Giustizia: il Senatore Manconi "chiudere le carceri e trovare pene più utili" di Samuele Govoni La Nuova Ferrara, 3 ottobre 2015 Internazionale 2015 a Ferrara. Dibattito alla Sala Estense tra Luigi Manconi e Alessandro Bergonzoni. Il confronto tra il sociologo e l’attore su un tema molto delicato. Il maltempo non ha impedito a Luigi Manconi e Alessandro Bergonzoni, rispettivamente sociologo e attore, di incontrare il pubblico di Internazionale Ferrara. L’incontro che inizialmente avrebbe dovuto tenersi in piazza Municipale si è infatti svolto all’interno della Sala Estense. Una Sala Estense sold out, ma c’era da aspettarselo. Tema dell’appuntamento, che rientrava nel filone "Diritti" era "Abolire il carcere", libro pubblicato da Manconi per Chiare Lettere lo scorso aprile. La conversazione sul corpo e la libertà tra il sociologo e l’attore, ha dunque indagato sull’utilità effettiva o presunta che le carceri hanno oggi, soprattutto nel nostro Paese. L’interrogativo se lo pose già nella prima metà del Novecento il grande scrittore John Steinbeck, che nel suo "Furore", si chiedeva se il carcere fosse più utile o deleterio per il reinserimento dell’individuo nella società. Da allora molte cose sono cambiare ma in Italia, chi ruba in un supermercato può ancora ritrovarsi detenuto accanto chi ha compiuto crimini efferati. In "Abolire il carcere", volume firmato oltre che da Manconi anche da Stefano Anastasia, Valentina Calderone, Federica Resta e con la prefazione di Gustavo Zagrebelsky, vengono indicate 10 proposte, già oggi attuabili, per "provare a diventare un paese civile e lasciarsi alle spalle decenni di illegalità, violenze e morti", come si legge nella scheda del volume. "Il carcere si è dimostrato una pena nociva e inefficace e queste sono già due buone ragioni per abolirlo. Sembra un’utopia ma - spiega Manconi - anche chiudere i manicomi sembrava impossibile invece grazie a Basaglia è stato possibile. Chiudere le carceri non significa abolire la pena, bensì trovare pene più utili al reinserimento dell’uomo". E Bergonzoni aggiunge: "Non è niente di utopico, anzi è un ragionamento concreto, poetico e artistico prima ancora che politico e sociale. Non parlarne è anti politico, un legislatore deve pensare a nuove strade, concepire nuove vie. Chi sta bene anche se esiste il carcere è perché è fuori e lontano da quella realtà, è perché non la conosce". Basta ascoltare la descrizione di una comune cella per rabbrividire, per capire che gli uomini rinchiusi al suo interno spesso e volentieri perdono non solo la libertà fisica ma anche la dignità. "Non possiamo sempre dire: Non posso fare niente". Giustizia: "ufficio del processo" al via, completato il quadro normativo e stanziati 17 mln di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 3 ottobre 2015 Prende forma compiuta l’ufficio del processo. Una delle misure più volte evocata da magistrati e avvocati per restituire efficienza all’amministrazione della giustizia esce dal limbo delle intenzioni per essere sperimentato nel vivo degli uffici giudiziari. Il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, ha fatto il punto della situazione, dando la misura di un quadro normativo e di investimenti ormai in larga parte compiuto. "Se ne parla da molti anni - ha sottolineato, sappiamo che per arrivare alla piena potenzialità di questo strumento bisogna investire ancora, ma oggi questa struttura a supporto del giudice inizia ad essere realtà e va salutata favorevolmente". Anche perché, dove sperimentato, come a Milano e Firenze, i risultati sono stati interessanti con un abbattimento significativo dell’arretrato (-15%). Con l’ufficio del processo si dà corpo a uno staff di supporto all’attività del magistrato, destinato, almeno nelle intenzioni, a non essere una forma di assistenza episodica, quanto piuttosto un elemento chiave di rinnovamento degli elementi organizzativi del lavoro dei magistrati, con un occhio di particolare attenzione per la tecnologia. In questa prospettiva allora, le professionalità coinvolte saranno diverse e andranno da quella dei magistrati onorari a quella dei tirocinanti laureati, passando per quelle del personale amministrativo e degli ausiliari. Quanto agli interventi normativi, il percorso ha preso un abbrivio significativo l’anno scorso, con il decreto n. 90, che dava spazio a tribunali e corti d’appello per costituire l’ufficio del processo. A disposizione venivano messe borse di studio per giovani laureati che svolgono il tirocinio presso il magistrato e per chi aveva svolto un percorso formativo in cancelleria. E se i profili interessati sono diversi, altrettanto lo sono le attività: ricerca dottrinale e dei precedenti giurisprudenziali, stesura di relazioni, massimazione di sentenze, collaborazione diretta con il magistrato per compiti di supporto all’attività di udienza e di preparazione della stessa, rilevazione dei flussi dei dati statistici, controllo della corretta gestione dei registri informatizzati e ogni altro intervento di assistenza al processo civile telematico e all’informatizzazione del processo penale. Gli addetti all’ufficio del processo potranno poi affiancare il singolo magistrato per compiti di assistenza e collaborazione diretta, ma si potranno creare delle strutture o figure a servizio di tutta la sezione o unità organizzativa (ad esempio servizi unici di massimazione delle sentenze della sezione, presidi unici di una o più sezioni per la gestione del processo telematico e dell’informatizzazione del settore penale, servizi di rilevazione statistica)o anche a supporto dell’attività propriamente di cancelleria. Per fare camminare il progetto è stato anche individuato, tra le pieghe del bilancio di via Arenula, un budget complessivo di 17 milioni per coprire soprattutto le borse di studio e per dare maggiore efficacia al pacchetto informatico che comprende sia la consolle dell’assistente, sia la banca dati della giurisprudenza di merito. Giustizia: Corte costituzionale; dopo ripetute fumate nere arriva il richiamo di Mattarella di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 3 ottobre 2015 "Massima urgenza" si raccomanda Sergio Mattarella. La Corte costituzionale è a ranghi ridotti da molti mesi e al limite della sua funzionalità (11 membri) ma dal Parlamento escono solo fumate nere (l’ultima giovedì). Perciò ieri il presidente della Repubblica ha richiamato le Camere a quello che è un "doveroso e fondamentale adempimento, a tutela del buon funzionamento e del prestigio della Corte e a salvaguardia della responsabilità istituzionale", auspicando che si provveda - "con la massima urgenza", appunto - ora che il quorum è sceso a tre quinti e quindi può essere più facile trovare un accordo politico. Auspicio e richiamo condivisi dai presidenti delle due Camere, Laura Boldrini e Piero Grasso, che inutilmente avevano sollecitato le forze politiche nei mesi scorsi. I giudici costituzionali dovrebbero essere 15 e invece sono 13. A luglio è uscito anche Paolo Maria Napolitano. Prima di lui, a febbraio, era stata la volta di Mattarella, eletto alla Presidenza della Repubblica, e, prima ancora, di Luigi Mazzella, scaduto addirittura il 28 giugno del 2014 (ben un anno e tre mesi fa). Due dei tre furono designati dal centrodestra, uno dal centrosinistra, ma per la loro sostituzione l’accordo potrebbe estendersi ai 5 Stelle. Certo è che la Consulta attualmente decide sulla base di maggioranze diverse da quelle previste se il plenum fosse al completo. Il che, come ricordò il suo attuale presidente Alessandro Criscuolo, può incidere in modo determinante su una decisione piuttosto che su un’altra. Che è poi quanto accaduto con la famosa sentenza sulla perequazione delle pensioni, sulla quale la Corte si spaccò e fu determinante il voto (che vale doppio, in caso di parità) del presidente. L’agenda dei giudici di palazzo della Consulta è già fitta di appuntamenti "caldi". La prossima settimana si tornerà a parlare della legge sulla fecondazione assistita, con riferimento al divieto di selezione degli embrioni a scopi eugenetici nonché a quello della loro conservazione e soppressione(relatore Mario Morelli). Giuliano Amato sarà relatore di una questione relativa alle limitazioni sugli spot pubblicitari televisivi per le sole reti private, mentre in camera di consiglio, il 7 ottobre, verrà discussa la vexata quaestio della riduzione delle ferie dei magistrati, oggetto di una dura polemica con il governo e che ha segnato i rapporti tra politica e toghe nell’era Renzi (relatrice Silvana Sciarra). Ma i riflettori sono già puntati sull’udienza del 20 ottobre, quando si discuterà il cosiddetto decreto Severino, con riferimento alla retroattività della decadenza di amministratori locali a seguito di una condanna non definitiva per un reato commesso prima dell’entrata in vigore del decreto. La causa è stata affidata alla giudice Rosaria De Petris e, oltre a incidere sui casi De Luca e De Magistris, potrebbe indirettamente riguardare anche l’uscita dalla scena parlamentare di Silvio Berlusconi. L’appello di Mattarella era inevitabile. Il Pd assicura il proprio impegno con i capigruppo Rosato e Zanda. La prossima votazione sarà a metà ottobre e si punta a una tripletta di tecnici e non politici. Anche se si naviga in alto mare, circolano alcuni nomi: Augusto Barbera e Stefano Ceccanti per i Dem; Felice Besostri per i grillini o Silvia Niccolai; per il centrodestra l’ex presidente della commissione Affari costituzionali della Camera Francesco Paolo Sisto. Sempre ieri Mattarella, celebrando la Festa dei nonni al Quirinale, ha sottolineato che "la famiglia è sempre di più, con le caratteristiche della società di oggi, un ammortizzatore sociale che consente al nostro Paese di andare avanti, fronteggiando le difficoltà economiche della crisi". Giustizia: Consulta; ventisei votazioni fallite, uno sfregio infinito di Giuseppe Salvaggiulo La Stampa, 3 ottobre 2015 Il Parlamento non elegge i tre giudici mancanti: è un record. Rischio paralisi, appello di Mattarella: "E un dovere urgente". Coperto dal rumore della contesa sulla Costituzione che ci sarà, si perpetua silenziosamente uno sfregio alla Costituzione che c’è. Giovedì deputati e senatori non hanno eletto i tre giudici mancanti della Corte costituzionale. È la ventiseiesima volta che falliscono. Il primo scrutinio risale al 12 giugno 2014; il venticinquesimo allo scorso 16 luglio. Il ventisettesimo "avrà luogo in data da destinarsi". Ieri è intervenuto il presidente della Repubblica Sergio Mattarella augurandosi che "il Parlamento provveda, con la massima urgenza, a questo doveroso e fondamentale adempimento". A ruota il duo Grasso-Boldrini. Mai il massimo organo costituzionale era stato così profondamente e a lungo menomato. Da mesi funziona con dodici giudici. Le sedute sono valide se ne partecipano almeno undici. Facendo gli scongiuri per la salute inevitabilmente cagionevole (6 su 12 sono nati tra il 1933 e il 1941), il rischio di paralisi è concreto. È pacifico l’accresciuto peso della Corte nella Seconda Repubblica. Come regolatore degli innumerevoli conflitti Stato-Regioni prodotti dalla sciagurata riforma "federalista" del centrosinistra; per razionalizzare una vasta e pasticciata legislazione "emergenziale" promossa dai governi tecnici e politici (pensioni, retribuzioni pubbliche); per colmare lacune o risolvere aporie nel campo dei diritti civili (fecondazione artificiale, nuove famiglie); per arginare le berlusconiane leggi ad personam; per salvaguardare corretti rapporti tra poteri (abuso di decreti legge). Sentenze che hanno procurato tensioni politiche, talvolta ruvidi attacchi. Ai tempi di Berlusconi sul lodo Alfano, ai tempi di Renzi sulla rivalutazione delle pensioni. Solo una Corte indipendente e forte può continuare a svolgere un ruolo di garanzia. Ma può una Corte menomata e dimenticata dalla politica ritenersi autorevole e non delegittimata nella sua funzione? Il Parlamento elegge cinque dei quindici giudici costituzionali. Nelle prime tre votazioni servono i due terzi dei parlamentari (634), poi i tre quinti (571). È un modo per evitare che la maggioranza scelga i giudici che decideranno sulla legittimità delle sue leggi. Prevista dalla Costituzione del ‘48, la Corte entrò in funzione otto anni dopo. La Dc faceva melina perché ne diffidava come limite alla sovranità popolare (e al suo potere), ma non faticò a scegliere i suoi candidati. Il primo stallo si verificò sul grande giurista Vezio Crisafulli. La Dc non era disposta a votarlo perché dichiaratamente del Pci; tra i comunisti pesavano i trascorsi fascisti. Al nono scrutinio Togliatti decise di cambiare cavallo. Dal 1955 il Parlamento ha eletto 33 giudici, di cui solo 11 al primo scrutinio, in condizioni di stabilità politica (primo centrosinistra, compromesso storico). Altrimenti serve tempo per tessere ampi accordi. La Seconda Repubblica comincia male: dodici scrutini per Onida e Mezzanotte, diciannove per Marini. "Sembrava il culmine dell’indecisionismo parlamentare", scrive Paolo Bonini, giovane studioso della Sapienza, sulla rivista Giustamm.it. Invece è questa legislatura a registrare "una discontinuità inaudita". Silvana Sciarra è stata eletta nel novembre 2014 dopo 21 votazioni. Record che sarà battuto dal prossimo giudice. Partiti divisi. La questione è ingarbugliata. Servirebbe un accordo Pd-M5S-Forza Italia (un candidato a testa con voto incrociato), ma non è facile. I Cinquestelle voteranno i candidati altrui? Renziani e berlusconiani garantiscono la compattezza dei gruppi parlamentari? Giovedì il Movimento 5 Stelle ha votato i candidati di bandiera Besostri, Modugno e Niccolai. Ma nessuno ha ottenuto più di 92 voti. Pd e Forza Italia scheda bianca, per non bruciare altri nomi come nei 16 mesi e 25 scrutini precedenti. Violante (Pd) mancò il quorum di 40 voti, per vecchi rancori nel Pd e tiepido sostegno dei renziani. Forza Italia, i cui gruppi parlamentari sono ridotti a colabrodo, ha impallinato Bruno, Catricalà, Caramazza, Bariatti. Ultimamente Brunetta ha avanzato il nome di Guzzetta, ma una buona parte dei suoi deputati gli ha fatto capire che non è aria. Inoltre sono alle viste altre defezioni. Dopo l’appello di Mattarella, la palla passa a Renzi. Ma chi sarà il suo interlocutore? Berlusconi? Giustizia: il processo mediatico e il diritto alla reputazione "serve un giudice terzo" di Michela Nicolussi Moro Corriere del Veneto, 3 ottobre 2015 Dalla confessione di Fernando Caretta di aver ucciso genitori e fratello davanti alle telecamere di "Chi l’ha visto" all’arresto sotto i riflettori di Enzo Tortora, passando per l’ammissione di Michele Misseri di aver occultato il cadavere della nipote riferita sempre in diretta tv alla madre della vittima. Fino a che punto può spingersi il diritto di cronaca e dove inizia invece ii diritto alla reputazione della persona, di pari dignità costituzionale? Un tema annoso ma reso più che mai attuale dal potere della rete, che tutto fagocita e nulla dimentica, e ieri al centro del dibattito "Processo mediatico e dignità della persona", organizzato al Museo della Medicina di Padova dallo studio dell’avvocato Fabio Pinelli e moderato da Graziano Debellini. Una prima soluzione l’ha messa sul tavolo lo stesso legale: "Penso a un giudice terzo, rispetto al diritto all’informazione e alla lesione della reputazione, composto da toghe, avvocati e giornalisti. Un organo indipendente, nel rispetto dell’articolo 102 della Costituzione, che prevede nell’ordinamento giudiziario sezioni specializzate per determinate materie anche con cittadini estranei alla magistratura. Il giusto equilibrio tra questi interessi contrapposti, purtroppo non gerarchizzati dalla Costituzione né dalle fonti primarie del diritto, non può essere garantito da soggetti protagonisti del meccanismo che ha leso la reputazione del singolo. Diritto, quest’ultimo, che sta cedendo ii passo pure a causa di aule mediati-che, veri Fori alternativi, capaci di creare grande confusione. 11 processo mediatico - ha insistito Pinelli - è alla mercé di tutti, non ha un termine, può scatenare effetti anche irreversibili, e a differenza del processo ordinario parte del presupposto della colpevolezza. Ma i veri giudici, soprattutto quelli popolari coinvolti nei fatti più gravi in Corte d’Assise, sono impermeabili alla pressione mediatica?". Probabilmente, un altro spunto del dibattito, lo squilibrio tra diritto alla reputazione e diritto di cronaca è legato ad un impianto normativo e processuale ormai inadeguato alla circolazione della notizia veicolata dalle nuove tecnologie. Tanto è vero che spesso l’avviso di garanzia arriva prima alla stampa che al diretto interessato, "e le ordinanze di custodia cautelare appaiono su Internet quando ancora non le hanno i difensori". Colpa pure del ritardo nella celebra-zione del processo e della carcerazione preventiva: "Quando si va in aula l’imputato è già bollato come colpevole dall’opinione pubblica". "I processi mediatici ci sono sempre stati e in alcuni casi per fortuna - ha ricordato Ferruccio De Bortoli, già direttore del Corriere della Sera e del Sole 24 Ore e ora presidente della casa editrice Longanesi. Mi riferisco per esempio alla vicenda Tortora, in cui forse il diritto di cronaca ha tutelato la dignità della persona più dei soggetti deputati a farlo. Non so se sarà possibile istituire un giudice terzo, ma potrebbe essere un mezzo per restituire dignità alle persone ingiustamente coinvolte in processi mediatici. Una riflessione intanto la devono fare magistrati e avvocati, perché la catena dell’informazione ha più componenti e spesso i giornalisti arrivano al termine della stessa, E poi quante volte nel processo le parti coinvolte, per esempio la difesa, creano una campagna pubblica per sostenere le proprie tesi?". E le responsabilità della stampa? "Di frequente ci dimentichiamo che l’informazione tocca persone, con i loro affetti, che vanno tutelati - ha riflettuto De Bortoli. L’altro problema è che i processi durano troppo e cosi la notizia di reato resta nei motori di ricerca, ignorando il diritto all’oblio e il dovere di aggiornarla, soprattutto in caso di assoluzione". "Tu generi una notizia e non la controlli più - ha aggiunto Giancarlo Giojelli, vicedirettore di Rai News 24. A comandare è l’audience, il tuo padrone è il pubblico, che spesso non ha gusti eleganti ma è difficile da governare. Pensiamo alle intercettazioni: alla gente piacciono soprattutto quelle che nulla hanno a che fare con i capi di imputazione e non si può ignorare. Anche perché se non le diffondi tu, lo fa la concorrenza. Certo, c’è la deontologia professionale e l’Ordine dei giornalisti dovrebbe vigilare sul rispetto della stessa, ma io professionista devo prendermi la responsabilità di decidere se quella notizia merita di essere data e se è di interesse pubblico". "Il processo mediatico, al quale assisto inorridito e impotente anche perché non garantisce il reale contradditorio, va distinto dal diritto di cronaca, che è sacrosanto - ha ammonito Gaetano Silvestri, presidente emerito della Corte Costituzionale. E allora per evitare il voyeurismo i giudici dovrebbero sempre ammettere le telecamere in aula, naturalmente rispettando determinati limiti, così il cittadino potrebbe vedere i veri processi. E poi, più del giudice terzo, bisognerebbe che Csm, Ordini degli avvocati e dei giornalisti e Federazione della Stampa intraprendessero una battaglia culturale, per prevenire degenerazioni". Giustizia: bagarre nell’avvocatura sulle specializzazioni, l’Anf impugna il regolamento di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 3 ottobre 2015 Nell’avvocatura scoppia la bagarre sulle specializzazioni. Con le Camere penali contro Oua e Anf e quest’ultima, a sua volta, che impugna davanti al Tar il regolamento appena varato. Nell’incertezza precipita così il provvedimento chiave nella costellazione delle misure di attuazione del nuovo ordinamento forense approvato a fine 2012. A non convincere l’Anf è lo scarso peso che il regolamento attribuisce all’attività pratica, a tutto vantaggio di una formazione solo teorica. "La specializzazione - spiega il presidente Anf Luigi Pansini - non può essere ottenuta a seguito di un percorso esclusivamente teorico e culturale, ed è evidente la diversità di trattamento ed il disvalore dell’effettiva esperienza professionale, anche con riferimento al mantenimento del titolo di specialista, rispetto all’attività di frequenza di corsi normativi". Nello stesso tempo prosegue Pansini, "la valutazione della "qualità" degli incarichi determinanti per attestare la comprovata esperienza non è ancorata ad alcun criterio oggettivo ma rimessa ad un apprezzamento ingiustificatamente discrezionale". Durissima la risposta delle Camere penali che, in una nota diffusa ieri, attaccano: "Gli avvocati e rappresentanze associative forensi che proprio non vogliono saperne di cambiare. Nonostante la notoria esorbitanza dei numeri e la conseguente grave dequalificazione della nostra professione, e nonostante il livello sempre più basso della qualità della giurisdizione, cui noi stessi, in tal modo, concorriamo, l’idea di acquisire maggiore competenza professionale pare proprio che a molti avvocati non piaccia. Seguendo una logica corporativa, e dimenticando il diritto dei cittadini ad avere un avvocato forte e tecnicamente attrezzato, culturalmente e deontologicamente consapevole, si antepone un interesse di categoria ad un interesse collettivo, temendo che dalla specializzazione possa anche derivare un pregiudizio economico". Secca, però, anche la replica di Mirella Casiello, presidente Oua (che ha convocato a Roma, mercoledì prossimo, le associazioni forensi): "Senza isterismi e mettendo da parte inconfessabili interessi di bottega, quelli sì corporativi, è proprio per una migliore tutela dei diritti cittadini che il regolamento desta molte perplessità. Per quanto riguarda il civile e l’amministrativo, nell’individuazione delle aree di specializzazione (nel civile eccessivamente frammentato) ma anche nel meccanismo arbitrario di riconoscimento della specializzazione, con il doppio binario: formazione ed esperienza. Ai penalisti, vogliamo anche ricordare che i civilisti non sono figli di un dio minore, e rappresentano la stragrande maggioranza degli avvocati italiani". Giustizia: l’ex ministro Passera "pene più severe anti-corruzione? meglio la trasparenza" di Antonio Ruzzo Il Giornale, 3 ottobre 2015 Il candidato sindaco di Milano: "Non è possibile controllare 35mila stazioni appaltanti E va tutelato chi denuncia". "Non serve aumentare le pene. Non serve perché la corruzione spesso riesce a passare inosservata, è subdola quindi la cosa di cui ha più paura non sono sanzioni più severe ma semplicità e trasparenza...". Corrado Passera, ex-manager di Olivetti, Cir, Mondadori, Poste, Intesa ed ex-ministro delle Infrastrutture del governo di Mario Monti, ora candidato a sindaco per Milano. Un’idea su ciò che sta succedendo a Palazzo Marino e sul nuovo giro di tangenti se l’è fatta. Quindi? "Quindi garantisti fino alla fine. Però non stiamo parlando di un’altra epoca glaciale ma di fatti che vanno dal 2005 al 2012 e di aziende che continuano ad avere rapporti col Comune. O che li avevano fino a un paio di mesi fa". Milano come Roma? "Aspettiamo la relazione dell’assessore lunedì in consiglio. Ma questa città comunque ha anticorpi differenti". Ma da che parte si comincia per debellare la corruzione? "È un problema diffuso. Ed è un problema nazionale. Venezia, Roma, l’Expo... E qual è stata la risposta del governo? Inasprire le pene. Che però serve davvero a nulla perché spesso corrotti e corruttori sanno di farla franca". E allora che si fa? "Bisogna affrontare il problema alla radice. Bisogna ridurre le stazioni appaltanti che oggi in Italia sono 35mila e tagliarle a 350. Come si fa a controllare 35 mila rubinetti aperti... E poi bisogna capire quante delle 10mila controllate pubbliche, spesso con bilanci incomprensibili e difficili da consultare, siano effettivamente necessarie" E basta così? "No. La trasparenza è il primo nemico della corruzione. Sui siti delle aziende e delle amministrazioni deve essere pubblicato tutto il possibile: chi partecipa agli appalti, i criteri delle nomine, quanto si spende in consulenze e chi ha avuto cosa e a che titolo. La trasparenza è la miglior forma di prevenzione" Un po’ succede anche oggi, però molto sfugge... "Certo, si deve fare un passo in più. Va data soddisfazione a tutta la parte sana, onesta della pubblica amministrazione. Che c’è e non è poca. Bisogna far ruotare i dirigenti in base al merito e, come è stato fatto negli Stati Uniti con una legge, va tutelato chi denuncia fenomeni di corruzione, va premiato chi aiuta a scoprirli. E se ciò non è sufficiente e arriva ad indagare la magistratura bisogna fare in modo che ci sia la massima collaborazione per spaccare la complicità che sempre c’è tra corrotti e corruttori" Altro? "Vanno riviste le norme sugli appalti. Quella del massimo ribasso è una bestialità che stende un tappeto rosso alla criminalità" E ora bisognerà vigilare anche sul dopo Expo. "Si, assolutamente sì ma non solo. A Milano si può aprire nei prossimi anni una stagione di grandi lavori che vanno dai nuovi stadi all’Ortomercato. Il governo a livello normativo può darci una mano, ma molto già possiamo fare noi nella direzione di rendere meno complicata la macchina pubblica. Cominciando a ridurre ad esempio i passaggi perché quando le praticvhe passano in troppe mani i rischi aumentano". La corruzione è anche un fatto di cultura? "È anche un problema etico. E qui bisogna cominciare a lavorare molto già nelle scuole per creare un mentalità che riporti al centro i giusti valori. Ma questo è un discorso lungo". Giustizia: i legali di Dell’Utri "il reato non esisteva, scarceratelo" di Mariateresa Conti Il Giornale, 3 ottobre 2015 L’ex senatore sconta 7 anni. Per l’Ue le condanne per fatti antecedenti al 1994 sono ingiuste. Il fatto che, pur riguardando il caso Contrada, fosse un grimaldello per scardinare quell’anomalia giuridica che è il concorso esterno in associazione mafiosa, e soprattutto per tirare fuori dal carcere i condannati per concorso esterno in relazione a fatti antecedenti al 1994 come il senatore Marcello Dell’Utri, è apparso chiaro sin dallo scorso 14 settembre, quando sono state rese note le motivazioni della sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo. Ma adesso è ufficiale. I difensori dell’ex senatore Pdl, detenuto a Parma per scontare in via definitiva una condanna a sette anni, hanno chiesto ufficialmente la scarcerazione di Dell’Utri. E proprio sulla base di quella sentenza europea che, rigettando il ricorso del governo Renzi sul caso Contrada, ha certificato che le condanne per concorso esterno per fatti antecedenti al 1994 sono in violazione del principio di legalità, perché non si può essere condannati per reati che, quando sono stati commessi, non esistevano o non erano giuridicamente definiti. Come è appunto il caso di Dell’Utri, che per il periodo successivo al 1992, con sentenza definitiva della Cassazione, è stato assolto. L’istanza di quello che tecnicamente si chiama "incidente di esecuzione" (la condanna è diventata "illegale" per la sentenza europea e quindi Dell’Utri deve essere scarcerato) è stata depositata ieri a Palermo nella cancelleria della Terza sezione della corte d’Appello (la stessa che ha condannato l’ex senatore nell’Appello bis), e porta la firma degli avvocati Giuseppe Di Peri, Bruno Nascimbene e Andrea Saccucci. La corte adesso dovrà fissare la data dell’udienza, che si svolgerà in camera di consiglio, presenti la Procura generale e i difensori. La richiesta è di "revocare o dichiarare ineseguibile" la sentenza di condanna a 7 anni. E questo sulla base di un’altra sentenza, quella della Corte europea dei diritti dell’uomo, diventata definitiva lo scorso 14 settembre. Cosa diceva quella sentenza? Il verdetto stabiliva che, condannando Bruno Contrada, non erano stati rispettati i principi di "non retroattività e prevedibilità della legge penale". In pratica, era stato violato l’articolo 7 della Convenzione europea dei diritti umani, perché il reato per il quale Contrada era stato condannato - quella strana invenzione tutta italiana che unendo gli articoli 110 (concorso) e 416 bis (associazione mafiosa) ha creato il concorso esterno - non era sufficientemente chiaro e consolidato dal punto di vista della giurisprudenza prima del 1994. Un principio che vale per Contrada, ma che vale ancora di più per Dell’Utri, perché le collusioni con i boss contestate all’ex senatore Pdl partono a metà degli anni ‘70 ma si fermano al 1992. Ben due anni prima del termine fissato dalla Corte europea. Una speranza per Dell’Utri, in carcere a Parma da poco più di un anno. Chi lo ha visto dietro le sbarre - ultimo proprio qualche giorno fa l’ex allenatore del Milan e della Nazionale Arrigo Sacchi - lo descrive visibilmente dimagrito. Giustizia: caso Yara Gambirasio, la caccia a Bossetti è iniziata nel 1719 di Luca Telese Libero, 3 ottobre 2015 E poi, dal banco dei testimoni, come un colpo di scena silenziato, con una frase in codice quasi criptata, arriva - per la prima volta in aula - l’ammissione di una notizia che circolava da mesi in modo carsico, o correndo sottotraccia, o affiorando di rimbalzo dalle perizie. Sta parlando l’ex capo della squadra mobile di Bergamo, Gianpaolo Bonafini. È il momento del controinterrogatorio degli avvocati di Bossetti, siamo nel primo pomeriggio di una giornata terribilmente lenta, tra i banchi del pubblico del tribunale di Bergamo qualcuno addirittura sonnecchia. Anche la domanda arriva un po’ schermata, con calcolata furbizia processuale, in questa eterna partita tra accusa e difesa, dove nessuno dei duellanti vuole mai girare le proprie carte. L’avvocato Claudio Salvagni sta parlando d’altro, ma poi lascia cadere la domanda con apparente noncuranza: "E quindi ho capito bene quello che lei ha detto stamattina? L’esame del Dna di Ester Arzuffi, non era andato a buon fine?". Bonafini prende un respiro lungo, rallenta con perizia il ritmo spedito del suo eloquio precedente. E poi, misurando ogni sillaba, dice con termini quasi asettici: "Sì, è vero… l’esame della traccia mitocondriale aveva dato esito negativo". Ovvero, tradotto in italiano : la polizia era già arrivata alla madre di Massimo Bossetti, ben due anni prima (!) dell’arresto del muratore di Mapello. L’aveva inserita in un gruppo di trentatré persone individuate sottoposte all’esame del Dna, con intuizioni investigative degne di un romanzo poliziesco. Ma poi in laboratorio, per quanto possa sembrare incredibile (scopriremo presto per colpa di chi, forse dei carabinieri) erano arrivati i campioni sbagliati, e la donna non era stata individuata. Infatti il Dna della signora Ester non era stato confrontato con quello del sospettato, "Ignoto numero uno" (come era ovvio fare) ma con quello della madre di Yara (che nulla aveva a che vedere con lei). Tra cronisti e giornalisti era già noto, certo: ma sentirlo ripetere nel processo, in questo modo diagonale, fa impressione, soprattutto al termine di un interrogatorio avvincente, che a tratti sembra una lezione di criminologia del terzo millennio. Guardo per un attimo l’ex capo della Squadra mobile di Bergamo, ora a Venezia, seduto davanti alla Corte. Bonafini ha un bel viso regolare, dimostra meno di quarant’anni, ha un filo di barba perfettamente curata, veste di grigio, ha una cravatta blu con pallini bianchi, mani veloci, all’occorrenza le lascia pescare tra i faldoni che squaderna davanti a se, come un pianista che le fa correre sulla tastiera. Come un concertista esperto che non ha bisogno di controllare lo spartito, Bonafini non guarda mai in basso. Si sta parlando di un fascicolo, per esempio, e la presidente lo sventola: "Le serve la sigla?". E lui, senza abbassare lo sguardo alza la mano stringendolo tra le dita: "Grazie ma l’ho già trovato". In una giornata in cui non ci sono apparenti colpi di scena, dentro le architetture squadrate di acciaio e vetro del nuovo tribunale, si può restare per un attimo incantati di fronte a questo paradosso. Individuare il filo tenace e certosino di una indagine che a tratti assomiglia ad un censimento sociologico, intravedere il disegno imponente e ambizioso degli investigatori, capire la cura attenta e maniacale dei dettagli. Ma poi rimanere di stucco di fronte a questa constatazione: avevano in mano Ester Arzuffi due anni prima dell’arresto di Bossetti, ma non si erano accorti che era proprio lei la donna che stavano cercando ovunque. Questa prima ricerca ieri, nel racconto di Bonafini, ha anche trovato una data esatta: "Seguendo il filo logico della nostra inchiesta eravamo arrivati ad isolare un gruppo di trentatré soggetti emigrati negli anni dalla zona della Val Seriana a quella dell’Isola di Bergamo. Ester Arfuffi aveva preso residenza nel 1966 a Parre, e nel 1969 a Brembate, e quindi rientrava pienamente in questi criteri. Abbiamo prelevato il suo campione il 27 luglio del 2012". Ma come si era arrivati a quel gruppo? Anche quello che pensavamo di sapere già, difronte al racconto dell’ex capo delle indagini di Polizia quasi impallidisce. Bonafini ripercorre l’incredibile mole di ipotesi e di tentativi, i numeri davvero impressionanti di questo censimento poliziesco. Ad esempio: "Uno dei primi numeri con cui ci siamo confrontati è quello degli iscritti alla discoteca Sabbie Mobili". È il primo bandolo dell’indagine, il locale che sta di fronte al campo dove è stato trovato il cadavere: "Si trattava di 31.926 nominativi, una cifra da capogiro, per provare a controllarli tutti. Dovevamo restringere il campo". Come? "Abbiamo isolato i campi di indagine. Ad esempio prendendo tutti quelli che avevano i telefonini accesi tra le 17.30 e le 18.55,nelle celle telefoniche della zona dove è scomparsa Yara". Quanti? "120mila". E poi? "Tutti quelli che erano nelle liste dei telefoni captati dalle celle e che avevano anche la tessera delle Sabbie Mobili". In questo modo quanti se ne selezionano? "Altri 6mila soggetti". E poi quelli con precedenti penali per reati sessuali (provate a indovinare? Ben 47!). "Oppure - continua Bonafini - cercando, con l’incrocio dei database, tutti quelli che abitavano a Brembate di sopra". E così "si arriva ad altri 476 nomi". Intuizione giusta, perché fra questi nomi c’è quello di Damiano Guerinoni, il ragazzo che è nipote del padre naturale di Bossetti, l’autista Damiano Guerinoni. Ma per poter risalire, da lui fino a quello zio, si deve imbastire una indagine nell’indagine, quasi una ricerca genealogica. Spiega ancora Bonafini: "Siamo partiti da lontano…". Dice il poliziotto. "E cioè?", chiede la presidente. Risposta: "Da Batta, cioè Battista Guerinoni, il capostipite della famiglia, nato nel 1719". Per quanto possa sembrare strano, per la seconda volta, in questo incredibile processo, in aula si ride. Ma Bonafini sembra uno specialista in Araldica e snocciola nomi e date: "Siamo scesi dritti lungo l’albero genealogico a Fantino Guerinoni nato nel 1751. Poi a Girolamo nato nel 1788. Poi a Gioangelo nato nel 1905 e Giogaetano nato nel 1912". Guardo per un attimo il viso allibito di Bossetti: sta scoprendo per la prima volta l’elenco dei suoi trisavoli. Giuseppe Guerinoni autista è del 1935. Ha lo stesso aplotipo Y del ragazzo Damiano, ma nessuno - all’epoca - ha il suo Dna completo. Apprendiamo da Bonafini che prima questo Dna è stato prima ricostruito desumendolo in laboratorio da quello dei figli legittimi, poi da due cartoline miracolosamente conservate dalla figlia Daniela, che il papà le aveva inviato da Salice Terme (lasciando tracce del suo dna salivale sui francobolli che aveva leccato nel lontano 1980). "Poi una seconda conferma arriva dalla marca da bollo staccata da una patente conservata dal figlio Pierpaolo, e infine dal Dna viene definitivamente confermato - spiega Bonafini - con la riesumazione, a nostro parere nemmeno opportuna della salma". Avevano il padre, ma come è noto mancava il Dna del figlio. "Allora, per non lasciare nulla al caso - spiega l’ex capo della mobile mentre sale un brusio di stupore - abbiamo cercato tutti i Guerinoni dell’isola bergamasca, tutti quelli dei dodici nuclei familiari Guerinoni censiti, tutti i Guerinoni di tutti i paesi della provincia, tutti i Guerinoni che possedevano un furgone o una utenza telefonica che fosse accesa il giorno della scomparsa". Ma anche in quel caso non trovano nessuno: "Così ci mettiamo a cercare un figlio naturale, illegittimo, o non riconosciuto". E, contemporaneamente, tutte le donne che potrebbero avuto a che fare con Damiano Guerinoni. Ovvero: "Tutte le donne nate dopo il 1938, e tutte quelle che risulta avere incontrato dopo il 1952". Mormorio. "Perché proprio quella data?", chiede l’avvocato Camporini. Altra risposta sicura, altra risata in aula: "Abbiamo immaginato che partisse da 17 anni la… data della potenziale fertilità". Vengono sottoposte a tampone tutte le donne che nelle due valli frequentate da Guerinoni nella sua vita hanno lavorato, fatto le cameriere neibar, servito nei night club, tutte le donne di Salice Terme in quella fascia di età, persino chi ha esercitato la nobile arte della prostituzione. E intanto si scandagliano anche tutti gli ex bambini nati tra il 1953 e il 1975 tra Isola bergamasca e Val Brembana. Quanti? Di nuovo le mani del pianista corrono tra i faldoni: "Per l’esattezza 1715 persone". Il raggio della ricerca delle potenziali parenti si estende fino a 28 comuni. "Poi ci si concentra su 539 soggetti, 252 maschi, 287 femmine nati tra il 1920 e il 1970 e emigrati fuori. Testavamo il Dna mitocondriale - spiega Bonafini - cercavamo la linea di discendenza matrilineare". E così che si era arrivati, scrematura dopo scrematura, ai famosi "33 soggetti emigranti verso Brembate", è così che, nel 2012, avevano già rintracciato l’ago sottile di Ester nello sterminato pagliaio della bergamasca. Solo che chi deve mandare il campione del mitocondriale di Ignoto numero uno al laboratorio si sbaglia. Incredibile ma vero. La provincia stratigrafata, prima con le anagrafi, poi con i tabulati delle compagnie di telefonia mobile, in una folle corsa contro il tempo. Perché una volta individuati i nomi, ci voleva tempo per acquisirli, e bisognava far presto "perché sapevano che dopo due anni i tabulati sarebbero stati cancellati". Quanti ne avete esaminati, alla fine? "Tantissimi. Più di 17mila. Non era mai accaduto che le compagnie telefoniche facessero ricerche di quel tipo, è stata la prima volta", spiega Bonafini. Già: ma dopo questo processo, capiterà sempre. Esco dal Tribunale sempre più convinto che - nel bene e nel male - questo processo cambierà il modo di indagare, di giudicare, e persino qualcosa delle nostre frenetiche vite. Domiciliari intoccabili: niente permesso per andare in Chiesa, la Messa si vede da casa dirittoegiustizia.it, 3 ottobre 2015 È confermato il "no" alla richiesta di un uomo, agli arresti domiciliari, di ottenere un permesso ad hoc per andare ogni giorno in Chiesa per due ore. È logico catalogare i bisogni spirituali come primarie esigenze di vita, ma possono essere soddisfatti tramite la tecnologia, anche a casa, salvaguardando le esigenze cautelari dei "domiciliari". Lo ha stabilito la Cassazione con la sentenza 38733/15. I giudici del tribunale affermano che non c’è possibilità di "revoca della misura degli arresti domiciliari". Allo stesso tempo, però, viene anche ritenuta inaccettabile la richiesta di "autorizzazione a recarsi ogni giorno presso una Chiesa, per due ore". Così viene respinta la tesi, avanzata dal legale dell’uomo ai domiciliari, della violazione delle "indispensabili esigenze di vita", comprensive, ovviamente, in questa ottica, anche dei "bisogni spirituali". La decisione è ribadita in Cassazione, accompagnata da una semplice considerazione: la mancata "autorizzazione ad allontanarsi dal luogo di applicazione della misura degli arresti domiciliari per poter frequentare una Chiesa" è valutabile, secondo il legale, come una violazione della Carta Costituzionale, che garantisce ad ogni soggetto - inclusi i detenuti - la possibilità di "professare liberamente la propria fede religiosa". Di fronte alle obiezioni mosse dall’avvocato dell’uomo ai domiciliari, i Giudici della Suprema Corte affermano che "le indispensabili esigenze di vita possano riguardare bisogni non solo materiali, ma anche spirituali", comprendendo, quindi, anche la "soddisfazione di bisogni di natura religiosa". Però è legittima "la limitazione, nei confronti di persona sottoposta al regime detentivo, di diritti e di facoltà normalmente spettanti ad ogni persona libera", sempre che "detta limitazione non dia luogo ad una loro totale soppressione e, per altro verso, sia finalizzata a garantire" comunque "le esigenze cautelari". Ciò significa che è corretto il rifiuto di un permesso per consentire, in questo caso, alla persona ai domiciliari di recarsi quotidianamente in Chiesa. Anche tenendo presenti l’"evoluzione della tecnologia" che, sottolineano i giudici, "consente di osservare il precetto canonico anche attraverso modalità diverse dalla diretta partecipazione al culto, ad esempio attraverso l’utilizzo del mezzo televisivo, come, peraltro, fanno gli infermi costretti a rimanere allettati in ambito ospedaliero o domiciliare". Lazio: Fns-Cisl; preoccupa sovraffollamento dei detenuti, problemi con ex internati Opg Adnkronos, 3 ottobre 2015 La Segreteria regionale Lazio della Federazione nazionale sicurezza della Cisl lancia l’allarme del sovraffollamento delle carceri. Risulta, infatti, dai dati ufficiali del Dap (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) che "in data 30 settembre 2015, i reclusi presenti nei 14 istituti della Regione Lazio sono 5.723, ovvero 451 in più rispetto ai 5.272 previsti dalla capienza regolamentare". "Il dato preoccupa - ha sottolineato il Segretario Generale Aggiunto Cisl Fns, Massimo Costantino - poiché, se non viene ridotto il sovraffollamento nelle carceri, difficilmente si potrà migliorare la condizione detentiva dei carcerati e la situazione lavorativa del personale di Polizia Penitenziaria". Sempre secondo i dati del DAP "attualmente nel Lazio, gli Istituti che soffrono maggiormente il sovraffollamento sono: CC Cassino; CC Frosinone; CC Latina; NC Civitavecchia; CCF Rebibbia; NC Rebibbia; CC Regina Coeli; CC Velletri". "In questi ultimi mesi - ha specificato Costantino - le problematiche segnalate nei vari Istituti del Lazio risultano legate all’apertura dei cosiddetti reparti ad osservazione psichiatrica con criticità sulla gestione di determinati detenuti che precedentemente erano curati negli Opg che, però, adesso non rientrano in quei soggetti gestiti dalle strutture cosiddette Rems e che, di conseguenza, creano criticità anche nei vari Nuclei Traduzioni e Piantonamenti per invio dei detenuti presso strutture ospedaliere esterne". "Criticità si stanno verificando anche sul servizio sanitario penitenziario, che è gestito dalla Regione Lazio. Basta vedere quanto sta accadendo nel carcere di Frosinone dove, addirittura, in un nuovo padiglione manca un presidio di primo soccorso a causa di rimpalli tra varie amministrazioni interessate" concludono dalla Segreteria regionale del Lazio della Federazione nazionale sicurezza della Cisl. Cuneo: il Comune di Saluzzo in cerca della persona da nominare "Garante dei detenuti" targatocn.it, 3 ottobre 2015 Svolgerà, del tutto gratuitamente e senza alcun rimborso spese, un ruolo di promozione, vigilanza e tutela extra-giurisdizionale dei diritti delle persone private della libertà personale. Rimarrà in carica per l’intero mandato dell’attuale Amministrazione. Il Comune di Saluzzo invita chiunque sia interessato e sia in possesso dei requisiti richiesti a proporre la propria candidatura per l’elezione a Garante per i diritti delle persone private della libertà personale della Città di Saluzzo. L’Ufficio del Garante, istituito ai sensi di una Legge Regionale del 2009 e secondo lo Statuto della Città di Saluzzo, ha sede presso il Comune di Saluzzo, Settore servizi alla persona, piazza Cavour 12, Palazzo Italia. Il Garante, in coordinamento con il Garante regionale, svolge un ruolo di promozione, vigilanza e tutela extra-giurisdizionale dei diritti delle persone private della libertà personale ovvero limitate nella libertà di movimento, domiciliate, residenti o dimoranti nel territorio del Comune di Saluzzo; promuove l’esercizio dei diritti e delle opportunità di partecipazione alla vita civile e di fruizione dei servizi comunali delle persone private della libertà personale ovvero limitate nella libertà di movimento; promuove iniziative di sensibilizzazione pubblica sul tema dei diritti umani delle persone private della libertà personale e della umanizzazione della pena detentiva; promuove con le Amministrazioni interessate protocolli di intesa utili a poter espletare le sue funzioni nei luoghi di detenzione in accordo con gli organi preposti alla vigilanza penitenziaria ed effettua visite e colloqui ai detenuti, con le modalità e nei limiti previsti dalle norme di legge. Della sua attività riferisce al sindaco, alla Giunta, al consiglio comunale e alle commissioni consiliari per quanto di loro competenza e con facoltà di avanzare proposte e richiedere iniziative e interventi sulle attività svolte, sulle iniziative assunte, sui problemi insorti ogni qualvolta lo ritenga opportuno e comunque almeno una volta ogni semestre. Possono presentare la propria candidatura tutti i cittadini che abbiano ricoperto incarichi istituzionali di responsabilità e rilievo nel campo delle scienze giuridiche, dei diritti umani, o che si siano comunque distinte in attività di impegno sociale e che siano in possesso dei requisiti di eleggibilità alla carica di consigliere comunale. Il Garante è eletto dal Consiglio comunale a scrutinio segreto, previa verifica e selezione delle candidature da parte della conferenza dei Capigruppo. L’incarico ha durata pari al mandato del Consiglio comunale che lo ha eletto, ed è rinnovabile non più di una volta. Il ruolo di Garante dei detenuti è incompatibile con l’esercizio contestuale di funzioni pubbliche nei settori della giustizia, della sicurezza pubblica e della professione forense. È esclusa la nomina nei confronti degli Amministratori comunali e del coniuge, ascendenti, parenti ed affini fino al terzo grado degli stessi, nonché di persone che siano state colpite da provvedimenti restrittivi della libertà personale, del coniuge, ascendenti, discendenti, parenti ed affini fino al terzo grado degli stessi. Il Sindaco dispone per gravi violazioni dei doveri inerenti l’esercizio delle sue funzioni, la revoca del Garante, previa consultazione della Conferenza dei Capigruppo. L’incarico di Garante dei diritti delle persone private della libertà personale è svolto a titolo gratuito e non comporta la corresponsione di indennità, compensi o rimborsi delle spese. Le proposte di candidatura dovranno pervenire al Comune di Saluzzo entro le ore 12 di venerdì 23 ottobre 2015 secondo il modulo reperibile sul sito dell’Ente, in calce alla notizia dell’avviso di selezione. Pisa: i detenuti semiliberi puliranno le aree verdi della città, firmato l’accordo con l’Uepe gonews.it, 3 ottobre 2015 Il progetto prende forma dalla volontà dell’Uepe di coinvolgere i soggetti che deve seguire in azioni di pubblica utilità e dalla disponibilità del Comune per fornire uno spazio di condivisione. L’obiettivo è quello di favorire il reinserimento sociale di persone sottoposte a misure di restrizione della libertà e di inserirli in un progetto di pubblica utilità. In questo caso si cercherà di valorizzare e sensibilizzare l’attenzione sul decoro urbano favorendo anche un miglioramento stesso della città come capacità di accoglienza turistica. I condannati a misure alternative si occuperanno di pulizia delle panchine e servizio d’igiene sulle aree verdi, per due volte a settimana, nell’area da piazza della Stazione a piazza Vittorio Emanuele. Coadiuvando le operazioni di Avr, la ditta che gestisce il global service di pulizia delle strade per il Comune di Pisa Rossella Giazzi, dirigente dell’Ufficio esecuzione penale esterna: "Coinvolgere i condannati in iniziative di questo genere favorisce il reinserimento: le recidive scendono dal 60% al 19%" David Puccioni, Perlambiente: "Siamo un’associazione fatta di professionisti che operano nell’ambiente e che portano la loro esperienza al servizio della cittadinanza. L’opportunità di dare un esempio di gestione di bene pubblico vuol simboleggiare l’attenzione che ognuno di noi deve dare all’ambiente e al bene comune che ci appartiene". "Un progetto positivo per tanti motivi - commenta il vicesindaco Ghezzi - primo per la giustizia riparativa: viene restituito alla collettività qualcosa da parte di chi aveva tolto qualcosa, poi viene promosso il reinserimento con attività utili avviando le persone in un percorso di miglioramento. E poi perché questa attività viene svolta in affiancamento agli operatori" L’Associazione Culturale Perla - Perlambiente (perlambiente.org) nasce dall’incontro di diverse figure professionali geologi, biologi, forestali, costantemente a contatto con le problematiche del territorio, riunite dallo scopo comune di promuovere la salvaguardia dell’ambiente per uno sviluppo sostenibile del territorio nel rispetto delle sue risorse naturali, mettendo a disposizione la propria esperienza personale maturata sul campo. Gli Uffici locali per l’Esecuzione Penale Esterna sono uffici periferici del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia e la loro organizzazione è disciplinata con regolamento adottato dal Ministro della Giustizia. Questi uffici si occupano di "trattamento socio-educativo" delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà, svolgendo il compito di favorire il reinserimento sociale delle persone che hanno subito una condanna definitiva. Inoltre svolgono determinate funzioni assegnate loro dalla legge n. 354/1975. Brescia: due evasioni, detenuta a Verziano non torna in cella e uomo scappa dall’ospedale di Wilma Petenzi Corriere della Sera, 3 ottobre 2015 Giornata nera per il sistema penitenziario: a Verziano una detenuta uscita per lavorare non si è presentata in cella. Al Civile un detenuto colto da malore ha tagliato la corda. Giornata nera per il sistema penitenziario: in poche ore due detenuti hanno messo a segno un’evasione. Nulla di rocambolesco, per la verità, nessun tunnel scavato sotto terra, nemmeno lime infilate nella torta per segare le sbarre, ma l’altra sera due detenuti mancavano all’appello. Quando il portone del loro carcere si è chiuso loro erano fuori, anziché essere dentro. Nel carcere di Verziano non ha fatto ritorno una detenuta, una donna sudamericana uscita per lavorare. Nel tardo pomeriggio, quando avrebbe dovuto rientrare nella sua cella non si è presentata. L’allarme è subito scattato e le generalità della carcerata sono state diffuse alle forze dell’ordine. Finora nessuna traccia della detenuta ricercata attivamente da polizia e carabinieri. La seconda evasione si è verificata nel pomeriggio: il detenuto, ristretto nel carcere di Pisa, si trovava a Brescia in permesso premio. Nella nostra città sarebbe stato colto da un malore, una sospetta ischemia, ed è stato portato all’ospedale Civile. Non nella sezione detenuti perché era in permesso premio, ma ha seguito la prassi di ogni paziente. Quando si è sentito meglio ha pensato bene di tagliare la corda e allontanarsi senza segnalarlo a nessuno. Anche le sue generalità, foto e descrizione sono state distribuite alle forze dell’ordine. Per ora nel carcere di Pisa non è ancora rientrato. Venezia: Uil; a Santa Maria Maggiore tenta di impiccarsi in cella, poi aggredisce un agente veneziatoday.it, 3 ottobre 2015 L’episodio nella notte di venerdì a Santa Maria Maggiore. Poliziotto ferito. Uil-Pa sulle barricate: "Non si può lavorare in queste condizioni" Tenta di impiccarsi legandosi alle sbarre della cella, dopodiché si scaglia contro gli agenti di polizia penitenziaria. "Colpevoli" di avergli salvato la vita. È quanto accaduto nella notte di venerdì all’interno del carcere di Santa Maria Maggiore. A tentare il gesto estremo un detenuto italiano, scoperto appena in tempo. Immediato l’allarme e l’intervento delle forze dell’ordine, che poi sarebbero state aggredite dallo stesso carcerato. Quest’ultimo avrebbe colpito al volto uno dei poliziotti, procurandogli delle ecchimosi a un occhio. Ne dà notizia il sindacato Uil-Pa Penitenziari, secondo cui sarebbero tredici da luglio a oggi gli agenti rimasti feriti nella casa circondariale lagunare per aggressioni o disordini. "Non è possibile continuare a lavorare in queste condizioni - dichiara il segretario provinciale del sindacato Umberto Carrano - Il personale è allo stremo". Nel mirino anche il trasferimento di cinque agenti al carcere minorile di Treviso, decisione che gioco forza andrà a pesare sul personale impiegato a Santa Maria Maggiore: "Questo nonostante le nostre continue rivendicazioni, come lo stato di agitazione, le ispezioni e le visite di parlamentari e consiglieri regionali - rimarca Carrano - c’è bisogno di provvedimenti concreti, non si può lasciare l’intera gestione alla sola iniziativa, professionalità, spirito di abnegazione e senso del dovere del personale di polizia penitenziaria". Cremona: Sappe; detenuto dà fuoco alla cella per essere trasferito, un agente intossicato La Repubblica, 3 ottobre 2015 Il gesto di protesta di un italiano che voleva essere trasferito. L’uomo intervenuto è ricoverato in camera iperbarica in ospedale. Un agente della polizia penitenziaria è rimasto intossicato mentre interveniva ieri sera per spegnere le fiamme appiccate da un detenuto nella sua cella nel carcere di Cremona. Lo denuncia il Sappe, che esprime solidarietà all’agente ricoverato nell’ospedale di Fidenza nella camera iperbarica. Il detenuto, un quarantenne italiano, era arrivato a Cremona da Bologna da 3 settimane, e ha messo in atto la protesta perché aveva chiesto di essere trasferito altrove. Secondo quanto riferisce il segretario regionale Sappe della Lombardia Alfonso Greco il detenuto ha dato fuoco prima al materasso e successivamente all’intera cella. "Ormai gli eventi critici presso l’istituto cremonese sono all’ordine del giorno: altro che clima sereno e tranquillo come sostengono taluni più attenti a disinformare che non a informare sulle criticità del carcere cremonese", ha aggiunto il segretario generale Donato Capece. "Il personale di Polizia penitenziaria è fortemente preoccupato per le proprie sorti, visto che non sa ciò che potrebbe accadergli nel corso della giornata lavorativa". Verona: carcere di Montorio, la Polizia penitenziaria protesta "scarsa sicurezza e attriti" L’Arena, 3 ottobre 2015 I sindacati dal Provveditore "Ormai è corsa al trasferimento". Alla Casa Circondariale di Montorio stato di agitazione del personale della Polizia Penitenziaria, che ha inviato al Provveditore dell’Amministrazione penitenziaria una lettera in cui gli esponenti sindacali di Sappe, Osapp, Uspp già Uglpp Fns, Cisl Fp e Cgil, Gerardo Notarfrancesco, Alfredo Santagata, Vincenzo Bencivenga, Daniela Ferrari, ed Elisabetta Rossoni, evidenziano come "a distanza di un anno dal primo incontro e dopo ben due incontri, le condizioni operative del personale della Polizia Penitenziaria veronese siano addirittura peggiorate". Nessun segnale positivo, continua la nota, "si è visto rispetto alle questioni sollevate, neppure per quelle sulle quali il Provveditore si era impegnato in prima persona, come la maggior sicurezza sui piani durante la fruizione della mensa, la questione della video-audio sorveglianza, un maggior rispetto delle buone relazioni sindacali e degli accordi". Signor Provveditore, prosegue la lettera, "le scriventi organizzazioni sindacali possono affermare senza timore di smentita che l’Amministrazione Penitenziaria da lei rappresentata in questo Distretto non è assolutamente in grado di assolvere il mandato istituzionale all’interno della Casa Circondariale di Verona. Non temiamo smentita perché i dati ufficiali attestano che dal 2012, anno in cui si è insediata questa Dirigenza, abbiamo avuto un’impennata di eventi critici che sono addirittura triplicati a fronte di un dimezzamento della popolazione detenuta. Una siffatta mal gestione dei vertici dell’istituto scaligero si manifesta a tutti i livelli ed in tutti i settori. Si evidenziano in particolare l’assoluta incapacità di gestire la popolazione detenuta, il disprezzo dei ruoli gerarchici del personale, l’inasprimento dell’azione disciplinare nei confronti dei poliziotti, la gestione poco chiara se non addirittura faziosa della mobilità interna del personale, l’assoluta incapacità di buone relazioni sindacali e buone prassi. Tutte situazioni che hanno affossato e resi inefficienti interi e delicati settori, causando disaffezione e scollamento di tutto il personale della Polizia Penitenziaria. Preoccupante la circostanza che parte del personale stabilizzato nella provincia veronese abbia presentato istanza di trasferimento nelle sedi vicine, mentre si paventa una richiesta di distacchi di massa in altri istituti, anche di altri distretti. Per questi motivi, considerato che il ricorso al tavolo regionale non ha dato i risultati promessi e sperati, le scriventi organizzazioni sindacali annunciano che chiederanno un urgente incontro ai vertici al Dipartimento. Nel frattempo, investiranno il Prefetto delle questioni inerenti la sicurezza e l’ordine Pubblico chiedendo un ulteriore incontro. La protesta investirà il territorio, la cittadinanza e gli organi di stampa in tutte le forme legittime consentite dalla legge, ad oltranza e fino a che l’Amministrazione non attuerà i provvedimenti necessari al ripristino di una condizione dignitosa e vivibile per il personale della Polizia Penitenziaria". Varese: Expo in carcere, ecco il "Padiglione Miogni" varesenews.it, 3 ottobre 2015 Il gruppo di persone detenute che fa parte della redazione del giornale ha portato avanti un progetto sul ruolo del cibo nell’istituto. Si pensa a un evento a ottobre. "Per noi Expo erano solo più aerei sopra la nostra testa durante l’ora d’aria. Poi ci siamo resi conto che poteva esserci un Expo dedicato al cibo anche fra queste mura". Da questa riflessione, nata grazie alla provocazione di una delle assistenti volontarie che ogni settimana entrano in carcere, un gruppo di detenuti dei Miogni di Varese ha dato vita - per ora sulla carta - al "Padiglione Miogni". Il progetto si intitola "Nutrire il pianeta carcere, energia per la vita sospesa" ed è nato all’interno della redazione di "9m2 news", il giornale dell’istituto. In redazione un gruppo di detenuti - Sandro, Francesco, Marco, Amin e Marco - guidati da Emanuela Giuliani e Magda Ferrari dell’Associazione assistenti carcerati San Vittore Martire, Maria Mongiello, capo area educativa della Cara Circondariale e Sergio Preite di Enaip. Al centro del progetto l’analisi del ruolo del cibo in carcere abbinato, come nel caso dell’esposizione universale, al rapporto con le diverse culture. Non tutti (e non in tanti) all’esterno forse sanno che il carcere è dotato di una cucina che prepara i tre pasti principali per tutti, ma che molte persone detenute preferiscono cucinare in cella. Operazione non facile, quando la "cucina" si riduce a un fornelletto da campeggio, ma che non impedisce di "sfornare" torte e pizze. Nell’immaginario collettivo sono i parenti che portano scorte alimentari ai detenuti ai colloqui, ma poi nella realtà succede che è il detenuto a presentarsi con i biscotti appena fatti, magari da un compagno di detenzione più abile ai fornelli. Il Decumano di Expo (il lungo viale lungo il quale si snodano i padiglioni dei diversi paesi) ai Miogni è composto da Marocco, Albania, Pakistan, Romania, America Latina, Ghana e Tunisia. Il Cardo (il viale dedicato all’Italia che incrocia il Decumano) invece rappresenta Lombardia, Piemonte, Abruzzo, Sicilia, Emilia Romagna, Puglia e Calabria. Non poteva mancare l’albero della vita che sempre un gruppo di persone detenute ha realizzato all’interno di un altro laboratorio con una tecnica particolare a partire dai fogli di quotidiani. Al momento il progetto Padiglione Miogni ha portato alla stesura di una relazione che potrebbe diventare un opuscolo più agevole per dare un punto di vista diverso su Expo. Oltre ai testi ci sono dei disegni che in alcuni casi aiutano a spiegare meglio alcune situazioni. La speranza è quella di realizzare anche un evento a ottobre. Roma: "Festival dell’arte reclusa" in scena i detenuti attori del Teatro Libero di Rebibbia globalpress.it, 3 ottobre 2015 Martedì 13 ottobre alle ore 16.00 Teatro della C.C. Roma Rebibbia N.C. - nell’ambito del Festival dell’Arte Reclusa, organizzato dal Centro Studi Enrico Maria Salerno, si terrà un nuovo interessante appuntamento che vedrà protagonisti i detenuti attori del Teatro Libero di Rebibbia. Il teatro della casa circondariale ospiterà infatti Segnalibro, Teatro - Carcere - Editoria - II Edizione, dove verrà presentato il volume Dalla Città Dolente - Colpa, Pena, Liberazione attraverso le visioni dell’Inferno di Dante, dalla Divina Commedia, copione teatrale annotato e illustrato presentato dai detenuti attori del Teatro Libero di Rebibbia - G12 A.S. Drammaturgia e Regia sono a cura di Fabio Cavalli. I detenuti attori di Rebibbia presentano una lettura di Dante molto particolare: da Ulisse a Ugolino, da Paolo e Francesca a Filippo Argenti, peccati e peccatori riletti da grandi poeti che hanno tradotto Dante in siciliano, napoletano, calabrese, inglese, spagnolo… Lo spettacolo che ha reso celebre la Compagnia di Rebibbia, che ha convinto i fratelli Taviani a girare Cesare deve morire in carcere, ora anche in forma di libro illustrato. Responsabile editoriale Fabio Cavalli, illustrazioni di Alessandro De Nino. In scena i 25 detenuti attori della Compagnia del Teatro Libero di Rebibbia. Il Festival dell’Arte Reclusa, organizzato dal Centro Studi Enrico Maria Salerno ha sede al Teatro del Carcere di Rebibbia. Offre al pubblico dieci appuntamenti fra giugno e dicembre con protagonisti i detenuti-artisti guidati dallo straordinario lavoro di Laura Andreini Salerno e Fabio Cavalli, con la collaborazione artistica di Valentina Esposito. Per ogni appuntamento la sorpresa di scovare l’arte nel luogo più impensabile. Occasione di incontro fra i detenuti e la società. Il Festival è un approdo per uomini d’ogni provenienza dopo i naufragi delle loro vite. Pagano la pena ma cercano anche riscatto, hanno storie incredibili da raccontarci e attraverso il teatro, la musica, il cinema cercano di offrire frammenti di Giustizia e Bellezza. In collaborazione con Università Roma Tre. Organizzazione Gisella Alessandro e Francesca Sernicola. Segreteria Serena Lesti. Ingresso libero con accreditamento obbligatorio entro il 04/10/2015 sul sito .enricomariasalerno.it tel. 0690169196 - 069079216 - mail: laribalta@tiscali.it. È necessario indicare nome, cognome, data e luogo di nascita, indirizzo di residenza di ciascun partecipante. L’accreditamento può ritenersi effettuato solo dopo aver ricevuto conferma dalla Segreteria del Centro Studi "E. M. Salerno". Ufficio stampa Centro Studi Enrico Maria Salerno. Maya Amenduni: cell. 3928157943. Mail mayaamenduni@gmail.com. Migranti in fuga dalle violenze per finire in un gigantesco tritacarne di Fulvio Vassallo Paleologo (Docente Università di Palermo) Left, 3 ottobre 2015 Il primo settembre la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia per la detenzione "illegale" di tre migranti tunisini avvenuta nel settembre del 2011 nel Centro di primo soccorso ed accoglienza (Cpsa) di Lampedusa e poi su due navi traghetto a Palermo. Per la Corte di Strasburgo la loro detenzione da parte delle autorità italiane è stata "irregolare", "ha leso la loro dignità" e ha violato diversi articoli della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (3, 5 e 13). La detenzione amministrativa realizzata all’interno del Cpsa era "priva di base legale", i motivi della reclusione erano rimasti "sconosciuti" ai tre ricorrenti che "non hanno nemmeno potuto contestarli" rivolgendosi a un giudice italiano. La Corte ha infine stabilito che l’Italia ha violato il divieto alle espulsioni collettive di stranieri perché ha rimpatriato in Tunisia i tre migranti senza aver prima valutato individualmente la situazione specifica di ciascuno di loro, violando così l’art. 4 del Protocollo 4 alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo che dice: "Le espulsioni collettive di stranieri sono vietate". Chi oggi sostiene l’introduzione degli hotspot - in sostanza centri di prima accoglienza nelle regioni di sbarco dei migranti - dove trattenere per due o tre giorni i migranti al fine dell’identificazione, aggiunge poi che chi si rifiuterà di rilasciare le impronte, potrebbe essere rinchiuso nei Cie. Sempre nei Cie andrebbero quei migranti che, una volta qualificali "migranti economici" con evidente "pericolo di fuga", dovrebbero essere espulsi. Prendiamo un altro caso, quello di alcune decine di ragazze nigeriane sbarcate a Lampedusa il 17 luglio di quest’anno. Potenziali vittime di tratta alle quali è stato immediatamente notificato un provvedimento di respingimento differito adottato dalla questura di Agrigento e che sono state poi trasferite nel Cie di Ponte Galeria, a Roma, ai fini del rimpatrio. Soltanto un forte impegno della società civile ha bloccato in parte il rimpatrio immediato, ottenendo la liberazione di alcune di loro, mentre altre sono state fatte tornare in Nigeria, malgrado stessero arrivando i provvedimenti di sospensiva adottati dal tribunale di Roma. Nel loro caso, oltre al trattenimento arbitrario a Lampedusa, si è aggiunto l’internamento in un Cie, senza la possibilità di far valere la richiesta di protezione. Un caso ancora aperto, sul quale riflettere per comprendere quali potrebbero essere in futuro le violazioni di leggi e regolamenti all’interno dei nuovi hotspot che il governo italiano, su spinta delle autorità europee, dovrebbe attivare entro novembre. Gli hotspot non potranno assolvere alla funzione di snodo di transito per i migranti che riconosciuti "profughi" intendono proseguire il loro viaggio verso il Nord Europa, come qualche fonte di polizia suggerisce. E il trattenimento amministrativo all’interno di queste strutture non si limiterà certo alle 48-72 ore previste nei documenti ufficiali. I numeri previsti dalla rilocation europea sono molto più bassi del numero di persone che chiedono asilo in Italia. E il sistema dei Cie, con appena 500 posti in tutto il Paese, non potrà essere ampliato come alcuni vorrebbero. Incontrerebbe l’opposizione sociale e, poi, ci sono ragioni economiche che rendono irrealistico questo progetto. Si può dunque prevedere che l’Italia continuerà a violare quelle garanzie fondamentali che vanno riconosciute anche ai "migranti economici" e che continueranno ad arrivare sentenze di condanna da Strasburgo. Ma soprattutto appare certo che il destino di migliaia di persone in fuga da Paesi nei quali hanno subito abusi gravissimi, dopo una traversata nella quale hanno rischiato la vita, finisca in un gigantesco tritacarne che produrrà scorie umane deprivate di qualsiasi dignità. Dolore e nuova politica per l’immigrazione di Angelo Scola (arcivescovo di Milano) Il Sole 24 Ore, 3 ottobre 2015 Il Rapporto dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr), pubblicato nel giugno di quest’anno, conferma quello che ogni giorno i mass media ci mostrano in diretta: le dimensioni delle migrazioni forzate provocate da guerre, conflitti, persecuzioni e miseria hanno raggiunto livelli senza precedenti. Nel 2014 quasi 60 milioni di persone si sono trovate costrette ad abbandonare le loro case contro i 37,5 milioni di dieci anni fa. Per intenderci, 42.500 persone in media ogni giorno hanno ingrossato la marea dei rifugiati, dei richiedenti asilo o degli sfollati. Metà sono bambini. Scappano dalla fame e dalla guerra che spesso assume il volto della persecuzione religiosa fino allo sterminio. Le immagini delle moltitudini in fuga hanno in sé qualcosa di struggente e insieme di epico. Un’invincibile forza d’urto fatta di immenso dolore e di altrettanto indomabile speranza. Dolore e speranza che ho potuto toccare con mano nell’incontro avuto con loro nel giugno scorso, nei campi profughi di Erbil, nel Kurdistan iracheno. Il fenomeno dell’immigrazione verso l’Europa sta assumendo caratteri tali da non poter più essere descritto nei termini di pura emergenza. Sta diventando un problema "strutturale" con il quale, a detta degli esperti, dovremo fare i conti per qualche decennio; e come tale chiede di essere affrontato e risolto. La Chiesa, come il buon samaritano, fin dall’inizio si prende cura di queste persone. In dialogo e in collaborazione con tutte le altre istituzioni che se ne occupano è in prima linea nel garantire loro una prima ospitalità. Il metodo che viene seguito è capillare, favorendo l’inserimento di piccoli numeri (in primis i nuclei familiari) in ambiti di vita comunitaria. In questa direzione è andata la proposta rivolta dal Papa e dalla Conferenza Episcopale (Cei) a tutte le Chiese italiane, e dall’Arcivescovo alle parrocchie, alle comunità religiose e a tutti i fedeli della diocesi ambrosiana. Nonostante la comprensibile paura di molti (in questo senso c’è un grande lavoro educativo da fare oltre, naturalmente, ad un fattivo accompagnamento da offrire) le risposte ci sono e sono incoraggianti. In Lombardia i dati risalenti a una decina di giorni fa parlano di circa 3.500 profughi - ma il numero cresce di giorno in giorno perché, solo in dio diocesi di Milano, ben 67 tra parrocchie, istituti religiosi e famiglie si sono aperte all’accoglienza - che hanno trovato un tetto grazie alla disponibilità delle diocesi. Ovviamente chi è ospitato non viene lasciato solo: la Caritas, attraverso gli operatori professionali delle sue cooperative, si fa carico della gestione e di tutti gli aspetti amministrativi e burocratici previsti dai protocolli con le Prefetture. Insieme alla soddisfazione per la generosità che ancora una volta la nostra gente ha dimostrato (quante ondate migratorie ha sopportato e pazientemente integrato nella sua storia?) ho espresso preoccupazione, che si è fatta pressante invito alle autorità competenti, perché rendano più snelle e veloci le procedure per il riconoscimento dello status giuridico dei richiedenti asilo. Si possono raggiungere dai 18 ai 20 mesi perché le domande trovino risposta. Servono inoltre, e con urgenza, regole chiare per rendere possibile ai migranti ospiti un lavoro volontario. Pare che negli ultimi giorni qualche passo sia stato fatto in questa direzione. Ancor di più è necessario che si ripensi, anche alla luce di questo processo sconvolgente, la fisionomia dell’Europa. E si faccia una "politica" internazionale che offra alle persone la possibilità di restare nel paese di origine. È certo però che la migrazione di uomini e donne di altre etnie, culture, lingue e religioni verso le nostre terre è forse la prova più imponente della "discontinuità" che le società e gli stati europei sono chiamati a riconoscere e a governare in questa nuova epoca, accettando la rottura con il passato, e perciò non ostinandosi a chiudersi in difesa, ma anche cercando di cucire quello che può essere cucito. La fede, che per secoli ha plasmato la "mens" dei popoli d’Europa, ci insegna che la storia non è nelle mani di un Fato oscuro e capriccioso, ma di un Padre. Quindi ogni circostanza (da quelle macro che imprimono svolte epocali, a quelle più piccole e nascoste che dipendono dalle scelte di ognuno di noi) ed ogni rapporto sono un’occasione, ma la parola più esatta sarebbe pro-vocazione, offerta alla nostra libertà. La rottura traumatica che le migrazioni stanno producendo nel nostro corpo sociale ci "costringe" a ridiscutere l’individualismo narcisistico in cui noi europei del terzo millennio ci stavamo accomodando e forse anche un po’ rassegnando, pasciuti ma spesso infelici. Dai nostri patroni Ambrogio e Carlo fino ad oggi, passando attraverso l’azione dei grandi movimenti popolari cattolico, socialista e liberale, a Milano e nelle terre lombarde c’è sempre stato un diffuso costume di compassione. L’Anno della Misericordia è ormai alle porte. E la misericordia non è un’intenzione astratta, ma una realtà concreta, fattore di costruzione di vita buona. Caporalato, la Rete di contrasto non decolla di Gianmario Leone Il Manifesto, 3 ottobre 2015 Lavoro nero. Poche adesioni all’organismo autonomo creato dal governo: solo 300 aziende agricole su 740 mila. Ma per la Uil sono dati soddisfacenti. Sono appena 300 su un totale di 740mila in tutta Italia, le aziende agricole che dallo scorso 1 settembre hanno presentato istanza di iscrizione alla Rete del lavoro agricolo di qualità, l’organismo autonomo creato dai ministeri delle Politiche agricole e della Giustizia in collaborazione con l’Inps, "per rafforzare le iniziative di contrasto dei fenomeni di irregolarità e criticità che caratterizzano le condizioni di lavoro nel settore agricolo". I primi dati sono stati resi noti al termine della riunione della Cabina di Regia della Rete: 300 domande pervenute, 59 quelle esaminate. Di queste, 52 sono state ammesse mentre per le altre l’Inps sta istruendo le verifiche penali e amministrative nonché quelle della Direzione territoriale del lavoro relative alla regolarità dell’attività. Dati che per il segretario nazionale della Uila Uil, Giorgio Carra, sono "soddisfacenti: esistono ancora delle problematiche tecniche e burocratiche da superare, ma nel complesso siamo soddisfatti del cammino intrapreso". Alla rete possono fare richiesta le imprese che non hanno riportato condanne penali e non hanno procedimenti penali in corso per violazioni della normativa in materia di lavoro e legislazione sociale e in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto; che non sono state destinatarie, negli ultimi tre anni, di sanzioni amministrative definitive e in regola con il versamento dei contributi previdenziali e dei premi assicurativi. Non ancora chiaro però, cosa accadrà alle aziende che sceglieranno di non aderire alla Rete: saranno controllate oppure continueranno ad agire in una sorta di zona d’ombra? Sarà anche per questo che la Cabina riunitasi nella sede dell’Inps a Roma si è occupata anche della piaga del caporalato. Gli enti partecipanti hanno deciso di predisporre insieme una bozza di intervento per il contrasto al lavoro nero. Intanto però, mentre la Cabina è al lavoro, bisogna fare i conti con la realtà: che parla una lingua del tutto diversa rispetto a quella dei tavoli istituzionali. Per questo la procura di Foggia ha istituito un pool composto da due magistrati per indagare sul caporalato in agricoltura, sulle connessioni tra caporali e criminalità mafiosa e sui reati "spia" legati al fenomeno presente da decenni nelle campagne del Sud e pugliesi. Il pool, composto dai pm Dominga Petrilli e Francesco Diliso, sarà coordinato dal procuratore Leonardo Leone de Castris e avrà a disposizione trenta uomini della polizia giudiziaria. La zona della provincia di Foggia più tradizionalmente interessata dal caporalato è quella Sub garganica e di Cerignola, a maggiore vocazione agricola: in quest’area si è concentrata l’attenzione degli inquirenti e della polizia giudiziaria. Proprio mercoledì nel capoluogo garganico sono scesi in strada in 400 per ricordare Mamoudou Sare, il bracciante 37enne originario del Burkina Faso, ucciso a fucilate nelle campagne di Lucera lo scorso 21 settembre. I partecipanti, provenienti da tutta Italia, erano per lo più compagni di Mamoudou con il quale vivevano nel "Grande Ghetto" di Rignano Garganico: alla testa del corteo uno striscione che recitava: "Senza giustizia nessuna pace, Foggia è una città meticcia e antirazzista". "Si può morire per un melone?" la domanda senza risposta dei tanti braccianti presenti al corteo. La procura è al lavoro per fare luce sui fatti dello scorso 21 settembre, che al momento vede indagati per omicidio volontario e concorso in tentato omicidio volontario e porto illegale di armi, Ferdinando Piacente di 67 anni e il figlio Raffaele di 27. È invece uscito dall’ospedale l’altro compagno di Mamudou, Kadago Adam, che però convivrà per tutta la vita con una cartuccia conficcata nel petto. La strage che l’Europa non vuole vedere di Annamaria Rivera Il Manifesto, 3 ottobre 2015 Il destino dell’Europa. Due anni fa la terribile strage di Lampedusa. Da allora le cose sono perfino peggiorate. Le ultime decisioni non faranno che alimentare i nazionalismi. Sono passati due anni dalla strage di Lampedusa, una delle più gravi catastrofi nel Mediterraneo, quella che indusse a pronunciare il fatidico "mai più", poi sistematicamente tradito. Nel corso di questo biennio gli eccidi di migranti e profughi si sono moltiplicati con ritmo incalzante: sono almeno 2.900 le vittime della "Fortezza Europa" nel breve periodo che va dallo scorso gennaio a oggi. Nondimeno, rispetto a due anni fa, è subentrata non solo "una certa assuefazione", come si dice. A rendere ancor più cupo uno scenario in cui si moltiplicano confini corazzati, vagoni blindati, campi d’internamento, deportazioni, violenze poliziesche contro inermi, ristagna in Europa una certa aria di negazionismo. All’ampio movimento che solidarizza attivamente con i rifugiati fa da contraltare un’opinione pubblica che nega o minimizza lo sterminio dei nuovi reietti oppure allontana la sua stessa idea come fosse una zanzara molesta. A sollecitare la pietas ormai non bastano più le immagini atroci di cadaveri d’infanti uccisi dal proibizionismo. Non c’è solo il negazionismo a comporre quella che in un articolo precedente ho definito semiotica del genocidio. Per coglierne un altro segno, basta soffermarsi sull’istantanea, divulgata dai media una decina di giorni or sono, che fissa una folla di donne e bambini assiepata dietro il reticolato del "muro della vergogna", al confine tra l’Ungheria e la Serbia. A rendere l’immagine ancor più insostenibile, in prima fila ci sono alcuni bambini che, stretti contro la barriera, le volute di filo spinato incombenti sulle loro teste, stringono tra le mani dei giocattoli. Altrettanto intollerabile è l’idea che più tardi almeno quattro bambini, perduti dai genitori il 16 settembre a Horgos durante le cariche brutali della polizia ungherese, sarebbero stati trattenuti per essere affidati a "strutture specializzate". Ricordo che in quella occasione la polizia aveva fatto uso di cannoni ad acqua, lacrimogeni, proiettili al sale, anche contro donne e minori, e poi arrestato un buon numero di profughi. La crudeltà perfino verso i fanciulli non è la sola traccia a indicare l’allarmante mimèsi di un passato abietto che, come ha scritto recentemente Barbara Spinelli, "si banalizza e rivive" grazie al "patto dell’oblio" che vige, di fatto, nell’Unione Europea. Il 23 settembre alcuni attivisti ungheresi denunciano che a Zakany, vicino al confine tra Ungheria e Croazia, centinaia di migranti sono stati caricati su carri-merci chiusi, senz’acqua né cibo, per essere trasferiti verso il confine austriaco. Non è la prima volta che le autorità magiare compiono, senza alcun pudore, atti che ricordano la deportazione degli stessi ebrei ungheresi nel 1944. Infatti, lo scorso luglio, a un treno che partiva da Pecs diretto a Budapest era stato aggiunto un vagone-merci chiuso, stipato di profughi, perlopiù siriani e afghani, donne e bambini compresi. "Questo vagone viaggia con le porte chiuse", avvertiva un cartello appeso a un finestrino. Per parafrasare Hannah Arendt, ogni infamia è consentita pur di ridurre il fardello degli indesiderabili. Scene di tal genere e stragi di reietti sono destinate a moltiplicarsi dopo che il più recente vertice dei leader dell’Unione Europea ha approvato un pacchetto che ripropone "una strategia fallimentare", per dirla con Amnesty International: nessuna misura a garantire percorsi sicuri e legali per i rifugiati, nessuna per riformare il sistema di asilo. Tutto quel che si è deciso va nella direzione opposta: controlli più ferrei delle frontiere; strategie di esternalizzazione per tenere migranti e profughi fuori dal territorio europeo; rigida distinzione tra migranti "economici" e profughi, a loro volta discriminati secondo la nazionalità. E ciò in barba al principio, sancito dalla Convenzione di Ginevra, per il quale il diritto alla protezione internazionale riguarda chiunque abbia fondato motivo per temere d’essere perseguitato nel Paese d’origine. Si aggiunga il lancio della seconda fase della missione navale EunavForMed contro gli "scafisti", che prevede l’abbordaggio e l’affondamento in mare aperto dei "barconi", in realtà sempre più spesso null’altro che gommoni auto-governati: in assenza di corridoi umanitari, una tal missione si configura come atto di guerra contro la moltitudine in fuga. Altrettanto perversa è l’istituzione degli hotspot finalizzati a identificare, registrare e foto-segnalare i migranti, con lo scopo, in definitiva, d’incrementare i rimpatri. Chi si rifiuterà di farsi identificare finirà in centri d’internamento e, in Italia, in quelle strutture sinistre, peggiori del carcere, che sono i Cie. Come negli anni di cui parla Arendt, il campo d’internamento, qualunque sia la sigla con cui oggi è nominato, torna a essere "la soluzione corrente del problema della residenza delle displaced persons". Fra le quali, attualmente, numerose sono le persone con bambini: dunque, anche loro finiranno nei Cie se i genitori rifiutassero d’essere identificati? O saranno affidati a "strutture specializzate"? Paradossalmente, "gli espulsi dalla vecchia trinità Stato-popolo-territorio" (ancora Arendt) approdano, quando ci riescono, in un mondo disseminato di muri e barriere di filo spinato, ove risorgono nazionalismi aggressivi, ove a difesa del proprio territorio si arriva a schierare gli eserciti, ove si compete ferocemente per respingere il massimo possibile di migranti verso il territorio del confederato più vicino. I nazionalismi, a loro volta, sono prodotto secondario del sovra-nazionalismo armato a difesa delle frontiere praticato pervicacemente dall’Unione Europea. È dunque sul versante delle migrazioni e degli esodi che oggi si decide del destino dell’Europa unita, progettata nel dopoguerra giusto per sconfiggere i nazionalismi, oltre che il colonialismo e la crisi economica: ovvero i tre grandi mali che avevano prodotto il fascismo, per citare ancora Spinelli. È un destino dall’esito incerto, data la fragilità delle istituzioni comunitarie e la mediocrità delle élite dirigenti. Migranti, le promesse di Renzi possono attendere di Rachele Gonnelli Il Manifesto, 3 ottobre 2015 Tre anni e non basta ancora. La nuova legge sulla cittadinanza, attesa dal 2012 quando furono raccolte oltre 200 mila firme dalla campagna L’Italia sono anch’io, promessa dallo stesso Renzi non ancora premier, e su cui è stato raggiunto un accordo di maggioranza e un testo unico in commissione Affari costituzionali, per altro giudicato a ribasso dalle associazioni della società civile, slitta nel calendario della Camera. La discussione in aula sarebbe dovuta iniziare la prossima settimana ma, come assicura Dorina Bianchi dell’Ncd, a causa dei ritardi su altri provvedimenti, non se ne parlerà fino a metà mese. "E non è detto che non ci siano ulteriori sorprese negative", afferma preoccupato Giulio Marcon, deputato di Sel, presentando il rapporto Watchdog dell’associazione Lunaria che monitora gli ultimi sei mesi di attività parlamentare su immigrazione, asilo, discriminazioni e razzismo. Sono 98 le proposte di legge fin qui presentate in Parlamento, incluso quella di istituire una Giornata della memoria delle vittime dell’immigrazione il 3 ottobre, in memoria dei 366 morti di due anni fa a largo di Lampedusa, e quattro le leggi approvate su questa materia, ma è sicuramente quella che stabilisce nuove norme sulla naturalizzazione degli stranieri, minori inclusi, la più attesa. "Concordo sul fatto che quasi sei milioni di stranieri in Italia siano decisamente troppi, nel senso che almeno un milione di questi dovrebbero essere già cittadini italiani a tutti gli effetti", dice Enrico Pugliese, uno dei più autorevoli studiosi italiani di flussi migratori. Purtroppo nel compromesso tra Pd, Ncd, Scelta civica e Popolari per l’Italia è stata introdotta sotto mentite spoglie una clausola restrittiva sul reddito per la naturalizzazione dei minori nati in Italia: potranno ottenerla solo quelli con almeno un genitore titolare di permesso di soggiorno Ue di lungo periodo e questi permessi "lunghi" hanno requisiti stringenti su reddito e alloggio. Una discriminazione tra ricchi e poveri che di certo non avrebbe passato il vaglio dei padri costituenti. "C’è una fissazione di parte dei legislatori sul dare la cittadinanza solo ai meritevoli che lascia stupefatti - dice ancora Pugliese - quando non è difficile presumere che due terzi dei parlamentari non riuscirebbero a superare i test a cui devono sottoporsi gli stranieri adulti". Pur restando molte critiche sui provvedimenti adottati o in via di approvazione, il rapporto di Lunaria (scaricabile dal sito Cronache di ordinario razzismo insieme ai link ai provvedimenti) certifica un parziale cambio di passo nell’attività legislativa in questa legislatura, nella quale si riscontra un’intensa attività di proposta su questi temi in particolare da parte del gruppo Pd, e non soltanto per le necessarie ratifiche di direttive europee. Mentre sugli atti non legislativi (mozioni, ordini del giorno, interpellanze, risoluzioni, interrogazioni) c’è un attivismo sfrenato, "di tipo propagandistico", da parte della Lega Nord. Sulle leggi difende l’esistente. La legge europea 2013-bis che riduce i tempi di detenzione amministrativa nei Cie da 180 a massimo 30, prorogabili fino a 90, approvata un anno fa, rischia ora di essere azzerata dall’istituzione degli hotspot nelle aree di sbarco - "che seguiranno regole di permanenza niente affatto chiare", dice Grazia Naletto, presidente di Lunaria - e dalla selezione tra richiedenti asilo e migranti economici negli hub regionali. "Una differenza - insiste Naletto - che nei fatti è sempre meno netta nelle ragioni che spingono alla fuga, mentre dall’agenda dell’Europa continua a mancare del tutto il diritto di arrivare sani e salvi in Europa", ovvero l’apertura di corridoi umanitari e la garanzia di ingressi legali, come previsto fino all’introduzione della Bossi-Fini. Mancano all’appello: il voto amministrativo, l’abolizione del reato di clandestinità e l’autonomia dell’Unar, l’authority che monitora discriminazioni e razzismo. Anzi, in questi giorni il governo ha avviato un provvedimento disciplinare contro il dirigente Unar che si era permesso di stigmatizzare dichiarazioni razziste di parlamentari come Giorgia Meloni. Una scelta giudicata "grave" da Lunaria che ritiene che l’Unar debba essere sganciata dalla Presidenza del Consiglio. Così come grave è la proposta Amati (Pd), già passata al Senato, di limitare il reato di propaganda del razzismo alle dichiarazioni rese "pubblicamente". Liberati due italiani prigionieri in Guinea di Francesca Musacchio Il Tempo, 3 ottobre 2015 Daniel e Fausto Candio finiti in carcere per il crac della General Work. Restano in Africa altri tre connazionali. Martedì a Roma la fiaccolata. Potrebbero arrivare in Italia già nelle prossime ore per riabbracciare parenti e amici dopo i mesi trascorsi nelle carceri della Guinea. Svolta nella vicenda dei cinque italiani bloccati nel paese africano dal 21 marzo scorso e sospettati di avere a che fare con i guai finanziari della General Work, l’azienda per cui lavoravano proprio in Guinea. Ieri è arrivata la notizia della liberazione di Daniel Candio, detenuto dal 24 giugno insieme a Filippo Galassi (al momento ancora in carcere). Al padre di Daniel, Fausto, è stato restituito il passaporto tolto lo stesso giorno dell’arresto del figlio. Una vicenda complicata e non ancora conclusa. Resta, infatti, la preoccupazione dei familiari di Fabio e Filippo Galassi, ancora detenuti e per un quinto italiano (che ha scelto di restare anonimo) privato del passaporto. Martedì sera in via della Conciliazione si svolgerà una fiaccolata per chiedere che venga fatta luce al più presto. Al momento i legali in Italia non hanno ancora ricevuto gli atti con le contestazioni formali mosse ai propri assistiti. La Farnesina sta seguendo da vicino il caso attraverso l’Ambasciata in Camerun con delega per la Guinea. Dopo il rilascio di Daniel e Fausto Candio, ritenuti evidentemente estranei alle vicende economiche della General Work, si attende di sapere anche l’esito delle indagini che riguardano Fabio, Filippo e l’altro dipendente. Intanto, il capogruppo della Lega Nord al Senato Gian Marco Centinaio sta preparando una mozione parlamentare sulla vicenda, da presentare nei prossimi giorni, nella quale impegna il governo a fare luce sull’accaduto. La vicenda è iniziata il 21 marzo scorso, quando Fabio e Filippo Galassi (padre e figlio entrambi dipendenti dell’azienda) vengono fermati dalla polizia guineana con l’accusa di tentare la fuga dal paese con le valigie cariche di soldi, forse quelli che sarebbero mancati dal bilancio dell’azienda. La perquisizione, però, ha dato esito negativo ma i due vengono comunque condotti in carcere. Il 25 marzo Filippo viene rilasciato, ma privato del passaporto, mentre il padre Fabio continua a restare in carcere. Il 24 giugno la situazione si complica ulteriormente. Mentre Fabio è in Tribunale, Filippo viene arrestato nuovamente insieme a Daniel, e al padre di quest’ultimo (Fausto) viene tolto il passaporto, così come ad un quinto dipendente della stessa azienda. Sullo sfondo di questa complicata situazione, inoltre, c’è l’ombra di un personaggio che compare anche nei guai con la giustizia guineana di un altro italiano detenuto per oltre due anni. È il caso di Roberto Berardi, l’imprenditore di Latina arrestato a gennaio 2013 e rilasciato a luglio scorso, quasi in concomitanza con i cinque fermi, per accuse analoghe. Le similitudini tra i due casi non finisco qui. In comune hanno anche Teodorìn Nguema Obiang Mangue, il figlio del presidente guineano, in affari con Berardi. Teodorìn, destinatario di un mandato di cattura internazionale emesso dalla Francia con l’accusa di riciclaggio di denaro e appropriazione indebita di soldi pubblici e processato in America per riciclaggio di proventi di attività corruttive, aveva una partecipazione anche nella General Work che da mesi non avrebbe garantito gli stipendi ai dipendenti per mancanza di fondi che sarebbero dovuti arrivare dal pagamento di alcune commesse da parte dello Stato. Manconi e Guerra: fermare l’estradizione di Pizzonato in Brasile, violerebbe diritto difesa Askanews, 3 ottobre 2015 "Il cittadino italo-brasiliano, Henrique Pizzolato, detenuto nel carcere di Modena, sta per essere estradato in Brasile. Ciò nonostante che sia stata fissata per il 14 dicembre prossimo la prima udienza di un processo a suo carico. Il che violerebbe il suo fondamentale diritto alla difesa, solennemente tutelato dalla nostra Costituzione, in un procedimento giudiziario davanti a un tribunale italiano. La vicenda di Pizzolato è lunga e complessa, ma è certo che la sua estradizione in Brasile comporterebbe la violazione di suoi essenziali diritti e gravi rischi per la sua stessa incolumità. Di conseguenza, chiediamo al ministro della Giustizia, Andrea Orlando, una smentita ufficiale a una decisione che consideriamo estremamente pericolosa". Lo hanno denunciato in una nota i senatori del Pd Maria Cecilia Guerra e Luigi Manconi. Stati Uniti: la "guerra civile" americana di Guido Moltedo Il Manifesto, 3 ottobre 2015 "Siamo l’unica nazione al mondo - ha detto il presidente democratico- che non ha leggi ragionevoli sulle armi. Sono stati uccisi più americani in queste sparatorie che negli attacchi terroristici". L’Oregon, tra la California e lo stato di Washington, fa pensare alle foreste che lambiscono il Pacifico, al verde sereno di grandi spazi incontaminati punteggiati da comunità tolleranti e progressiste. Niente di più lontano dal far west che giovedì si è scatenato nelle aule dell’Umpqua Community College di Roseburg. Ma la guerra civile americana non conosce confini, si combatte anche nei campus, anche in quelli come l’Umpqua Community, che è gun free zone, un’area dove sono vietate pure le pistole ad acqua. Guerra civile? Come altro definire l’interminabile, quotidiano, conflitto che si combatte dappertutto, all’interno degli Usa? Chi ricorda le centinaia di migliaia di morti - solo per parlare degli ultimi due decenni - morti innocenti proprio come i nove studenti di Roseburg? C’è un monumento per commemorare i caduti del Vietnam, a Washington, ma non sono anch’essi caduti, come in guerra, i diecimila cittadini americani uccisi da un proiettile, da un’arma da fuoco? In una sparatoria, in una strage? Diecimila morti nel corso dei mesi di quest’anno. Oltre quattromila nei quattro mesi dal discorso pronunciato da Barack Obama dopo l’uccisione di nove fedeli in preghiera in una chiesa africano-americana di Charleston. Già, quel discorso, molto bello, poteva rappresentare un primo forte argine al fenomeno delle armi, anche armi da guerra, che puoi portare dappertutto, e che uccidono - quando c’è una sola vittima o due non fa neppure notizia - e che fanno massacri. "Siamo l’unico paese moderno al mondo che vede questo tipo di sparatorie quasi ogni mese. Sono diventate una routine", ha detto due giorni fa, a caldo, Obama. E l’editoriale del sito progressista blue?na?tion?re?view?.com arriva all’amara conclusione, dopo Roseburg, che "noi, come nazione, abbiamo deciso che le sparatorie di massa, per quanto tristi possano essere, sono parte dell’American life". Sì, è un fenomeno che rischia, se non lo è già, di essere banalizzato. Come i morti sulle strade. In fondo, le cifre annuali sono pressoché identiche in America. Quasi fossero, l’uccisione del vicino, la strage in una scuola elementare, in un college - alla stregua degli incidenti stradali - tributi da pagare alla società del benessere (!?). Ma la guerra civile americana si combatte anche sui terreni della politica e della cultura. Obama, dopo un inizio riluttante, nel primo mandato, ha preso di petto la National Rifle Association (Nra), la lobby dei possessori di armi da fuoco, considerata il gruppo di interessi e di pressione più potente, più ricco e meglio organizzato a Washington e nelle capitali degli stati, un modello per le altre lobby. E il suo tono, le sue parole, sono state particolarmente dure, dopo la notizia di Roseburg. D’altra parte, il suo, era il quindicesimo discorso seguito a un massacro. Un discorso politico, di fronte all’ultimo di una catena di eventi che è frutto di una scelta politica, ha scandito il presidente, quella di non far nulla perché accadano e si ripetano. Attaccare la Nra è, di fatto, attaccare un pezzo di quello che il presidente Dwight Eisenhower definì il complesso militare-industriale, definizione appropriata per mettere in guardia la nazione, uscita dalla guerra, dall’eccesso di potere acquisito dall’industria bellica e dall’apparato militare. La produzione, il commercio, la diffusione delle armi da fuoco - la Nra, dunque - non sono forse parte di quel mondo lì, che gioca e fa profitti con la morte? Raramente, difficilmente, un politico osa criticare la Nra e il grumo d’interessi che rappresenta. Per dire, Jeb Bush, che è l’ala moderata dei repubblicani, in un tweet per commentare Roseburg, si è guardato bene dal solo scrivere o appena pronunciare la parola gun, come se i nove giovani fossero morti chissà perché, chissà come. Ma c’è anche un dogma/tabù, che la sparatoria di Roseburg colpisce, quello costruito dalla "narrazione" dominante dopo l’11 settembre, secondo cui l’unica vera grande minaccia alla national security americana e all’American way of life proviene dal terrorismo, islamico, ovviamente. Il nemico esterno. Finora immaginario o immaginato. E intanto, il nemico vero, quello interno, non solo non era e non è fronteggiato ma era ed è tutelato e coccolato. "Siamo l’unica nazione al mondo - ha detto il presidente democratico- che non ha leggi ragionevoli sulle armi. Sono stati uccisi più americani in queste sparatorie che negli attacchi terroristici". E poi: "Spendiamo oltre un trilione di dollari e approviamo innumerevoli leggi, e dedichiamo intere agenzie alla prevenzione di attacchi terroristici sul nostro suolo, e facciamo bene. Eppure, abbiamo un Congresso che esplicitamente ci impedisce perfino di raccogliere dati su come poter potenzialmente ridurre le morti da armi da fuoco. Com’è possibile?". Obama ha confessato la sua amarezza e la sua impotenza: da solo non posso affrontare una sfida così. Eppure s’impegnerà su questo fronte, sapendo che non dovrà essere rieletto e che dunque potrà sfidare la lobby delle armi come non ha voluto o non ha potuto fare nel primo mandato. C’è da aspettarselo, anche se, egli stesso ha detto, si deve muovere soprattutto il Congresso. Un Congresso dominato dal Partito repubblicano, nel quale è egemone la destra oltranzista. È chiaro che farà di tutto, come ha fatto finora, per bloccare la sia pur minima misura restrittiva, a livello federale, nell’acquisto e nel possesso delle armi. Se alla maggioranza repubblicana al senato e alla camera si aggiungerà, nel novembre 2016, un presidente dello stesso partito, la litania delle stragi continuerà nella totale indifferenza. Tutti i candidati del Grand Old Party sono lautamente finanziati dalla Nra e dai gruppi a essa legati. Addirittura il beniamino del tea party, Ted Cruz, ha avviato la sua campagna per la nomination repubblicana con un video nel quale si fa ritrarre mentre spara un paio di caricatori con un fucile d’assalto. Intorno alla canna del fucile ha avvolto fette di bacon, poi ricoperte con stagnola, che dopo la sparatoria sono cotte e croccanti. Ecco come cuociamo noi il bacon in Texas, ride dopo la sua bravata, con una faccia cretina e cattiva. Capito? Capito che tipi sono in corsa per la Casa Bianca? E potrebbero perfino conquistarla? Stati Uniti: armi in America, tutti i numeri della strage di Marina Catucci Il Manifesto, 3 ottobre 2015 Nel periodo 2004-2013, sono 316.545 le persone morte da arma da fuoco sul suolo americano. Utilizzando numeri del Centers for Disease Control and Prevention, nel periodo 2004-2013, sono 316.545 le persone morte da arma da fuoco sul suolo americano (il 2013 è l’anno più recente dei dati disponibili). Questo dato comprende tutte le morti, includendo i casi di omicidio, di incidente e di suicidio volontario. Secondo il Dipartimento di stato degli Stati uniti, il numero di cittadini americani uccisi all’estero in conseguenza a fenomeni di terrorismo dal 2004 al 2013 è di 277. Gli episodi di terrorismo all’interno degli Usa negli stessi otto anni hanno procurato la morte di 36 persone. Questo porta il totale a 313 morti per terrorismo. Dall’inizio della sua presidenza Barack Obama ha commentato 15 episodi di omicidi di massa, uno di questi avvenuto mentre stava tenendo un discorso sull’opportunità di varare leggi più restrittive sul possesso di armi. La frequenza di sparatorie nelle scuole nel 2015 è stata di un episodio alla settimana, con giorni in cui si è verificata più di una sparatoria in città diverse. Il numero di americani uccisi in America dai propri concittadini è 297 volte superiore a quello del Giappone, 49 volte più alto che in Francia e 33 volte che in Israele. Tra i 46 senatori che avevano votato contro maggiori controlli per il possesso delle armi, 43 avevano ricevuto soldi dalla lobby delle armi nei dieci anni precedenti. La Nra ha vinto in diverse occasioni: facendo approvare la norma sulla reciprocità, per cui un’arma posseduta in uno Stato può essere portata legalmente in un altro Stato se esistono accordi tra le due amministrazioni; ha invece bocciato la legge per la diminuzione del numero legale di armi che si possono tenere in magazzino e il bando per la vendita dei fucili d’assalto. Non solo repubblicani difendono la lobby, con numeri decisamente minori anche tra i democratici ci sono difensori delle armi che hanno come finanziatori la Nra, come l’ex leader del senato Harry Reid. Stati Uniti: strage al college, i killer scelgono i giovani perché odiano il futuro di Lucetta Scaraffia Il Messaggero, 3 ottobre 2015 Negli Stati Uniti i folli che sparano senza senso, così, tanto per fare una strage - ma, dobbiamo aggiungere, forse anche per essere ammazzati - hanno sempre scelto come obiettivo una scuola: ben 45 casi nel solo 2015, addirittura 145 da quando il primo folle ha sparato fino a oggi, quando è stata coinvolta una scuola elementare a Newtown. Viene spontanea una domanda: perché una scuola e non un ospedale, uno stadio, una stazione all’ora di punta? Certo, la scelta delle scuole per compiervi delle stragi è nata senza dubbio dal desiderio di imitare casi di cronaca eclatanti, spesso annunciati in rete e poi rimbalzati da veri e propri siti e da deliranti blog da parte degli stessi protagonisti sopravvissuti. Il primo di loro ha fatto scuola e ha suggestionato gli altri. Dobbiamo infatti ricordarci che le notizie di cronaca nera possono diventare, nella nebbia di menti malate, come dei suggerimenti per compiere altre stragi. In una società come la nostra, in cui sembra contare solo chi è famoso, un crimine spettacolare può essere la via per diventare famosi subito, senza fare gavetta, senza impegnarsi in percorsi professionali. E la scelta di una scuola come obiettivo aiuta questa perversa pubblicità: non c’è nulla di più drammatico, di più toccante, che vedere improvvisamente troncate vite giovani, sane, piene di voglia di vivere. E questi assassini che finiranno ammazzati vogliono la pubblicità, anche a costo di morire, la inseguono da tempo sui loro social, dove minacciano la strage prima di realizzarla, per vedere - così è avvenuto tante volte - se qualcuno si accorge finalmente di loro. Anche il protagonista dell’ultima strage l’aveva minacciata, addirittura descritta in tutti i particolari, ma non aveva trovato chi gli desse retta. Sembrava che nessuno ci credesse, che nessuno lo volesse prendere in considerazione, facendolo così uscire da un insopportabile anonimato. È dunque evidente che il suo inferno era la vita anonima, una condizione così dolorosa da suggerirgli un mezzo estremo e definitivo per uscirne. La scuola è il luogo dove si prepara il futuro, ma è anche il luogo in cui comincia quella selezione meritocratica che, soprattutto in un paese come gli Stati Uniti, può aprire la strada a una affermazione professionale, a un "successo" che può renderti visibile, diverso dalla massa anonima. L’assassino odia la vita che non gli ha dato quanto voleva, e odia quindi il futuro, quel futuro che non vuole vivere. Sa bene che fare una strage è un modo per suicidarsi, portandosi dietro, però, dei giovani che avrebbero potuto vivere le loro vite, che forse avrebbero potuto affermarsi. Così ruba il loro futuro, lo trascina nella sua rovina. E intanto si guadagna visibilità, esce dall’anonimato proprio per l’orrore che ha compiuto. Speriamo che i ragazzi americani, figli di un paese dove è così facile avere un’arma, non debbano vivere con la paura di recarsi a scuola. Come se la scuola fosse diventata un luogo pericoloso proprio perché lì sono loro, con il futuro in tasca.