio, perché allora diventano infrangili tutti i principi. In altre parole, non si deve mai torturare nessuno, neanche se ci sono ottimi motivi. Credo anche che se i Taliban o le brigate dell’Is sono davvero un pericolo mortale, che rischia prima o poi di arrivare fino alle porte di casa nostra, allora dobbiamo dichiarargli guerra. E farla per davvero. Non basta sganciare qualche bomba dal cielo, perché dall’altra parte ci sono decine di migliaia di nemici determinati a combattere e pronti a morire. È necessario schierare un esercito di terra e mettere in conto che nel conflitto possano morire anche i nostri soldati. Altrimenti saremo condannati alla sconfitta. Ci sono già numerosi giovani che dalla Francia e l’Inghilterra partano a combattere al fianco dei peshmerga curdi contro gli islamisti, perché consapevoli che i raid aerei non bastano più. Mi ricorda l’atto di straordinaria solidarietà delle brigate internazionali che nel 1936 si arruolarono da tutto il mondo per aiutare la giovane Repubblica spagnola insidiata dalle forze fasciste. L’altra priorità della comunità internazionale è costringere la Turchia a smettere di bombardare i curdi. Al momento, l’unico esercito in campo contro le legioni del Califfato è quello curdo. E noi, questo esercito dobbiamo aiutarlo, armarlo con armi moderne e non di seconda scelta come abbiamo fatto finora. Se agiremo diversamente, i jihadisti continueranno a vincere sul terreno, e a compiere le loro atrocità su cristiani, yazidi e musulmani che non la pensano come loro, i quali fuggiranno dalla Siria e dall’Iraq e andranno a ingrossare le colonne di profughi diretti verso l’Europa. Lo Stato islamico vuole indebolirci. È la sua strategia. E ogni volta, che un migrante sbarca da noi, il Califfo raggiunge il suo obiettivo. Radicali: cannabis ai malati, Rita Bernardini dai carabinieri Corriere della Sera, 5 ottobre 2015 La segretaria di Radicali Italiani, Rita Bernardini, è stata convocata ieri sera nella caserma dei carabinieri di Trastevere a Roma. I militari le hanno chiesto spiegazioni dopo la distribuzione di cannabis ad alcuni malati, avvenuta in mattinata davanti alla sede romana del Partito radicale. Bernardini, comunicano gli esponenti del partito, ha rilasciato "dichiarazioni spontanee dopo aver condotto un’azione di disobbedienza civile" consegnando ad alcuni malati cannabis per uso terapeutico. Per un episodio analogo, la distribuzione di cannabis durante il congresso dei Radicali, Rita Bernardini è imputata in un procedimento presso il tribunale di Siena. Venerdì scorso si è svolta la prima udienza a suo carico. Siria: detenuto politico scomparso da prigione regime, da 3 anni in carcere senza accusa Ansa, 5 ottobre 2015 Non si hanno più notizie da giorni di uno dei più noti detenuti politici siriani, Bassel Khartabil, un informatico arrestato dalle autorità di Damasco più di tre anni fa per il suo coinvolgimento nel movimento non violento di protesta del 2011. La rivista americana Foreign Policy lo aveva inserito al 19/mo posto nella lista dei Top Global Thinkers del 2012. La famiglia del 36enne di origini palestinesi ha informato la stampa internazionale del trasferimento di Khartabil dalla prigione di Adra, vicino Damasco, in un luogo sconosciuto, forse un tribunale militare. "Abbiamo perso contatti con Bassel, e temiamo per la sua vita", hanno riferito ai media i familiari dell’attivista. Khartabil, anche noto come Bassel Safadi, era stato arrestato nel marzo 2012 senza un capo di accusa. Come riferisce la famiglia, non è mai stato rinviato a giudizio e da anni era nel carcere di Adra. Foreign Policy lo aveva inserito nella lista dei Global Thinkers per la sua "ostinazione, contro ogni evidenza, per una rivoluzione siriana con mezzi pacifici". Iraq: accuse di violazioni dei diritti umani nel carcere di Nassiria Nova, 5 ottobre 2015 I responsabili del carcere di al Hus a Nassiria, nella provincia meridionale irachena di Dhi Qar, sono accusati di aver permesso la violazione dei diritti umani e l’esecuzione di abusi nei confronti dei detenuti. Secondo quanto denuncia l’emittente televisiva "al Jazeera", il timore è che abusi del genere siano stati compiuti anche in altre carceri del paese. Non è la prima volta però che il carcere di Nassiria finisce al centro di polemiche di questo tipo. Familiari di detenuti denunciano inoltre il fatto che non è consentito a nessuno ispezionare il carcere e fare visita ai detenuti. Gli unici in passato a farlo sono stati dei delegati della Croce Rossa che hanno chiesto al ministero della Difesa di trattare i detenuti in base alle leggi internazionali. Stati Uniti: a Guantánamo prigioniero britannico denuncia torture e abusi Reuters, 5 ottobre 2015 Afferma di aver subito brutali abusi e visto compiere torture Shaker Aamer, l’ultimo prigioniero britannico rinchiuso a Guantánamo, di cui nei giorni scorsi è stata annunciata la liberazione. Il Mail on Sunday ha pubblicato un resoconto della telefonata fra il detenuto e il suo legale: è la prima reazione del 46enne dopo l’annuncio della sua scarcerazione che pone fine ai 14 anni di ‘incubò nella prigione di massima sicurezza creata dal governo Usa per i sospetti membri di Al Qaeda. Aamer però teme ancora di non uscire vivo dalla sua detenzione. "C’è della gente che non vuole che io veda più il sole", ha detto. E ancora: "Se muoio sarà piena responsabilità degli americani". Shaker sta ancora facendo lo sciopero della fame iniziato per protestare contro un’aggressione da parte delle guardie carcerarie Usa. Ha affermato anche che sono state carpite informazioni con la tortura a un prigioniero, informazioni poi usate dal governo britannico di Tony Blair per giustificare la guerra in Iraq del 2003 a fianco degli Usa. Cina: medico denuncia "organi prigionieri espiantati mentre i pazienti sono ancora vivi" articolotre.com, 5 ottobre 2015 Cuore, reni e cornee di prigionieri espiantati mentre i pazienti sono ancora vivi. È ciò che emerge da un nuovo documentario choc in Cina, dove le persecuzioni religiose contro i fedeli della setta Falun Gong sono atroci e ciononostante vengono ignorate dall’opinione pubblica internazionale. Già nel 2006 emersero le prime voci, poi rivelatesi drammaticamente fondate, del terribile commercio d’organi in atto da anni nel Paese. Il nome del documentario è già un avvertimento: "Hard to Believe", "Difficile da credere", un gioco di parole che si riferisce anche al fatto che professare la propria religione in Cina è un’impresa eroica. Il regista del documentario, Ken Pietra, ha spiegato al tabloid britannico "Daily Mail" che il suo film è un modo per indagare i motivi che spingono il resto del mondo a far finta di niente verso quella che è "una delle peggiori violazioni dei diritti umani dei nostri tempi". Nel documentario, Pietra ha raccolto le strazianti testimonianze di ex prigionieri e anche quella, particolarmente scioccante, di un chirurgo che racconta di aver estratto organi ad alcuni prigionieri mentre questi ultimi erano svegli. Il medico, che allora era un chirurgo e oggi fa il tassista e vive a Londra, ricorda di essere stato portato in un luogo di esecuzione. Lì trovò, in terra, un detenuto con una ferita di arma da fuoco che, comunque, se curato in tempo, si sarebbe potuto salvare. Ciononostante gli fu ordinato di procedere all’estrazione dei suoi organi senza anestesia e di dimenticare tutto ciò che aveva visto. Naturalmente quell’esperienza ancora oggi lo perseguita. La Cina tiene molto a coprire il traffico di organi, che rappresenta un business da miliardi di dollari. Nel 2006, durante la prima inchiesta mai compiuta su questo fenomeno, emerse che gli ospedali pagano fino a 30 mila dollari per la cornea, 62 mila per un rene e 130 mila per un fegato o per un cuore. Un massacro che passa sotto silenzio, visto che le prove vengono sistematicamente fatte sparire.