Giustizia: il presidente Mattarella "corruzione, Italia non incurabile" di Lina Palmerini Il Sole 24 Ore, 31 ottobre 2015 È ancora la legalità, la lotta alla corruzione il tasto su cui insiste Sergio Mattarella - davanti alla platea dei sindaci italiani dell’Anci - per indicare la via di un riscatto economico e non solo morale del Paese. Ma è soprattutto in un passaggio che si può leggere il pensiero del capo dello Stato anche sulle recenti polemiche seguite alla dichiarazione di Raffaele Cantone su Milano "capitale morale" e Roma che invece fatica a trovare "anticorpi e fare sistema". Nessuna polemica diretta, naturalmente, ma nel suo intervento non c’è l’idea di un Paese dove i valori si concentrano più in alcune aree geografiche che in altre. Infatti dice: "Non è vero che l’Italia è un malato incurabile. E nessuna sua zona lo è". E sembra che su questo concetto tornerà anche oggi a Milano quando parlerà per la chiusura dell’Expo ribadendo che tutta l’Italia - non solo Milano - sono stati capaci di contribuire al suo successo. Insomma, la tesi delle contrapposizioni tra parti del Paese non fa parte delle sue corde, piuttosto Mattarella sottolinea lo sforzo collegiale dello Stato. "La forza con cui poniamo il tema della legalità, la mobilitazione della società civile, l’impegno dello Stato e dei suoi uomini dimostrano che in Italia i meccanismi di controllo accertamento e sanzione funzionano e che lo Stato non fa finta di non vedere". Ieri, a Torino, invitato dal presidente Anci Piero Fassino, è stato il giorno in cui il presidente ha trovato l’occasione per parlare a "tu per tu" con i sindaci, affidandogli il ruolo di "avamposto" non solo nella lotta alla illegalità ma anche nell’opera di "rammendo" dopo le ferite della crisi economica - soprattutto in termini di disoccupazione, "gli insostenibili indici di disoccupazione, assumono talvolta caratteri di emergenza" - e di sentinella di una ripresa economica che, appunto, senza una lotta adeguata alla corruzione non troverà spazio. E non ignora i temi che creano attrito tra Governo e Comuni a partire dalla legge di stabilità e non solo. "Voi qui avete parlato di risorse finanziare, dei contenuti della legge di stabilità, vi siete confrontati su leggi da implementare come quella che ha drasticamente ridimensionato la funzione delle Province. Non posso esprimere valutazioni di merito ma penso tuttavia che qualunque decisione sulle politiche pubbliche debba tenere sempre conto dell’architettura del sistema costituzionale e della sostenibilità delle funzioni che vanno esercitate". Ai sindaci riconosce il ruolo di "interlocutore immediato e principale dei nostri concittadini" quindi con una funzione-chiave in politica che per "riconquistare la fiducia deve mettere in moto capacità di rispondere ai bisogni concreti dei cittadini utilizzando al meglio le risorse disponibili". In sostanza, la razionalizzazione della spesa è un valore che deve entrare nel linguaggio dei territori così come da qui deve ripartire l’altro motore della politica, quello di "progettare il domani e attivare nel dialogo le migliori energie civiche, economiche e sociali". Cita Luigi Sturzo, "grande autonomista" che nel 1915 fu vicepresidente dell’Anci ma senza declinare la dialettica tra Stato e autonomie come il ritorno dei campanili e delle "piccole patrie". Ai Comuni, piuttosto tocca di "intervenire come pronto soccorso, di decidere in fretta e spesso senza risorse sufficienti". Un lavoro che fa di loro "l’hardware di una democrazia capace di rinnovarsi", o come diceva proprio Sturzo "moltiplicatori di democrazia". Infine c’è l’invito a fare sistema, creare sinergie tra piccoli Comuni soprattutto sulle infrastrutture immateriali, sulle nuove tecnologie. E soprattutto c’è il riconoscimento ai Comuni dell’azione di accoglienza agli immigrati su cui l’Europa si sta giocando il suo futuro. Giustizia: una difesa poco legittima di Luigi Manconi e Federica Resta L’Unità, 31 ottobre 2015 A distanza di poco più di una settimana dal delitto di Vaprio d’Adda, dove il sessantacinquenne Francesco Sicignano ha ucciso con un colpo di pistola il ventiduenne Gjergi Gjonj, una prima e desolata considerazione, è inevitabile. Nonostante la raccomandazione ossessivamente ribadita da tutti i telefilm americani sulla necessità di "non inquinare la scena del crimine", lì in quella casa di Vaprio la scena è stata, da subito, profondamente manipolata E, infatti, appena poco dopo l’accaduto, dal teatro del delitto scompare definitivamente il corpo della vittima. Non c’è più, se mai c’è stato. E nemmeno più due vittime (quello che spara e quello a cui si spara) bensì una sola: lo sparatore sottoposto a indagine giudiziaria: e, prevedibilmente, a una serie di procedure e adempimenti che potrebbero rivelarsi faticosi e onerosi. La rimozione, in tutti i sensi del corpo di Gjonj sarebbe comunque assai preoccupante, seppure decidessimo di "schierarci" esclusivamente dalla parte di Sicignano, riconoscendogli tutte le attenuanti e chiedendone l’immediato proscioglimento. E diciamo questo non per semplificare una situazione estremamente controversa, bensì per evidenziare come il prevalere del furore ideologico rischi di alterare totalmente la verità dei fatti, alla lettera cancellando uno dei soggetti della tragedia. E tale verità - in cui pure vogliamo considerare la percezione di insicurezza e l’allarme avvertiti in molte aree sociali e la difficoltà di definire il perimetro della legittimità delle azioni in circostanze di pericolo - non può essere scissa dalla faticosa ricerca di un’equità giuridica e dall’ineludibile constatazione di una vita spezzata. E va fatta una seconda riflessione: è emerso tutto il Conformismo Nazionale, che si compiace di presumersi politicamente scorretto, immaginandosi narcisisticamente come espressione di una mentalità osteggiata e non rappresentata dalle élite politico-culturali. E così quel Conformismo Nazionale finisce col precipitare nel perbenismo più triviale. Siamo alle solite: un’opinione assai diffusa, quale quella sintetizzabile nel "farsi giustizia da sé", si pensa come vittima di un Politicamente Corretto che sarebbe egemone in Italia. E, dunque, si presenta come contro corrente proprio nel momento in cui blandisce gli umori e le idee più oscuramente convenzionali e più sottilmente diffuse. Ma tutto questo è dozzinale sub-ideologia. Per quanto riguarda, invece, il merito più strettamente giuridico, l’accusa mossa a Sicignano può essere spiegata così. Egli è indagato non per omicidio colposo (da eccesso di legittima difesa) ma volontario, in quanto avrebbe sparato al ladro, disarmato, in fuga. Il fatto di aver ucciso non per difendersi da un’aggressione in atto farebbe allora venir meno l’esimente della difesa, appunto, legittima che, come tale, deve essere necessariamente proporzionata all’offesa. Il nostro codice penale (emanato durante il fascismo) ammette, infatti, l’aggressione (fino al sacrificio della vita altrui) solo quando sia indispensabile per la salvaguardia dell’incolumità propria o di terzi da un pericolo "attuale", sempre che "la difesa sia proporzioniata all’offesa". Nel 2006, il Governo Berlusconi ha alterato fortemente l’equilibrio sancito dal codice Rocco, ritenuto adatto a uria società composta da famiglie numerose, in condizione, anche "quantitativa", di sopraffare l’aggressore, ma - secondo una tesi avanzata nel dibattito parlamentare - inadeguato alla realtà di oggi, fatta di nuclei familiari sempre più esigui. Si è, dunque, estesa la non punibilità per legittima difesa anche alla tutela, in casa o negozi, di beni patrimoniali, purché vi sia pericolo di aggressione. E questo, secondo quella tesi; compenserebbe l’assenza di "difesa collettiva" dovuta all’evoluzione delle strutture sociali. Veniva sancito, così, un mutamento importante, culturale prima che giuridico: a certe condizioni, la difesa della proprietà può valere anche la vita dell’aggressore. Ma ciò sembra ancora troppo poco a quanti propongono di andare oltre, escludendo il requisito della proporzionalità tra difesa e offesa. Sarebbe una modifica profonda, in primo luogo (ma non solo), del nostro modo di intendere il rapporto tra diritto e forza; e tra giustizia e vendetta. È, infatti, soltanto il requisito della proporzionalità tra azione e reazione e della necessità di difesa da un pericolo attuale a poter impedire che la legittima tutela della propria incolumità degeneri in licenza di uccidere. Il farsi giustizia da sé non può essere la naturale conseguenza - come invece alcuni sostengono - dell’inadempimento dello Stato al suo dovere di prevenire i reati (che - affermava Hobbes - nessuna legge potrà mai impedire). D’altra parte, secondo Locke, oltre che secondo lo stesso Hobbes, la legittimità dello Stato si fonda sul patto tra cittadini e sovrano per la garanzia della sicurezza, purché ciascuno rinunci a farsi giustizia in proprio. Lo Stato moderno nasce, infatti, come promessa di sicurezza in cambio del monopolio della violenza legittima da parte dello Stato, al quale soltanto è devoluto il potere di "rendere giustizià, in nome dei cittadini e per loro conto. La storia delle codificazioni moderne è la storia del tentativo di sostituire all’arbitrio della forza la certezza del diritto e, con esso, di limitare il potere per garantire le libertà di tutti. In altre parole, in discussione non c’è solo la nostra rappresentazione della democrazia, e della giustizia. E non si tratta "soltanto" di declinare il rapporto tra sicurezza è diritti, in modo da non ridurlo a un gioco a somma zero. In discussione c’è, soprattutto, il valore che attribuiamo alla vita umana. Giustizia: i magistrati sono gli unici, tra i dipendenti statali, con salari non congelati di Antonio Galdo Il Mattino, 31 ottobre 2015 Adesso sappiamo come si è svolta la trattativa tra l’Associazione nazionale dei magistrati e il governo, grazie alla quale i giudici sono riusciti a non restituire gli ingiustificati scatti salariali ricevuti per il triennio 2012-2014 ed a non vedersi tagliare gli stipendi. Lo spiega bene lo stesso Rodolfo Sabelli, presidente dell’Anm: "Non c’è stata "riservata azione" ma consueti incontri - non segreti - avvenuti nei primi mesi del 2013 con i funzionari della Presidenza del Consiglio e del Ministero dell’Economia e finalizzati a determinare la misura dell’adeguamento triennale delle retribuzioni dei magistrati". Di "riservata azione", in realtà, Il Mattino ha parlato citando in modo testuale le affermazioni fatte da Roberto Carelli Palombi, segretario nazionale di Unicost, una delle correnti di maggioranza dell’Anm. Sabelli, invece, puntualizza che tutto è avvenuto alla luce del sole, con governi, come quelli di Monti e Letta, che mentre tagliavano gli stipendi a tutti i dipendenti del pubblico impiego, si interfacciavano, attraverso dirigenti di Palazzo Chigi e del Mef, con l’Associazione magistrati evitando così che la scure colpisse anche questa categoria. Poi Sabelli precisa che "in base alla previsione della legge, l’acconto non è soggetto a restituzione: questa è l’interpretazione della norma che fu chiarita nel 2013 nel corso degli incontri istituzionali e che è stata applicata anche in questa occasione". Anche qui la ricostruzione di Sabelli non coincide con quella del vertice di Unicost, come si ricava dal comunicato pubblicato sul loro sito in data 12 ottobre 2015. "Gli aumenti degli stipendi sono stati cristallizzati a nostro favore per gli anni già erogati, ed è bene ricordare che non era affatto un risultato scontato", scrive Carelli Palombi. E poi aggiunge che invece, per quanto riguarda gli aumenti del triennio 2015-2017 i magistrati devono mettere mano alla tasca e restituire i soldi, a rate e senza interessi (altro punto dell’accordo). Una soluzione che, ricordiamolo, non è condivisa da altre correnti dell’Associazione nazionale magistrati, in particolare Magistratura indipendente e Autonomia indipendente, che minacciano ricorsi al Tar. Infine Sabelli afferma che "è vero che i magistrati hanno beneficiato di un aumento negli anni 2013 e 2014 ma non percepiranno alcun aumento negli anni 2016 e 2017 quando invece, per effetto dello sblocco della contrattazione, tutte le altre retribuzioni pubbliche aumenteranno". Peccato che il presidente dell’Anm non tenga presente che, al momento, nel budget della legge di stabilità a tutto il settore del pubblico impiego vengono assegnati, dopo sei anni di stipendi fermi con l’eccezione dei magistrati, 300 milioni di euro. Cioè 8 euro l’anno a testa per il prossimo triennio. Il malumore del pubblico impiego è trasversale. In questi anni sono stati bloccati stipendi e turn over, con alcuni paradossi tra una categoria e l’altra, come nel caso dei dirigenti dei ministeri e degli enti locali per i quali non è previsto alcun adeguamento contrattuale. Così il capo di gabinetto che arriva dalle file della magistratura ha incassato gli scatti salariali, mentre il suo collega della porta a fianco, un direttore del ministero, ha lo stipendio bloccato. "Il potere non si misura solo con il ruolo di una categoria ma deriva, come nel caso dei magistrati, da una forte capacità di condizionare la politica e di essere uniti, in un’unica associazione di rappresentanza" osserva Barbara Casagrande, che guida la Confederazione dei dirigenti nazionali e locali. E anche Maurizio Bernava, segretario confederale della Cisl con delega al pubblico impiego, solleva un interrogativo: "Non ho nulla contro i magistrati, ma serve un principio etico e una coerenza nelle decisioni. Se il governo ha deciso di riconoscere alcuni emolumenti ai giudici deve spiegare perché non ha utilizzato lo stesso criterio perle altre categorie". Nel comparto della sicurezza tutti gli stipendi, le varie indennità e gli adeguamenti salariali dovuti agli avanzamenti di carriera sono bloccati dal 2010. "La domanda che vorrei fare al governo è la seguente: se i giudici hanno ottenuto questo vantaggio per i rischi che corrono e per la specificità della loro funzione, non siamo anche noi, come i magistrati, servitori dello Stato? E le nostre vite in pericolo valgono meno delle loro?" si chiede polemico Felice Romano, segretario generale del Siulp, il primo sindacato delle forze di polizia. L’unica cosa che i poliziotti sono riusciti a portare a casa, con la nuova legge di stabilità, è un fondo ad hoc di 74 milioni di euro per il rinnovo del contratto della categoria. Dalle forze dell’ordine al personale dell’università, a partire dai professori: anche per loro il blocco è tassativo. "Sono contento per i magistrati, ma ho qualche dubbio che in questo modo si facciano gli interessi del Paese" dice Carlo Ferraro, ordinario al Politecnico di Torino e promotore di un Movimento contro il blocco degli scatti degli stipendi nell’università, al quale hanno aderito 20mila tra ordinari, associati e ricercatori "Ci hanno chiesto un sacrificio per il risanamento dei conti pubblici, e noi lo abbiamo fatto. Non vogliamo gli arretrati, ma almeno lo sblocco degli stipendi a partire dal 1° gennaio del 2015 e il riconoscimento degli scatti precedenti ai fini giuridici, cioè per consentirci di non essere penalizzati nella pensione". Il Movimento dei professori ha anche scritto una lettera al Presidente della Repubblica, con 14.444 firme, e la risposta del Quirinale è stata confortante: Sergio Mattarella ha ricordato di non avere poteri per un intervento diretto, ma ha segnalato il disagio della categoria al ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca. "Un bel gesto, anche perché con questi metodi discriminatori viene il sospetto che si voglia diffondere l’idea di un’università inutile e popolata da fannulloni, al contrario del servizio essenziale svolto dai magistrati". Anche i medici del Servizio Sanitario Nazionale, stiamo parlando di oltre 107mila dipendenti, sono in attesa di un nuovo contratto di lavoro e dello sblocco degli adeguamenti degli stipendi, che al momento non tengono conto neanche del tasso di inflazione maturato negli ultimi anni. E anche per i medici e per i dirigenti delle Asl è arrivata, con la legge di stabilità, una piccola mancia: 80 euro lordi l’anno. Solo per il 2016, senza alcun impegno per il 2017 e il 2018. "Dopo sei anni di blocco ci hanno dato la paglietta, come ai bambini" protesta Costantino Troise, segretario nazionale di Anaoo-Assomed. "La vicenda dei magistrati insegna soltanto una cosa: se una categoria riesce, in qualsiasi modo, a diventare un problema per la politica, allora si aprono le porte a una buona soluzione, altrimenti non si conta nulla. E quando dicono che i soldi non ci sono, si capisce bene che la regola non vale per tutti". Giustizia: niente privilegi per i magistrati, interpretata la norma di Rodolfo M. Sabelli (presidente dell’Anm) Il Mattino, 31 ottobre 2015 Con riferimento all’articolo pubblicato sul Mattino di venerdì 30 ottobre dal titolo "Gli aumenti blindati dei giudici", il dovere di corretta informazione impone un chiarimento, a correzione di quanto è scritto nell’articolo e nel relativo titolo. Anzitutto, non c’è stata una "riservata azione", né alla vigilia del congresso nazionale dell’Anm né in altra occasione. Si è trattato, in realtà, dei consueti incontri - non segreti - avvenuti due anni e mezzo fa, nei primi mesi del 2013, con i funzionari della Presidenza del Consiglio e del Ministero dell’Economia, finalizzati a determinare la misura dell’adeguamento triennale delle retribuzioni dei magistrati, secondo i meccanismi automatici previsti dalla legge n. 27/1981. Tali meccanismi prevedono che gli stipendi dei magistrati siano adeguati, ogni tre anni, nella misura percentuale pari all’aumento medio delle retribuzioni del settore pubblico verificatosi nei tre anni precedenti. Per evitare il pregiudizio che potrebbe derivare dal ritardo per tre anni di tale adeguamento, è previsto che, per ciascuno dei due anni successivi, gli stipendi dei magistrati siano aumentati, a titolo di acconto, in misura pari al 30% dell’aumento medio del precedente triennio. In base alla previsione della legge, tale acconto non è soggetto a restituzione: questa è l’interpretazione della norma che fu chiarita nel 2013 nel corso degli incontri istituzionali (non "riservata azione") e che è stata applicata anche in questa occasione. In conclusione, è vero che i magistrati hanno beneficiato di un aumento (provvisorio) negli anni 2013 e 2014, ma è anche vero che essi (oltre a subire una riduzione delle retribuzioni del 3,23 per cento a decorrere dal gennaio 2015) non percepiranno alcun aumento negli anni 2016 e 2017, quando invece, per effetto dello sblocco della contrattazione, tutte le altre retribuzioni pubbliche aumenteranno. Non posso fare a meno di sottolineare che, come peraltro ricordato nell’articolo, il tema del trattamento economico dei magistrati e dell’adeguamento delle loro retribuzioni all’aumento del costo della vita è strettamente connesso col principio di autonomia e indipendenza della magistratura, come affermato anche di recente dalla Corte costituzionale e non si presta quindi ad alcuno scandalo. Giustizia: Roma e il "caso Marino"; dalle primarie al notaio, fallimento da non ripetere di Sergio Rizzo Corriere della Sera, 31 ottobre 2015 A Roma la festa della democrazia, perché tale è l’elezione di un sindaco scelto con il libero voto, finisce dunque nel peggiore dei modi. Ovvero, davanti al notaio incaricato di registrare le dimissioni dei consiglieri: l’epilogo meno democratico possibile. Ignazio Marino esce di scena accompagnato da uno strascico velenoso di scontrini ma senza altra colpa se non quella grave di non avere forse avuto il fisico adatto e i nervi saldi per governare la città più ingovernabile del Paese. Marino esce di scena, in più, con il paradosso che al suo posto arriva il prefetto di Milano, città che al contrario di Roma secondo Raffaele Cantone ha gli anticorpi contro la corruzione. Decisione che pare simbolicamente sovrapporre il successo dell’Expo al rischio di insuccesso del Giubileo. Questo esito avvilente per la stessa democrazia ha un punto di partenza preciso: le primarie del Pd. Lo strumento che dovrebbe garantire agli elettori il diritto a scegliere è servito invece spesso a coprire ipocritamente operazioni di bieco potere interno. Anche lo sbarco di Marino a Roma va ascritto a questo meccanismo. "Il primo sindaco di Roma libero dai partiti", come egli stesso si è definito, non è affatto un marziano. Si aggancia al Pd attraverso un politico non esattamente di primo pelo come Massimo D’Alema. Da parlamentare si candida addirittura alla segreteria del partito. Sconfitto, scende in lizza per diventare sindaco della capitale. Alle primarie, assente il favorito Nicola Zingaretti ormai governatore della Regione Lazio, lui sbaraglia tanto David Sassoli quanto Paolo Gentiloni: certo non grazie alle sue radici genovesi ma a una delle volpi più scafate della vecchia politica romana. Goffredo Bettini gli confeziona la vittoria. Il che non scoraggia Marino dall’utilizzo in campagna elettorale di slogan populisti come "Non è politica, è Roma". Il suo sponsor poi lo scaricherà prontamente dopo i primi infortuni, a conferma ulteriore che questa vicenda celebra il fallimento definitivo delle primarie made in Pd. Avendone preso atto, a un partito serio non resterebbe che assumersi la responsabilità di scegliere la persona giusta senza foglie di fico per mascherare manovre di corridoio. Nel rispetto, se non altro, degli elettori. Giustizia: la dott.ssa Saguto e il brutto silenzio dell’antimafia che non mangia antimafia di Riccardo Arena Il Foglio, 31 ottobre 2015 L’antimafia schiodata di Silvana Saguto e Gaetano Cappellano Seminara è in qualche modo figlia dell’antimafia chiodata di caselliana memoria: ma non nel senso di una quanto mai improbabile affinità tra i due gruppi; perché all’ex presidente della sezione Misure di prevenzione del tribunale di Palermo stava - ad esempio - fortemente antipatico un personaggio come Antonio Ingroia, definito senza mezzi termini "scarsissimo, un co…". No, il collegamento sta nel metodo più che nelle persone, nella visione del mondo più che nei comportamenti, nella filosofia di vita più che nella cultura della deontologia. Perché, fermo restando che a ciascuno va riconosciuto il suo, dunque a ciascuno la sua antimafia, con o senza chiodi, come dare torto a Walter Virga, uno degli indagati di questa riedizione in versione reality del dramma di Ugo Betti "Corruzione al palazzo di giustizia", come biasimare il giovane Virga quando dice che basta che tocchi un magistrato e gli altri ottomila sono pronti a difenderlo? Virga, avvocato che nel 2013, a 33 anni, si ritrovò a gestire patrimoni da un miliardo (di euro), forse perché figlio di un magistrato che nel 2013 era al Csm e avrebbe "protetto" la collega Saguto in difficoltà, sa qualcosa di questi meccanismi di protezione, gli stessi che per anni hanno indotto i grandi organi di informazione e gli opinion maker a difendere sempre e comunque i magistrati da qualsivoglia attacco, critica o semplice rimbrotto. Non tutti i magistrati, talvolta, solo quelli che "decidono" nel senso che piace ai grandi geni del diritto, ai tuttologi che tutto sanno e tutto possono, e che possono pure comodamente esaltare la sentenza di un giudice che condannò Giulio Andreotti senza in realtà condannarlo (grazie alla prescrizione), cercando poi di stroncare la carriera di quell’altro giudice, che ebbe il torto di assolvere Mario Mori. Dimenticando però che il giudice in questione era lo stesso e si chiama Mario Fontana. Ecco dunque che, se questo è il modo di ragionare, si può spiegare l’imbarazzato, imbarazzante e prolungato silenzio dei grandi quotidiani nazionali su uno scandalo che scuote dalle fondamenta l’immagine della magistratura in una terra come la Sicilia, in cui giudici coraggiosi hanno speso anni e anni - e molti ci hanno perso la vita - per affermare la superiorità del diritto. Ma giudici o non giudici, erano e sono tutti uomini, perbacco: e come tali potevano e possono fare cose eccezionali, ma anche solenni castronerie. Un buzzurro tutt’altro che imbecille come Balduccio Di Maggio, il pentito del bacio tra Andreotti e Riina, si fece beffe dell’intero sistema giudiziario italiano. Un altro buzzurro decisamente meno attrezzato di Di Maggio, Vincenzo Scarantino, si fece beffe del sistema giudiziario senza volerlo, e pur avendo ritrattato le proprie accuse rivolte a innocenti non venne creduto e fino in Cassazione fu dato seguito alla sua versione accusatoria e non a quella "ritrattatoria". Nessuno di quei magistrati, della giudicante e della requirente, nessuno di coloro che con ogni evidenza sbagliarono, ha mai pagato dazio. Silvana Saguto è riuscita a fare ancora di meglio. Lei, che distribuiva incarichi di amministrazioni giudiziarie a persone di sua assoluta fiducia, quasi sempre le stesse; lei, che è accusata di avere avuto le mazzettine da cento euro a casa; lei, che non pagava i conti del supermercato sequestrato alla mafia, ma secondo i pm di Caltanissetta avrebbe ricevuto a domicilio un trolley contenente "documenti" (cioè soldi, nel linguaggio dei tangentisti); lei è riuscita a dare forza alle denunce e a inchieste giornalistiche certamente alimentate, sollecitate, spinte dalle denunce degli stessi "proposti", i presunti mafiosi ai quali i beni venivano sequestrati e tenuti sotto chiave per anni e anni, con procedimenti lunghi lenti e macchinosi - la cui lunghezza, ipotizza oggi chi indaga, era finalizzata unicamente a sostenere il mercato delle amministrazioni giudiziarie, con prebende e compensi che andavano ad amministratori e coadiutori spesso scelti (lo ha maliziosamente detto la stessa Saguto a Repubblica) con il consenso o le indicazioni di Libera e Addiopizzo, associazioni protagoniste poi di un timido tentativo di replica che non ha spostato di molto la questione. Perché Silvana Saguto, oggi reietta come il suo collega Tommaso Virga, che va in giro per il Palazzo di giustizia lamentandosi perché nessuno lo saluta, era una potenza. Faceva parte, la Saguto, di quell’antimafia perennemente in prima fila che poi si legittimava con le cene e i passaggi al prefetto Francesca Cannizzo, ma anche nominando o consentendo le nomine del genero di Maria Falcone, naturalmente estranea alla vicenda ma anche lei adesso in un comprensibile stato di disagio, che l’ha indotta a un insolito silenzio. Comunque finisca questa storia, è una storia terribile. Perché la delegittimazione e l’isolamento, in Sicilia, preludono spesso a "male cose", al pericolo che la mafia, che in questa vicenda si sente incredibilmente dalla parte della ragione, torni a farsi sentire a modo suo. Giustizia: Touil fuori dal Cie, non sarà espulso di Marina dalla Croce Il Manifesto, 31 ottobre 2015 Il giudice di pace non convalida il "trattenimento" del giovane marocchino scagionato per la strage del Bardo. Abdel Majid Touil non verrà espulso. Il giovane marocchino accusato e poi completamente scagionato per la strage del Bardo a Tunisi potrà rimanere in Italia. Il giudice di pace, la procura di Torino e gli avvocati Fiorentino e Savio hanno evitato all’Italia e al governo, specie al ministero dell’Interno, una nuova figuraccia internazionale dopo il caso Shalabayeva. Ieri pomeriggio il giudice di pace ha accolto la richiesta dei legali di Touil, alla quale aveva aderito la procura di Torino, di "non convalidare il trattenimento" nel Cie del giovane ingiustamente accusato per la strage al museo del Bardo del marzo scorso. Dunque Touil non verrà rimpatriato in Marocco, dal momento che l’espulsione l’avrebbe sposto "a gravi rischi personali" e alla probabile estradizione in Tunisia, negata dai giudici italiani perché, per i reati attribuiti al giovane (terrorismo internazionale e strage) è prevista la pena di morte. Il procuratore capo Armando Spataro ha spiegato in una nota che la decisione di aderire alla richiesta dei legali di Touil di non convalidare il trattenimento è stata presa "in adesione ai principi enunciati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo", alla quale i legali avrebbero potuto far ricorso nel caso contrario. Il giudice di pace si è invece limitato a "non prorogare" il trattenimento "visti gli atti allegati e le argomentazioni dei difensori e della procura di Torino". I legali di Touil, gli avvocati Silvia Fiorentino e Guido Savio, nel corso dell’udienza svoltasi in mattinata si sono opposti alla convalida del trattenimento nel Cie sostenendo che, se il giovane dovesse essere rimpatriato in Marocco, "si tratterebbe di una estradizione mascherata da espulsione". La procura di Torino ha accolto la tesi, sostenendo che l’espulsione potrebbe esporre il marocchino a "gravi rischi personali" e così nella serata di ieri Touil è stato finalmente liberato. Ad andare a prenderlo è stata la madre, che ha spiegato come suo figlio nei giorni precedenti fosse "molto confuso", "in uno stato di grande agitazione", al punto da non riconoscere neppure lei e l’avvocato. Su di lui pende ancora il decreto di espulsione notificatogli dalla Questura di Milano dopo la scarcerazione disposta dalla Corte d’Appello. Ora gli scenari possibili sono tre: i legali di Touil potrebbero presentare un ricorso al giudice di pace di Milano contro l’espulsione, chiedere lo status di rifugiato politico per il giovane, oppure la Questura di Milano potrebbe revocare il provvedimento. I legali hanno fatto sapere che comunque chiederanno l’asilo politico, e nell’attesa Touil non potrà in nessun caso essere rimpatriato. Per la polizia tunisina, il giovane sarebbe stato uno degli autisti che avevano accompagnato gli uomini del commando al Bardo prima dell’attacco terroristico che lo scorso 18 marzo provocò la morte di 21 turisti in visita al museo. A sostenere quest’ipotesi, un presunto "riconoscimento fotografico" e una scheda telefonica acquistata e attivata dal ventiduenne enne a Tunisi lo scorso 3 febbraio, giorno in cui è arrivato dal Marocco, con la quale avrebbe contattato due degli attentatori. Le indagini italiane, coordinate dal procuratore aggiunto di Milano Maurizio Romanelli e dal pm Enrico Pavone, hanno ribaltato la ricostruzione di Tunisi, appurando che Touil, da quando è sbarcato a Porto Empedocle, non si è mai mosso dall’Italia (in particolare, da Gaggiano, il comune del milanese dove vive la famiglia) e che i due terroristi da lui chiamati erano stati contattati in veste di scafisti. Come risulta dai registri di classe e dalle testimonianze raccolte, Touil ha infatti frequentato la scuola d’italiano per immigrati e non ha mai lasciato il paese. Agli inquirenti ha raccontato di non essere un jihadista e di aver visto le notizie dell’attentato alla tv con sua madre. Da qui il no all’estradizione pronunciato dalla Corte d’Appello di Milano, mentre la procura meneghina ha contestualmente chiesto l’archiviazione delle accuse di terrorismo internazionale e strage. Ma dopo la scarcerazione il giovane era stato trasferito nel Cie di Torino per essere rimpatriato in Marocco, poiché irregolare. Con il rischio che da lì fosse poi mandato in Tunisia. "Si tratta di un risultato importante per l’affermazione e la tutela dei diritti umani", ha commentato il senatore del Pd Luigi Manconi, che era immediatamente intervenuto a sostegno del ragazzo e ieri lanciato, dalle pagine del manifesto, un appello a fermare l’espulsione. Giustizia: Calcio, Serie B in campo a sostegno dei bambini con genitori detenuti La Presse, 31 ottobre 2015 Dal 31 ottobre all’8 dicembre, dall’11/a alla 17/a giornata, la Serie B ConTe.it sostiene Bambinisenzasbarre Onlus. L’associazione da 12 anni tutela i diritti dei 100mila bambini con genitori detenuti per promuovere gli Spazi Gialli, luoghi di accoglienza all’interno delle carceri. La campagna è possibile grazie a B Solidale Onlus, progetto con il quale la LNPB e le 22 associate si confrontano con il Terzo Settore. "7 giornate di Campionato, 77 partite da giocare a fianco dei figli di detenuti per realizzare nuovi Spazi Gialli negli Istituti penitenziari italiani che accolgano i bambini che entrano in carcere per incontrare il proprio genitore. - ha dichiarato il presidente della Lega B Andrea Abodi - Sostenere progetti come quello di Bambinisenzasbarre è lo strumento tramite cui B Solidale intende comunicare la valenza sociale del calcio". L’arbitro e i capitani delle 22 squadre scenderanno in campo con la maglietta dell’Associazione Bambinisenzasbarre. Sui maxischermi degli stadi, nei messaggi audio nel prepartita e nell’intervallo, sui siti web delle squadre, legab.it, di B Solidale e sui social network si inviterà a sostenere il progetto ‘Lo spazio giallo nel grigio del carcerè che permetterà di accogliere negli Spazi Gialli, degli Istituti penitenziari italiani, i bambini che si preparano al colloquio con il papà o la mamma detenuti. "Sono 100mila i minorenni che entrano nelle carceri italiane per dare continuità al legame affettivo con il proprio genitore in stato di detenzione. Sono bambini vulnerabili a rischio di emarginazione per i pregiudizi, per le difficoltà economiche, per la vergogna sociale che la detenzione del proprio genitore comporta. - ha sottolineato Lia Sacerdote presidente dell’Associazione Bambinisenzasbarre. Siamo grati alla Lega B per essersi messa al loro fianco. Lo sport può essere un importante veicolo per sostenere progetti di inclusione sociale e contribuire a consolidare il processo di trasformazione culturale necessario per una società solidale dove i figli di genitori detenuti non siano emarginati, dove la "Carta dei figli di genitori detenuti", unica in Europa, sia applicata e il sistema carcerario consideri la presenza di questi minorenni e la necessità di mantenere e proteggere i legami del nucleo familiare". L’elusione da sola non è un reato di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 31 ottobre 2015 L’elusione da sola non ha rilevanza penale: così la Cassazione spiega l’assoluzione degli stilisti Dolce e Gabbana. Non sanzionabili penalmente condotte indirizzate a ottenere esclusivamente un risparmio. I due noti stilisti erano stati assolti dalle accuse di evasione fiscale che erano costate a loro e ad altri imputati condanne in primo grado e in appello a Milano. Il proscioglimento "perché il fatto non sussiste" era già stato reso noto esattamente un anno fa, il 24 ottobre 2014, chiudendo una vicenda penale lunga 7 anni. Tutto era partito infatti con il primo verbale di costatazione del Nucleo di polizia tributaria di Milano nel settembre 2007 a carico del gruppo della moda, cui ne era seguito uno del 2009 verso i due stilisti. I due atti da cui era partita l’indagine penale mettevano nel mirino la cessione dei marchi "Dolce & Gabbana" e "D&G" alla Gado, una società lussemburghese che, nel quadro accusatorio, veniva considerata oggetto di una esterovestizione, cioè di una collocazione di sede all’estero per finalità elusive. Impianto che aveva retto all’esame die giudici di merito ed era costato una prima condanna di 1 anno e 8 mesi ai due stilisti, giudizio poi confermato in appello con lieve (2 mesi) sconto di pena. Ora la Cassazione, che si è presa 12 mesi di tempo per argomentare volendo probabilmente verificare anche l’esito della riforma del penale tributario, arriva all’enunciazione di un principio di diritto di sostanziale coerenza con la riforma. In particolare, quanto al peso delle disposizioni antielusive, la Cassazione spiega che hanno rilevanza penale soltanto come "norme che concorrono a definire sul piano oggettivo alcuni degli elementi normativi della fattispecie". Quali? L’imposta effettivamente dovuta e/o gli elementi attivi e passivi. La volontaria elusione dell’imposta effettivamente dovuta si traduce così, sul piano penale, nella consapevolezza di alcuni degli elementi costitutivi del reato "e non è pertanto sufficiente a integrare il fine di evasione, che quella consapevolezza presuppone". Se si ragionasse in maniera diversa, avverte la Corte, si correrebbe il rischio di identificare il dolo specifico di evasione con la pura e semplice constatazione dell’assenza di una valida ragione economica dell’operazione elusiva e del risultato ottenuto (l’indebita riduzione o rimborso d’imposta). Un’operazione che la Cassazione bolla come "errata" e che avrebbe la conseguenza di trasformare il dolo specifico di evasione nella generica volontà di dichiarare al Fisco un’imposta inferiore a quella dovuta oppure di non dichiararla affatto, "nella consapevolezza della natura elusiva dell’operazione utilizzata per indicare elementi passivi inferiori a quelli effettivi o elementi passivi fittizi". In questo senso la sentenza sottolinea la diversità tra legislatore penale e fiscale, con il primo che individua un dolo di evasione nella volontà di non osservare l’obbligo tributario attraverso condotte specifiche che possono anche non coincidere o non coincidere pienamente con quelle che il legislatore tributario considera non opponibili all’amministrazione finanziaria. E allora, puntualizza uno dei passaggi chiave della pronuncia, l’esclusivo perseguimento di un risparmio fiscale o, a maggior ragione, la presenza anche solo marginale di ragioni extrafiscali può sì fare qualificare l’operazione come elusiva, ma non è di per sé stessa sufficiente a dimostrare il dolo di evasione, soprattutto quando l’operazione economica è reale ed effettiva. Nel caso Dolce & Gabbana, a sollevare i dubbi della Cassazione sulle conclusioni dei giudici di merito è stato, tra l’altro, il peso eccessivo dato ai temi dell’apparente localizzazione e della gestione di fatto, trascurando di considerare le "robuste ragioni extrafiscali" alla base della riorganizzazione del gruppo della moda. Insomma, alla base della collocazione all’estero di "Gado" potevano esserci fondate ragioni economiche e non fiscali o solo fiscali che le difese avevano provato a corroborare in primo grado e in appello chiedendo venisse ascoltata una pluralità di testi; richiesta che però era sempre stata respinta. In realtà l’attribuzione alla sede in Lussemburgo di compiti solo esecutivi, assai valorizzata nelle condanne, non è agli occhi della Cassazione determinante, visto che così "si ammette che qualcosa in Lussemburgo effettivamente si faceva". Lettere: garantisti come noi… nessuno mai di Gian Carlo Caselli Il Fatto Quotidiano, 31 ottobre 2015 In una gara per individuare il paese più garantista al mondo, l’Italia vincerebbe facile. Checché ne dicano i "berluscones" superstiti e gli avvocati insaziabili. Difatti, nessun’altro paese può vantare, a tutela dei diritti dell’imputato contro il potere giudiziario, un "pacchetto" nutrito come il nostro. Alcune delle misure proprie dell’ordinamento italiano si ritrovano anche altrove. Ma mai tutte quante insieme, in un blocco compatto e potente. L’imputato ha facoltà di non rispondere. Se decide di farlo, può mentire impunemente. Un teste che dichiari il falso, nell’immediato non rischia nulla: in pratica sarà inquisito soltanto quando sia concluso il processo in cui ha mentito, vale a dire dopo una decina e passa d’anni. L’imputato ha il (sacrosanto) diritto di essere difeso: ma gli avvocati possono essere due in ogni fase e grado del procedimento; e possono essere cambiati anche decine e decine di volte, con le note e nefaste implicazioni sulla "tenuta" delle notifiche. Se la difesa non è di fiducia, le spese dell’avvocato d’ufficio sono di fatto a carico dello Stato. L’imputato può svolgere indagini difensive che fanno prova nel processo. Ci sono eccezioni che potrebbero (e dovrebbero!) essere sollevate subito, e invece si consente che siano fatte valere solo alla fine del processo, travolgendo con un qualche cavillo - in caso di accoglimento - l’intero faticoso lavoro di anni. In Italia tutti i provvedimenti giudiziari debbono sempre essere motivati. Ed è bene, ma in altri paesi si può (anche per gravi reati) essere condannati o assolti con un fogliettino 15x20 su cui sta scritto unicamente Guilty o Not Guilty, senza che mai si possa sapere, né dentro né fuori del processo, il perché della decisione presa. A tutto quanto fin qui detto fanno da corona i principi scolpiti nell’art.111 della nostra Costituzione, secondo cui il processo deve essere giusto; deve svolgersi nel contraddittorio fra le parti in condizioni di parità, avanti a un giudice terzo e imparziale, con facoltà per l’imputato di interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico e di ottenere l’acquisizione di ogni mezzo di prova a suo favore. Tutti questi principi sono stati tradotti in articoli del codice di procedura penale, divenendo altrettante garanzie per l’imputato. Salvo un altro principio contenuto anch’esso nel 111, quello della "ragionevole durata del processo", che in realtà -tutti lo sanno - spesso non finisce mai. Ma l’imputato -invece della traduzione in legge del precetto costituzionale -ha la speranza che la giustizia italiana operi come Kronos. Cioè che divori i suoi figli (i processi) grazie al tempo della prescrizione, che tutto inghiotte e azzera con il favorevole concorso della durata infinita dei processi. Durata infinita che discende anche da un’anomalia tutta italiana: un’ineguagliabile abbondanza di gradi di giudizio che si possono percorrere dal primo a l l’ultimo, sempre e comunque: anche quando si sia confessato fin dall’inizio un reato da niente, ricevendo il minimo dei minimi della pena, per cui si va in appello e in Cassazione senza poter aspirare a niente di meglio. Ma ci si va lo stesso, sperando appunto nella prescrizione. Ecco che il buonismo garantista può diventare perdonismo e aprire la strada all’impunità. In ogni caso, un processo che non riesce a funzionare - anche perché moltiplica le garanzie confondendole con i formalismi - non ce la fa proprio a rendere l’illegalità non conveniente. Può persino avere effetti criminogeni. Il colpevole invece deve essere punito: senza scivolare nelle spirali tortuose della persecuzione vendicativa; ma neppure senza sminuire il "male", che resta tale anche quando un labirinto di pseudo "garanzie" lo sminuisce. Se la pena è un optional, il male non sarebbe più tale: sarebbe anzi vanificare la giustizia. Dunque, occorrono rimedi radicali. Personalmente abolirei il secondo grado di giudizio, ma il discorso è troppo lungo e conviene ritornarci. Più facili (a costo assolutamente zero e di praticabilità immediata) sono: una riforma della prescrizione che la interrompa quanto meno dopo la condanna di primo grado; poi, se non una riforma organica delle impugnazioni, almeno la cancellazione immediata di alcuni punti vergognosi: il divieto di "reformatio in pejus", retaggio del diritto romano, per cui se l’imputato è l’unico che ricorre è vietato peggiorare la sua situazione (ecco perché il confesso, condannato al minimo, ricorre lo stesso); e ancora, la previsione di adeguate multe per chi presenti ricorsi pretestuosi o dilatori. Lettere: "dagli al politico", prima guardiamoci allo specchio di Peter Gomez Il Fatto Quotidiano, 31 ottobre 2015 Alla fine bisogna dirlo chiaro: è soprattutto colpa nostra. È sbagliato pensare, come in molti hanno fatto per anni, che questo Paese sia stato messo in ginocchio solo da una classe politica generalmente incapace e a volte corrotta, da imprenditori trasformati in prenditori o che i cittadini onesti abbiano assistito inermi a una sorta di lotta tra i buoni e i cattivi, in cui i secondi hanno avuto sempre la meglio. Nella prezzoliniana terra dei furbi e dei fessi idee del genere possono servire per farci sentire tutti bene, tutti a posto con le nostre coscienze. Per farci credere di stare dalla parte giusta. Ma se solo si analizza la cronaca si comprende come queste convinzioni siano (in gran parte) false. E la storia degli ultimi 25 anni sta lì a dimostrarlo. Nel 1993, l’inchiesta Mani Pulite, proprio come racconta da anni agli studenti l’ex magistrato Gherardo Colombo, comincia a finire quando le indagini passano dall’alto al basso. Prima, quando gli avvisi di garanzia e le manette riguardavano i sindaci, i parlamentari, i segretari di partito, gli italiani si ritrovano indignati e soddisfatti in piazza per inneggiare ai giudici. Chiedevano pulizia e rigore. In decine di migliaia gridavano "Di Pietro, Colombo andate fino in fondo". Ed era facile e liberatorio farlo: intanto, toccava a loro, alla casta, a quelli che stavano sopra. Poi quando si comincia a capire che gli altri cattivi erano gli imprenditori, non vittime, ma complici dei politici a cui versavano tangenti per poter fornire servizi scarsi alla collettività a prezzi enormemente gonfiati, ecco comparire nei giornali i primi distinguo. I dubbi, le incertezze si moltiplicavano. E veri o falsi che fossero, servivano per far carriera in media controllati da editori ormai noti alle procure. Infine l’ultimo salto. All’indietro. Le indagini arrivano in basso: colpiscono il vigile che in cambio della spesa gratis chiude un occhio sulla tara della bilancia. Il commercialista che per farti pagare un po’ meno di tasse allunga una mini mazzetta al funzionario di turno. A volte arrivano a chi ha chiesto un favore o una spintarella per ottenere qualcosa che non gli spettava. E allora tutto cambia. Un giovano cronista, oggi molto conosciuto, Gianluigi Nuzzi scopre per esempio l’elenco di tutti gli affittuari a prezzi scandalosamente bassi nelle case di un ente milanese controllato dal Partito socialista. Telefona alle cronache cittadine di vari giornali, ma nessuno gli risponde. Poi alla fine un caporedattore spiega: "Bravo Gigi, notizia bomba. Ma non la pubblichiamo. Non hai visto che nell’elenco c’è il mio nome e quello del mio vice?". Anche i giornalisti, si sa, sono italiani. Ecco perché oggi se si leggono i post su Facebook in cui alcuni degli arrestati per assenteismo al Comune di Sanremo scaricano tutta la loro rabbia sui politici ladri, viene da pensare che il problema siamo noi. I figli del Belpaese. Un posto strano che ha inventato Cosa Nostra, ma pure cresciuto Falcone e Borsellino. Un posto dove ci si può ergere a paladini della legalità, come facevano i costruttori catanesi Costanzo e Bosco, e poi versare, secondo l’accusa, tangenti per vincere appalti Anas. Un posto dove indignarsi non serve. O almeno non basta più. Dove ai molti, ma minoritari eroi della fatica quotidiana, si devono sostituire milioni di cittadini normali. Gente abituata a pensare che, come scriveva Gandhi, "ciascuno di noi deve essere il cambiamento che vuol vedere realizzato nel mondo". Dandone prova ogni giorno. Lettere: aiutiamo Eduard a curarsi di Claudia Pacileo (Staff Difensore civico Associazione Antigone) Ristretti Orizzonti, 31 ottobre 2015 La vicenda carceraria di Eduard racconta la storia di quei detenuti, soprattutto stranieri, in condizioni di salute gravi, riconosciute tali anche dalla Magistratura, ma costretti a rimanere in carcere per l’assenza di strutture esterne disponibili ad accoglierli. Eduard è un giovane ragazzo romeno, arrestato in Italia nel settembre del 2011 dopo essere stato dichiarato colpevole di una serie di reati e, per questo, condannato a scontare una pena detentiva di dieci anni. In carcere, Eduard arriva in condizioni di salute gravi, costretto a muoversi sulla sedia a rotelle e bisognoso di continue cure in quanto affetto da, come stabilito dall’Inps "paraplegia spastica da lesione midollare traversa agli atti inferiori con livello anestetico da D5, perdita del controllo sfinterico, mancanza del controllo del tronco". La permanenza in carcere provoca l’insorgere di ulteriori disturbi, tra cui una piaga da decubito sacrale di 3 cm. Per questi motivi, il 10 dicembre del 2013, il Tribunale di Sorveglianza di Milano reputa il regime di carcerazione incompatibile con la sua situazione clinica e, pertanto, dispone il differimento dell’esecuzione della pena. Soltanto dopo 7 mesi dalla pronuncia, il 28 aprile del 2014, Eduard ha avuto la disponibilità di una struttura dove andare. Ed ecco che Eduard si trova a vivere in condizioni che si riveleranno peggiori di quelle del carcere. La struttura che lo ospita è infatti una struttura „psichiatrica", che dunque non ha nulla a che vedere con la sua problematica. Come è evidente, la convivenza risulta impossibile: durante la notte, Eduard non riesce a dormire a causa delle continue urla provenienti da ogni dove e condivide la stanza con un paziente dai comportamenti "estremi" come mangiarsi le feci. Alle continue richieste di parlare con qualcuno dell’ amministrazione per denunciare la situazione e chiedere un trasferimento non viene data risposta e, un giorno, Eduard "perde le staffe" e tiene un comportamento, definito dalla magistratura „non consono", rovesciando a terra un thermos di caffè. In una situazione così disperata anche il ritorno in carcere sembra preferibile e così Eduard minaccia il suicidio se non lo fanno tornare in cella. Il 31 marzo 2015, il Tribunale di Sorveglianza di Milano accoglie la sua richiesta e revoca il regime di detenzione domiciliare, ordinando di conseguenza il trasferimento presso la Casa di reclusione "Opera" di Milano. Attualmente, Eduard si trova in una cella così piccola da non potersi muovere con la carrozzina o andare in bagno e le cure sono sempre inadeguate, sfornito anche di un piantone che lo assista. Così, Eduard si trova a ripercorrere un’altra volta la stessa strada: a maggio del 2015, denuncia al Magistrato di sorveglianza i "gravi problemi di salute", la mancata tutela delle "primarie esigenze di igiene personale e di movimento all’interno della cella". In data 3 giugno, il Magistrato di sorveglianza, in accoglimento della istanza, "dispone il proseguimento della detenzione in un regime di garanzia dei diritti fondamentali e delle cure mediche necessarie". Dopo questo provvedimento, tuttavia, nulla è cambiato nella vita di Eduard e le sue condizioni di salute sono peggiorate. Il Difensore civico dell’Associazione Antigone denuncia fermamente questa vicenda e chiede che le Autorità competenti intervengano per l’individuazione di una struttura a lunga degenza idonea a fornire a Eduard l’assistenza necessaria. Marche: l’Ombudsman dopo la visita a Fossombrone "istituti di pena oltre l’emergenza" consiglio.marche.it, 31 ottobre 2015 Emergenze da affrontare, ma anche la necessità di porre in essere nuove e più incisive progettualità per gli istituti penitenziari marchigiani. Un messaggio chiaro al termine delle visite effettuate dal nuovo Ombudsman delle Marche, Andrea Nobili, a Marino del Tronto, Barcaglione, Montacuto, Fossombrone, Pesaro, Camerino e Fermo con l’intento di definire il quadro dettagliato sullo stato effettivo degli stessi istituti, sulle condizioni di detenzione e sull’attuazione dei processi di reinserimento sociale. Dati e valutazioni complessive, contenuti nel report illustrato a Palazzo delle Marche nel corso di una conferenza stampa e significativamente titolato "Oltre l’emergenza". "L’Ombudsman - ha sottolineato in apertura il Presidente del Consiglio, Antonio Mastrovincenzo - ci fornisce un rapporto dettagliato sulla situazione carceraria, che sarà oggetto di una discussione ampia ed articolata in Assemblea legislativa. Il materiale sarà consegnato a tutti i consiglieri e l’auspicio è che si arrivi all’approvazione di una risoluzione da inviare al Ministero ed a tutti gli organi competenti". Il Presidente del Consiglio ha focalizzato l’attenzione soprattutto sulla necessità di aumentare la formazione per favorire l’inserimento lavorativo, sulle iniziative per migliorare il rapporto detenuti e famiglie, sull’aumento degli educatori. Per l’Ombudsman "l’aspetto rilevante è quello relativo ad un primo superamento della situazione emergenziale, con una riduzione significativa della popolazione carceraria. La questione, ovviamente, non è risolta". "Nelle visite effettuate - ha proseguito Nobili - abbiamo registrato apertura e disponibilità da parte delle direzioni, evidenziando che quello del Garante non è un ruolo di contraddittore. Tutt’altro. C’è la massima disponibilità alla collaborazione ed al confronto." Tra le criticità evidenziate, la presenza di soggetti con problematiche di tossicodipendenza, che vivono in carcere situazioni di forte disagio. In questo senso, secondo Nobili, "il sistema deve porre in essere dei correttivi anche attraverso misure alternative alle pene". Il dato maggiormente negativo, comunque, risulta essere quello di carattere strutturale, con il carcere di Camerino al primo posto. "Ritengo che nei penitenziari - ha concluso l’Ombudsman - si stia cercando di lavorare nel migliore dei modi per il rispetto del dettato costituzionale. Ma dobbiamo attivare tutte le risorse possibili affinché la situazione carceraria non venga considerata come l’ultimo anello del welfare. Occorre, quindi, monitorare e non abbassare la guardia". La situazione negli istituti di pena marchigiani tradotta in cifre. Al 30 settembre 2015 i detenuti sono 860, a fronte dei 1170 del 2011, dei 1225 del 2012, dei 1072 del 2013 e degli 869 del 2014. Il totale degli stranieri è di 340, con una lieve flessione rispetto al passato. Al primo posto la casa circondariale di Pesaro - Villa Fastiggi con 212 detenuti (di cui 111 stranieri), con una capienza effettiva di 150. A seguire Fossombrone con 157 (34 stranieri) a fronte di 201 posti disponibili, Montacuto con 136 (54) su 174, Marino del Tronto con 126 (30) su 104, Barcaglione con 120 (63) su 100, Fermo con 64 (23) su 41, Camerino con 45 (25) su 41. La polizia penitenziaria annovera 156 agenti a Montacuto, 49 a Barcaglione, 171 a Pesaro, 104 a Fossombrone, 32 a Camerino, 152 a Marino del Tronto, 41 a Fermo. In relazione alle strutture esistenti, l’ufficio colloqui domenicale è attivo a Montacuto, Fossombrone, Marino del Tronto e Fermo; i locali per le visite dei bambini sono stati realizzati in tutti i penitenziari, tranne che a Camerino e Fermo. Persistono problemi relativamente alle barriere architettoniche. Per quanto riguarda la situazione sanitaria, le tossicodipendenze mantengono il primato con 267 detenuti che presentano problemi di droga accertati e correlati e 86 a cui è stato eseguito il drug test all’ingresso. Per 26 è stata diagnosticata, invece, alcol dipendenza. Complessivamente nell’ultimo triennio sono stati registrati 3 suicidi a Montacuto, 2 a Pesaro, uno a Fossombrone ed uno ad Ascoli Piceno. A chiudere il panorama degli istituti, la Rems (Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza) di Monte Grimano Terme con 17 ospiti, di cui 7 provenienti dalla Marche. Infine, il carico di lavoro degli Uepe (Uffici di esecuzione penale esterna), strutture periferiche del Ministero di Giustizia, a cui è affidato il compito di gestire l’applicazione delle misure alternative concesse dai Tribunali di sorveglianza. Nel complesso gli interventi messi in atto dagli uffici di Ancona (Ancona e Pesaro) e Macerata (Macerata, Fermo ed Ascoli Piceno) in atto risultano essere 1678. Modena: la Garante regionale "no a regressione dei trattamenti dopo notizie violenza" Ristretti Orizzonti, 31 ottobre 2015 Giudizio positivo della figura di Garanzia dell’Assemblea legislativa: "Puntuale gestione del carcere, con un chiaro progetto d’istituto orientato nel senso della progressione trattamentale e dell’implementazione delle attività volte al reinserimento dei detenuti". A Modena "con l’assegnazione temporanea di un altro magistrato del distretto, che continua a espletare anche le precedenti funzioni, pare essersi risolta, almeno per qualche mese, la criticità relativa alla mancanza del magistrato di sorveglianza". Lo annuncia Desi Bruno, Garante regionale delle persone private della libertà personale, che ieri ha visitato la casa circondariale di Modena insieme a quattro rappresentanti dell’Osservatorio carcere dell’Unione camere penali italiane (Luca Andrea Brezigar, Giuseppe Cherubino, Luca Lugari, Gianpaolo Ronsisvalle) e alla presenza della direttrice dell’istituto, Rosa Alba Casella. "Si sono registrate numerose risposte alle istanze presentate dai detenuti- segnala Bruno-, anche se resta ingente il carico di lavoro accumulato da quando manca un magistrato che abbia la piena titolarità della funzione". A preoccupare la Garante sono ora "le notizie apparse nei giorni scorsi sulle aggressioni ai danni del personale della Polizia penitenziaria, pur nella loro evidente gravità, devono essere opportunamente contestualizzate nell’ambito di singoli episodi critici senza operare un automatico collegamento con la piena operatività del regime cosiddetto aperto". Si tratta, infatti, di una novità "epocale" che, come tutte le novità, "necessita di tempo per essere compresa e per far crescere il livello di responsabilizzazione dei detenuti", senza considerare, peraltro, che "uno degli ultimi episodi aggressivi pare essere cominciato dentro la cella". Secondo la figura di Garanzia dell’Assemblea legislativa, quindi, "non si ritiene che possano essere intraprese iniziative che vadano nel senso di una regressione trattamentale, orientata alla riduzione della possibilità per i detenuti di passare il proprio tempo al di fuori della cella, ma si deve operare un consolidamento del nuovo modello detentivo, anche andando incontro alle esigenze di organico della Polizia penitenziaria". Nel complesso, si registra "una puntuale gestione del carcere, con un chiaro progetto d’istituto orientato nel senso della progressione trattamentale della popolazione detenuta e di un deciso impegno volto all’implementazione delle attività volte al reinserimento dei detenuti" anche se "purtroppo al momento non riesce compiutamente a dispiegarsi in ragione dell’oggettiva carenza di un’adeguata offerta trattamentale". Come riferisce Bruno, "gli attuali numeri relativi alle presenze non avevano mai consentito, nel corso degli ultimi dieci anni, un tale livello di vivibilità, tanto per i detenuti quanto per il personale". Sono infatti ampiamente sotto controllo i numeri relativi alle presenze: 360 di cui 24 donne, a fronte di una capienza regolamentare di 373. Sono circa 200 i condannati in via definitiva; 184 gli stranieri di cui 14 donne; 24 sono i detenuti ammessi a lavorare all’esterno; 1 detenuto in semilibertà; 1 semidetenuto. È operativa poi, riporta sempre la Garante, l’applicazione della disposizione relativa alla separazione fra imputati e condannati in via definitiva. La visita ha interessato anche gli spazi dell’area dove si possono effettuare i colloqui con i figli minori e gli ambienti del nuovo padiglione che sono risultati decisamente congrui. Fra le principali richieste provenienti dalla popolazione detenuta c’è l’avvicinamento al luogo di residenza di famiglia, anche in ambito regionale. Tra i progetti in corso Bruno cita in particolare "quello della sezione Ulisse, dove circa 50 detenuti, selezionati fra coloro che hanno raggiunto un maggiore grado di responsabilizzazione nel corso dell’espiazione della pena detentiva, possono trascorrere dalle 8.30 alle 17.30 in ambienti comuni esclusivamente dedicati alla socializzazione, del tutto separati da quelli in cui ci sono le camere di pernottamento": si tratta, spiega, di "un’eccellenza a livello nazionale". All’interno della struttura vengono coltivati prodotti agricoli con il certificato biologico che vengono venduti alla Coop, si produce miele e sono presenti serre. Il numero del personale dell’area trattamentale è adeguato, con 7 educatori per circa 200 detenuti condannati in via definitiva, e inoltre si registra la presenza costante del volontariato presso l’istituto penitenziario modenese, "vero e proprio punto di riferimento per la popolazione detenuta", assicura la Garante. Nelle settimane scorse infine, racconta Bruno, "il carcere ha ospitato un’iniziativa dei Lions del territorio modenese nell’ambito della quale i detenuti hanno prestato l’attività di camerieri servendo ai tavoli degli ospiti: il ricavato della cena confluirà nei fondi per la ristrutturazione della sala del teatro del carcere. Verona: la Garante dei detenuti "incidenti in carcere, non servono norme più severe" di Francesca Saglimbeni Verona Fedele, 31 ottobre 2015 "Fa più rumore un albero che cade, di un’intera foresta che cresce". Commenta così, Margherita Forestan, garante per i diritti delle persone ristrette dì Verona, le reazioni da più parti manifestate all’indomani dei disordini provocati, settimane fa, da alcuni detenuti del penitenziario di Montorio. Due episodi di incendio a sole 48 ore di distanza, di fronte ai quali i sindacati della polizia penitenziaria, da un lato, e alcuni parlamentari veronesi - capitanati dal primo cittadino Flavio Tosi, dall’altro, hanno invocato l’intervento degli ispettori ministeriali, chiedendo "provvedimenti rapidi ed esemplari, adeguati alla gravità del fatto". "Se vogliamo vedere l’albero che cade", spiega Forestan, "va anche detto che gli episodi di disordine e violenza tra le mura del carcere ci sono sempre stati e sempre ci saranno, in quanto connaturati alla struttura penitenziaria stessa". Semplicemente, "negli ultimi tempi sono stati maggiormente pubblicizzati". E anche volendo conteggiarne qualcuno in più che in passato, "non credo che fatti isolati possano interpretarsi come un "rivolta". Senza, per questo, negare la necessità di intervenire sul fenomeno, la Garante precisa che "un’ulteriore restrizione della libertà personale non è tuttavia la soluzione". Parliamo di "persone che sono qui già da molto tempo e hanno davanti a sé una permanenza ancora molto lunga". Una condizione che, se non accompagnata da percorsi rieducativi, "può sfociare in momenti di grande esasperazione". Ma c’è un’altra circostanza che favorisce tali dinamiche: l’80% della popolazione detenuta nel penitenziario di Molitorio è formata da stranieri di varie nazionalità. "Un terreno fertile per creare ulteriori situazioni di incomprensione, dovuti all’incapacità di comunicare non solo con i compagni di cella italiani, ma anche con quelli delle altre nazionalità, e ancor di più con gli agenti di polizia", dice Forestan. Un disagio cui si aggiunge l’insofferenza per la lunga detenzione. "Sarebbe, allora, più utile e opportuno addestrare il personale penitenziario, ancora formato sul vecchio modello carcerario, alla gestione di questi casi, partendo, ad esempio, dalla previsione dell’obbligo, per tutti, dì conoscere la lingua inglese, ma anche elementi di psicologia, utili a prevedere alcune condotte dei detenuti. La maggior parte degli autori di questi episodi, infatti, sono persone con un grave disagio (economico, familiare, psicologico) che conduce alla totale asocialità. Gli agenti devono essere messi in grado di relazionarsi a questi soggetti, per poter intuire anche una potenziale situazione di pericolo ed eventualmente prevenirla". A tal fine, "dovrebbero poter disporre anche di una tecnologia mirata che velocizzi l’accesso alle informazioni relative ai detenuti - propone Forestan, in modo da conoscerne la storia ed eventuali patologie, anche psichiche, quindi l’assunzione di farmaci, nonché il medico a cui rivolgersi in caso dì emergenza". In linea con la posizione della Commissione Carcere della Camera penale veronese, presieduta dall’avvocato Federico Lugoboni, Forestan suggerisce dunque la strada del dialogo e della funzione rieducativa della pena. "Il progetto biblioteca, il progetto "Oltre il forno", il progetto teatrale - recita una nota della Camera penale - si sono realizzati all’esterno del carcere, anche con la partecipazione di detenuti in permesso premio, senza alcun incidente o criticità. E ciò grazie alla collaborazione di tutti i soggetti in causa: direttore, polizia penitenziaria, educatori, magistratura di sorveglianza, avvocati". Lo sforzo va dunque dirottato "nel senso di aprire, e non chiudere, le carceri italiane, per riformare, non tornare indietro, coniugando legalità, giustizia e certezza della pena, diritti civili e sicurezza sul posto di lavoro". Il carcere veronese ha puntato molto sui percorsi di recupero delle persone ristrette, ottenendo "bellissimi esempi di persone - aggiunge Forestan - che attraverso il dialogo, o incontri speciali con i propri figli, occupazioni lavorative, hanno dato prova di un effettivo miglioramento del proprio benessere". È dunque questa la piccola foresta cresciuta che "non si vuole vedere". "Certamente - conclude Forestan - l’ambiente carcerario non è facile per nessuno. E certamente, su circa 500 detenuti, dì cui ben il 50% impegnato nella formazione scolastica o in attività lavorative, non potremmo chiedere alla Direzione e ai suoi collaboratori più di quanto già non si faccia". Torino: Orlando "i Comuni collaborino di più su uso dei detenuti per lavoro esterno" Adnkronos, 31 ottobre 2015 Il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, chiede ai Comuni "risposte più sollecite", sull’utilizzo dei detenuti in lavori esterni al carcere. Lo fa nel suo intervento alla giornata conclusiva dell’assemblea nazionale dell’Anci di Torino: "se i Comuni - ha detto dal palco dell’Anci - dessero effettivamente seguito all’intesa sottoscritta col ministero per l’utilizzo dei detenuti in lavori esterni, daremmo un sollievo importante alla popolazione carceraria". Questo secondo il ministro "in attuazione di un principio costituzionale che vuole la pena finalizzata alla rieducazione del condannato, e aumenteremmo - ha sottolineato - il volume delle attività socialmente utili a beneficio della collettività. Su questo punto - ha concluso - dobbiamo e dunque possiamo fare molto di più insieme". Savona: la Commissione consiliare dice no alla chiusura del carcere di Sant’Agostino savonanews.it, 31 ottobre 2015 Poiché la chiusura è, evidentemente, avviata, riteniamo necessario un chiarimento da parte del Ministero relativo alla contestuale "edificazione di una nuova Casa circondariale". La Commissione consiliare Carceri del Comune di Savona, venuta a conoscenza della chiusura del carcere di Sant’Agostino decretata dal Ministro Orlando, dichiara la propria contrarietà a simile decisione e la propria forte preoccupazione per quel che riguarda l’immediato futuro della situazione carceraria locale. Questa Commissione ha sempre sottolineato le criticità delle attuali condizioni del carcere di Savona, auspicando un intervento decisivo che migliorasse la qualità della vita delle persone detenute nel Sant’Agostino, ma oggi non può non rilevare il forte disagio che un trasferimento fuori Savona, in carceri lontane in Liguria o nel Basso Piemonte, potrà procurare ai detenuti stessi, alle loro famiglie e agli addetti alla tutela e alla sorveglianza. L’intervento di chiusura, dati i cospicui trasferimenti già in atto, sembra avere carattere di urgenza, e rischia di aggravare le situazioni di sovraffollamento esistenti nelle altre carceri destinatarie di tali spostamenti. È tutta poi da chiarire l’affermazione presente nel documento inviato dal Capo dipartimento Santi Consolo (del 7 ottobre 2015) che dice che il Ministero prevede "contestualmente [alla chiusura] la edificazione di una nuova Casa circondariale in prossimità di Savona". Poiché la chiusura è, evidentemente, avviata, riteniamo necessario un chiarimento da parte del Ministero relativo alla contestuale "edificazione di una nuova Casa circondariale". Anche l’Amministrazione comunale dovrà esprimersi quanto prima sul tema "nuovo carcere": Passeggi è ancora in gioco? E soprattutto: Savona vuole un carcere sul suo territorio? Cagliari: intervista alla Comandante del carcere "botte tra agenti e detenuti? è falso" di Alessandra Carta sardiniapost.it, 31 ottobre 2015 Capessa (per concorso) di 290 agenti carcerari. È di Alessandra Uscidda, il posto di comando nel carcere di Uta: genitori galluresi, l’infanzia a Milano, le medie e il liceo a Cagliari, l’università ancora nel capoluogo lombardo. Quarantadue anni, una laurea in Giurisprudenza e almeno otto ore nel suo ufficio al piano terra del penitenziario. A occhio, una cinquantina di metri quadrati sbarrati come se fosse lei una reclusa. Il telefono squilla ogni due minuti. Comandante, quella foto di Borsellino e Falcone? "Sono i miei idoli, da che ero adolescente. Mi trovavo ad Amman, quando uccisero anche Borsellino, nel luglio del 1992, due mesi dopo la strage di Capaci". Lo Stato contro l’anti-Stato, la sua battaglia quotidiana. "Non è così lineare". In che senso? "La condotta penitenziaria di un detenuto è inversamente proporzionale al reato commesso: più basso è lo spessore criminale, maggiore è l’aggressività". Un mafioso si comporta bene? "Assolutamente sì, è ossequioso. Un tossicodipendente no, è aggressivo e irriverente. Anche se il mafioso è giuridicamente l’anti-Stato per eccellenza". Cosa fa il comandante degli agenti penitenziari? "Sono un prisma: ho il compito di filtrare la luce e trasformarla in colori. Un comandante ha tre funzioni: organizzative, gestionali e relazionali, da esercitare sia verso il personale che verso la popolazione detenuta". Qui a Uta ci sono 290 poliziotti. Pochi o molti? "Dovremmo essere 444". Non protestate? "Il Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) ne è a conoscenza". Com’è possibile garantire la stessa qualità del servizio con la metà degli agenti previsti? "Ciascuno di noi ha un carico di lavoro maggiore rispetto all’ordinario". Per questo è più facile picchiare i detenuti anziché dialogare con loro? "E chi l’ha detto che picchiamo i detenuti?". Il sindacalista della Uilp, Eugenio Sardo, nel suo report di fine settembre, ha denunciato 200 casi di autolesionismo, 43 tentati suicidi, 85 ricoveri d’urgenza, 106 scioperi della fame e sette manifestazioni collettive. Vorranno pur dire qualcosa. "Su questi dati si è già espresso in maniera esaustiva il direttore dell’istituto Gianfranco Pala, e concordo con lui. A Uta le botte non si danno e non si prendono. Ma soprattutto: non è così che funziona un penitenziario. Siamo un presidio di sicurezza, non un ring. Il carcere ha il carattere di un’istituzione totale, ma il nostro dovere è cercare di superarne gli aspetti negativi". Cosa vuol dire istituzione totale? "È l’Asylums di cui parlava Erving Goffman. Il termina indica tutte quelle istituzioni in cui le persone sono prese totalmente in carico da una realtà organizzata e tutto viene scandito da un’autorità sovraordinata che ha il compito di controllare i soggetti affidati appunto alla struttura". Quali rischi? "L’imposizione delle regole, anche attraverso gli orari fissi, si porta dietro il rischio di avviare un processo di infantilizzazione del detenuto che potrebbe perdere la propria individualità. Ma con le strutture di cui dispone il nostro Paese, è il miglior percorso possibile". Potendo, che modifiche introdurrebbe? "I tossicodipendenti, per esempio, li affiderei a comunità specializzate, anche intramoenia, per un trattamento intensivo di recupero". Neomamme detenute? "Devono stare con i loro bambini. Ma non in carcere, se possibile". Dicevamo delle botte ai detenuti. "Il detenuto non perde i diritti: se davvero venisse picchiato, potrebbe chiedere un sopralluogo. Soltanto in casi eccezionali, quando si ha a che fare con un soggetto pericoloso, come previsto dall’ordinamento penitenziario si ricorre all’uso della forza attuando la cosiddetta contenzione". Cos’è? "Per contenzione si intende tecnicamente l’impiego della forza fisica, eventualmente accompagnata dall’uso dei mezzi di coercizione, nei limiti di quanto espressamente previsto dall’articolo 41". Un esempio di caso eccezionale? "Quando un detenuto si barrica nella cella e inizia a distruggere i suppellettili, appiccando anche il fuoco al materasso". L’articolo 41 cosa prevede? "L’uso della forza fisica è consentito nei confronti dei detenuti solo quando sia indispensabile per prevenire o impedire atti di violenza, o tentativi di evasione o per vincere la resistenza anche passiva all’esecuzione degli ordini impartiti. In casi come questi, il detenuto viene sottoposto ad accertamenti sanitari. Il suo stato di salute è documentato pure attraverso rilievi fotografici, trasmessi poi all’autorità giudiziaria per attestare la regolarità dell’attività di contenzione. Capita, è vero, che i detenuti, tra loro, si picchino. Ma se devono regolare conti interni, aspettano la chiusura delle celle, esattamente per cercare di eludere quanto più possibile i controlli". Tra minacce e aggressioni agli agenti, la Uilpa ha denunciato 63 casi. "Ci sono stati diversi episodi, ma un solo vero: un pugno dato a un poliziotto da un detenuto con problemi psichici. Non c’è bisogno di aggiungere altro". Aggressioni verbali? "Come nella vita di tutti giorni fuori da qui". Ci sono i detenuti preferiti? "No. Tutti sono da prendere in carico, in quanto utenti di un servizio". Dialogo tra agenti e detenuti? "È doveroso". È mai tornata a casa pentita di essere stata troppo severa? "Quando ci sono eventi critici, quindi emergenze da gestire, a casa si ripensa a cosa si è fatto, questo sì". Cattive soluzioni prese? "Tutto può essere fatto diversamente, ma l’obiettivo da raggiungere è la soluzione del problema. La sola cosa veramente grave sarebbe il non saper affrontare una situazione, sfaldando la catena di comando. Ma non è mai accaduto". In quanto donna, si è mai accorta se i suoi sottoposti l’abbiano considerata non adatta a fare qualcosa? "Al contrario. Io credo che gli agenti apprezzino quel supplemento di carica emozionale di cui le donne sono portatrici". Crede esista un plusvalore al femminile? "Sì. Le donne hanno maggiore capacità di introspezione. A me basta guardare i miei uomini negli occhi per capire come stanno". I maschi non sanno essere altrettanti bravi a leggere dentro? "Non ho detto questo. Penso che, ancestralmente, le donne sappiano gestire meglio il flusso delle emozioni, hanno affinato una diversa capacità di ascolto e comprensione". Un abbraccio che non ha dato a un detenuto? "Non si comunica coi soli abbracci, a proposito di carica emozionale: si può usare il linguaggio paraverbale, fatto anche solo di uno sguardo, ma che può valere quanto un abbraccio". Nel sua quotidianità coi detenuti c’è qualcosa che la fa soffrire? "Mi dispiace quando si interrompono i rapporti tra detenuto e famiglia". Succede? "Purtroppo sì. E i detenuti la vivono malissimo. La famiglia, nel percorso rieducativo, è una spinta motivazionale importante. Chi non può contare su parenti o amici, fa più fatica a cambiare. Un’affettività eventualmente sgretolata non aiuta". Nell’ora dei colloquio concesso ai detenuti con le famiglie, un poliziotto penitenziario cosa fa? "Si limita a esercitare un controllo visivo. Prima c’era anche quello uditivo, ma col tempo si è giustamente lasciata più libertà. Il controllo visivo serve per evitare scambi di sostanze stupefacenti, per esempio, che è una pratica frequente". Quante volte ha pianto? "Di recente mi sono commossa alla festa del Corpo, nel momento in cui ho ringraziato il personale per i sacrifici resi sul lavoro". Avrebbe voluto denunciare qualcosa e non l’ha fatto? "L’ho sempre fatto: se ci accorgiamo di traffici illeciti all’interno della struttura, non possiamo certo chiudere gli occhi". Ma denunce contro i disservizi dell’Amministrazione penitenziaria? "No, ho sempre avuto la fortuna di lavorare in carceri con direttori illuminati". Livorno: incarico di Garante dei detenuti, è possibile presentare la candidatura gonews.it, 31 ottobre 2015 Da lunedì 2 novembre fino alle ore 13.00 di lunedì 16 novembre 2015 tutti coloro che aspirano all’incarico di "Garante dei diritti delle persone private della libertà personale" previsto dal Regolamento di cui alla Delibera n. 125 del 27/7/2010, possono presentare la propria candidatura, inviandola al Comune di Livorno ed indicando come oggetto "Candidatura alla nomina di Garante". Per la prima volta l’Amministrazione Comunale ha deciso di prendere in esame eventuali candidature per scegliere il Garante, che sarà nominato direttamente dal Sindaco, con proprio atto, scegliendo fra persone d’indiscusso prestigio e di notoria fama nel campo delle scienze giuridiche, dei diritti umani o delle attività sociali negli Istituti di Prevenzione e Pena e nei Centri di Servizio Sociale. Le candidature devono essere corredate di dettagliato curriculum, dichiarando il possesso dei requisiti di cui al citato art 3 del Regolamento ed indicando eventuali nomine, designazioni ed incarichi anche di tipo professionale conferiti da pubbliche amministrazioni. Le candidature dovranno essere presentate all’Ufficio di Relazioni con il Pubblico, piazza del Municipio n.1, dalle ore 09.00 alle ore 13.00 nei giorni dal lunedì al venerdì o dalle ore 15.30 alle ore 17.30 dei giorni di martedì e di giovedì, oppure inviate tramite la propria casella di posta elettronica certificata all’indirizzo: comune.livorno@postacert.toscana.it. In caso di invio tramite osta non farà fede il timbro postale. L’Amministrazione si riserva, se necessario, di modificare o revocare l’avviso di selezione, nonché di prorogarne o riaprirne il termine di scadenza. L’Amministrazione si riserva, altresì, di non dare corso alla presente procedura selettiva in caso di sopravvenienza di previsioni normative o condizioni economico finanziarie ostative alla sua conclusione. Per proporre la propria candidatura è possibile utilizzare il modulo appositamente predisposto oppure sottoscrivere una dichiarazione personalizzata purché la stessa contenga tutti gli elementi utili ai fini della corretta candidatura. L’avviso pubblico e il modulo di domanda sono scaricabile dal sito del Comune di Livorno all’indirizzo comune.livorno.it. Trento: la scuola in carcere, empowerment verso la libertà Secolo Trentino, 31 ottobre 2015 La scuola è riuscita ad intercettare finora circa la metà della popolazione carceraria (quasi 180 i detenuti oggi ospitati) offrendo una serie di attività che vanno dai corsi di alfabetizzazione alle lezioni di inglese, tedesco, informatica. Qui si svolgono anche percorsi formativi nel settore dei servizi alla persona (acconciatura) e dell’alberghiero (panificazione e pasticceria). Sono 25 gli insegnanti impegnati, in parte di ruolo, in parte supplenti. Nel prendere la parola il governatore Rossi ha voluto ringraziare dapprima tutte le persone che lavorano nel carcere e che a vario titolo mettono a disposizione il meglio di loro stessi per offrire una preziosa opportunità. "La comunità trentina - ha detto - ha investito e continua a investire per questo obiettivo, finanziando dapprima la costruzione della struttura ma poi continuando a sostenere i progetti di formazione e di inserimento lavorativo. Senza pretese, vogliamo poter ribadire anche in questo modo che anche a chi ha fatto degli errori va data la possibilità di rimediare, attraverso l’impegno". "La scuola - ha poi aggiunto Rossi ricordando ai detenuti quanto detto in occasione della recente visita a Trento dell’astronauta Samantha Cristoforetti - è come una "rampa di lancio" della vita. È il luogo dove costruire le possibilità. Vi auguro che le lezioni che state frequentando siano la rampa di lancio verso la libertà, con la consapevolezza che gli strumenti acquisiti qui dentro vi aiuteranno a guidare il missile verso la giusta direzione". L’incontro si è concluso con la visita dei diversi spazi in cui si svolgono le attività didattiche e lavorative, dall’aula informatica alla lavanderia, alle postazioni in cui si effettua l’archiviazione digitale di documenti e testi storici. Da ultimo l’incontro con il personale della polizia penitenziaria al quale Rossi ha manifestato il ringraziamento per l’attività svolta. Cuneo: "vai agli arresti domiciliari se tratti bene tua moglie e fai le pulizie di casa" di Andrea Rossi La Stampa, 31 ottobre 2015 Il "giovane scioperato" Kujtim deve avere una moglie adorabile. Così devota da privarsi dei suoi risparmi per toglierlo dai guai. D’ora in poi saprà anche se ha una moglie inflessibile, dato che la sua libertà dipende da lei. Il giudice del Tribunale di Cuneo che l’ha scarcerato giovedì gli ha imposto una lunga serie di obblighi da rispettare che potremmo riassumere così: non fare arrabbiare tua moglie, ché se sei uscito di prigione è solo merito suo. Tornato nella sua abitazione di Bra, Kujtim S., trentenne di origini albanesi, dovrà rigare dritto: vietato insultare, minacciare o maltrattare i famigliari; basta video pornografici o violenti; niente alcolici e droghe leggere. Ma, soprattutto, dovrà "svolgere i lavori di casa in modo da tenere la casa perfettamente pulita ed ordinata", pena l’immediato ritorno in carcere. Kujtim S. è stato arrestato il 13 marzo con cinque connazionali accusati di alcune rapine e furti. A lui ne contestano una, oltre a un tentato furto: per il procuratore Massimiliano Bolla non ha partecipato all’irruzione in un alloggio di Bene Vagienna, 3.500 abitanti a quaranta chilometri da Cuneo, ma, avendo familiarità con la proprietaria, ha agito da basista. "Sono innocente", ripete da sei mesi. I giudici gli credono poco, sua moglie chissà, ma di sicuro gli vuole un gran bene perché ha saccheggiato i risparmi messi da parte in anni di sacrifici - circa 3 mila euro - per risarcire le vittime della rapina: 2 mila euro alla proprietaria dell’appartamento e mille alla badante, rimasta ferita. Grazie a questo gesto - "significativo, un sacrificio economico rilevante" scrive il giudice Alberto Boetti nell’ordinanza con cui accoglie la richiesta dell’avvocato Antonio Genovese e gli concede gli arresti domiciliari - Kujtim è tornato nella sua casa di Bra, nonostante il pm fosse contrario. Dopo sei mesi ha abbracciato suo figlio, che ha appena compiuto tre anni, e sua moglie, che in tutto questo tempo ha tirato avanti con lo stipendio esile di addetta in una cooperativa alimentare. Ce l’ha fatta: ha mantenuto sé, il bambino ed ha pure risarcito le vittime. La liberazione di Kujtim S. ha tutta l’aria di un premio riconosciuto alla donna. O di un’ultima apertura di credito. Al "giovane scioperato ed arrogante" Kujtim, "attratto dai facili guadagni e da tutto ciò che è deviante" - così il giudice - non si può perdonare tutto. Eppure "non si può disconoscere un certo effetto positivo" infuso "dall’amore coniugale". Ribaltando un celebre detto, è un piccolo (meglio, fragile) uomo con una grande donna accanto. E poiché "l’assenza inquietante di valori morali non è compatibile con il brusco passaggio dalla carcerazione all’ozio degli arresti domiciliari", a casa dovrà dimostrare di essere un marito degno e un padre modello: tenere comportamenti esemplari, bandire i vizi e occuparsi delle faccende domestiche mentre sua moglie lavora. Dipende tutto da lui, ora: meritarsi l’amore della famiglia e restare a casa almeno fino alla sentenza; o tradirlo e trasgredire, e in quel caso c’è una cella che lo aspetta. Genova: presentazione del libro "No prison. Ovvero il fallimento del carcere" Ristretti Orizzonti, 31 ottobre 2015 Venerdì 13 novembre alle ore 17 al Consorzio Zenzero vi sarà la presentazione del libro di Livio Ferrari "No prison. Ovvero il fallimento del carcere". Interverranno l’autore Livio Ferrari e il Presidente Regionale della Conferenza Volontariato Giustizia Gabriele Sorrenti. Cos’è il carcere, oggi e in Italia? La fotografia è impietosa e al tempo stesso eloquente in quanto non lascia scampo a dietrologie e giustificazioni. Sono infatti trascorsi 40 anni dall’approvazione della Legge 354, circa 50 dall’inizio della sua gestazione, e possiamo affermare senza possibilità di smentita che è fallita su tutti i fronti. I dati di questo fallimento sono davanti agli occhi di tutti coloro che a vario titolo hanno a che vedere con il mondo penitenziario, e lo sono sia sotto l’aspetto punitivo, che rieducativo, nonché di sicurezza. È necessario ripensare completamente le modalità di esecuzione delle condanne, eliminando innanzi tutto dal nostro lessico il termine "pena", che tanto ricorda la gogna e il suo retaggio culturale e corporale nell’afflizione e sofferenza, ridando dignità agli esseri umani coinvolti, sia ai condannati che agli operatori pubblici e privati. Insomma: l’impianto e le convenzioni che ruotano attorno al mondo della giustizia e della conseguente esecuzione sono da resettare e ricostruire dalla radice. "No prison. Ovvero il fallimento del carcere", di Livio Ferrari. Prefazione di Massimo Pavarini - postfazione di Luciano Eusebi. Editore Rubbettino - Collana Zona Franca. Anno 2015. Sandra Bettio Conferenza regionale Volontariato Giustizia Liguria Libri: "Oltre le sbarre, le carceri italiane viste da un agente penitenziario", di D. Esposito panorama.it, 31 ottobre 2015 Scritto da Dario Esposito, giovane agente della Polizia penitenziaria, racconta dal di dentro il sistema carcerario italiano. Una presentazione a Lamezia Terme. Ieri, venerdì 30 Ottobre, alla Biblioteca comunale di Lamezia Terme, alle 17,30 è stato presentato il primo romanzo autobiografico scritto da un agente penitenziario: "Oltre le sbarre, le carceri italiane viste da un giovane agente penitenziario" (Falco editore, 14 euro). È un romanzo autobiografico scritto da Dario Esposito, agente della Polizia penitenziaria. Carcere, vita in sezione, grate alle finestre, servizi speciali e operativi della Polizia penitenziaria: un varco nel mistero che avvolge le giornate della prigione. Dal libro emerge un grido, un appello, un’esortazione: superare le sbarre del pregiudizio per afferrare la verità sfuggente, un obiettivo che l’autore cerca mettendo in risalto debolezze, paure e fragilità. Nel libro emergono pezzi di vita vera. E che vita: raggiungere un’aula bunker per un processo ad alto rischio, sorvegliare un detenuto che ha appena cercato di uccidersi in cella, provare a gestire i sussulti dell’animo che vacilla fra dentro e fuori. Il libro di Esposito narra anche la varia umanità della popolazione detenuta. Non ci sono dita puntate né barricate, è un venir fuori di emozioni e sentimenti propri a tutti gli esseri viventi in quanto tali. L’emergenza immigrati cambia la Ue di Lorenzo Codogno Il Sole 24 Ore, 31 ottobre 2015 Ogni giorno arrivano segnali nuovi che mettono in luce come la crisi dell’immigrazione sia un elemento dirompente, che modifica i rapporti di forza e gli equilibri politici, con evidenti conseguenze anche per il processo d’integrazione e la governance economica dell’Europa. Il problema dell’immigrazione è troppo grande e complesso per essere confinato alla sfera economica. Coinvolge infatti aspetti umanitari, sociali, di assistenza e inclusione, di sicurezza e persino religiosi. Va alla radice dell’integrazione e della ragion d’essere stessa dell’Europa. Tuttavia, partendo dall’aspetto economico, l’ondata di immigrazione potrebbe dare una spinta positiva alla crescita potenziale, se ovviamente è gestita in modo adeguato. I rifugiati tendono ad essere adulti in età lavorativa, già formati o quantomeno pronti ad entrare nel mercato del lavoro, e quindi possono produrre uno shock d’offerta con effetti positivi permanenti. Oltre a questo potrebbe anche esserci uno stimolo di breve termine dovuto alla domanda aggiuntiva di servizi pubblici: dall’assistenza all’accoglienza umanitaria, dalla sicurezza agli altri servizi che un flusso di persone così importante può mettere in moto. In una fase successiva vi sarà probabilmente anche l’effetto della spesa aggiuntiva per consumi. Ma tutto questo non va sopravvalutato. Inoltre, queste spese vanno a pesare sui bilanci pubblici e quindi, almeno in parte, sono giustificate le richieste di flessibilità supplementare, ed in particolare quella dell’Italia, purché la spesa sia canalizzata in modo efficace per migliorare l’integrazione e generare crescita futura. La letteratura economica suggerisce che gli effetti dell’ondata migratoria sui salari e sull’occupazione dell’attuale forza lavoro sono per lo più modesti. Tuttavia, vi potrebbe essere una certa pressione nel mercato del lavoro, soprattutto per quanto riguarda i lavori poco qualificati, dato il livello generalmente basso di qualificazione ed esperienza professionale degli immigrati nonché le barriere linguistiche. Questo peraltro spingerebbe gli attuali lavoratori verso occupazioni più qualificate e meglio pagate. Il flusso migratorio metterà a dura prova i sistemi di assistenza sanitaria e più in generale il welfare, anche se il bilancio tra contributi ed erogazioni almeno nella fase iniziale in genere è positivo a condizione che i lavoratori siano regolari e quindi paghino i contributi. La chiave, tuttavia, sarà la capacità delle istituzioni di fornire assistenza, servizi di collocamento e politiche attive nel mercato del lavoro per permettere un’integrazione rapida e socialmente accettabile. L’enorme afflusso è avvenuto in un intervallo di tempo molto breve e in alcune aree specifiche, soprattutto in Germania e in alcune grandi città. Gestire tutte le varie implicazioni di questa ondata non sarà facile perché rischia di minare il tessuto sociale e gli equilibri politici dell’Europa. In primo luogo, il rischio è all’interno di ciascun paese dove l’elettorato potrebbe spostarsi verso movimenti che con varie sfumature sono xenofobi o anti-immigrazione. Se questo spostamento elettorale non è adeguatamente controbilanciato, potrebbe provocare instabilità politica e cambiamenti di governo. Potrebbe anche spingere i governi in carica ad adottare politiche sempre più restrittive in materia di immigrazione. In secondo luogo, implicitamente gli spostamenti elettorali potrebbero fornire l’alibi per atteggiamenti anti-Europei o euro-scettici. Questo dipenderà anche dalle risposte politiche che saprà dare l’Europa. L’accordo di Schengen, che garantisce la libertà di circolazione all’interno dell’Unione europea potrebbe indebolirsi al punto da divenire inefficace. Ciò metterebbe in discussione uno dei pilastri del progetto di integrazione politica ed economica. Infine, potrebbe cambiare il panorama geo-politico dell’Europa. Il paradigma che ha di fatto dominato le politiche dell’UE degli ultimi anni potrebbe essere messo in discussione dalle crepe apertesi nelle relazioni tra la Germania ed alcuni dei suoi tradizionali alleati. È noto che il sistema di quote per la condivisione dei richiedenti asilo all’interno della Ue è fortemente contrastato dal cosiddetto gruppo di Visegrad (Repubblica Ceca, Ungheria, Polonia e Slovacchia) e da ultimo i contrasti con l’Austria e da altri Paesi, peraltro su una materia dove vige il voto a maggioranza qualificata. Un’opposizione così netta alla politica che sta portando avanti la Cancelliera Markel potrebbe avere conseguenze e diramazioni più ampie anche in materia economica e di governance. In questo senso, l’atteggiamento "politico" più accomodante della Commissione Europea in materia fiscale potrebbe essere solo un primo assaggio, con tutte le opportunità ma anche i rischi che questo comporta. Slovenia: "soli di fronte all’emergenza profughi" di Stefano Lusa (Osservatorio Balcani e Caucaso) Il Manifesto, 31 ottobre 2015 Con una classe politica che sa solo alimentare le paure, la Slovenia vive l’emergenza migranti come un pericolo. L’inferno a Rigonce non c’è più. Non ci sono più profughi disperati, non ci sono poliziotti a cavallo, reparti speciali in tenuta antisommossa ed elicotteri che passano incessantemente. Nel fango autunnale della campagna slovena non ci sono più bambini infreddoliti, genitori esausti seduti su coperte, borsoni e zaini, vecchie signore in abito tradizionale su sedie a rotelle, ma i trattori che arano i campi. La vita sembra essere tornata alla normalità. Gli abitanti della zona non sono però ancora soddisfatti. Vorrebbero veder partire i migranti da una vecchia fabbrica di Dobova, da una tendopoli e dalla stazione di polizia di Breice. I timori della Slovenia. Intorno alle strutture ingenti forze di polizia continuano a vigilare attente. Tutto è recintato, non ci si può avvicinare troppo. Ogni tanto sale la tensione. I migranti non ne possono più di aspettare. Chiedono di uscire. Uno urla oltre la barriera: "Siamo qui da tre giorni, vogliamo andare avanti". Lente proseguono le procedure burocratiche. Lubiana continua a dire di volerle rispettare, sembra l’unica ad insistere sul rispetto delle regole imposte dal regime di Schengen. La Slovenia ha paura, si sente assediata e anche, forse, non capita: percepisce i profughi come un pericolo, come un problema di ordine pubblico e come un’emergenza sanitaria e non comprende come gli altri possano non vedere tutto questo. Con una classe politica che non ha fatto altro che alimentare queste paure l’emergenza è stata gestita di conseguenza. Al confine, a coordinare la situazione, non ha mandato la protezione civile o la Croce rossa, che hanno una certa esperienza con le catastrofi naturali e umanitarie, ma l’esercito e la polizia. L’attenzione per il pericolo di eventuali epidemie è quasi pari a quella per le immondizie lasciate nelle campagne slovene, dalle colonne di disgraziati costretti a marcire a piedi per chilometri e chilometri fino ai centri di identificazione. Sembra inspiegabile che non si siano portati dietro bottigliette di plastica vuote, scatolette, vecchi indumenti, coperte e sacchetti di plastica. Ora si sta ripulendo tutto e l’esercito sta disinfettando la zona. Le televisioni continuano a tenere i riflettori puntati sulla situazione sanitaria dei migranti. Si parla con preoccupazione delle infezioni virali che li colpiscono (un modo altisonante di chiamare il raffreddore) e delle conseguenze che potrebbero esserci per gli sloveni. Sta di fatto che anche chi sta a debita distanza dai migranti porta guanti e mascherine, non si sa mai. Segnali di miglioramento. Le cose, fortunatamente, negli ultimi giorni sono migliorate. Pare che Slovenia e Croazia abbiano trovato un’intesa. Per farlo è stato necessario un vertice europeo: ora Zagabria comunica a Lubiana l’arrivo dei treni e la Slovenia non pone ostacoli all’entrata. I migranti arrivano alla stazione slovena di Dobova, a due passi da Rigonce, da lì, gran parte di essi, vengono fatti passare su treni sloveni e portati direttamente a Šentilj, dove si espletano le procedure burocratiche. Decisamente molto meglio che finire rinchiusi nei campi della zona. Arrivati a destinazione i convogli potrebbero proseguire verso la Germania, l’Austria è a due passi, ma si fermano alla stazione. I profughi, scortati dalla polizia, fanno un chilometro a piedi fino ad un grande centro d’accoglienza che finisce dove inizia l’Austria. Ad attenderli ci sono i militari con i loro fucili mitragliatori. I migranti, che hanno viaggiato in treno, praticamente dal confine serbo, non sembrano particolarmente provati. Vengono fatti passare lentamente nel campo. Un sottoufficiale si sgola per farli mettere in fila per cinque: quando l’ultima linea è completata, la prima, la seconda e la terza sono un tutt’uno, il soldato sloveno comunque è tenace e alla fine ci riesce. Una volta entrati ad attenderli ci sono tende riscaldate, bagni, docce, cibo, indumenti ed assistenza medica. Il campo comincia a riempirsi in fretta, arriva una lunga fila di autobus, un altro treno potrebbe essere lì a momenti. Verso l’Austria e la Germania. Il valico di confine di Šentilj è chiuso al traffico regolare. I profughi vengono mandati verso l’Austria a scaglioni, sembra in accordo con gli austriaci. Li fanno andare in un recinto, all’ingresso altri due militari con il mitra. Entrano nella terra di nessuno. Rispetto a Rigonce in fondo non c’è molta differenza. Non c’è nulla, nemmeno un bagno. Qualcuno ha piantato le tende. Si ferma un furgoncino carico di pizze. I migranti fanno a gara per acquistarne una, brandendo banconote da 10 e 20 euro oltre un muretto. Il confine austriaco è difeso da solide transenne. Non è il muro di Orban, ma sembra un suo surrogato. L’obiettivo di un fotografo cattura un soldato austriaco che tira una banana oltre il recinto verso una serie di mani protese. Vienna fa passare i profughi con lentezza. Dall’altra parte un campo attrezzatissimo, altre transenne da passare per proseguire il viaggio e altro militare urlante che tenta di far mettere i profughi in due file. Gli autobus arrivano piano, molto piano. I migranti salgono e partono direttamente verso il confine tedesco. Il ritmo è dettato dalla capacità di accoglienza della Germania. A tutti è chiaro che se Berlino dovesse chiudere scatenerebbe una reazione a catena. L’Austria ha annunciato barriere al confine sloveno, gli ungheresi avevano già fatto le prove alcune settimane fa, mettendo alla frontiera il filo spinato, rimosso dopo pochi giorni. Lubiana sembra pronta a fare altrettanto con la Croazia. Nel paese si respira sempre più forte la voglia di muri. Lo chiede a gran voce il centrodestra, che accusa il governo di essere pesantemente in ritardo, e sembra volerlo anche l’esecutivo che non aspetta altro che un pretesto plausibile per innalzare la rete. Afghanistan: l’Italia aumenta le truppe, proprio quando la Spagna ritira i suoi soldati di Giuliano Battiston Il Manifesto, 31 ottobre 2015 Ritirare le truppe italiane dall’Afghanistan? Neanche a pensarci: il governo intende aumentarle. Così ha sostenuto il sottosegretario alla Difesa Domenico Rossi, che ieri alla Camera ha risposto a un’interrogazione urgente di Massimo Artini, deputato del gruppo Misto-Alternativa Libera. "Il governo - ha dichiarato Rossi - ha deciso di rimodulare la pianificazione di rientro di alcune capacità del contingente italiano e di aumentarne la consistenza numerica nell’ultimo trimestre del 2015, in una misura ritenuta idonea a compensare il rientro di quella parte del contingente spagnolo che era dedicato alla Force Protection". In soldoni: i soldati spagnoli tornano a casa, quelli italiani prolungano l’impegno in Afghanistan. Dopo 13 anni di missione militare, la Spagna questa settimana ha infatti completato il ritiro dei 450 uomini rimasti nel paese centroasiatico. Il governo italiano, invece, va in direzione opposta: restare e aumentare il numero dei soldati (attualmente, 750). Le ragioni le ha spiegate proprio il sottosegretario Rossi: per "compensare" il ritiro spagnolo, ma anche perché le forze di sicurezza afghane "hanno ancora dei limiti per una piena ed efficace azione autonoma", al contrario di quanto ipotizzato dai vertici della Nato e come dimostra la recente, provvisoria conquista da parte talebana della città di Kunduz. C’è poi, ancora più centrale, la questione della subalternità italiana all’alleato americano. "Obama ha già dichiarato la volontà degli Stati Uniti di prolungare la presenza in Afghanistan, anche nel prossimo anno", ha ricordato Domenico Rossi, e l’Italia non può tirarsi indietro. La pensa così il presidente del Consiglio Matteo Renzi, il più veloce, tra gli "alleati", a mettersi sull’attenti: giovedì 15 ottobre Obama ha annunciato che gli attuali 9.800 soldati statunitensi che operano in Afghanistan non rientreranno in patria alla fine di quest’anno, come promesso, ma resteranno per gran parte del 2016, e che verranno gradualmente ridotti a 5.500 a partire dal 2017, per addestrare le forze di sicurezza afghane, che anche Obama considera "non ancora solide quanto dovrebbero", e sostenere le operazioni di controterrorismo "contro ciò che rimane di al-Qaeda". Il giorno successivo da Venezia è arrivata, puntuale, la replica di Renzi, per il quale "se l’impegno americano in Afghanistan prosegue, penso sia giusto anche da parte nostra ci sia un impegno". Ieri, infine, le parole del sottosegretario Rossi, che annunciano perfino un aumento delle truppe italiane. Un cambio di programma sostanziale, rispetto a quanto promesso dallo stesso Renzi all’inizio di giugno, quando proprio a Herat, nella base militare italiana, chiedeva un "ulteriore piccolo sforzo" ai soldati italiani. Un cambiamento che i bizantinismi usati ieri dal sottosegretario Rossi - che ha parlato di verifiche tecniche, di decisioni prese ma ancora da prendere - non riescono a nascondere. E che deve ora passare per il Parlamento. Siria: a Vienna spunta l’ipotesi di cessate il fuoco, ma Obama schiera le su truppe di Luca Geronico Avvenire, 31 ottobre 2015 Erano diciassette, alla fine, i Paesi seduti ieri a Vienna al capezzale della Siria: già questo un successo, a una settimana esatta dal primo incontro fra Stati Uniti, Russia, Turchia e Arabia Saudita. Per questo l’inviato speciale delle Nazioni Unite Staffan de Mistura parlava di "luce in fondo al tunnel". Oltre ai quattro grandi incontratisi in Austria la settimana scorsa pure il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni con i rappresentanti di Cina, Egitto, Qatar, Francia, Gran Bretagna e per la prima volta il ministro degli Esteri iraniano Mohammas Zarif. Anche questo, a quattro anni dai primi negoziati del dicembre 2011 e dopo quattro annunci di una tregua mai realizzata, rappresenta un successo. Un primo passo, nella speranza di trovare "una strada percorribile, ma è molto difficile", affermava il segretario di Stato John Kerry. Un primo round in cui, significativamente, Russia, Stati Uniti, Turchia e Arabia Saudita si sono scambiati le liste degli oppositori siriani che potrebbero partecipare ai futuri negoziati per la soluzione del conflitto: una quarantina di gruppi in tutto con Mosca che dava il via libera alla presenza ai negoziati sia dei rappresentanti dei curdi che del Libero esercito siriano (Els). Nelle stese ore filtrava da Washington la notizia dell’imminente schieramento di truppe statunitensi nel Nord della Siria: meno di 50 uomini che, precisava la Casa Bianca, non avranno un ruolo di combattimento mentre la strategia di Washington "non è cambiata". Il contingente, si apprende dalla Difesa Usa, verrà schierato sul terreno entro un mese. Con questa mossa gli Stati Uniti sembrano dare un ulteriore esplicito appoggio ai curdi siriani come testa di ponte nella lotta all’Is: decisione dal forte significato politico. Inoltre gli Usa invieranno ulteriori aerei, fra cui i caccia F-15 e A-10, nella base militare di Incirlik, in Turchia. Una replica, sul terreno, al vice-ministro russo degli Esteri Sergeij Ryabkov che giovedì aveva definito "inaccettabile" una presenza militare in Siria senza il consenso del governo di Damasco. E ieri pronto il dissenso di Mosca: Lavrov chiedeva una lotta al terrorismo "basata sul diritto internazionale". Un portavoce del Cremlino precisava ribadiva che a Vienna si deve discutere del futuro della Siria, non di Assad, ma indiscrezioni diplomatiche annunciavano l’esistenza di un piano di transizione statunitense: Assad potrebbe restare ancora per 18 mesi, di cui solo 6 con pieni poteri. Teheran smentiva invece di aver dato il consenso a un piano di transizione che possa portare a nuove elezioni in Siria entro 6 mesi. Un primo confronto, par di capire molto serrato, attorno alla Road map delle Nazioni Unite con distanze che ancora paiono incolmabili. Ridare spazio alla diplomazia è comunque un successo per Paolo Gentiloni: a Vienna, ha affermato, "non si sono superate le differenze", ma si è ricercata una transizione politica che "per noi porti all’uscita di Assad" su cui restano da decidere modalità e tempi. Anche per il russo Sergheij Lavrov si sono raggiunte "intese importanti" ma "non su come risolvere la sorte di Assad". Un eventuale cessate il fuoco in Siria avverrà sotto l’egida dell’Onu, ma "non riguarderà i terroristi" precisava poi lo stesso Lavrov nella conferenza stampa congiunta al termine della riunione di Vienna. Integrità e indipendenza della Siria, salvaguardia delle istituzioni e garantire l’accesso umanitario a tutto il territorio, le affermazioni salienti del documento finale in nove punti. Si profila pure una agenda su cui proseguire i lavori: i partecipanti al vertice di Vienna hanno chiesto all’Orni di "convocare il governo e l’opposizione siriani per avviare un processo politico che porti a una nuova costituzione e a elezioni". Il prossimo round a Vienna, quello con anche l’opposizione moderata seduta attorno al tavolo, dovrebbe esserci tra due settimane. È intanto salito ad almeno 89 morti e oltre cento feriti il bilancio dell’attacco con missili contro un mercato a Duma, sobborgo a est di Damasco controllato dai ribelli. È infine di 27 morti e 72 persone tra feriti e dispersi il bilancio di diversi bombardamenti aerei avvenuti nella città di Aleppo, nel nord della Siria. Lo ha denunciato l’Osservatorio siriano per i diritti umani, secondo cui non è chiaro se a colpire siano stati aerei del governo di Damasco o aerei russi Medio Oriente: Gaza corre con Stefano Cucchi di Michele Giorgio Il Manifesto, 31 ottobre 2015 "Essere incarcerati, subire abusi e violenze durante gli interrogatori fa parte della vita di tutti palestinesi. Ecco perché ricordiamo Stefano", spiega Haitham Ghanem, promotore dell’iniziativa e ingegnere della ong "Sunshine 4 Palestine". Ieri in Cisgiordania altri due palestinesi uccisi dopo aver ferito tre israeliani. Un bimbo di otto mesi morto per i gas lacrimogeni. Ricordare a Gaza con un raduno e una corsa un ragazzo ucciso sei anni fa nella lontana Italia mentre era detenuto, potrebbe apparire un po’ strano. Nella Striscia problemi certo non ne mancano e l’Intifada di Gerusalemme nei giorni scorsi ha visto una quindicina di giovani di Gaza cadere sotto il fuoco dei soldati durante le manifestazioni lungo le linee con Israele. Per Haitham Ghanem, promotore dell’iniziativa e ingegnere della ong "Sunshine 4 Palestine", il legame tra Gaza e Stefano Cucchi è evidente. "Essere incarcerati, subire abusi e violenze durante gli interrogatori fa parte della vita di tutti palestinesi. Ecco perché ricordiamo Stefano", ci spiega Ghanem che questa mattina alle 10 si riunirà con alcune decine di palestinesi per aderire alla maratona "Corri con Stefano" in programma a Roma e in altre città italiane ed europee. "Ci sentiamo vicini alla sorella di Stefano, Ilaria, e a tutta la famiglia Cucchi - aggiunge Ghanem - perché da anni non smettono di chiedere la verità proprio come tante famiglie palestinesi lottano per avere giustizia per i loro cari rinchiusi nelle carceri israeliane". L’ingegnere di Gaza vorrebbe portare di persona, a Roma, la sua solidarietà e quella di tutta la Striscia alla famiglia Cucchi ma non può farlo. Come molte migliaia di palestinesi di Gaza non è in possesso di documenti riconosciuti da Israele (e dall’Egitto) e non può lasciare la sua terra. Vite sotto occupazione che si trascinano da decenni. Anche queste storie spiegano la rabbia di tanti giovani in questo mese di "terza Intifada", in cui sono stati uccisi almeno 67 palestinesi, molti dei quali colpiti, denunciano le autorità israeliane, dopo aver compiuto accoltellamenti e attacchi violenti. "Qualcuno la chiama Intifada di Gerusalemme, altri l’Intifada di Hebron la città ora al centro dello scontro, altri ancora esitano a definirla una Intifada. In ogni caso è l’Intifada dei giovani, dei ragazzi, di chi vuole la libertà e non vuole arrendersi, di chi non appartiene a partiti politici. Nessuno si lasci ingannare dal calo della rivolta registrato in questi ultimi giorni, riprenderà", prevede l’analista Hamada Jaber del Centro "Policy and Survey Research" di Ramallah. A Hebron comunque la rivolta non accenna a placarsi. Anche ieri centinaia di giovani hanno manifestato a Bab Zawiye, sul confine tra la zona sotto il controllo dell’Anp di Abu Mazen e quella sotto l’autorità israeliana in cui poco meno di 700 coloni ebrei vivono insediati tra oltre 20 mila palestinesi. La tensione è alta in questa città seconda solo a Gerusalemme per importanza storica, politica e religiosa. Le proteste sono alimentate anche dalla decisione dell’esercito israeliano di non restituire i corpi di 13 palestinesi uccisi durante i tentati accoltellamenti (alcuni dei quali, denunciano con forza i palestinesi, non sarebbero mai avvenuti). Le autorità militari hanno annunciato la restituzione solo di cinque salme (Bayan al Esseily, 17 anni, Dania Irsheid, 17, Hussam al Jaabari, 17, Bashar al Jaabari, 15, e Tareq al-Natsheh, 16). Ieri altri due palestinesi sono stati uccisi dopo aver colpito ferito tre israeliani: al posto di blocco di Zaatara (a 10 km da Nablus) e a una fermata del tram a Gerusalemme. Un bimbo di otto mesi, Ramadan Thawabta, sarebbe morto a causa del gas lacrimogeno sparato da soldati a Beit Fajjar (Betlemme). Stati Uniti: Hillary Clinton si dichiara contraria all’abolizione della pena di morte Askanews, 31 ottobre 2015 I sue due rivali per la nomination sono invece favorevoli. Hillary Clinton è contraria all’abolizione della pena di morte. La candidata alla nomination democratica per le elezioni presidenziali statunitensi del prossimo anno si è posizionata sul fronte opposto ai due rivali del suo partito, Bernie Sanders e Martin OMalley, che si sono dichiarati favorevoli all’abolizione. Ieri, pur sottolineando che le esecuzioni sono troppo frequenti, ha risposto così a una domanda, durante un incontro a Manchester, in New Hampshire: "Non sono favorevole all’abolizione, perché penso davvero che ci siano ancora determinati casi vergognosi meritevoli della pena di morte". L’ex segretario di Stato, grande favorita per la nomination democratica, ha poi aggiunto: "Vorrei però che le esecuzioni fossero molto limitate e rare, al contrario di quanto si vede nella maggior parte degli Stati". Clinton aveva espresso il suo sostegno alla pena di morte già quando era candidata al Senato, nel 2000. Suo marito Bill, ricorda il New York Times, estese l’uso della pena capitale quando era presidente, firmando nel 1994 una legge contro il crimine che ora è in parte criticata anche da Hillary, perché avrebbe provocato il sovrappopolamento delle carceri e costretto a pene dure e "inique" (per usare una parola pronunciata dal presidente Barack Obama) migliaia di persone colpevoli di reati non violenti. Stati Uniti: al via scarcerazione di 6mila detenuti federali, per ridurre il sovraffollamento Adnkronos, 31 ottobre 2015 Gli Stati Uniti hanno dato oggi il via alla liberazione di 6mila detenuti dai penitenziari federali, con l’obiettivo di ridurre l’affollamento carcerario. L’operazione, una delle più ampie di questo tipo nella storia degli Stati Uniti, è stata confermata dal Federal Bureau of Prisons e proseguirà anche domani. La scarcerazione di massa giunge dopo che la commissione americana per le pene si è pronunciata a favore di una riduzione degli anni di carcere comminati per reati non violenti legati alla droga. Le nuove linee guida potrebbero portare a breve al rilascio di altri 46mila detenuti. A luglio Barack Obama è stato il primo presidente americano a visitare un carcere durante il suo mandato, nell’ambito di una iniziativa politica per riformare il sistema giudiziario, con particolare attenzione alla riduzione delle pene per alcuni reati. Attualmente negli Stati Uniti vi sono 2,2 milioni di carcerati, cifra che rappresenta il 25% dei detenuti di tutto il mondo. Il 60% dei prigionieri delle affollate carceri americane sono afroamericani o latinoamericani. Convinto che molte pene siano eccessivamente lunghe, Obama ha graziato decine di detenuti delle carceri federali. Stati Uniti: Guantánamo; esce dopo 14 anni ultimo recluso Gb, non è mai stato processato Ansa, 31 ottobre 2015 Shaker Aamer non è più il prigioniero "239" di Guantánamo. Dopo un "lungo incubo" di quasi 14 anni - in cui ha ripetutamente denunciato di aver subito maltrattamenti e di torture - è stato liberato ed è tornato nel Regno Unito: era l’ultimo britannico detenuto nel supercarcere speciale per sospetti "terroristi di Al Qaeda" realizzato nella base militare Usa sull’isola di Cuba. Aamer, 48 anni, di origine saudita ma residente a Londra e col diritto di rimanere indefinitamente nel regno dove ha una moglie (cittadina britannica) e 4 figli, è atterrato oggi pomeriggio a bordo di un piccolo jet nell’aeroporto di Biggin Hill, alle porte della capitale. Sempre scortato da funzionari di sua maestà, è stato trasportato in ospedale per essere sottoposto ad una serie di visite e valutare la sue condizioni fisiche, peggiorate progressivamente durante la durissima detenzione dietro le sbarre. Il premier David Cameron ha accolto con soddisfazione la notizia della sua liberazione, alla quale la diplomazia di Londra lavorava da tempo. Catturato a fine 2001 in Afghanistan come sospetto militante di un gruppo di talebani in contatto con Osama bin Laden, Shaker Aamer era entrato a Guantánamo nel 2002. Da allora non è mai stato incriminato o sottoposto a processo dalle autorità Usa. In Gran Bretagna non subirà ora ulteriori forme di detenzione, ha assicurato Downing Street, e può anzi riabbracciare la sua famiglia fin da subito. Saranno comunque prese misure per "garantire la sicurezza pubblica": è probabile quindi che venga affidato al controllo dell’antiterrorismo di Scotland Yard, seppur per "precauzione". I suoi familiari hanno parlato in ogni modo di "miracolo" e "giorno meraviglioso", dopo gli anni in cui hanno temuto il peggio per le pesanti condizioni imposte dietro i reticolati di Guantánamo. Aamer, oltre a respingere ogni accusa rivolta contro di lui - aveva più volte affermato di trovarsi in Afghanistan con una associazione di volontariato -, ha denunciato di aver subito torture da parte di militari americani e di averle viste fare ad altri prigionieri, anche alla presenza di agenti britannici. Nuovi dettagli imbarazzanti per i governi di Washington e di Londra potrebbero dunque emergere ora che Aamer può parlare liberamente coi media. L’ex prigioniero del resto giura di volere adesso concentrarsi prima di tutto sulla famiglia e su quell’ultimo figlio, oggi 13enne, che non ha mai potuto conoscere. Solo in un secondo momento intende impegnarsi per "una completa riabilitazione" del suo nome. Ma potrebbe anche seguire l’esempio di altri prigionieri britannici tornati dallo stesso inferno, che hanno siglato un accordo col governo per tenere la bocca chiusa ricevendo in cambio indennizzi da milioni di sterline per le violenze subite in carcere. Attualmente sono 112 i detenuti di varie nazionalità che ancora restano rinchiusi nel supercarcere di Guantánamo, nonostante la promessa di chiuderlo fatta all’inizio del suo primo mandato dal presidente americano Barack Obama. E tramite un portavoce, Cameron ha oggi dal canto suo ribadito la necessità di "sostenere gli sforzi" per arrivare davvero alla tanto attesa chiusura. Montenegro: inchiesta giornalistica svela "trattamenti di favore" per detenuti eccellenti globalist.it, 31 ottobre 2015 Nei penitenziari del Montenegro si scoprono "trattamenti di favore" per detenuti eccellenti, primo fra tutti Dusko Saric, fratello del boss che in Italia gestiva il traffico di cocaina. Lazar Radjenovic è stato arrestato due volte, in entrambi i casi con l’accusa di abuso d’ufficio e sottrazione di denaro pubblico: la seconda condanna ha portato diritto in carcere l’ex sindaco di Budva, rinomata località della riviera montenegrina, e se la notizia ha fatto il giro del Paese, altrettanto si può dire delle foto scattate dallo stesso Radjenovic nella sua cella presso il penitenziario di Spuz. Dietro di lui, nelle immagini postate a parenti e amici, stavano i suoi due compagni di stanza fra cui Damir Mandic, condannato per il coinvolgimento nell’omicidio del giornalista Dusko Jovanovic del quotidiano nazionale "Dan". Il caso delle foto "rubate" nella cella dell’ex sindaco si è trasformato rapidamente in uno scandalo a livello nazionale, che ha scoperto un sistema di infiltrazioni, introduzioni di oggetti illegali ed inspiegabili trattamenti di favore nei confronti di alcuni carcerati eccellenti. Dagli inizi del 2013 ad agosto di quest’anno, secondo i dati in possesso dell’amministrazione carceraria, sono stati sequestrati 1291 telefoni cellulari nel solo penitenziario di Spuz. I telefonini non sono ammessi nelle celle dei detenuti, ricorda Vladan Pavicevic, investigatore privato di Podgorica intervistato dal "Novi Magazin". "Se in un’unità detentiva vengono rinvenuti dei telefoni o altri apparecchi di tecnologia avanzata, è chiaro che si infrange il regolamento di un carcere". Avere un telefonino significa poter contattare, spiega Pavicevic, familiari ma anche avvocati, e la fuga di notizie all’esterno è particolarmente rischiosa quando si tratta di indagini che riguardano il crimine organizzato. I carcerati trovano evidentemente delle connivenze all’interno delle strutture, come dimostrato nel 2010 con il rinvenimento, in un pacco alimentare destinato alla mensa, di 10 cellulari ancora confezionati. Sempre nel carcere di Spuz, nel 2012, un’indagine interna fece emergere la presenza di 4 cellulari all’interno del settore di massima sicurezza. Si venne così a scoprire che i secondini guadagnavano dai 400 ai mille euro per apparecchio, e il prezzo dipendeva dal settore, più o meno sorvegliato, a cui era venduto il telefono. Lo scandalo si allargò a macchia d’olio quando alcuni dei carcerati cominciarono a postare direttamente le loro foto su Facebook. "Ecco come è fatta Spuz", commentava sotto la foto della propria cella I.R. di Podgorica, condannato per duplice omicidio. Un altro detenuto, V.S., scriveva sotto le immagini di essere "per natura una persona umile, ma qui in prigione - proseguiva - vivo davvero come un re". Il trattamento, naturalmente, non è per tutti uguale, e l’anno scorso è stato scoperto forse il caso di miglior permanenza, a memoria d’uomo, nelle carceri montenegrine. L’istituto penitenziario è questa volta quello di Bjielopolje, e il detenuto si chiama Dusko Saric, conosciuto alle cronache italiane per essere stato arrestato nel 2010 a seguito delle indagini della Procura di Milano. Le autorità italiane avevano condotto per tre anni pedinamenti e intercettazioni su un flusso di cocaina che era arrivato anche fino a mille chili al mese, e che veniva gestito dalla banda con a capo il fratello maggiore Darko. Il Montenegro ha condannato Dusko a 8 anni per il riciclaggio di 22 milioni di euro derivanti da proventi illeciti, e la sua permanenza a Bijelopolje ha assunto dei contorni quasi leggendari dopo che i media hanno scoperto dei "particolari lavori di ristrutturazione" ordinati all’interno della sua cella. Appena giunto in carcere, secondo le fonti riservate dei giornali, Saric junior si sarebbe lamentato delle condizioni in cui versava la sua stanza. In particolare non poteva sopportare lo stato del bagno, sempre affollato, utilizzato in comune con gli altri carcerati e senza la cabina per la doccia. Non si sa bene da dove sia partito il via libera per dei lavori che hanno coinvolto un’intera squadra di muratori, e che soprattutto sono stati eseguiti rigorosamente sotto istruzioni e secondo il gusto personale di Dusko. Dopo giorni di intensa attività, nel bagno sono comparse piastrelle nuove e cabine per la doccia, una per ogni detenuto che doveva frequentare lo spazio in comune. A onor del vero le opere di ristrutturazione sono state eseguite interamente a spese di Dusko e non a carico dei contribuenti montenegrini: forse anche per questo la dirigenza carceraria ha chiuso un occhio su un’operazione condotta per così lungo tempo alla luce del sole, e sempre per questo motivo, forse, è stato permesso più volte al giovane Saric di entrare nella stanza del direttore per due chiacchiere e un caffè, come raccontano alcuni detenuti. Nonostante i benefits, la permanenza di Saric a Bijelopolje non è stata poi così lunga e dopo due sentenze di condanna al giovane Dusko è stato concesso di trascorrere le sue giornate presso l’Hotel Mediteran a Budva. Anche questo resort esclusivo, secondo la pubblica accusa che in Serbia indaga sul fratello maggiore Darko, potrebbe fare parte dell’impero di famiglia nato con il riciclaggio dei proventi del narcotraffico. Gran B.: dopo mobilitazione online transgender ottiene trasferimento in carcere femminile Ansa, 31 ottobre 2015 Giudice dice "no", ma autorità penitenziarie la trasferiscono. Alla fine la sua battaglia l’ha vinta: Tara Hudson, transgender inglese di 26 anni, potrà scontare i 3 mesi di reclusione a cui è stata condannata in un carcere femminile, e non fra i detenuti della prigione per soli uomini di Bristol a cui era stata inizialmente assegnata. A deciderlo - sull’onda di una mobilitazione online in suo favore e della denuncia di possibili abusi sessuali - sono state oggi le autorità penitenziarie britanniche, alle quali un giudice aveva rinviato la questione dopo aver respinto un primo ricorso presentato dalla difesa. Arrestata e condannata a 12 settimane di detenzione per un episodio di aggressione e lesioni, Hudson si era riconosciuta colpevole, ma aveva chiesto da subito di evitare almeno di finire in una "gabbia" tutta maschile. In un primo momento non c’era stato nulla da fare. Essendo uomo all’anagrafe, era stata rinchiusa in un carcere di Bristol privo di sezioni femminili. Di qui la protesta del suo avvocato e di sua madre, che avevano paventato il rischio di violenze e poi denunciato molestie subite fin dai primi giorni dopo il suo arrivo. Malgrado questo, il ricorso sottoposto stamattina al giudice Llewelyn Sellick di Bristol era andato a vuoto. Il magistrato aveva rifiutato di disporre un trasferimento d’autorità o di concedere una qualsiasi attenuante, in nome della fedina penale già macchiata da Hudson con "numerosi reati". E si era limitato a passare la palla alla direzione carceraria. Finché quest’ultima non ha deciso in serata - come riferisce la Bbc - di cedere, spostando la bionda transgender in una cella del penitenziario di Eastwood Park, nel South Gloucestershire, in cui sono recluse detenute donne. A pesare è stata evidentemente la mobilitazione pubblica promossa a sostegno di Tara Hudson: con un appello che nelle ultime ore è arrivato a sfiorare le 150.000 firme.