Giustizia: Cardinale Fisichella "non mi meraviglierebbe richiesta del Papa per amnistia" Adnkronos, 4 ottobre 2015 Il coordinatore del Giubileo ribadisce che si sta lavorando per portare in Piazza San Pietro alcuni detenuti per le celebrazioni. In merito alla possibilità che Papa Francesco chieda un’amnistia per i carcerati in occasione del Giubileo "non sono in grado di rispondere ad ora, ma non mi meraviglierebbe". Lo dice a Sky Tg24 Hd il coordinatore per la Santa Sede del Giubileo straordinario della misericordia, monsignor Rino Fisichella, rispondendo a Emilio Carelli nel corso de L’Incontro, in onda questa sera alle 21.30 sui canali 100 e 500 di Sky. "Se il Papa dovesse chiedere un’amnistia - dice Fisichella - non potrebbe rivolgersi solo allo Stato italiano. Ogni gesto del Papa è un gesto che guarda al mondo e quindi dovrebbe avere di per sé una dimensione internazionale, una dimensione mondiale: il Papa si rivolgerebbe a tutti coloro che sono responsabili delle istituzioni. Quello che oggi sappiamo è che stiamo lavorando, proprio su indicazione di Papa Francesco, perché per la prima volta il Giubileo non sia soltanto celebrato nelle carceri, ma alcuni carcerati possano venire anche a San Pietro". Giustizia: magistrati e politica, il Csm e le aperture alle tematiche legislative di Enrico Buemi (Senatore) Il Tempo, 4 ottobre 2015 Il mio disegno di legge sulla responsabilità civile dei giudici fu destinatario, in una fase delicata dell’iter, di un parere assai critico del Consiglio superiore della magistratura (che per fortuna non fu accolto dal legislatore). Ecco perché saluto con favore il netto miglioramento con cui il Csm ha scelto di approcciarsi a tematiche legislative. Con la proposta di risoluzione avanzata dalla competente commissione del Csm al plenum (relatore Morosini), l’organo di autogoverno si pronuncia, infatti, sulla materia oggetto del disegno di legge "Disposizioni in materia di candidabilità, eleggibilità e ricollocamento dei magistrati in occasione di elezioni politiche e amministrative nonché di assunzione di incarichi di governo nazionale e negli enti territoriali. Modifiche alla disciplina in materia di astensione e ricusazione dei giudici" (ora Atto Camera n. 2188). È importante il riconoscimento che occorre disciplinare più articolatamente il caso della mancata elezione, stabilendo il divieto di rientrare in ruolo in una sede giudiziaria che si trovi entro la circoscrizione elettorale in cui si siano svolte le elezioni, ovvero introducendo un vincolo temporale alla possibilità di esercitare le funzioni giudiziarie nella circoscrizione nel cui ambito si siano svolte le elezioni. Ricordo che, in proposito, l’emendamento 5.1 del Gruppo socialista in Senato era assai più rigoroso, perché prevedeva che i magistrati candidati e non eletti "non possono essere ricollocati nel ruolo di provenienza". Quanto al rientro in ruolo del magistrato, dopo la scadenza del mandato elettorale, il testo Morosini prevede che il ricollocamento a funzioni diverse da quelle giudiziarie sia solo una opzione tra le tante, rispetto al ritorno all’esercizio delle funzioni giurisdizionali "connotato da stringenti vincoli territoriali e funzionali". Anche qui, la posizione del Gruppo socialista in Senato era assai più rigorosa: l’emendamento 6,3 prevedeva che i magistrati eletti, alla cessazione del mandato parlamentare, non potesse tornare a svolgere le funzioni svolte prima del mandato e che per essi, cosi come per quelli nelle elezioni locali, vi fosse soltanto lo sbocco del ricollocamento. La proposta Morosini affaccia in più il transito nella dirigenza pubblica, che con i decreti delegati al ministro Madia dal Parlamento potrebbe, in effetti, accentuare i caratteri di terzietà dei suoi ruoli apicali, rispetto all’indirizzo politico del Ministro. La sfida è comprendere se questo diverso apporto arricchirà, o all’opposto inibirà, l’efficacia dell’azione amministrativa. Mi auguro che il ministro Orlando, anche su questo punto, esprima un ruolo di raccordo tra la prossima discussione al plenum del Csm e le citate proposte all’esame del Parlamento. Se il Ministro della giustizia saprà esercitare un ruolo di leadership nella prossima discussione, nelle due sedi, potrà superare le criticità che questa consiliatura del Csm ha espresso, a partire dalla discutibile decisione - che smentì una nomina espressa legittimamente dal Parlamento - e proseguita nella penosa gestione del caso ferie dei magistrati. Giustizia: Sabelli (Anm); riforma processo penale rischia di avere effetti molto negativi Il Sole 24 Ore, 4 ottobre 2015 Il disegno di legge di riforma del processo penale, "rischia di avere effetti molto negativi". A ribadire il giudizio "fortemente critico" dell’Anm sul Ddl approvato alla Camera e ora all’esame del senato è stato ieri il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Rodolfo Sabelli, nel suo intervento al Comitato direttivo centrale, convocato in preparazione del congresso in programma a Bari dal 23 al 25 ottobre. Effetti negativi che per Sabelli riguarderanno soprattutto le indagini, per i tempi rigidi introdotti sia per l’iscrizione nel registro degli indagati sia per la decisione del pm di chiedere il rinvio a giudizio o l’archiviazione a conclusione delle indagini. Termini "astratti, che non si confrontano con la realtà degli uffici giudiziari e che per questo sono inapplicabili". Bene invece per il numero uno dell’Anm, l’avvio con lo stanziamento di fondi dell’ufficio del processo, struttura di supporto al giudice, presentato venerdì dal Guardasigilli Andrea Orlando: "Speriamo sia un primo segnale di un’inversione di tendenza sull’organizzazione degli uffici e sulle risorse". Giustizia: "mille soldati in più contro la camorra", il piano del ministro Pinotti per Napoli di Ottavio Lucarelli La Repubblica, 4 ottobre 2015 Pinotti: contingenti già impiegati in missioni estere per fermare l’escalation violenta delle baby gang. Il governo è pronto a inviare mille militari a Napoli per contrastare l’escalation di violenza delle "baby paranze" di camorra nel centro storico e nelle periferie. A dare l’annuncio, dal palco della Festa regionale dell’Unità nel Parco del Miglio d’Oro, è il ministro della difesa Roberta Pinotti: "Possiamo inviare fino a mille militari per contrastare la camorra, ma questo non significa che vogliamo militarizzare la città perché invieremo uomini che hanno ben operato in Afghanistan, ma anche all’Expo di Milano. Soldati che sanno controllare il territorio in modo non invasivo". Nessuna militarizzazione nelle strade della città ma "massima disponibilità sempre d’intesa con il ministero dell’Interno". Una decisione che rafforza il piano annunciato il 29 settembre dal Viminale dopo una riunione del Comitato per la sicurezza dedicato a Napoli. In quell’occasione il ministero dell’Interno ha deciso l’invio a Napoli di duecento agenti di polizia per "operazioni ad alto impatto" oltre al rafforzamento della videosorveglianza, fuori uso da tempo in gran parte della città, e all’intervento di investigatori specializzati nella lotta alle mafie, in particolare proprio nel contrasto ai violenti clan della nuova baby camorra. Bande composte da giovani e giovanissimi che in alcuni atti giudiziari sono state definite le "paranze dei bambini". Gruppi emersi negli ultimi anni dopo la cattura e il pentimento di diversi capi della camorra. Ieri l’annuncio da parte del ministro della Difesa che prima di lasciare la Festa regionale dell’Unità ha ribadito, tra gli stand del Parco circondato dalle Ville borboniche, la forte volontà di dare un proprio contributo "inviando militari di servizio". "Noi - ha spiegato il ministro Pinotti - in questo momento abbiamo già settemila soldati in tutta Italia, inviati in quarantacinque province, che coadiuvano le forze dell’ordine nel controllo del territorio e a volte anche nella protezione di obiettivi sensibili come all’Expo di Milano e nella Terra dei Fuochi qui in Campania. Se la situazione di Napoli necessita in questo momento di un’attenzione particolare, siamo disponibili ad aumentare il contingente. Lo faremo sempre in accordo col ministero dell’Interno che deve averne la regia, ma con la concreta volontà da parte della Difesa di dare un forte contributo nel contrasto ai clan". Mille soldati anche per rispondere massicciamente ai gravi fatti delle ultime settimane. Il minorenne ucciso un mese fa nel rione Sanità, il poliziotto gravemente ferito dieci giorni fa a Fuorigrotta mentre era impegnato in un’operazione antiracket. L’agente della squadra mobile, Nicola Barbato, la scorsa settimana ha ricevuto il conforto del Capo dello Stato Sergio Mattarella, durante la sua prima visita ufficiale a Napoli, e del ministro dell’Interno Angelino Alfano. Entrambi si sono trattenuti alcuni minuti nell’ospedale napoletano Loreto Mare dove hanno incontrato i familiari e i colleghi di Barbato. "Dove arrivano i confini del contraddittorio", il tema all’esame della Cassazione Il Sole 24 Ore, 4 ottobre 2015 Le Sezioni unite della Corte di cassazione nei prossimi giorni saranno chiamate a una decisione molto delicata. Si tratta, infatti, di definire i confini del contraddittorio, cioè del confronto fra fisco e contribuente, nel momento in cui l’amministrazione prima di emettere un atto di accertamento. Che il tema sia delicato lo testimonia il fatto che il problema ritorna per la terza volta in due anni all’esame delle Sezioni unite. E la decisione peserà molto nella percezione dei rapporti fra cittadino e Stato: potersi spiegare nel momento in cui si viene "accusati" di una mancanza fiscale - anche con il semplice invio di una contestazione da poche decine di euro - dovrebbe essere un valore in sé per un sistema equo. Una possibilità che comunica l’idea di uno Stato non "estraneo" ai propri cittadini. Questa sembra essere, almeno in parte, anche la linea della riforma fiscale che è stata varata nelle scorse settimane. I magistrati sono (e giustamente) autonomi e indipendenti: alla loro sensibilità il compito di lasciare spazio al confronto, senza che questo porti a ingiustificati "abusi del diritto di difesa". Adottabili i figli degli ex detenuti affidati a parenti inadeguati di Lucia Izzo studiocataldi.it, 4 ottobre 2015 Cassazione - Prima Sezione Civile -Sentenza n. 19735/2015. Il completo disinteresse dei genitori espatriati dopo il carcere senza lasciare recapiti giustifica lo stato di abbandono. Sono adottabili, poiché considerati "abbandonati", i minori i cui genitori, prima detenuti, una volta scarcerati siano espatriati senza lasciare alcun contatto, affidando i bambini ad una parente che non ha prestato loro le dovute cure e attenzioni. Il diritto del minore a crescere ed essere educato nell’ambito della famiglia di origine, considerata l’ambiente più adatto per un armonico sviluppo psicofisico, pur dovendo essere garantito anche mediante la predisposizione d’interventi diretti a rimuovere situazioni di difficoltosa e disagio familiare, incontra i suoi limiti in presenza di uno stato di abbandono, ravvisabile allorché i genitori ed i parenti più stretti non siano in grado di prestare in via non transitoria, le cure necessarie, né di assicurare l’adempimento dell’obbligo di mantenere, educare ed istruire la prole. In tali situazioni, la rescissione del legame familiare appare l’unico strumento idoneo ad evitare al minore un più grave pregiudizio ed a garantirgli assistenza e stabilità affettiva. Lo precisa la Corte di Cassazione, prima sezione civile, con la sentenza n. 19735/2015, sul ricorso presentato da due genitori che contestano il provvedimento di dichiarazione dello stato di adottabilità dei loro figli ed il collocamento degli stessi in casa famiglia. Nonostante la tenera età, i minori venivano rinvenuti dalla Polizia Municipale durante un sopralluogo, da soli nei giardini pubblici. Il camper in cui vivevano con la nonna, era inadeguato per la loro sistemazione abitativa, e i piccoli mostravano gravi carenze igieniche ed assenza di scolarizzazione. I genitori, detenuti e poi scarcerati, si erano trasferiti in Francia senza lasciare alcun recapito e disinteressandosi completamente ai bambini, affidati alla nonna, fino alla sentenza di primo grado, imputando ad altri la propria irreperibilità e dichiarando di voler tenere con loro i minori ma senza elaborare alcun progetto mirante al benessere degli stessi. Gli Ermellini concordano con i giudici di merito e precisano che la situazione nella quale versano i minori non può essere esclusa in virtù dello stato di detenzione al quale il genitore sia temporaneamente assoggetto. Questo non vale sempre, poiché l’impossibilità di prestare al minore le cure necessarie a causa delle detenzione non è di per se sufficiente a giustificare l’affermazione dello stato di abbandono che deve essere accertato sulla base di criteri rigorosi. Si deve aver riguardo alla sensibilità eventualmente dimostrata dal genitore per le esigenze affettive e materiali del figlio, dell’apporto fornito da altri parenti, dell’aver affidato i bambini a persone in grado di prendersi cura di lui preoccupandosi che il minore non rimanesse privo di assistenza morale e materiale, seguendone la crescita e l’educazione. Nella specie un siffatto atteggiamento non è stato rinvenuto, poiché i genitori si erano disinteressati dei figli completamente, anche in epoca anteriore e successiva alla detenzione, affidandoli alla madre dell’uomo per trasferirsi in Francia senza neppure lasciare un recapito per i casi di emergenza e senza richiedere notizie dei bambini neppure a seguito della scarcerazione e fino alla dichiarazione dello stato di adattabilità. La gravità delle condizioni psicofisiche ed ambientali dei minori, affidati ad una parente con la quale non avevano familiarità, maltrattati dalla stessa, non curati sotto l’aspetto igienito-sanitario e non avviati neppure alla frequentazione scolastica, testimonia i presupposti per la pronuncia di abbandono ed adattabilità. Il ricorso va pertanto rigettato. Lettere: incertezza del diritto, la certezza che fa male alla giustizia italiana Il Tempo, 4 ottobre 2015 Caro direttore, ho un dubbio che mi passa per la testa, quando leggo o sento in tv che Tizio o Caio sono stati condannati per aver commesso uno o più omicidi. Perché la Giustizia italiana è sempre così incerta? Condanna Salvatore Parolisi per l’omicidio della moglie ma gli toglie un’aggravante che secondo tutta Italia c’era, facendo sì che l’accusato rimarrà in carcere e poi potrà rifarsi una vita. Considera colpevole Annamaria Franzoni dì aver fracassato la testa al figlioletto e le infligge una condanna che diviene sempre più lieve. Per non parlare dell’omicidio di Meredith. Prima 50 giudici si dichiarano convinti della colpevolezza di Amanda e Raffaele, poi altri colleghi li smentiscono e se la prendono con chi ha indagato, dicendo in poche parole che non hanno capito niente. Ma lei lo sa che la stampa estera ci prende in giro da anni? La Giustizia italiana non è né troppo rigida né troppo garantista. Si mantiene nel mezzo, alimentando dubbi e non dando mai prova di coerenza e determinazione. Mi sbaglio? Grazia Riponi Cara Grazia in Italia abbiamo una sola certezza, l’incertezza del diritto. Da Garlasco a Brembate, da Parolisi a Cucchi, i casi di sentenze cambiate, ribaltate, opposte, non mancano. Riconoscendo che la nostra giustizia è altamente garantista, appaiono spesso contraddittorie o fallaci alcune indagini. Qualche "colpa", se così possiamo dire, è anche dei mass media perché gli investigatori finiscono sotto la luce dei riflettori e sembrano "costretti" a dire ogni giorno una novità o ad accelerare. Troppo spesso, specie negli ultimi tempi, è evidente che in molte inchieste, non c’è mai la cosiddetta "prova regina" e i processi diventano indiziari. Quando gli elementi sono deboli è difficile provare la colpevolezza degli imputati e quindi diventa più facile avere diverse interpretazioni da parte dei giudici. Oggi inoltre abbiamo l’abitudine di affidarci alle indagini all’americana, grazie all’alta tecnologia, e quindi di credere che il dna sia una prova schiacciante senza appello. Lo abbiamo pensato nel caso della piccola Yara Gambirasio: stati prelevati oltre 18 mila campioni genetici, sconvolto gli equilibri familiari di un paese, eppure sembrano non bastare ad inchiodare il muratore Massimo Bossetti, presunto assassino che resta in carcere. Qualcuno dice che la scienza non mente, altri sono convinti che servano prove più concrete. Certo è, che chi chiede giustizia deve aspettare a lungo e, in alcuni casi, accettare sentenze che suscitano interrogativi e una sola certezza: abbiamo una giustizia incerta. Sarina Bìraghi Milano: "Made in Carcere - 2nd Chance", da Lecce l’empowerment per le donne detenute Ansa, 4 ottobre 2015 Arriva a Expo la mostra legata al progetto "Made in Carcere - 2nd Chance", fino al 7 ottobre allo Spazio Donne - Women for Expo. L’associazione "Made in carcere", fondata da Luciana Delle Donne, 53enne leccese, realizza corsi di taglio e cucito nei carceri femminili, vendendo poi i prodotti in negozi, temporary store e bancarelle. Tutto è iniziato nel 2007, con una ventina di donne tra i 22 e i 60 anni del carcere di Lecce e Trani, per poi arrivare, grazie al progetto ‘Sigillò promosso dal Ministero della Giustizia, a coinvolgere tante altre detenute nei carceri di tutta Italia. Da allora "Made in carcere" è diventato un marchio conosciuto che realizza due linee: una Basic, il cui prodotto di punta sono i braccialetti, e un’altra più Luxury, con borse di seta dai colori sgargianti (grazie al materiale di scarto fornito da produttori sostenitori del progetto). "Ci piace colpire ed emozionare, sia con la bellezza dei prodotti, sia con le storie di chi li ha realizzati - ha detto Delle Donne -. Vogliamo dimostrare che esistono modelli di sviluppo sostenibili che includono socialmente, creano benessere e dignità, non soltanto profitto". Pisa: detenuti netturbini alla stazione, un progetto per garantire maggiore pulizia all’area di Daniele Benvenuti Il Tirreno, 4 ottobre 2015 I condannati ammessi a misure alternative avranno modo di espiare la parte conclusiva della loro pena contribuendo alla pulizia della zona della stazione fino a piazza Vittorio Emanuele. Affiancati dai volontari dell’associazione Perlambiente e dagli operatori dell’Avr (il global service del Comune di Pisa che si occupa anche della pulizia e della manutenzione delle aree a verde), due volte alla settimana avranno in carica l’area con il compito in particolare di tenere pulite le panchine e le aiuole. Stiamo parlando di una zona ad alta densità turistica e non solo, in cui spesso il degrado è la prima cosa che colpisce coloro che vi transitano. Un progetto che il Comune ha messo in campo insieme ai responsabili locali dell’Uepe (uffici per l’esecuzione penale esterna) che a Pisa gestiscono oltre 300 condannati. "Il progetto prende forma - spiegano Rossella Giazzi, Simona Erbi e Carolina Esposito, dell’ufficio esecuzione penale esterna - dalla volontà di coinvolgere soggetti che devono eseguire azioni di pubblica utilità dopo che queste sono state indicate come pene alternative alla detenzione. Stiamo parlando di persone che comunque sono già ammesse a questo percorso, dopo l’iter necessario con gli assistenti sociali ed il via libera del giudice, e che restituiscono alla collettività il maltolto che è costato loro la condanna. Inoltre, il buono o cattivo svolgimento di queste azioni influisce sulla pena". L’ufficio in questione fa parte del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e ha appunto il compito di occuparsi del "trattamento socio-educativo" delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà, svolgendo il compito di favore il reinserimento sociale di coloro che hanno subito condanna definitiva. Ad affiancare queste persone nel loro lavoro alla stazione saranno i volontari dell’associazione culturale Perla. "La nostra associazione - spiega Davide Puccioni - nasce dall’incontro di diverse figure professionali come geologi, biologi, forestali, riunite dallo scopo di comune di promuovere la salvaguardia dell’ambiente mettendo a disposizione la propria esperienza maturata sul campo. In questo progetto specifico affiancheremo i condannati in una azione di pulizia di tutta la zona della stazione, da viale Gramsci fino a piazza Vittorio. Con particolare attenzione alle panchine e alle aree a verde. Un lavoro in affiancamento con la ditta che si occupa di questo per il Comune". Caserta: corruzione e favori in carcere, l’ex Sottosegretario Nicola Cosentino a giudizio julienews.it, 4 ottobre 2015 È al suo quinto processo, ora si trova nel carcere di Terni. Il 21 ottobre prossimo comparirà davanti al giudice del Tribunale di Napoli Nord, Isabella Confortini, per rispondere dell’accusa di corruzione, in relazione al trattamento privilegiato di cui, secondo l’accusa, avrebbe beneficiato durante la sua detenzione al carcere di Secondigliano. Stiamo parlando dell’ex sottosegretario all’Economia, Nicola Cosentino, che è finito a giudizio unitamente al cognato, Giuseppe Esposito, alla moglie, Marisa Esposito, ed all’agente della penitenziaria, Umberto Vitale. Le indagini, condotte dai carabinieri del comando provinciale di Caserta, erano state avviate dai pm del pool anticamorra di Napoli. Poi gli atti sono stati trasmessi per competenza a Napoli Nord, dove titolari del fascicolo sono il pm Paola Da Forno ed il procuratore aggiunto Domenico Airoma. Il 21 marzo scorso, durante una perquisizione nella cella del carcere di Secondigliano, furono rinvenuti una trentina di oggetti non consentiti dal regolamento penitenziario. Secondo l’accusa, attraverso il poliziotto, i familiari facevano arrivare all’ex sottosegretario generi alimentari, medicine, scarpe e vestiti. Forse anche messaggi e documenti, circostanza quest’ultima però negata con decisione dall’ex parlamentare del Pdl. Cosentino, all’indomani della perquisizione in cella a Secondigliano, è stato trasferito nel carcere di Terni, da dove, collegato in videoconferenza, sta seguendo i processi che lo vedono coinvolto; per la cronaca, quello che comincerà il 21 ottobre prossimo, è il quinto processo che lo vede coinvolto. Agrigento: periti in carcere per valutare la capacità genitoriale di Veronica Panarello Giornale di Sicilia, 4 ottobre 2015 Incontro di 4 ore a Agrigento, disposto da Tribunale per minori. È durato circa 4 ore, nel carcere di Agrigento, il secondo accesso dei periti nominati dal Tribunale per i minori di Catania per valutare la "capacità genitoriale" di Veronica Panarello, la donna detenuta con l’accusa di avere ucciso, il 29 novembre del 2014, il figlio Loris Stival, di 8 anni. La perizia farà parte dell’udienza che si terrà il prossimo mese sull’affidamento del fratellino del bimbo ucciso, che è affidato in custodia unica al padre, Davide, e alla nonna paterna. Nei giorni scorsi, nell’ambito del procedimento civile, è stato compiuto un primo "accesso" al carcere di Agrigento dove si sono recati, assieme ai consulenti di Veronica Panarello (Sartori) e di Davide Stival (Catalfo) anche i periti nominati dal Tribunale dei minori di Catania - Domenico Micale, Francesco Vitrano e Jose Prezzemolo - per valutare le capacità genitoriali della stessa Veronica rinchiusa in cella dalla notte dell’8 dicembre dello scorso anno, con il sospetto di avere ucciso il figlio Loris e di averne occultato il cadavere nel canalone dove il corpicino è stato trovato da Orazio Fidone nel pomeriggio dello stesso giorno, il 29 novembre del 2014. Il Tribunale dovrà stabilire se Veronica abbia o meno la capacità genitoriale per ottenere l’affido del figlio minore, il fratello di Loris attualmente è affidato al padre Davide ed alla suocera. Belluno: la cella era troppo piccola, ex detenuto risarcito con 5.800 euro di Gigi Sosso Corriere delle Alpi, 4 ottobre 2015 Un bellunese che è passato per Busto Arsizio e Padova ha incassato 5.800 euro. Si è avvalso di una sentenza emessa della Corte europea e di un decreto legge. Cella sovraffollata? Una tortura. Meno di tre metri quadrati a testa danno diritto alla richiesta di un risarcimento danni allo Stato, sulla base della sentenza Torreggiani della Corte europea dei diritti dell’uomo e del decreto legge numero 92 dell’anno scorso. Un ex detenuto bellunese, difeso dall’avvocato Mario Mazzoccoli ha ottenuto 5.800 euro per i 730 giorni passati in spazi angusti, tra le carceri di Busto Arzizio e Due Palazzi di Padova. Non aveva abbastanza spazio vitale, insieme ad altri carcerati e, quando è uscito ha presentato un ricorso di fronte al giudice civile di Venezia, entro il termine previsto di sei mesi. Gli spettano otto euro per ciascun giorno di detenzione in condizioni difficili. E il conto torna. Nel caso fosse stato ancora detenuto, invece, avrebbe spuntato uno sconto di pena pari a un giorno ogni dieci trascorsi nelle stesse condizioni. L’uomo è in stato di libertà ormai da qualche settimana e ha anche trovato un lavoro. Era stato condannato a un certo numero di anni, per vari e non meglio identificati reati e quasi 24 mesi li ha passati con uno spazio vitale intorno troppo esiguo per essere considerato umano. La sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo è dell’8 gennaio di due anni fa e rappresenta una pesante condanna nei confronti dell’Italia e del suo sistema penitenziario. Il caso di Torreggiani e di altri ricorrenti era stato posto all’attenzione della Corte nell’agosto del 2009. È stato depositato da sette ricorrenti contro lo Stato per violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea, che proibisce trattamenti inumani e degradanti. I detenuti stanno scontando la pena nelle case circondariali di Busto e Piacenza. Ogni cella era occupata da tre detenuti, ognuno dei quali aveva meno di tre metri quadrati, come proprio spazio personale. Letti a castello e mobilio esclusi. La Corte considera che non solo lo spazio vitale indicato non sia conforme alle previsioni minime individuate dalla propria giurisprudenza, ma anche che tale situazione detentiva sia aggravata dalle generali condizioni di mancanza di acqua calda, mancanza di ventilazione e luce. Questa situazione costituisce una violazione dei requisiti minimi di vivibilità provocando una situazione di vita degradante. I danni morali subiti in violazione dell’articolo 3 della Convenzione è stata quantificata per loro in una somma di circa 100 mila euro a testa. Parma: "lezioni" sull’estraneità con Moni Ovadia e don Ciotti, anche dibattito sul carcere Gazzetta di Parma, 4 ottobre 2015 Da martedì 6 a sabato 10 ottobre Parma si candida a capitale italiana dell’educazione con il CantierEducare, festival organizzato dalla LUdE - Libera Università dell’Educare, di concerto con la Fondazione Cariparma e con il patrocinio della Presidenza del Consiglio dei Ministri, della Regione Emilia Romagna, dell’Università e del Comune di Parma. La manifestazione, che ha trovato casa negli spazi del Teatro Due, indaga attraverso laboratori formativi gratuiti (tutti i giorni alle ore 8.30 e alle 15.00, il 10 ottobre alle 11.00), conversazioni pubbliche ed eventi collaterali quell’attività di trasmissione di conoscenze, pratiche e valori di generazione in generazione che oggi appare in crisi. Il tema conduttore è l’Estraneità, individuata come tratto costitutivo dell’età contemporanea e delle sue pratiche educative. Su questo macro tema si confrontano quasi 40 esperti, tra cui il Ministro della Giustizia Andrea Orlando, il Ministro di Istruzione, Università e Ricerca Stefania Giannini, il fondatore di Libera don Luigi Ciotti, l’attore e drammaturgo Moni Ovadia, il sociologo della criminalità organizzata Nando Dalla Chiesa e il pedagogista Franco Cambi. Ad affiancarli, rappresentanti istituzionali, pedagogisti, docenti universitari, sociologi, etnografi, psicologi ed educatori, chiamati a intervenire su sette focus: inclusione ed esclusione urbana, con particolare riferimento ai margini educativi in prigione e negli ex Opg (7 ottobre mattina); lavoro ed economia tra formazione e alienazione (7 ottobre pomeriggio); scuola, università ed educazioni in affanno (8 ottobre mattina); mondi giovanili (8 ottobre pomeriggio); umanità naturale-artificiale (9 ottobre mattina); educazione civile (9 ottobre pomeriggio e sera); educazione intima (10 ottobre, mattina e pomeriggio). L’apertura del CantierEducare è affidata, il 6 ottobre dalle ore 17.00, a una tavola rotonda sulle preoccupazioni professionali, le premure etiche, le prefigurazioni politiche dell’educare. Intervengono: Federico Pizzarotti, sindaco di Parma; Stefano Bonaccini, presidente della Regione Emilia Romagna; Paolo Andrei, presidente della Fondazione Cariparma; Loris Borghi, rettore dell’Università di Parma; Pietro Buffa, provveditore regionale dell’Amministrazione Penitenziaria dell’Emilia Romagna; Nando Centorrino, presidente della Fondazione Antiusura "Padre Pino Puglisi"; Michele Gagliardo, coordinatore del Piano giovani del Gruppo Abele e componente del collegio formatori della LUdE. Al termine degli interventi istituzionali, l’intellettuale, attore e drammaturgo Moni Ovadia propone una sua personalissima riflessione sul tema dell’Estraneità. Il 7 ottobre alle ore 11.00 si confrontano con il Ministro Orlando sul tema dell’educazione nelle carceri e ai margini delle città: Maria Grazia Giampiccolo, direttore del carcere di Volterra, che si è distinta per l’impronta rieducativa impressa negli istituti detentivi che ha diretto; Angelo Righetti, psichiatra, storico collaboratore di Basaglia; Ivo Lizzola, componente del collegio formatori LUdE, docente di pedagogia sociale, della marginalità e dei diritti umani presso l’Università di Bergamo. Alle ore 17.30 conversazione pubblica dedicata al tema del lavoro e della formazione con: Alessandro Arrighetti, docente di economia industriale e dell’azione collettiva all’Università di Parma; Gaetano Giunta, segretario generale della Fondazione di Comunità di Messina; Maurizio Franzini, docente di politica economica dell’Università "La Sapienza" e presidente dell’Associazione "Etica e Economia"; Tiziana Tarsia, componente del collegio formatori LUdE e docente di politica sociale all’Università di Messina. L’8 ottobre alle ore 11.00 si parla di scuola, università e istituzioni educative in crisi con: Andrea Canevaro, docente di pedagogia sociale all’Università di Bologna, esperto di devianza giovanile; Raffaele Mantegazza, professore di pedagogia interculturale all’Università "Bicocca"; Luigina Mortari, docente di pedagogia generale e sociale all’Università di Verona; Emilio Vergani, componente del collegio formatori LUdE, esperto di responsabilità e di bilancio sociale. Dalle 17.30, invece, il CE getta uno sguardo sui mondi giovanili con: Franco Cambi, docente di pedagogia generale all’Università di Firenze, direttore scientifico dell’Archivio della pedagogia italiana del Novecento; Alessandro Bosi, professore di sociologia generale all’Università di Parma; Alessandro Padovani, psicologo e direttore delle attività sociali dell’Istituto Don Calabria in Italia, con all’attivo programmi di intervento nell’ambito della giustizia minorile e dell’inclusione di adolescenti; Sergio Tramma, componente del collegio formatori LUdE e docente di pedagogia sociale all’Università "Bicocca". Il 9 ottobre si analizza nella conversazione pubblica delle ore 11.00 il rapporto tra uomo e natura con gli interventi di: Carlo Sini, docente di filosofia teoretica e membro dell’Accademia dei Lincei; Elena Luciano, ricercatrice di pedagogia generale e sociale all’Università di Parma; Marianella Sclavi, sociologa, a lungo docente di etnografia urbana, arte di ascoltare e gestione creativa dei conflitti al Politecnico di Milano; Mario Schermi, responsabile LUdE, docente di pedagogia generale e sociale all’Università di Messina e formatore dell’Istituto Centrale di Formazione del Dipartimento della Giustizia Minorile presso il Ministero della Giustizia. Alle 17.30 sale in cattedra l’educazione civile su cui dialogano: Nando Dalla Chiesa, docente di sociologia della criminalità organizzata all’Università di Milano e presidente onorario di Libera; Anna Lazzarini, ricercatrice dell’Università IULM specializzata in teoria delle pratiche e degli spazi urbani; Salvatore Rizzo, assistente sociale, componente del collegio formatori LUdE, esperto di empowerment di comunità; Michele Gagliardo, del Gruppo Abele. La discussione prosegue alle ore 21.30 con don Luigi Ciotti, fondatore del Gruppo Abele e dell’associazione Libera contro le mafie. Il 10 ottobre alle 15.00 si parla di educazione intima con: Maria Grazia Riva, docente dell’Università Bicocca, specialista dell’abuso educativo; Sergio Manghi, professore di sociologia dei processi culturali e comunicativi all’Università di Parma, esperto di dinamiche vittimarie; Paola Scalari, psicologa, docente di psicoterapia della famiglia alla Scuola di Specializzazione della Coirag; Mario Schermi della LUdE. Chiudono il CE alle ore 17.30 gli interventi del Ministro dell’istruzione Stefania Giannini, del vice sindaco di Parma Nicoletta Paci, dell’assessore regionale a scuola, formazione e lavoro Patrizio Bianchi, del direttore di Animazione Sociale Franco Floris, e del responsabile LUdE Mario Schermi. Siena: "Le storie del chiostro", spettacolo con i detenuti e le storie di Santo Spirito sienafree.it, 4 ottobre 2015 Andrà in scena dal 13 ottobre lo spettacolo "Le storie del chiostro" che Albero Borghi e la Sobborghi Onlus mettono in scena nella Casa circondariale di Siena. Il progetto fa parte del programma di Siena Capitale italiana della cultura 2015 La casa circondariale di Siena apre le proprie porte al teatro e partecipa al programma di Siena capitale italiana della cultura 2015. L’associazione culturale "Sobborghi" Onlus metterà infatti in scena "Le storie del chiostro", uno spettacolo teatrale dei detenuti della Casa circondariale di Siena con la regia di Altero Borghi. "Lo spettacolo - spiega Borghi - nasce dall’idea di narrare la storia del chiostro all’interno del carcere di Santo Spirito ma anche tutte le storie che il vivere all’interno di questo spazio - che ha quasi 800 anni di storia - stimola i detenuti a scrivere, descrivere, inventare e pensare. Un sovrapporsi di emozioni, di vissuto, di narrato e di fantasticato che saranno espresse nel percorso scenico della rappresentazione". La prima del lavoro di Borghi coi detenuti è in programma per martedì 13 ottobre alle 17, le altre date sono: martedì 27 ottobre (ore 17), martedì 10 novembre (ore 16), martedì 17 novembre (ore 16) e martedì 15 dicembre (ore 16). Le rappresentazioni si terranno presso il teatro della Casa Circondariale in piazza Santo Spirito 3, al termine di ogni spettacolo sarà offerto un aperitivo "happy hour". L’ingresso è consentito fino a disponibilità di posti ma è necessario prenotarsi entro sette giorni dalla data dello spettacolo, inviando un documento di riconoscimento a questi indirizzi di posta elettronica: cc.siena@giustizia.it e matricola.cc.siena@giustizia.it. Da tempo l’associazione Sobborghi ed il regista Altero Borghi portano avanti il proprio lavoro all’interno della Casa circondariale senese attraverso un laboratorio teatrale permanente e spettacoli fuori e dentro gli spazi carcerari. Lo spettacolo è realizzato dall’associazione culturale Sobborghi Onlus con la partecipazione di Conad e Comune di Siena. Fa poi parte del programma di Siena capitale italiana della cultura 2015 una produzione del Comune di Siena con il Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, la Regione Toscana e la Provincia di Siena ed è realizzato in collaborazione con l’Università di Siena, l’Università per Stranieri, Fondazione Musei Senesi, Biblioteca comunale degli Intronati, Magistrato delle Contrade, Camera di commercio di Siena, Banca Monte dei Paschi di Siena, Fondazione Monte dei Paschi di Siena, Estra, Tiemme, Accademia Musicale Chigiana, Fondazione Siena Jazz, Istituto superiore di studi musicali Rinaldo Franci, Gruppo Polifonico Madrigalisti Senesi, Orchestra a Plettro Senese "Alberto Bocci" e Arcidiocesi di Siena, Colle di Val d’Elsa e Montalcino. Bergamo: sul palco con la scorta i musicisti del gruppo Officine Musicali Freedom Sound Corriere della Sera, 4 ottobre 2015 I cinque detenuti musicisti del gruppo Officine Musicali Freedom Sound si esibiranno domani, domenica 4 ottobre, in Città Alta. Lasceranno le loro celle a Bollate per raggiungere, scortati, l’ex carcere di Sant’Agata in Città Alta. I cinque detenuti musicisti del gruppo Officine Musicali Freedom Sound daranno dimostrazione dell’arte imparata dietro le sbarre, domani alle 16, per la manifestazione "Ora d’aria". "È un evento raro: non succede spesso che i reclusi possano uscire dal carcere per esibirsi. Di solito sono gli artisti che entrano nelle case circondariali per tenere concerti", dice Francesco Mondello, assistente capo della polizia penitenziaria, curatore del progetto. Artefice dell’idea, nel 2007, è stato Marco Caboni, allora rinchiuso a San Vittore e condannato a scontare 12 anni. Negli anni 70, Caboni suonava nel centro sociale Santa Marta di Milano, dove si sono esibiti per la prima volta Enrico Ruggeri, Jo Squillo, Demetrio Stratos. "Volevo insegnare le note ai miei compagni perché sapevo che sarebbe stato un modo per mettersi in gioco - dice Caboni. La musica ha regole da rispettare, esprime il valore della fratellanza, abbatte i muri delle diversità razziali e religiose". Quando è stato trasferito a Bollate, il musicista ha scritto a fabbriche di strumenti musicali e case discografiche finché sono arrivate le prime donazioni di attrezzature. Così ha potuto allestire in carcere tre sale prove. Caboni si è messo a dare lezioni di musica e, nel 2009, con il primo concerto, è nato il Freedom Sound di Bollate. "Al fresco", con la band di detenuti, hanno suonato nel corso degli anni Davide Cesareo, chitarrista di Elio, Stef Burns, Francesco Baccini. Ma l’obiettivo era far "evadere" la musica. Decisivo è stato l’appoggio di Mondello, degli agenti del quarto reparto e della direzione dell’istituto che sono riusciti a ottenere i permessi dai magistrati. Hanno potuto uscire dal carcere per partecipare a eventi a favore di Save the Children, Caritas, Emergency. Il gruppo ha partecipato anche alla trasmissione Jailhouse Rock su Radio Popolare. Da quando Caboni è in affidamento ai servizi sociali, il suo posto è stato preso da Angelo, alla chitarra, poi ci sono Francesco, con un passato da batterista per Patty Pravo, Luca alle tastiere, Daniel al basso, Roland alla chitarra. E le guardie. "Non arrivano in manette - sorride il poliziotto appassionato di musica. Ci fidiamo, senza perderli d’occhio". Il Viminale: da gennaio morti 2.755 migranti, affondate 770 barche sottratte agli scafisti di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 4 ottobre 2015 Il rapporto riservato del Viminale sulla lotta ai trafficanti di uomini. Gommoni affondati, pescherecci incendiati e mandati alla deriva. In attesa del via libera definitivo dell’Unione europea alle missioni contro gli scafisti, un rapporto riservato del Viminale sull’attività relativa all’immigrazione svolta nei primi nove mesi del 2015 rivela che dall’inizio dell’anno sono 771 le imbarcazioni distrutte, 49 quelle sequestrate. Due anni dopo il naufragio di Lampedusa che provocò centinaia di morti, il bilancio tracciato dagli analisti del ministero dell’Interno dimostra che l’attenzione deve rimanere concentrata proprio nella lotta contro i trafficanti di uomini. Anche tenendo conto che la possibilità di ottenere dall’Onu una risoluzione che autorizzi una missione militare in Libia appare assai remota e la situazione dello Stato africano continua a essere fuori controllo. Sono 130.449 i migranti giunti sulle coste italiane, quasi tutti ospitati nei centri governativi oppure nelle strutture reperite dalle prefetture sulla base della indicazioni fornite dal Dipartimento guidato dal prefetto Mario Morcone. La maggior parte ha chiesto di poter ottenere lo status di rifugiato. Secondo quanto dichiarato la scorsa settimana in Parlamento dal ministro Angelino Alfano "le istanze di protezione internazionale definite dalle commissioni territoriali sono state 42.801, con un incremento del 74 per cento rispetto allo stesso periodo del 2014". Sono 115.918 gli stranieri partiti dalla Libia, 9.830 dall’Egitto, appena 2.471 dalla Turchia. E proprio questi numeri dimostrano la necessità di governare i flussi in modo da evitare altre tragedie. Gli accordi di polizia siglati con le autorità di Ankara hanno infatti consentito di chiudere quasi completamente quella rotta marittima dopo numerosi naufragi avvenuti all’inizio di quest’anno. Ciò non impedisce ai migranti di intraprendere lo stesso il viaggio verso l’Europa, ma la scelta di optare per la rotta terrestre si è dimostrata certamente più sicura. Basti pensare che secondo i dati forniti dall’Alto commissariato per i rifugiati, i morti nel Mediterraneo nel 2015 sono stati 2.755, solo 287 i cadaveri recuperati. I risultati dell’attività contro gli scafisti rappresentano il capitolo più interessante perché per la prima volta rivelano l’esito di un lavoro svolto senza clamore ma, a quanto pare, fondamentale per cercare di limitare il traffico di esseri umani gestito dalle organizzazioni criminali libiche. Un’offensiva che - almeno a leggere i numeri - potrebbe aver messo in difficoltà gli scafisti, costretti a cercare nuovi canali di approvvigionamento dei mezzi, visto che rispetto allo stesso periodo del 2014 sono approdate circa 8.000 persone in meno. Fino allo scorso anno l’affondamento dalle imbarcazioni era vietato per ordine del ministero dell’Ambiente che ritiene possa essere causa di grave inquinamento del mare. Le nuove disposizioni del ministro Angelino Alfano - sollecitato dai vertici della Direzione centrale dell’immigrazione e della polizia di frontiera - consentono invece la distruzione e l’abbandono e ciò impedisce che i trafficanti le recuperino dopo i soccorsi, come invece avveniva in passato. Nelle tabelle allegate al dossier si parla di un’unica imbarcazione ripresa dagli scafisti e l’episodio è noto perché in quell’occasione i criminali furono ripresi dopo aver attaccato il mezzo della Guardia Costiera che aveva soccorso i migranti e costrinsero l’equipaggio a restituire loro il barcone. Sono 404 gli stranieri arrestati nei primi nove mesi dell’anno per aver gestito il traffico e soprattutto per aver guidato gommoni e barcone cariche di migranti, 113 sono egiziani, 63 tunisini. Nei prossimi giorni dovrebbe cominciare il trasferimento dei migranti da ricollocare negli altri Stati, così come stabilito dall’Unione europea. L’Estonia ha firmato due giorni fa un accordo con l’Italia per l’accoglienza degli stranieri, ma la destinazione iniziale dovrebbe essere la Svezia. Subito dopo comincerà a funzionare a Lampedusa il primo "hotspot" per l’identificazione degli stranieri. È la fase iniziale di un progetto che prevede la partenza di 4omila stranieri e l’apertura di cinque centri di smistamento. Un sistema che al momento non appare affatto risolutivo. Lampedusa sola con la memoria della strage del 3 ottobre di un anno fa di Rachele Gonnelli Il Manifesto, 4 ottobre 2015 Solo a Lampedusa è rimasto il compito di mantenere viva la memoria di quella che è stata probabilmente la peggiore strage di migranti del Mediterraneo, le 368 vittime dell’isola dei Conigli, i corpi che come venivano raccolti nelle buste nere a decine, per giorni, le bare alineate nell’hangar come in uno scenario di guerra. Anche il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha affidato a Lampedusa il suo discorso sulla tragedia del 3 ottobre, in particolare lo ha rivolto al sindaco delle Pelagie Giusi Nicolini che lo ha letto al termine della manifestazione di compianto e memoria alla Porta d’Europa, il monumento ad arco che ricorda le tante tragedie come quella del 3 ottobre 2013 che continuano a consumarsi nel tratto di mare davanti alla Sicilia. In duemila hanno partecipato alla manifestazione, sfilando per le strade del centro tra gli applausi dei lampedusani, con alla testa del corteo lo striscione: Proteggere le persone non i confini. "Lampedusa può diventare il simbolo di una riscossa dell’Europa, dopo essere stata a lungo la frontiera della speranza e della solidarietà", scrive il capo dello Stato, sottolineando come la strage del 3 ottobre "è una ferita drammaticamente aperta, un simbolo di umanità tradita, un grido che ancora scuote il nostro Paese e l’Europa intera". Ad ascoltare queste parole, anche una trentina tra sopravvissuti al naufragio del barcone e familiari delle vittime, arrivati da Svezia, Danimarca, Olanda. Ci sono anche i genitori di Ahmed, Abdel e Sabah, una coppia di siriani che poi ha trovato asilo in Norvegia. Sono venuti per compiangere il figlio e i suoi compagni di sventura e anche per chiedere un esame del dna sui resti dei corpi senza nome. Ahmed figura tra i dispersi di un altro naufragio, avvenuto una settimana più tardi sempre a largo di Lampedusa e i suoi genitori cercano ancora una traccia, un filo, una tomba, almeno, su cui piangerlo. La maggior parte dei corpi recuperati dalla strage del 3 ottobre sono sepolti nel cimitero di Agrigento. Ma a Lampedusa, nella tre giorni che l’isola ha dedicato alla memoria della strage più grande, c’è stata, ieri sera, anche una veglia di preghiera interreligiosa, organizzata da padre Mussie Zerai. E poi laboratori per studenti, seminari, incontri, laboratori di artisti con la partecipazione di varie ong, da Amnesty a Save The Children e dall’Archivio Migranti al Centro Astalli. Anche la presidente della Camera Laura Boldrini ha scritto un ricordo, sulla sua pagina Facebook rammentando come dopo quella tragedia, l’Italia abbia attivato l’operazione Mare nostrum, salvando decine di migliaia di vite grazie all’impegno della Marina militare, della Guardia costiera e degli altri corpi dello Stato, ma anche con il contributo della marineria e delle associazioni". Già Mare Nostrum. Anche l’ex premier Enrico Letta ha inviato un messaggio a Giusi Nicolini nel quale ricorda quel gesto, si inginocchiò davanti alle bare, il senso di impotenza e poi l’attivazione dell’operazione Mare Nostrum. Quella missione, gestita dalla Marina italiana, dette a Lampedusa due anni di respiro, salvando in mare oltre 170 mila vite umane. Ora che a Lampedusa la stessa costruzione in contrada Imbriacola è diventata, da una settimana, il primo hotspot aperto delle nuove regole europee, si continua a sentire la mancanza di Mare Nostrum. C’è Frontex che controlla l’hotspot, c’è Frontex in mare a salvare i naufraghi. "Ma non è la stessa cosa - spiega Filippo Miraglia dell’Arci - perché Mare Nostrum aveva strumentazioni, attrezzature e personale specializzato, sia per la ricerca delle barche, con i droni, sia per il soccorso. La mission di Frontex rimane il contrasto dell’immigrazione clandestina, si muove in rescue solo su segnalazioni". Le due missioni alla fine costeranno più o meno la stessa cifra - tra gli 8 o i 9 milioni al mese - con la differenza che adesso questi soldi li paga l’Europa e non l’Italia da sola. Con la differenza, anche, che i morti in mare anche quest’anno - dice Miraglia - sono aumentati. Fuga di massa attraverso l’Eurotunnel di Leonardo Clausi Il Manifesto, 4 ottobre 2015 In 200, sudanesi e eritrei, tentano di forzare il blocco scontrandosi con i gendarmi. La polizia indica un presidio di anarchici inglesi come ispiratore dell’assalto. L’esasperazione delle circa tremila - una stima prudente - persone ammassate in condizioni d’inimmaginabile degrado nell’accampamento presso Calais ribattezzato "la jungla" periodicamente trabocca. Allo stillicidio di vittime schiacciate sotto le ruote ferrate o folgorate dall’alta tensione nel tentativo di abbordare i treni che trasportano veicoli e merci attraverso il tunnel sotto la Manica (la tredicesima e ultima vittima un ventenne eritreo, morto lo scorso mercoledì), ha fatto seguito un tentativo d’irruzione in massa nel terminal francese che ha bloccato entrambe le gallerie dalla mezzanotte alle otto del mattino di sabato. Circa duecento migranti, originari soprattutto da Sudan ed Eritrea, sono riusciti a sfondare la matassa di recinzioni che avvolge i terminal Eurotunnel e Eurostar e a inoltrarsi di corsa per una quindicina di chilometri dentro l’Eurotunnel diretti a Dover, prima di essere respinti dai gendarmi francesi in presidio permanente nella zona. Ci sono stati scontri con gli agenti e lanci di sassi; i treni fra Folkestone e Calais sono stati cancellati, tra i feriti ci sarebbero un dipendente dell’Eurotunnel e due agenti di polizia. Il mattino di sabato il servizio ferroviario è ripreso, il ritardo accumulato di un paio d’ore è durato tutta la giornata, con Eurotunnel ed Eurostar che imploravano i loro passeggeri di perdonare il disagio arrecato in un edificante esempio di customer care. Contemporaneamente all’assalto al tunnel, altre centinaia di migranti cercavano di salire sui rimorchi dei camion in fila al terminal, camminando a fianco degli autoarticolati in quella lenta e surreale processione di uomini e veicoli diventata ormai familiare. La polizia avrebbe compiuto fino a un centinaio di arresti, e un portavoce dell’azienda ha parlato senza mezzi termini di "enorme invasione" e di "attacco organizzato", tanto che alcuni tabloid strillano la presenza nei pressi dell’accampamento di militanti anarchici, alcuni dei quali britannici, che da agosto si sarebbero a loro volta accampati nella zona per istigare i migranti ad adottare misure più drastiche per passare in Gran Bretagna: il coronamento di un sogno per molti, durato migliaia di chilometri percorsi ai limiti della sopravvivenza e in fuga da un inferno quotidiano fatto di guerra e povertà permanenti. Questa tentata breccia arriva dopo le tredici vittime che si sono susseguite qui dallo scorso giugno. Il giovane eritreo ritrovato mercoledì presso i binari del tunnel è la terza vittima in una settimana, dopo un ventenne iracheno schiacciato mentre cercava di aggrapparsi al semiasse di un camion martedì mattina e quella di un adolescente, forse proveniente dall’Africa centrale, finito sotto il treno all’ingresso del tunnel. L’episodio riporta la tragica situazione dei profughi a Calais al centro dell’attenzione dei media britannici, dopo che era scomparsa dai giornali e dai notiziari nazionali. Il governo conservatore, recentemente invischiato in una polemica con il sindaco di Calais sulle rispettive responsabilità dei due paesi nella gestione della crisi, ha reagito all’emergenza da par suo, vale a dire aumentando la presenza poliziesca nella zona e facendo dono al comune di Calais di altri chilometri di filo spinato. Sempre in agosto, Eurotunnel aveva annunciato un calo sensibile dei tentativi di passaggio notturno dei migranti, sceso da duemila a notte del mese di luglio a 150. Ma i continui arrivi al campo di Calais, spesso dopo aver attraversato le vicissitudini della più grave crisi umanitaria europea dalla seconda guerra mondiale, stanno portando una già scioccante situazione di degrado sull’orlo della deflagrazione. Un recente rapporto dell’università di Birmingham, pubblicato dal Guardian, parla di un luogo in cui le condizioni di vita sono letteralmente diaboliche, "molto al di sotto di qualsiasi standard minimo per un campo profughi". Circa tremila persone affamate e disperate sono ammassate in tende improvvisate e in condizioni igienico-sanitarie inimmaginabili e infestate di ratti, dove l’acqua è contaminata dagli escrementi e con svariati malati di tubercolosi, scabbia e stress post-traumatico. La più grande baraccopoli d’Europa in uno dei paesi più ricchi d’Europa. L’immigrazione e i suoi pregiudizi: non solo un problema europeo, il caso dell’Australia di Matteo Rubbini estense.com, 4 ottobre 2015 Il giornalista Jeff Sparrow descrive le politiche di isolamento australiane, dove "i laburisti si sforzano a superare i conservatori". Come viene gestita la situazione dei profughi? Quali sono i lati oscuri dell’accoglienza e le colpe del governo? Queste sono domande ricorrenti e attuali, ma che risposte si potrebbero avere quando la nazione presa in causa non è l’Italia bensì l’Australia? Se ne è parlato al teatro Comunale insieme a Ben Doherty giornalista di The Guardian, Jeff Sparrow, giornalista australiano, Joel van Houdt fotogiornalista olandese e Sam Wallman, fumettista. In apertura la giornalista de Internazionale Junko Terao ha ricordato ai presenti come l’Australia sia attualmente uno degli stati con una linea sull’immigrazione più dura, situazione che si è rafforzata con l’avvento, nel 2013, del premier conservatore Tony Abbott, accompagnato da slogan come "Stop boats". "È dagli anni settanta che l’Australia ha progressivamente irrigidito la propria linea sull’immigrazione - esordisce Doherty -. Ora i profughi che vengono intercettati dalle navi australiane vengono detenuti fino a sei anni e tutti i partiti, nessuno escluso, ha da quarant’anni contribuito ad aumentare la linea dura". Un destino avverso è quello che si staglia verso i migranti che decidono di avere la propria metà in Australia, risulta infatti da diverse inchieste, come ricorda il giornalista di The Guardian, che all’interno dei centri di detenzione avvengano "stupri ai danni di donne e bambini, tanto che è stato subito predisposto almeno lo spostamento dei minori in altra sede". A cosa sono da assimilare le cause del razzismo australiano? Secondo la visione dello scrittore Sparrow, contano molto le forze partitiche, comprese quelle laburiste che "addirittura si sforzano di superare i conservatori prima che similari manovre vengano effettuate da quest’ultimi, la parte più allarmante - rincara la dose - è che tutto questo viene spacciato per progetto umanitario. Infatti il governo continua a puntare su un trattamento sempre più severo dei profughi all’interno dei centri di detenzione perché credono che questo serva da deterrente per non farli partire. I politici dicono di farlo in nome del bene della collettività". Un altro grave problema, a detta di tutti i relatori, è l’invisibilità dei profughi, che al 2013 sono stati stimati intorno alle 20.000 vite. "È quasi impossibile fotografarli e vederli comparire sia nei media locali che quelli nazionali" - spiega Doherty - "questo fa parte di un processo voluto intenzionalmente per poterli disumanizzare, per non creare empatia. Pensiamo a come vengono identificati nei centri di detenzione, non sono chiamati per nome, bensì con il numero identificativa della barca su cui erano". Un processo che è stato parzialmente arginato da quando la foto di Aylan, il bambino siriano morto sulla spiaggia di Bodrum, che ha sensibilizzato buona parte degli australiani, come conferma Wallman, e che ha colto impreparato anche l’uscente premier australiano Abbott. In chiusura, il fotogiornalista Van Houdt, ha illustrato le tappe del suo viaggio partito da Kabul, insieme ad una famiglia afghanistana, ripercorrendo con i propri scatti uno dei tanti viaggi della speranza in direzione Australia, costato ad ogni componente del nucleo famigliare circa ottomila dollari ed una traversata in mare di tre giorni e tre notti. Viaggio che, a differenza di molte altre volte, non si è concluso con la reclusione in un centro di detenzione. Afghanistan: le bombe della Nato su Medici senza frontiere fanno 19 morti, anche 3 bimbi di Federico Rampini La Repubblica, 4 ottobre 2015 L’Ong: "Avevamo fornito le nostre coordinate Gps". Gli Usa: c’erano terroristi. L’Onu: crimine di guerra. Almeno 19 morti fra cui tre bambini, 37 feriti, decine di dispersi. È un ospedale di Medici Senza Frontiere il bersaglio di un raid della Nato in Afghanistan. Una tragedia che riporta in primo piano le "vittime collaterali" delle guerre dai cieli. Dura condanna internazionale, l’America apre un’indagine ma per ora non si scusa. "C’erano terroristi", secondo la versione ufficiale. In difficoltà la politica di Barack Obama in Medio Oriente, criticata anche da Hillary Clinton. Sono le 2.15 di sabato mattina, ora locale, quando nell’oscurità notturna parte l’attacco aereo delle forze Nato su Kunduz. Il primo bilancio arriva dalle vittime: Medici senza Frontiere. 12 pazienti e 7 membri del loro staff (medici e infermieri) sono uccisi nel bombardamento. The Daily Telegraph ipotizza 50 morti visto l’alto numero dei dispersi. Un tweet di Msf denuncia: "Hanno continuato a bombardarci per più di 30 minuti, anche dopo che le autorità militari di Kabul e di Washington erano state allertate sulla prossimità dell’ospedale". Il responsabile per l’Afghanistan di Msf Guilhem Molinie ha ricordato che "tutte le parti nel conflitto, a Kabul e a Washington, erano state chiaramente informate della precisa localizzazione con coordinate Gps delle strutture". Ma forse era proprio l’ospedale, l’obiettivo da colpire? Al momento del raid aereo lì dentro c’erano 105 pazienti e 80 membri dello staff di Msf. Dopo le bombe, l’incendio: alcune delle vittime sarebbero morte per le bruciature. Msf è una della più grandi Ong specializzate in soccorso medico umanitario, con 36.000 volontari in 60 paesi. Immediata la solidarietà di altre ong tra cui Emergency. La conferma della tragedia arriva dallo stesso comando della Nato: "Il centro traumatologico di Msf a Kunduz è stato colpito ripetutamente durante un intenso bombardamento". L’ambasciata americana a Kabul dichiara: "Siamo in lutto, Msf fa un lavoro eroico". Da Washington il segretario alla Difesa Ashton Carter annuncia l’apertura di un’indagine ma per ora niente scuse. L’Onu parla di "azione imperdonabile, potenzialmente criminale". È il governo afgano a giustificare il raid, con il portavoce del ministero dell’Interno Siddiq Siddiqi: "Là in quell’ospedale si nascondevano 10 o 15 terroristi". Il capo della polizia a Kunduz rincara: "Sparavano proprio da lì". La tesi viene ripresa dagli americani, col portavoce militare in Afghanistan Brian Tribus: "L’attacco aereo era diretto contro individui che minacciavano la coalizione Nato. Potrebbe avere provocato danni collaterali a una struttura medica vicina". La versione americana, a differenza di quella afgana, non cita la presenza di guerriglieri talebani dentro l’ospedale di Msf. Dettaglio importante perché lascia aperta la giustificazione di un "errore", diversa dall’attacco deliberato contro un ospedale. Questa città dell’Afghanistan settentrionale è ricaduta di recente nelle mani dei tale- bani. È in atto una battaglia furiosa per riportarla sotto il controllo del governo di Kabul. Kunduz è diventata un simbolo e il segnale di un rovescio dalle implicazioni più vaste: era dall’inizio dell’offensiva Nato nel 2001 che i talebani non riprendevano una città di quelle dimensioni. Una disfatta Nato che coinvolge la Germania: la sua Bundeswehr ebbe il controllo di Kunduz dal 2003 al 2013. A riprova di quanto gli americani siano preoccupati, è la prima volta che la U.S. Air Force ricomincia ad avere un ruolo di primo piano in questo teatro di guerra, da quando Obama aveva operato il ritiro quasi totale delle sue truppe. E pochi giorni fa un C-130 della U.S. Air Force si è schiantato a Jalalabad: 11 morti. In passato i raid della Nato che colpirono feste di nozze o bambini che raccoglievano legna, furono causa d’indignazione e di tensioni gravi tra Washington e i governanti afgani alleati degli Usa. Le stragi di civili, "vittime collaterali", hanno contribuito al risentimento della popolazione contro la coalizione occidentale. In questo caso, in base alle prime ricostruzioni potrebbe essere proprio una fonte d’ intelligence afgana ad avere guidato i bombardamenti verso l’ospedale Msf. Gli americani ricordano che un’indagine dell’Onu attribuisce a loro solo l’1% delle vittime civili in Afghanistan contro il 70% per i talebani. La stessa Onu stima che siano morti più di 19.000 civili in Afghanistan, da quando ha cominciato a raccogliere questi dati. Avendo quasi ultimato il proprio piano di ritiro, la Nato ha pur sempre 13.000 militari in Afghanistan di cui 10.000 americani. Per Obama il ritiro delle sue truppe da Iraq e Afghanistan è una delle promesse più importanti e vincolanti: vuole passare alla storia come il presidente che ha chiuso le guerre iniziate da George W. Bush. Ma in America il suo bilancio è criticato da più parti, visto che Iraq e Afghanistan stanno in parte tornando " in mano al nemico": l’Is ha conquistato il controllo di alcune aree in Iraq oltre che nella vicina Siria; i talebani avanzano in Afghanistan. A questo si aggiunge la novità dell’intervento russo in Siria a sostegno di Assad. Il repubblicano John McCain è il caustico: "Ecco cosa accade quando il nostro presidente esercita la sua leadership stando in retroguardia". Anche Hillary Clinton prende le distanze dal suo presidente: l’ex segretario di Stato vuole "un’azione più incisiva in Siria, con l’imposizione di una no-fly zone e di corridoi umanitari per proteggere i profughi". Afghanistan: tra le rovine di quell’ospedale l’America scopre l’ultimo inganno Vittorio Zucconi La Repubblica, 4 ottobre 2015 La strage di Kunduz dimostra che, 14 anni dopo l’attacco ordinato da Bush, questa è sempre più una missione incompiuta Un conflitto a cui più nessuno pensa. La "guerra dimenticata", quell’Afghanistan rimosso dalle coscienze e dai teleschermi del mondo, riesplode nelle rovine dell’ospedale di Medici Senza Frontiere a Kunduz colpito dalle bombe della Coalizione. Restano almeno 19 morti, fra medici e personale afgano che inutilmente avevano tentato di avvertire i comandi militari, poi feriti, ruderi affumicati, collera fra la popolazione locale, inutili scuse formali del generale americano John Campbell al presidente Ashraf Ghani. E al fondo la constatazione che, quattordici anni dopo la troppo facile liberazione dell’Afghanistan dal regime dei Taliban e le promesse di George W Bush sulle travi contorte delle Torri Gemelle, anche questa è diventata una guerra sempre più sporca, che non potrà essere pulita da una vittoria. L’attacco aereo all’ospedale di Kunduz sovraffollato di feriti dopo la battaglia che aveva visto i Taleban riconquistare la città e prenderne il controllo sopraffacendo le truppe governative- notizia che neppure aveva raggiunto il pubblico americano - ha il sapore disperante, eppure prevedibile, del "deja vu", della replica di tragedia già viste. La cronistoria della spedizione punitiva contro il regime che aveva accolto e protetto i comandi di Al Quaeda negli anni ‘90 è punteggiata di episodi come questo dell’ospedale di Kunduz, prodotti non della crudeltà, della stupidità militare, della stoltezza di bombe che non possono mai essere più "intelligenti" di chi le lancia, ma figli dell’inevitabile degenerazione di guerre che dopo l’illusione iniziale della "missione compiuta" si trasformano in interminabili e controproducenti "missioni incompiute". L’esistenza di quell’ospedale costruito e gestito da "Medici Senza Frontiere" a Kunduz era ben nota a tutti, civili, guerriglieri, truppe regolari e comandi delle Forze Aeree. Ma l’"intelligence", le informazioni raccolte da collaborazionisti, spie, doppio o triplo giochisti, da personaggi che in queste situazioni proliferano spesso in cambio di pochi dollari, avevano segnalato che quella struttura sanitaria era stata assalita e conquistata dai Taliban ed era divenuta una base di combattimento. Queste informazioni, che potevano avere o non avere un fondamento, hanno fatto alzare in volo i cacciabombardieri americani della Coalizione e partire i razzi che lo hanno centrato, uccidendo medici, infermieri, personale afgano e pazienti di ogni parte, perché le strutture di Msf, assistono tutti i feriti, senza chiedere documenti o appartenenze. Un comportamento che il governo, se così lo si può chiamare, di Kabul aborre. Siamo lontani, geograficamente e temporalmente, dalla massacro di MyLai, del villaggio sudvietnamita sterminato nel 1968 dai fanti del tenente William Calley che fece uccidere almeno 500 abitanti nel dubbio che fossero tutti agenti di supporto per i Vietcong, ma siamo vicinissimi a quella palude di operazioni di "counter insurgency", di antiguerriglia, nelle quali gli eserciti regolari inesorabilmente si fanno risucchiare. È un processo visto e rivisitato troppe volte per non essere ormai divenuto un caso di scuola: si parte dall’arrivo apparentemente trionfale dei liberatori. Prosegue con la formazione di governi e amministrazioni locali che fingono di avere legittimo potere nazionale e sono accreditate dagli occupanti in mancanza di altro. Si sgretola nella constatazione che le forze armate e di sicurezza costruite in fretta non hanno nessuna affidabilità. Degenera infine nella caccia "search and destroy", nell’inseguimento di capi, sottocapi, cellule, ras ribelli e nella illusione che la forza aerea, gli aerei e gli elicotteri guidati da satelliti e indirizzati da improbabili "agenti" sul posto possano domare la ribellione, senza sporcare stivali nella polvere. E tutto questo copione desolatamente scontato viene rappresentato sempre più lontano dall’attenzione e dalla coscienza della nazione più impegnata a interpretarlo, in questo caso gli Stati Uniti che da tempo hanno rimosso l’Afghanistan, e la piccola, sporca guerra in atto laggiù, la più lunga nella storia della nazione, dalle loro preoccupazioni, oggi concentrate su altre aree del mondo. Le puntuali notizie di bombardamenti di ospedali, ristoranti, feste di matrimonio, cortei funebri, scambiati per movimenti o centrali operative di ribelli passano nella indifferenza di una nazione che ha lasciato quasi tre mila morti, su quel terreno, 100 miliardi di dollari di tesoro nazionale e ora 10 mila vivi in uniforme per fingere di addestrare e assistere forze locali refrattarie all’addestramento e al combattimento. Come già gli eserciti fantoccio di Saigon o di Baghdad. Nell’ultimo sondaggio nazionale importante condotto nel 2013, l’82%, una proporzione plebiscitaria, era ormai del tutto contrario a quella presenza americana in Afghanistan che lo stesso 80% aveva applaudito quando George W Bush aveva lanciato piccoli reparti speciali e gruppi della Cia (ma mai le grandi unità militari di un Pentagono che non volle assumersene il peso e ne diffidava) verso Kabul. Nel 2015, nessun sondaggio è stato più condotto e nei dibattiti televisivi fra i candidati alla Casa Bianca, dal mattatore Donald Trump alle comparse marginali, la parola "Afghanistan" è mai stata neppure nominata. Il Presidente Obama resta fedele alla promessa di ritirare anche l’ultimo soldato americano, entro il 2016, per poter dire, nel momento dell’addio alla Casa Bianca, di avere mantenuto la parola data nel 2008, quando, prima della catastrofe finanziaria ed economica di quell’autunno, Afghanistan e Iraq sembravano nel cuore delle preoccupazione nazionali. Potrà dire di avere rispettato un impegno del quale ormai importa niente a nessuno, oltre alle decine di migliaia di soldati, reduci e famiglie che ancora sono prigionieri dell’ingranaggio di queste guerre "asimmetriche", sempre troppo facili da lanciare e sempre impossibili da chiudere, dove il cammino trionfale del primo giorno lentamente degenera in sabbie mobili. Quelle paludi nelle quali ora si sta avventurando Putin in Siria, come lo ha avvertito Obama, uno che ora se ne intende.