Giustizia: istituzioni e fratture, le nostre regole perdute di Sabino Cassese Corriere della Sera, 30 ottobre 2015 Che brutto spettacolo! Un sindaco rivelatosi inadatto a svolgere la sua funzione, che prima si dimette, poi ritira le dimissioni. Funzionari della Agenzia delle Entrate che si rivoltano contro la Costituzione e la Corte costituzionale, sostenendo che è legittimo essere promossi senza concorso. Giudici amministrativi che esprimono opinioni su materie sottoposte al loro giudizio e critici che pretendono decisioni che i giudici non possono prendere, perché richiedono una legge. Una Procura che inizia una indagine sul vertice della Banca d’Italia, per poi dichiarare che la questione è tutta da verificare e da valutare. Il presidente dell’Autorità anticorruzione, chiamato a svolgere compiti onerosi e importanti, che dà pagelle alle città. Parlamentari che preannunciano bordate di emendamenti a documenti finanziari che dovrebbero essere o accettati o respinti. Sembra che tutti abbiano deciso di mettersi a giocare con le istituzioni, chi facendo appello al popolo, chi debordando dal suo compito, chi dimenticando le regole, chi cercando dalle corti quel che solo il Parlamento può dare, chi dando voce agli interessi più disparati, a danno dell’equilibrio di bilancio. È una specie di "rompete le righe", dal quale saggiamente il governo si è tenuto fuori, ma che richiede una riflessione sullo stato delle nostre istituzioni e sul modo nel quale esse vengono usate da chi le gestisce, mettendole - come è stato giustamente rilevato - sotto "stress". Questi sono casi che i sociologi chiamano di anomia, ovvero di assenza di norme o di disprezzo delle norme, siano esse leggi, siano esse regole di correttezza. E l’anomia danneggia la collettività. Mentre il sindaco di Roma dà e poi ritira le dimissioni, preoccupandosi solo del proprio ruolo, chi si interessa della città? I funzionari dell’Agenzia delle Entrate promossi senza concorso protestano e cercano sanatorie impossibili, ma chi si interessa di fare regolari concorsi per coprire quei posti? Poco opportunamente un magistrato del Consiglio di Stato ha manifestato opinioni su una questione che doveva decidere, mentre dall’altra parte si voleva la trascrizione in Italia dei legami familiari stabiliti fuori d’Italia. Così si perde di vista il vero problema, già indicato da anni dalla Corte costituzionale: bisogna dare riconoscimento a questi legami, e deve farlo il Parlamento. Era proprio necessario che la procura di Spoleto rendesse pubblica la notizia della indagine sulla Banca d’Italia prima di verificare e valutare la consistenza delle accuse, specialmente se si considera che si tratta di corruzione, abuso d’ufficio e truffa e che si procede nei confronti di una istituzione che regge le sorti del sistema bancario? Ha considerato la Procura la ferita che viene così inferta alla fiducia che deve circondare il credito e chi lo controlla? Il presidente Cantone ha un compito molto pesante: quel che importa è che continui a svolgerlo, senza distrazioni. La Costituzione vuole che i documenti finanziari, che necessariamente richiedono il rispetto di un equilibrio tra entrate e spese, siano elaborati e presentati dal governo al Parlamento: se questo si mette a riscriverli, con migliaia di emendamenti, dove va a finire l’equilibrio di bilancio? Abbiamo dimenticato tutti lo splendido finale di uno dei capolavori di Federico Fellini, Prova d’orchestra (1979), quello nel quale il direttore ricorda agli orchestrali, con accento tedesco, "ognuno deve dedicare attenzione al suo strumento. Le note salvano noi. La musica salva voi. Aggrappatevi alle note, seguite le note. Noi siamo musicisti, voi siete musicisti. E siamo qui per provare". Giustizia: gli anticorpi da costruire contro la corruzione di Dario Di Vico Corriere della Sera, 30 ottobre 2015 Siamo un Paese marcio? Dallo scandalo Anas al caso della Rete ferroviaria italiana, sembriamo incapaci di reagire a un male endemico. Invece tanti segnali dalla società civile ci dicono che non è così: il nostro tessuto sociale può adeguarsi, nonostante le apparenze, ai più virtuosi standard internazionali. Accade spesso che la prima notizia importante del mattino sia un arresto, una retata o una nutrita serie di perquisizioni "in diverse città d’Italia". Ieri si è trattato di Rete ferroviaria italiana, qualche giorno prima dell’Anas, la settimana addietro di un grande Comune. I primi commenti che cominciano quasi subito a circolare in Rete recano "vergogna" come parola chiave e sono solo l’inizio di un fiume di improperi, recriminazioni, e insulti che ci accompagna fino ai talk show della prima serata. Il motivo conduttore della corrente di indignazione è che siamo un Paese marcio, destinato a scomparire dalla mappa geo-politica del globo e che siamo riusciti a collezionare i peggiori amministratori pubblici del pianeta, i più corrotti funzionari dello Stato e gli imprenditori più infingardi che ci siano in circolazione nell’orbe terracqueo. Un’affermazione di questo tipo se fatta in pubblico applausi a manetta e i più bravi nello scandirla arrivano a conquistarsi una standing ovation. A dar loro ragione uscirà di sicuro nei giorni successivi una ricerca di un organismo internazionale che attesterà come il nostro Paese sia ormai al quattrocentesimo posto delle graduatorie mondiali della trasparenza appena sopra la Colombia dei narcos. Ma è davvero così? Siamo un Paese che ha perso totalmente la virtù e nel quale il malaffare avanza incontrastato? Per rispondere a domande così impegnative conviene procedere per approssimazioni successive. La prima riguarda il legame tra ampiezza della presenza pubblica in economia e diffusione della corruzione. Se a Roma saccheggiare l’Atac è diventato l’obiettivo numero uno del partito della mazzetta, è anche perché si è ridotto il perimetro dell’economia pubblica a disposizione delle incursioni affaristiche. Le privatizzazioni non saranno state uno straordinario esempio di politica industriale ma hanno comunque delimitato la presenza dello Stato e statisticamente ridotto le occasioni di corruzione. È chiaro che si tratta di una considerazione di carattere quantitativo, non sosterrei mai che basta privatizzare per eliminare il malaffare, mi limito a dire che è una condizione utile e che quando si verifica obbliga i faccendieri a ridurre il raggio delle proprie ambizioni. Se deve rubare su mense per i migranti e forestali siciliani il partito della corruzione registra un arretramento e non certo un’avanzata. Un ragionamento analogo si può fare in merito al valore aggiunto sprigionato dalla società civile italiana. Tradizionalmente grazie ai corpi intermedi il nostro tessuto sociale ha svolto un ruolo di coesione e di solidarietà che spesso ha surrogato l’assenza di politiche pubbliche efficaci. Abbiamo un terzo settore più ampio di altri Paesi anche perché l’azione dal basso ha fatto da surrogato alla carenza di indirizzi top down. Se fino al Novecento la società civile ha garantito questo tipo di legature con i processi di internazionalizzazione il suo ruolo è cambiato. Ha saputo in qualche maniera intercettare il cambio di paradigma e ha preso come riferimento la media di quello che fanno gli altri europei. Questo processo ha generato una crescita diffusa di competenze sottoposte a concorrenza internazionale e quindi vere. La ragione forte della differenza tra Milano e Roma, evocata da Raffaele Cantone, sta proprio nella diversa qualità delle rispettive società civili, nella loro differente esposizione al confronto (quantomeno) continentale. So bene che anche in questo caso tutto ciò non garantisce la morte della mazzetta ma ne riduce solo statisticamente - uso ancora questo avverbio - la frequenza. C’è quindi tanto da monitorare e studiare sull’evoluzione delle nostre società anche per capire come cambia la corruzione e questo compito tira inevitabilmente in ballo giornalisti e magistrati. Troppo spesso anche loro vittime della pigrizia. Giustizia: duello Anm-Cantone, le strategie delle toghe per il potere di Carlo Nordio Il Messaggero, 30 ottobre 2015 La tregua fragile e apparente conclusa, dopo gli interventi dei ministri Orlando e Boschi al congresso di Bari, tra l’Associazione nazionale magistrati e la politica, è durata poco. Il sindacato delle toghe ha attaccato Raffaele Cantone, che a sua volta ha minacciato di uscirne. Gli è stato replicato che le porte sono aperte. E molti sospettano che, attaccando Cantone, la "casta" dei magistrati abbia inteso attaccare il governo. Per la verità, se l’Anm avesse voluto criticare Renzi per la sua politica giudiziaria avrebbe potuto e dovuto farlo l’anno scorso quando, con un provvedimento irrazionale, ha rottamato i 500 magistrati più alti in grado, pensionandoli coattivamente all’età di 70 anni, e decapitando Corti, Tribunali, Procure e Tar che saranno, chi più chi meno, paralizzati. Ma l’Anm ha taciuto, forse perché quei posti fanno gola a molti, e già si sono aperte le guerre di successione. E questo la dice lunga sull’interesse che il sindacato ha per l’efficienza della giustizia. A parte il decreto sulla rottamazione e qualche altra iniziativa più di facciata che di sostanza, il governo ha tuttavia operato bene per il funzionamento della giustizia e la lotta all’illegalità. Lo stesso organismo anticorruzione comincia a funzionare, e l’attività di semplificazione e razionalizzazione normativa prosegue a fatica, ma con tenacia. Se c’era un momento in cui la magistratura poteva e doveva appoggiare il governo era proprio questo, e invece così non è andata. Le ragioni sono probabilmente due. La prima, che la rappresentatività dell’Anm e delle correnti che la compongono è in forte crisi, e segue, tardivamente, il tramonto delle ideologie. In origine, anche se ufficialmente tutti lo hanno sempre negato, l’Anm era una sorta di parlamentino con schieramenti paralleli a quelli dei partiti, con referenti e agganci ben individuati. Oggi tutto questo sta scomparendo, e lo stesso linguaggio dei magistrati sta radicalmente cambiando. Quel monotono e plumbeo socio-giuridichese che caratterizzava gli estenuanti dibattiti sul ruolo del giudice sono sempre più sostituiti da problematiche concrete: personale, risorse, retribuzioni. Come ogni organismo in crisi interna anche l’Anm cerca un avversario esterno, e questo è inevitabilmente la politica. Finché si trattava di Berlusconi, per molti versi vulnerabile, la guerra era facile. Con Renzi è tutto diverso, e questa tattica non funziona. La seconda, e conseguente ragione, è che da vent’anni la magistratura si era abituata a condizionare la politica, approfittando della sua debolezza, e dell’inefficienza e della pusillanimità di molti suoi esponenti. L’ha condizionata sia criticando talvolta pesantemente e irritualmente il parlamento sovrano, sia prestando a quest’ultimo dei magistrati distintisi in indagini nei confronti di politici. Errore gravissimo, perché un magistrato dovrebbe essere ineleggibile non solo quando è in servizio, ma anche dopo, per evitare sospetti di cointeressenze pregresse. E tuttavia di questo pasticcio nessuno si era mai lamentato. Ora, e solo ora, lo si rimprovera a Cantone, che peraltro riveste un ruolo tecnico, e non si è mai candidato. Perché? Perché, per fortuna, il primo ministro sembra avere le idee chiare sulla divisione dei poteri. Questo, a molti dà fastidio. E non potendo attaccare lui, si attacca il collega come se fosse un traditore. Il dottor Cantone ha reagito con coraggio e dignità. Ma è un dato di fatto che molte toghe esternano le loro perplessità sul potentissimo sindacato che le governa soltanto quando ne sono uscite, e generalmente dopo la pensione. Questo perché la tanto declamata indipendenza della magistratura è una favola vuota, quando si tratta di mettersi in conflitto con le correnti che hanno in pugno la carriera del singolo magistrato. È facile criticare il ministro, che non ha nessun potere nei nostri confronti. Più difficile è farlo con l’Associazione che, attraverso il Csm, decide le tue sorti professionali e magari disciplinari. Anche su questo Renzi avrebbe motivo di riflettere. Giustizia: "potrei uscire dall’associazione", alta tensione tra Cantone e l’Anm di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 30 ottobre 2015 Sabelli: "Decida liberamente". Pesano i malumori su ruolo e opinioni del commissario. "Volevo fare un gesto eclatante, uscire dall’Associazione nazionale magistrati; ci sto riflettendo, perché l’Anm è casa mia", annuncia di prima mattina Raffele Cantone, a commento delle critiche giunte dall’ultimo congresso del sindacato dei giudici. "Decida liberamente, ma spero rifletta anche sul valore dell’Anm e sull’azione che da sempre porta avanti in difesa dell’autonomia dell’indipendenza della magistratura", ribatte a stretto giro Rodolfo Sabelli, presidente dell’Associazione. Un botta e risposta che esplicita una volta di più il contrasto tra l’ex pm eretto a simbolo dell’anticorruzione dal governo Renzi e l’organismo di cui lui stesso è stato esponente di rilievo, quando presiedeva la sezione di Napoli, una decina d’anni fa. Ufficialmente "il caso" nasce dalle dichiarazioni di fine estate in cui Cantone disse che non si sentiva rappresentato "da chi si batte per mantenere 45 giorni di ferie all’anno", che le correnti stanno diventando "un cancro" e che il Consiglio superiore della magistratura è ridotto a "centro di potere di cui si fa fatica ad accettare il ruolo". Sabelli gli rispose subito, tacciandolo di essere "offensivo e ingiusto", e lo scorso fine settimana il segretario dell’Anm Maurizio Carbone ha definito pericolose per l’autonomia e l’indipendenza dei giudici certe prese di posizione di chi "ha intrapreso altri percorsi professionali". Come il presidente dell’Anticorruzione. Tuttavia la contesa non è solo sui giudizi antitetici rispetto al ruolo dell’autogoverno e del sindacato dei giudici. E non riguarda solo Cantone e i vertici dell’Anm. Nel congresso si respirava un’insofferenza diffusa verso chi ha acquisito grande visibilità grazie ad alcuni e processi quando faceva l’inquirente (in particolare quelli al clan dei Casalesi, raccontati in più libri di successo)e poi l’ha sfruttata - questa è l’accusa - per ottenere un incarico che ne ha moltiplicato popolarità e occasioni per interventi pubblici. Spesso a sostegno dell’esecutivo e del presidente del Consiglio, che l’ha elevato a spot permanente della sua azione contro la criminalità. Finché le esternazioni erano confinate alla lotta al malaffare, anche in senso lato ed estendendo molto quel concetto, c’era chi storceva il naso ma senza criticare pubblicamente. Mugugni sommersi. Quando invece il ragionamento ha preso di mira il "sindacato di categoria" e l’organo di autogoverno, la contrapposizione è diventata esplicita e alla luce del sole; come se Cantone non fosse considerato solo la foglia di fico di un potere politico che ancora una volta è ricorso al potere giudiziario per cercare una garanzia di legalità e pulizia, bensì un cuneo per mettere in discussione l’autonomia e l’indipendenza delle toghe, attraverso una delegittimazione dall’interno della categoria. Naturalmente Cantone non la pensa così. "Io non ho mai fatto politica, e sono sempre stato indipendente, prima e adesso", ha ribadito ieri per rintuzzare ogni sospetto di essersi messo al servizio del potere esecutivo. Considera l’incarico affidatogli dal Parlamento all’unanimità un servizio alle istituzioni, prosecuzione dello stesso impegno svolto con la toga sulle spalle, con altri mezzi e altri compiti (anche al Massimario della Cassazione, ultimo ufficio occupato, non si sentiva molto utile). E sostiene che certi giudizi sulla degenerazione delle correnti, nonché sul ruolo di Anm e Csm, dovrebbero essere letti come un sostegno per quegli organismi; uno aiuto a "guarire", non a distruggere. Ma per adesso l’interpretazione è stata diversa. Giustizia: Cantone, Gratteri, Sabella, mezzi magistrati e mezzi politici dell’Italia renziana di Salvatore Merlo Il Foglio, 30 ottobre 2015 Il guaio è che non si capisce se sono magistrati o politici, e forse non lo sanno più nemmeno loro, spaesati come il resto degli italiani di fronte a uno di quei misteri linguistici che sempre, in questo paese, occultano un pasticcio. Prendiamo per esempio il dottor Nicola Gratteri, che è procuratore aggiunto a Reggio Calabria, ma un anno fa è stato anche nominato da Renzi - che lo voleva addirittura ministro della Giustizia - presidente della commissione per la riforma Antimafia. Ebbene, dice il dottor Gratteri: "In Parlamento ci sono molte leggi, molta carne al fuoco. In questo momento sembra un lavandino otturato". E insomma, mezzo politico e mezzo magistrato, un po’ tecnico e un po’ no, corteggiato come candidato sindaco di Roma ("ma sono più utile da magistrato, almeno per come è oggi la politica") Gratteri, come Raffaele Cantone, che è il magistrato benemerito della lotta alla camorra nominato (da Renzi) commissario anti corruzione, e come Alfonso Sabella, che è invece il magistrato antimafia nominato assessore alla Legalità del comune di Roma, svela un’inedita antropologia nel paese che già aveva affidato ai giudici la scienza, la storia e la politica: l’antropologia di quelli che rimangono a metà strada, che non scelgono, un po’ di qua e un po’ di là, quelli che si travestono e ci confondono. Mercoledì scorso, Cantone si è espresso con sinuosità e spessore di politico: "Milano è tornata a essere capitale morale. Roma deve costruirsi gli anticorpi". Ma ieri ci ha poi ricordato d’essere in effetti un magistrato: "Potrei lasciare l’Anm. E non ho mai fatto politica". E c’era una volta il pm che prima accusava e poi assimilava, che indossava la toga e infine si appropriava del ruolo dell’imputato, che lo sostituiva persino in Parlamento, c’era insomma una volta Antonio Di Pietro, mentre oggi ci sono Gratteri, Sabella e Cantone, creature vaghe, enigmatiche, indefinibili come Conchita Wurst, l’ermafrodito che al tempo stesso ci incuriosisce e ci spaventa. E intorno a questa nuova e sfuggente antropologia, che d’un tratto sublima le ambiguità dei togati-candidati, cioè dei vecchi Ingroia ed Emiliano, dei Di Pietro e dei De Magistris, che partirono per moralizzare e finirono moralizzati, adesso si mettono in moto tutte le possibili letture e riletture, variazioni e contaminazioni di quell’antica e complessa vicenda che da Tangentopoli in poi è stata battezzata "cortocircuito politico-giudiziario", o meglio ancora "imperialismo giudiziario", storia d’energia popolare e di strumentalizzazione. "Io non ho mai fatto politica nella mia vita, rivendico la mia indipendenza ogni giorno al pari di quando ero in magistratura", ha detto Cantone. "Ero", ha detto. Appunto. Un lapsus ma anche no, perché magistrato lo è ancora eppure in effetti non lo è più. E davvero Cantone, come Gratteri e come Sabella (televisivamente ubiquo: da Sky a Raiuno, da Vespa a Porro), riempie le sue giornate d’innocue enormità mondane e di Palazzo, ha insomma il piacere d’essere molti, di vedere tutti i se stesso, essere a discrezione politico e togato, essere un altro, dunque d’ipotizzare l’abbandono dell’Anm ´(da politico?) e di aiutare (da magistrato?) la candidatura renziana di Giuseppe Sala a sindaco di Milano: "A Roma purtroppo non ho un Giuseppe Sala con cui interloquire, e questo mi manca moltissimo". E si crea così un tale clima di discorsi, di convegni, di dichiarazioni pubbliche, d’interviste ai quotidiani, di polemiche radiofoniche, di lesto manovrar d’apparizioni televisive, d’incarichi para amministrativi, di candidature a sindaco, a ministro, a commissario speciale, a salvatore supremo della patria o del comune disastrato, per cui la natura di ciascuno di loro si cancella e si ricompone, si trasforma e si confonde. E non si riesce più a distinguere chi è chi, né cosa fa. Anche l’Anm è rimasta spiazzata. E la politica è evidentemente una malattia che li contagia, ma che non può essere stata contratta durante gli studi universitari di Giurisprudenza né durante la preparazione del concorso in magistratura. È il mondo politico ad averli voluti così come sono, mezzi politici e mezzi magistrati, sospesi nel mondo di mezzo - ops - assessori alla Legalità, commissari alla corruzione, autorità antimafia capaci d’esprimersi su qualsiasi argomento e su qualsiasi canale, capaci di coltivare allo stesso tempo una doppia ambizione (laica e togata), quello stesso mondo che mentre critica il protagonismo dei magistrati e sottilmente li accusa di far politica con la toga indosso, intanto riempie di toghe la politica (perché non ha una classe dirigente all’altezza). Così alla fine, loro, i mezzi e mezzi, fondatori di un metaforico albo dei moralizzatori cui la politica può attingere ad libitum, ovviamente dicono di non far politica, quando sarebbe più rassicurante, opportuno e in linea con il loro impegno, che invece facessero una scelta, preventiva e liberatrice. Giustizia: perché l’Anm ha paura di Raffaele Cantone di Claudio Cerasa Il Foglio, 30 ottobre 2015 Nell’attesa di capire che animale politico diventerà Raffaele Cantone c’è un aspetto particolare del cantonismo che merita di essere messo in rilievo, e che costituisce una piccola medaglia al valore per il presidente dell’Autorità anti corruzione. Cantone ha molti difetti, fa parte di quella folta schiera di magistrati convinta che il ruolo di un procuratore della Repubblica debba andare al di là della singola attività legata ai processi e anche due giorni fa ha dato prova di appassionarsi molto di pedagogia provando a dare una sua valutazione politica e culturale sulle differenze che sussistono oggi tra Roma e Milano (tutti si sono concentrati sulla storia della capitale morale; nessuno ha però notato l’assurdità di un paese in cui i magistrati si sentono in dovere di occuparsi di morale). Le cantonate di Cantone dunque non mancano ma tra queste occorre isolare una serie di affermazioni importanti che il presidente dell’Anac ha maturato qualche mese fa durante una conversazione con il direttore di questo giornale. Cantone ha detto che le correnti della magistratura sono un cancro, ha denunciato, parlando anche del rischio deriva di Magistratura democratica, i rischi legati all’utilizzo della lotta di classe, ha descritto il Csm come un centro di potere vuoto e ha formulato la stessa frase ripetuta ieri sull’Associazione nazionale magistrati della Sabelli band: "Da loro non mi sento rappresentato". Non si sa se le parole di Cantone siano legate alla maturazione di un suo nuovo profilo non lontano ormai da quello del politico. Si sa però che su questo punto Cantone ha ragione da vendere. E sorprende che, di fronte a un magistrato rispettato che mette a nudo i limiti di una corporazione, siano proprio quei magistrati che hanno trasformato l’Anm in un generatore automatico di fatwe alla politica ad indignarsi, a imbronciarsi e ad accusare Cantone di fare quello che loro fanno da sempre: politica. Giustizia: il populismo penale e le ipocrisie sulla corruzione spiegati da un magistrato di Piero Tony Il Foglio, 30 ottobre 2015 A proposito del recente Congresso dell’Anm, e non solo. Non è temerario pensare che sia stata un’altra occasione persa tra i soliti slogan che da anni dilettano i media, campo di Agramante o quasi. Sì, è vero, finalmente si è convenuto sulle difficoltà della giurisdizione ordinaria a dare risposte tempestive e quindi sulla necessità di ricorrere all’aiuto esterno (Ufficio del Processo) e a un patteggiamento allargato e alla degiurisdizionalizzazione di parte del carico civile (definizione delle liti con negoziazione assistita o mediazione-conciliazione o camere arbitrali). Ma per il resto chiacchiere e slogan. Prescrizione: dopo la legge ex Cirielli i termini vanno accorciati o allungati, molto o poco, timidamente o con risolutezza? Le intercettazioni devono essere allargate o ridotte, privacy o no privacy? Urgono riforme coraggiose per combattere mafia e corruzione, doppio binario con operazioni sotto copertura e operazioni controllate un po’ dappertutto? La politica può continuare a usare i magistrati in ruoli a loro estranei, vere e proprie foglie di fico per le parti pudende? Le sentenze di assoluzione possono continuare a essere ribaltate in appello? E il clima di delegittimazione e sfiducia nel sistema giudiziario da cosa dipende e come va normalizzato? Discussioni piuttosto sterili tra schieramenti che continuano ad apparire divisi da una buona dose di sfiducia reciproca: l’Anm si opporrà a ogni tentativo di ridimensionamento del proprio ruolo istituzionale e di rappresentanza dell’intera magistratura, tuona il suo presidente, tutta l’Italia riconosce il valore di chi serve il nostro paese con la toga indosso, sussurra rassicurante il ministro Boschi. E allora? Terminato il Congresso sto risalendo l’Italia per ritornare a casa, alla guida l’amico Daniele, avvocato, un terronaccio di quelli buoni che sono ottimi e per signorilità sensibilità e cultura non hanno eguali neanche a Calalzo. "Ma hai capito davvero quali sono state le conclusioni congressuali?", mugugna dopo rapido sguardo. "Bah, è difficile dire che…". "È difficile o impossibile?", mi interrompe. "Non esagerare". "Ma va separata la carriera del pm che chiede il carcere cautelare da quella del gip che accoglie la richiesta con il copia/incolla?". "Bah". "Ma continuerà a essere tollerato un procedimento penale eterno, ampolloso e prevalentemente cautelare che, quando non viene fulminato dalla prescrizione, secondo la Cedu infligge pene disumane e degradanti?". "Bah". "E il mercimonio di notizie ancora segrete per il bignè del titolone del mattino?". "Bah". "E l’obbligatorietà dell’azione penale che da decenni è solo alibi? I magistrati cooptati dalla politica soprattutto in relazione alla visibilità che sono riusciti a guadagnarsi sul campo professionale…". "Basta, non distrarti quando guidi!", gli intimo quasi alzando la voce. Credo però che la nostra classe politica dovrebbe una buona volta prendere atto di quello che è sotto gli occhi di tutti e finalmente operare di conseguenza. Cioè? Qualche cenno. Che è inutile perdere tempo a discutere - quanto a intercettazioni - sul valore della privacy e sulla rideterminazione delle pene massime. A prescindere dalla prassi dell’imputazione strumentale per poterle disporre, che ormai non scandalizza più nessuno, a prescindere dall’articolo 266 cpp che consente di ancorarsi non alla misura della pena ma al titolo del reato che appaia meritevole di codesti accertamenti tecnici. A prescindere da tutto ciò, va aggiustato il tiro perché, per ragioni di ordine e sicurezza, la privacy notoriamente è estinta da anni proprio come il povero Dodo, annientata da una tecnologia a livello mondiale sempre più pervasiva oltre che, a dir il vero, irrinunciabile quantomeno per il senso comune. E allora nessuna titubanza nell’integrare codesto articolo 266 cpp, prima o poi avremo intercettazioni più o meno preventive per tutti i reati che non siano proprio bagatellari, avremo videocamere informatizzate in ogni via e piazza, big data in evoluzione continua, il Grande Fratello insomma, perché questo è il nostro futuro a prescindere da qualsiasi cosa tu possa pensare e desiderare. Ed è questo che rende ineludibile, per una politica criminale che sia avveduta e realistica, spostare preoccupazioni e interesse punitivo - con sempre maggiore severità - dalla violazione di una privacy- Dodo sostanzialmente non più tutelabile a quello che sia un successivo impiego criminale della notizia per uso proprio o di categoria. Il che vuol dire attivare una sempre più severa attenzione e criminalizzazione per qualsiasi accesso indebito finalizzato all’utilizzazione impropria di notizie personali. Quanto alla corruzione che si cantilena essere oggi tanto diffusa, ricordo a me stesso, come si suole dire in aula, che purtroppo è sempre esistita ed è stata sempre e immancabilmente collegata da una parte alla sua lucratività per entrambe le parti interessate e alla macchinosità onnipresenza e inefficienza dell’amministrazione pubblica, dall’altra a una miserrima subcultura profondamente radicata nell’ignoranza di cosa sia bene comune, nell’apprezzamento per chi furbescamente si arrangia, insomma nella povertà di spirito e di civismo. Lo si pensa e dice da sempre ma per ora senza grandi risultati. "Capitale corrotta nazione infetta", scriveva Cancogni 60 anni fa nell’inchiesta sulle centrali di potere capitolino, in linea con quanto era già stato scritto ab immemorabili sullo stesso tema. Ecco perché parrebbe ragionevole tentare di affrontare la piaga della corruzione non con virtuali aumenti di pena bensì con esempi quotidiani di cultura civile (e chi si prende la briga di incominciare?) e con una riforma di semplificazione e riordino della pubblica amministrazione che in tempi rapidissimi chiarisca diritti e tempi delle procedure e spazzi via qualsiasi possibilità agevolatoria aumma aumma. Quanto alla famigerata prescrizione possiamo dire che ogni reato prescritto è una sconfitta del sistema giustizia? Direi di sì. Ma che è anche la conferma che nonostante tutti quegli anni l’accusa non è riuscita a provare la responsabilità dell’imputato, pertanto rimasto per tutto quel tempo inutilmente alla berlina o almeno sotto una pesante spada di Damocle? Che continuare a richiedere un prolungamento dei termini senza prima risolvere la mortale inconcludenza equivale ad affrontare l’epidemia ampliando i cimiteri anziché gli ospedali? Direi ancora di sì. "Al mio paese hanno davvero tolto l’ospedale e triplicato il cimitero. Ma al Congresso non hanno mica parlato di questo!", mi fa Daniele un po’ inviperito. "Sta calmo, forse si ripromettono di discuterne l’anno prossimo", tento di rassicurarlo con un sorriso forse un po’ tirato. Giustizia: ddl omicidio stradale, la pena si sospende solo nei casi lievi di Maurizio Caprino Il Sole 24 Ore, 30 ottobre 2015 Sanzioni draconiane o ancora troppo lasche? All’indomani dell’ok all’omicidio stradale da parte della Camera (si veda Il Sole 24 Ore di ieri), questo è l’interrogativo che resta confrontando alcune parti del disegno di legge (che ora attende solo l’ultimo sì del Senato) con la maggioranza delle reazioni delle associazioni impegnate sul campo della sicurezza stradale. Infatti, nelle intenzioni iniziali e nell’immaginario collettivo la nuova normativa dovrebbe colpire i pirati della strada, ma rischia di far finire in carcere anche persone "normali" che commettono un errore. Ma molte associazioni hanno chiesto una severità ancora maggiore. Tutti concordano sul fatto che le pene previste per i casi gravi (quelli in cui sono state violate norme del Codice della strada che il Ddl individua come importanti) sono giustamente pesanti: la graduazione è molto varia, ma comunque in prima battuta (senza considerare aggravanti e attenuanti) si può andare dai cinque ai 18 anni di reclusione. Dunque, non c’è il rischio di rientrare nel limite dei due anni, entro il quale scatta la sospensione condizionale della pena, che finora ha evitato il carcere alla maggioranza dei responsabili di incidenti mortali. Al massimo, ci si avvicina (due anni e mezzo) col dimezzamento cui si può arrivare quando c’è concorso di copa da parte della vittima. Il rischio resta per quelli causati da tutte le altre violazioni (anche lievissime) del Codice della strada, perché qui le pene restano invariate rispetto all’attuale omicidio colposo, pur aggravato dal fatto di essere provocato da un’infrazione stradale (articolo 590, comma 2 del Codice penale): da due a sette anni. Il problema è comunque un altro: che tra le infrazioni ritenute gravi ne sono state incluse alcune che non sempre lo sono: quelle su velocità e striscia continua risentono a volte della volontà dei gestori della strada di scaricarsi da responsabilità su carenze di progettazione, costruzione e manutenzioni. Inoltre, a volte capita di superare con striscia continua mezzi lentissimi senza con ciò creare pericoli gravi. Viceversa, a volte possono essere troppo miti le pene per l’altro reato introdotto dal Ddl, quello di lesioni personali stradali: il minimo è di soli tre mesi, anche se nei casi delle infrazioni più gravi si può arrivare anche a sette anni. Ma, come fa notare l’Aifvs (Associazione italiana familiari vittime della strada), con un’infrazione lieve (che comporta una pena di un anno al massimo) si potrebbe ridurre in coma vegetativo una persona. Certo, per bilanciare tutti i paradossi c’è la discrezionalità del giudice, cui spetta decidere la pena entro il minimo e il massimo previsto dalla legge e riconoscere attenuanti e aggravanti. Ma l’Aifvs ritiene che, quando c’è concorso di colpa della vittima, la discrezionalità sia troppo limitata. In ogni caso, per giudicare correttamente occorre avere elementi certi, che vengono da rilevazioni complete e inappuntabili da parte delle forze dell’ordine, su cui poi si basino perizie serie. Tutte cose che troppo spesso l’Italia non può permettersi, essendo normalmente riservate agli omicidi volontari che più impressionano. Anche per queste carenze investigative appaiono eccessive le richieste delle associazioni su un ulteriore allargamento dell’omicidio stradale ai casi in cui si guida maneggiando un telefonino: l’accertamento di un’infrazione del genere, se risulta che a bordo c’erano più persone, è aleatorio. Giustizia: dal carcere al Cie, l’Italia fermi l’espulsione di Abdel Touil di Luigi Manconi (Senatore Patito Democratico) Il Manifesto, 30 ottobre 2015 Caso Touil. Dal carcere al Cie con rischio rimpatrio, l’Italia impedisca la riedizione del "caso Shalabayeva". Ai suoi legali, Silvia Fiorentino e Guido Savio, il ventiduenne marocchino Abdelmajid Touil è apparso "in condizioni fisiche e soprattutto psichiche gravemente compromesse" e ancora: "lo sguardo perso nel vuoto, incapace di riconoscere le persone" comprese quelle con le quali ha avuto qualche dimestichezza in un passato assai recente. Per la verità, non è raro che in un Centro di identificazione ed espulsione (Cie), come quello in cui ora è trattenuto Touil, a Torino, le persone si trovino in un simile stato. Io, il giovane marocchino, l’ho incontrato cinque giorni fa nella sua cella, nel carcere di Opera, nei pressi di Milano. Abdel è alto circa un metro e ottanta e di bell’aspetto. In quella circostanza indossa una felpa scura e i pantaloni di una tuta e, ai piedi, un paio di infradito azzurre, la calzatura più diffusa in tutte le carceri italiane. Rispetto alle foto pubblicate la scorsa primavera, mi appare smagrito e scavato. E, soprattutto, come rannicchiato in se stesso, le spalle strette e lo sguardo smarrito. Ha vissuto in una condizione di autentico panico le ultime settimane, atterrito dalla preoccupazione che la sentenza di un tribunale italiano potesse respingerlo in quella Tunisia dove è indicato come corresponsabile di un’atroce e sanguinosa strage. Di conseguenza, non mi è difficile immaginare, che questo giovane uomo, liberato mercoledì mattina e, appena poche ore dopo, nuovamente rinchiuso in un luogo che può risultare "peggio di un carcere" (secondo un’opinione diffusa), sia precipitato in un profondo stato confusionale. Anche perché, va detto, la prospettiva temuta fino a 48 ore fa e, poi, in apparenza sventata, ora sembra riproporsi inalterata e altrettanto minacciosa: respinto nel proprio paese di nascita, il Marocco, diventa altamente probabile l’estradizione in Tunisia. Oltretutto, Abdel proviene da una situazione di penuria estrema sotto il profilo sociale e culturale, e ha vissuto, nei cinque mesi di detenzione, come precipitato in un universo totalmente sconosciuto. Una cella di una istituzione di un paese del quale sembra ignorare tutto: legge e consuetudini, lingua e valori. Finalmente uscitone, ora si trova in una istituzione, se possibile, ancora più crudele, e senza nemmeno le regole, i codici e le gerarchie che amministrano la vita carceraria assicurandole almeno un po’ di razionalità. Ma perché mai Abdel è stato condotto qui? L’altro ieri, non solo è stata respinta la richiesta di estradizione ma è accaduto che la procura di Milano archiviasse le indagini per terrorismo internazionale e strage, dal momento che gli indizi a suo carico sono risultati assai fragili e decisamente non attendibili. Ciò nonostante, Abdel è stato immediatamente trasferito nel Cie di Torino, destinato a un immediato rimpatrio. Ma chi ci assicura che non sarà il Marocco a consegnarlo alla poco affidabile giustizia tunisina? Insomma, quali garanzie ci sono a tutela della sua incolumità? Dopo cinque mesi di pesante detenzione, rivelatasi del tutto immotivata e inutilmente afflittiva, possibile che non si trovasse una diversa soluzione? Sua madre è regolarmente residente a Gaggiano, a pochi chilometri da Milano, da 9-10 anni e li vivono anche un fratello e una sorella. E sempre lì Abdel Touil si era recato ad abitare, nella casa della madre, appena sbarcato in Italia; e nella vicina Trezzano sul Naviglio aveva iniziato a frequentare con assiduità un corso per l’apprendimento della lingua italiana. Tutto ciò e la sentenza della Corte d’appello di Milano dovrebbero costituire una ragione più che sufficiente per concedergli, il prima possibile, la protezione internazionale, proprio per evitare che la sua vita sia ancora messa in pericolo. E proprio perché una misura di protezione gli permetterebbe di portare avanti il percorso di integrazione intrapreso lo scorso febbraio. Ma il suo piano di inserimento è stato brutalmente interrotto prima dalla detenzione nel carcere di Opera e ora dal trattenimento nel Cie di Torino. Il rilascio di un permesso di soggiorno sarebbe un doveroso risarcimento. Guai se l’Italia, dopo aver inflitto a Touil un’inutile carcerazione, e dopo aver mostrato il suo volto migliore e più garantista con la sentenza della quinta sezione penale della Corte d’appello di Milano, ne mettesse nuovamente a repentaglio l’incolumità e il futuro. Sarebbe, come opportunamente scrivono i suoi avvocati, una riedizione dello sciagurato "caso Shalabayeva". Giustizia: la mamma di Touil "lasciatelo qui, in Marocco muore" di Andrea Giambartolomei e Davide Milosa Il Fatto Quotidiano, 30 ottobre 2015 Pioggia e nebbia. Fatima passeggia lenta tra i caseggiati popolari di Trezzano sul Naviglio, oltre la periferia di Milano. Chador amaranto, giaccone pesante. Non ha meta, cammina per non pensare. "Sto male", sospira. Suo figlio, dopo cinque mesi di galera durissima, ora sta al Centro d’identifica - zione ed espulsione di Torino. Oggi il giudice di pace deciderà se la sua permanenza al Cie è regolare dopodiché ogni minuto sarà buono per rimandarlo in Marocco. Storia terribile quella di Abdelmajid Touil, 22 anni e quell’accusa devastante di aver partecipato alla strage tunisina al museo del Bardo del 18 marzo scorso (24 morti). Accusa da archiviare, sostiene la Procura di Milano. Accusa che non vale l’estradizione, ha deciso la Corte d’appello. Eppure il calvario non finisce. "Mio figlio deve restare in Italia". Scuote il capo Fatima. Stringe forte la borsa. Rabbia e lacrime. "Se lo rimandano in Marocco muore, non ha più la testa, dopo cinque mesi di detenzione non capisce più nulla, quando è uscito dal carcere di Opera non mi ha riconosciuta". In Marocco vive il padre. "Ora - prosegue Fatima - sta arrivando in Italia, vuole vedere suo figlio, ma ci vuole tempo per avere i documenti". E comunque a Sidi Jaber, paesino a due ore di auto da Marrakech, il padre può offrirgli poco. "Se torna laggiù si perderà, non può farcela, mio marito è malato, mio figlio deve restare qua con me, con noi, qua a Milano c’è la sua famiglia, i suoi fratelli che ogni giorno pregano e piangono per lui". Fatima guarda l’ora. "Devo andare a lavorare". Professione badante, da anni in Italia, regolare, mai un inciampo. È una donna tosta Fatima. C’è poca religione nella sua famiglia. Nemmeno quando vivevano a Legnano a due passi dalla grande moschea. Nessun estremismo. "Abdel sta male". Lo ripete di continuo. "Devono curarlo, nelle ultime quattro settimane nel carcere di Opera si è chiuso in un silenzio assoluto, non mangia, è molto dimagrito, ha le dita annerite dalle sigarette e una gamba scorticata perché continua a grattarsi. Non si cambia i vestiti da due settimane, in cella gira scalzo. Non sa cosa gli sta succedendo". Una fotografia, quella di Abdelmajid, confermata anche ieri dai suoi avvocati che sono andati a trovarlo al Cie. "Le sue condizioni fisiche - hanno spiegato Silvia Fiorentino e Guido Savio - e soprattutto psichiche sono gravemente compromesse: lo sguardo è perso nel vuoto, è incapace di riconoscere le persone". La stessa impressione si è diffusa tra chi lo ha visto dopo, come l’assessore piemontese di diritti umani Monica Cerutti e il garante regionale dei detenuti Bruno Mellano, arrivati per una visita programmata da tempo: "Siamo rimasti molto colpiti perché era evidente il suo disagio psichico e fisico. È molto dimagrito rispetto alle fotografie diffuse dai media, troppo per un giovane delle sua età". Per i legali del marocchino "l’Italia rischia di incappare in un nuovo caso Shalabayeva", la moglie del dissidente kazako Mukhtar Ablyazov espulsa nel 2013. Senza contare, hanno spiegato, che "una volta rientrato in Marocco, la Tunisia può chiedere ancora una volta l’estradizione". Ipotesi, quest’ulti - ma che parrebbe remota, visti i cattivi rapporti diplomatici tra Marocco e Tunisia. Ma c’è di più: dalle annotazioni della Procura di Milano che supportano la richiesta di archiviazione dell’accusa di terrorismo a carico di Touil, emerge un elemento decisivo. Uno dei cardini che ha indotto i magistrati a chiudere il fascicolo. È stato accertato, infatti, che Abdelmajid quando ancora si trovava in Marocco aveva tentato di avviare le pratiche per il ricongiungimento familiare. Un iter burocratico complicato perché Touil, essendo già maggiorenne, avrebbe dovuto recuperare più documenti del previsto. Questo gli ha consigliato di partire per la Tunisia per poi arrivare in Libia, affidando il proprio destino alla sorte e agli scafisti. Scoprire questo particolare, ragionano i magistrati, ha eliminato i tanti dubbi sulla sua presenza in Tunisia poco più di un mese prima dell’attentato. A questa circostanza, finora inedita, vanno aggiunti gli accertamenti sui tabulati telefonici che inducono a pensare come Touil, prima di imbarcarsi, abbia ceduto il suo cellulare e soprattutto i registri della scuola di Trezzano sul Naviglio che dimostrano la sua presenza a Milano nei giorni precedenti e successivi la strage. Nonostante questo, per le autorità italiane, il marocchino resta un clandestino che già il 17 febbraio scorso (giorno del suo arrivo in Italia) non ha ottemperato al foglio di via del questore di Agrigento. In questo caso, però, forse più che le fredde regole amministrative dovrebbe valere il buon senso e la tutela dei diritti umani. Lettere: i politici a cuccia dai magistrati di Francesco Damato Italia Oggi, 30 ottobre 2015 Sono loro che li chiamano sempre più spesso negli Enti locali, usandoli come polizza assicurativa. Dimostrando, per loro stessa ammissione, di aver bisogno di un tutore. C’è qualcosa di peggio della pur improbabile politica che prevarica sulla magistratura, o che solo ci prova, e dell’assai più probabile magistratura che prevarica sulla politica, o che solo ci tenta. Spesso, abusando della delega purtroppo ricevuta dalla stessa politica a sostituirsi al governo e al parlamento nell’azione di contrasto, per esempio, al terrorismo prima, alla mafia poi, alla corruzione poi ancora, o a tutti questi fenomeni insieme. Peggiore dell’uno e dell’altro scenario è la commistione voluta, e sempre più frequente, fra politica e magistratura su terreni dove, alla fi ne, non si capisce più dove finisce il ruolo del magistrato e comincia quello del politico, o viceversa. Per cui si produce una confusione che danneggia entrambi, come cerca da tempo, e inutilmente, di ammonire l’ex presidente della Camera Luciano Violante. Che prima ha fatto il magistrato e poi il politico, in entrambi i casi con grande visibilità. L’ultimo prodotto di questa confusione è l’uscita del magistrato Raffaele Cantone, presidente dell’Autorità anti-corruzione, fortemente sostenuto a quel posto dal capo del governo Matteo Renzi. Non parlo dell’uscita da lui appena minacciata dal sindacato delle toghe, per comprensibile protesta contro gli attacchi allusivi mossigli davanti al recente congresso dal segretario dell’associazione, fra gli applausi di molti colleghi abituati a scambiare per intruso o traditore chiunque di loro osi collaborare con il governo. Come provò il povero Giovanni Falcone, da dirigente del ministero della Giustizia, prima di essere ucciso dalla mafia. Parlo della sortita di Cantone a favore di Milano "Capitale morale" d’Italia, finalmente riscattata dal fango di Mani pulite, e contro Roma, priva ormai degli "anticorpi" necessari a farne una comunità onesta, Capitale in tutti i sensi, non sono in quello politico. La pezza che poi lo stesso Cantone ha voluto mettere alla sua sortita, dicendo di avere voluto solo "stimolare, non giudicare", cioè condannare Roma, è stata peggiore del buco. Va bene che la pena deve avere una funzione più rieducativa che vendicativa, ma quello che Cantone ha intentato contro Roma non è stato un processo penale ma, più semplicemente e rapidamente un processo mediatico, i cui verdetti sono tanto rovinosi quanto irrevocabili. Altro che stimolanti. A Milano, peraltro, è vero che sta concludendosi con successo l’Expo 2015, nonostante le disavventure giudiziarie della vigilia, ma è anche vero che è appena esplosa una santabarbara come quella della sanità. E con l’arresto del vice presidente del governo regionale. Ma poi, che titolo ha Cantone per promuovere o degradare le città italiane? Per sua fortuna i romani, notoriamente e spesso persino simpaticamente indolenti, ai quali per sfiancarsi bastano e avanzano i disagi derivanti dall’essere cittadini della Capitale istituzionale, dove si addensano solo per questo cortei e dimostrazioni che spesso mettono a soqquadro strade e quartieri, e fanno impazzire un traffico già di per sé malato; i romani, dicevo, non aspetteranno Cantone davanti al suo ufficio per sommergerlo di insulti e di pomodori. Non capiterà a Cantone la sorte di Craxi, eccezionalmente assaltato nel 1993 davanti all’albergo Raphael da una folla aizzata da un raduno politico nella vicina Piazza Navona. Né quella di Garibaldi, che per averli solo ammoniti ad essere "seri", come ha ricordato sul Messaggero Marco Ventura, fiutò un’aria così brutta da uscire, anzi "fuggire per un pertugio laterale" dall’albergo dove risiedeva, a Largo Chigi. Un’attenuante va comunque riconosciuta, nella sua avventata e improvvisata funzione di classificatore della moralità delle città italiane, al presidente dell’Autorità anticorruzione e magistrato Cantone. L’attenuante dello spettacolo offerto non solo ai romani, salve le centinaia di tifosi che lo acclamano di tanto in tanto sotto la statua dell’incolpevole Marco Aurelio, ma a tutto il mondo dal sindaco Ignazio Marino. Che da anticorpo della mafia e della corruzione, come si era orgogliosamente proposto ai cittadini e come Cantone praticamente ha dimostrato di non ritenerlo, ha voluto diventare con i suoi dubbi e minacciosi annunci di dimissioni dalle dimissioni, qualcosa di ormai indecifrabile. Egli reclama un’uscita con il cosiddetto onore delle armi, che lo sconfitto, in guerra, ottiene a insindacabile giudizio del vincitore, che nel suo caso è il segretario del suo partito, e presidente del consiglio, affrettatosi già prima dell’estate ad esprimere l’opinione che aveva di lui. Marino è finito, suo malgrado, nella stessa situazione ch’egli imprudentemente contestò d’estate a quella signora romana del quartiere di San Lorenzo che gli rimproverò "la buffonata" di una visita di cortesia e di controllo preceduta da ore di pulizia delle strade e delle piazze destinate a tornare e rimanere sporche dal giorno dopo in poi. Marino, medico chirurgo specializzatosi all’istante anche in psichiatria, invitò la povera donna a "connettere i due neuroni che ha", evidentemente scollegati. Seguirono giustificatissime ma inutili polemiche, non essendo mai pervenute alla donna le scuse alle quali aveva diritto. Ora i neuroni da collegare pare che siano proprio quelli di Marino. Lettere: serve una legge per confiscare i beni dei corrotti di Antonio Ingroia Il Fatto Quotidiano, 30 ottobre 2015 Definire la corruzione come l’altra faccia della medaglia della mafia non è un paradosso. Certo, la mafia semina morte con stragi e droga, e diffonde paura con l’intimidazione. Ma la corruzione non è da meno perché soffoca la democrazia e cancella i diritti dei cittadini che, sfiduciati, fuggono dalla politica, così consegnando il destino di tutti al governo dei pochi. Quando, poi, mafia e corruzione si intrecciano diventando un unico Sistema criminale integrato, come in Mafia Capitale, si registra un processo genetico di mutazione del fenomeno criminale che necessita di misure strutturali. In modo da rafforzare il sistema di contrasto, altrimenti inadeguato e condannato all’inefficienza, come dimostra il fallimento della giunta Marino, e non solo. La corruzione, che si diffonde ogni giorno a livello endemico, costa una cifra recentemente stimata non inferiore ai 100 miliardi di euro l’anno. Recuperarne anche solo la metà significherebbe poter utilizzare 50 miliardi l’anno, ad esempio, per la riduzione del pericolo idrogeologico o per la messa in sicurezza delle scuole. È proprio nel patrimonio che il sistema corruttivo va colpito, così come si è fatto contro la mafia. Un politico antimafia, vero e non di facciata, come Pio La Torre fu l’autore della legge sul sequestro dei beni di mafia e perciò venne ucciso. Ora, con la collaborazione di Franco La Torre, figlio di Pio, e di giuristi ed esponenti delle associazioni e dei movimenti antimafia e anticorruzione proponiamo una norma per estendere il sequestro preventivo dei beni anche ai corrotti. Se l’aggressione ai patrimoni mafiosi è stato il principale strumento di lotta alla mafia perché non estenderlo alla corruzione? Se la corruzione è pericolosa quanto la mafia e sottrae denaro all’economia lecita per immetterla in circuiti anch’essi criminali, sia trattata alla stessa stregua. Si sottopongano a raggi X i patrimoni dei corrotti e se risulta un’anomala sproporzione fra redditi dichiarati e patrimoni effettivi si proceda al sequestro dei beni e sia l’indiziato corrotto, come l’indiziato mafioso, a dover dimostrare la legittima provenienza di quei beni, pena la confisca definitiva da parte dello Stato, che potrebbe così restituire quei patrimoni all’economia lecita. Semplice, no? Eppure, quando lanciammo per la prima volta questa proposta durante la campagna elettorale del 2013, fummo ignorati, quando non addirittura denigrati, come se la proposta fosse strumento di mera propaganda elettorale. Nel frattempo, la corruzione ha vinto e oggi divora le risorse del Paese a ogni latitudine. È allora il momento giusto, lontano da appuntamenti con le urne, per mettere questa proposta a disposizione di tutti i cittadini onesti che quotidianamente si battono contro una classe dirigente criminale sempre più avida, che con i patti con la mafia (trattativa Stato-mafia docet) e la corruzione ha costruito potere e impunità. Questa, perciò, non può e non deve essere una battaglia di bandiera di questo o quel movimento politico, neppure di Azione Civile, il movimento che io ho fondato nel 2013. E per questo facciamo un appello a tutti i cittadini onesti per sostenere questa proposta di legge. Diffonderemo una petizione per raccogliere le firme, ma intanto apriamo la nostra proposta a ogni modifica e integrazione. Costituiamo, insieme, un comitato di sostegno, che possa farsi motore di una raccolta di firme per una legge di iniziativa popolare da portare in Parlamento, invitando anche i parlamentari onesti a sostenerla. È una battaglia dura che incontrerà molti avversari, compresa l’indifferenza ostile del ceto politico e della maggioranza dell’informazione che ne viene controllata. Ma è una battaglia per la sopravvivenza della nostra democrazia e va quindi combattuta. Sino in fondo. Lettere: legge Pinto, se lo Stato legifera per rendere quasi impossibili i risarcimenti di Deborah Cianfanelli (avvocato, Direzione Radicali Italiani) radicali.it, 30 ottobre 2015 Ancora una volta il nostro Stato non smentisce il suo oramai acquisito status di delinquente abituale a danno dei cittadini ed in costante spregio della Legge, preparandosi a nuove e certe condanne da parte della Corte europea dei Diritti dell’Uomo. Sappiamo che l’Italia ha accumulato oltre 5.000 condanne per violazione dell’art. 6 in relazione alla durata dei processi. L’art. 6 così recita: "ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente ed imparziale, costituito per legge, il quale deciderà sia delle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile, sia della fondatezza di ogni accusa penale che le venga rivolta". La celere definizione dei giudizi è connaturata all’esplicazione dell’individuo nella società ed ogni ingiustificato ritardo incide pesantemente sulla qualità della vita dei cittadini in quanto determina una situazione di incertezza che la Corte di Strasburgo equipara ad un vero e proprio diniego di giustizia. La Legge Pinto nacque su sollecitazione della Corte europea quale rimedio meramente risarcitorio alla violazione dell’art. 6 da parte dello Stato italiano a danno dei cittadini. A tale rimedio risarcitorio non sono mai conseguite, però, riforme strutturali tali da evitare la reiterazione della violazione che, ad oggi, continua a verificarsi. Nel corso dei 14 anni di vigenza della Legge Pinto lo Stato italiano si è mostrato più preoccupato di legiferare in modo da non rendere effettivi i risarcimenti che di portare i nostri processi a tempi ragionevoli di definizione. In quest’ottica va anche l’ultima riforma proposta all’interno del disegno di Legge di Stabilità 2016 dove al titolo IX, art. 56, vengono introdotte tante e tali modifiche alla Legge Pinto da renderne molto difficile se non meramente eccezionale la possibilità di accesso e di conseguente riconoscimento del diritto ad un equo indennizzo per coloro che abbiano subito un procedimento la cui durata sia tale da essere in contrasto con l’Art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Il nostro legislatore ha finalmente preso atto dei costi causati all’intera economia nazionale da un sistema giustizia che non funziona. Solo che, ancora una volta, anziché cercare di porre in essere dei rimedi strutturali in grado di riportare il nostro sistema giustizia sui binari della legalità e del rispetto dei diritti umani fondamentali, cerca di aggirare l’ostacolo rendendo inaccessibile la strada che porta ad ottenere almeno il risarcimento del danno a fronte del diritto leso. Per i soggetti che subiscono lesioni da parte dello Stato italiano, quindi, oltre al danno anche la beffa! Ma vediamo nei dettagli le riforme alla legge Pinto che vengono proposte dalla Legge di stabilità. Il diritto ad ottenere l’equa riparazione del danno causato dall’irragionevole durata del processo viene innanzitutto limitato ai soggetti che, nel corso del processo, abbiano esperito i "rimedi preventivi" che vengono introdotti all’art. 1 ter. Ossia: introdurre il giudizio nelle forme del procedimento sommario di cognizione (ex 702 bis cpc); formulare richiesta di passaggio da rito ordinario a rito sommario (ex art. 183 bis) entro l’udienza di trattazione; laddove non si applichi il rito sommario di cognizione, ivi incluso l’appello, proporre istanza di decisione a seguito di trattazione orale ex 281 sexies cpc prima che siano decorsi i termini della ragionevole durata; nel processo penale aver depositato, a mezzo di procuratore speciale, istanza di accelerazione almeno sei mesi prima del decorso del termine ragionevole; nel processo amministrativo e nel processo davanti alla Corte dei Conti presentare istanza di prelievo sei mesi prima che siano decorsi i termini di ragionevole durata; nei giudizi davanti alla Corte di Cassazione depositare istanza di accelerazione due mesi prima dello spirare del termine ragionevole di durata; al di fuori di queste ipotesi diviene inammissibile la domanda di equa riparazione. Inoltre vengono introdotti i casi nei quali l’indennizzo non è comunque dovuto: a favore della parte che ha agito o resistito in giudizio "consapevole della infondatezza originaria o sopravvenuta delle proprie domande o difese" e ciò anche al di fuori dei casi previsti di lite temeraria (quindi totale discrezionalità); nel caso art. 91 co 1 cpc, ossia se viene accolta la domanda nella misura non superiore all’eventuale proposta conciliativa e il giudice condanna la parte che ha rifiutato immotivatamente la proposta; nel caso di cui art. 13 d. lgs 28/10 ossia quando il provvedimento che definisce il giudizio corrisponde al contenuto della proposta e viene esclusa la ripetizione delle spese della parte vincitrice che ha rifiutato la proposta; nei casi in cui il giudice abbia disposto d’ufficio il passaggio dal rito ordinario al rito sommario di cognizione ex art. 183 bis cpc; in ogni altro caso di abuso dei tempi processuali che abbia determinato un’ingiustificata dilazione dei tempi del procedimento. Questa è una vera e propria clausola di esclusione lasciata alla mera discrezionalità del giudicante. Le modifiche non finiscono qui. Vengono infatti enumerate delle ipotesi nelle quali si "presume insussistente il pregiudizio da irragionevole durata del processo" salva prova contraria: per quanto riguarda l’imputato quando sia intervenuta la prescrizione del reato; nel caso di parte contumace; estinzione del processo per rinuncia o inattività delle parti; perenzione del ricorso nel processo amministrativo; nel giudizio amministrativo mancata presentazione della domanda di riunione nel giudizio presupposto e nel caso di introduzione di domande nuove connesse con altre già proposte; irrisorietà della pretesa o del valore della causa valutata in relazione alle condizioni personali della parte. Quando la parte ha conseguito dalla irragionevole durata del processo vantaggi patrimoniali uguali o maggiori rispetto alla misura dell’indennizzo altrimenti dovuto. In particolare questi ultimi punti, oltre a riconfermare una totale discrezionalità nel determinare i casi di insussistenza del pregiudizio, evidenziano la totale mancanza nel nostro legislatore del concetto di giustizia e di lesione di diritti umani riconosciuti dalla convenzione europea, che appare sussistere solo ed esclusivamente quando sia economicamente apprezzabile! Come se tutto ciò non bastasse a perpetrare la violazione dell’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo da parte del nostro Stato, questa proposta di riforma va altresì ad intaccare il quantum del risarcimento (per i casi meramente residuali che abbiano avuto la fortuna di riuscire a superare il percorso ad ostacoli sopra delineato). Stabilisce infatti che: "il giudice liquida una somma di denaro non inferiore a 400,00€ e non superiore a 800,00€ per ogni anno di causa che eccede il termine ragionevole….può essere incrementata fino al 20% per gli anni successivi al terzo e fino al 40% per gli anni successivi al settimo" detta somma viene poi diminuita del 20% se le parti sono più di 10 e del 40% se sono più di 50. Ulteriori diminuzioni sono previste in caso di integrale rigetto delle richieste di parte ricorrente. È appena il caso di ricordare che nelle liquidazioni effettuate dalla Corte di Strasburgo questa ha individuato il parametro per la quantificazione dell’indennizzo nell’importo compreso tra € 1.000,00 ed € 1.500,00 per anno. Il percorso ad ostacoli prosegue anche in riferimento alle modalità di pagamento: il creditore deve rilasciare all’amministrazione debitrice una dichiarazione (il cui modello verrà predisposto dall’amministrazione entro il 30.10.16, unitamente all’elenco della documentazione che dovrà essere prodotta dal creditore), attestante la mancata riscossione di somme per il medesimo titolo, l’esercizio di azioni giudiziarie per il medesimo credito, l’ammontare degli importi che l’amministrazione è tenuta a corrispondere, la modalità di riscossione prescelta. Tale dichiarazione ha validità semestrale e va rinnovata. In mancanza, il pagamento non sarà emesso. L’erogazione degli indennizzi avverrà entro sei mesi dalla data in cui sono assolti tutti gli obblighi da parte del creditore ed avverrà ove possibile per intero e comunque nei limiti delle risorse disponibili nei relativi capitoli di bilancio. Prima del decorso di questi sei mesi il creditore non potrà procedere esecutivamente né con giudizio di ottemperanza. Tutta questa manovra è paradossale e va nella direzione di una spudorata reiterazione nella violazione del diritto garantito dalla convenzione europea ad ottenere giustizia in tempi ragionevoli. Ciò che appare evidente è che la giustizia nel nostro Stato, oltre ad essere costantemente denegata, è oramai ridotta ad un concetto esistente solo in funzione del valore economico, o meglio della monetizzazione del diritto vantato, salvo oltretutto escogitare sempre nuovi elementi utili alla non corresponsione del dovuto ristoro. Umbria: il Garante dei detenuti "scongiurare l’accorpamento dei provveditorati" umbriajournal.com, 30 ottobre 2015 "La popolazione carceraria in Umbria è diminuita di 220 unità, transitando da 1563 a 1343 detenuti, a fronte di una capienza di 1324 posti. Dei 1343 detenuti presenti nei quattro istituti umbri alla data del 28 febbraio 2015, 1033 sono definitivi, mentre 310 sono in custodia cautelare. Gli stranieri sono 386, circa il 30 per cento del totale, le donne 41. Solamente 6 i semiliberi. Il 57 per cento dei detenuti definitivi sta scontando una pena inferiore ai 5 anni, vale a dire che, in considerazione delle ulteriori detrazioni concedibili attraverso la liberazione anticipata, queste persone sono in grado di vantare un’aspettativa qualificata alla concessione dell’affidamento in prova ai servizi sociali": questi i numeri sulla situazione carceraria umbra forniti dal Garante delle persone sottoposte a misure restrittive o limitative della libertà personale, Carlo Fiorio, che ieri ha presentato la propria relazione all’Assemblea legislativa dell’Umbria nel corso della riunione della Terza commissione. I principali problemi evidenziati, oltre a quelli rappresentati dai detenuti sulle dimensioni ridotte delle stanze e sulla bassa temperatura, sono costituiti dal probabile accorpamento del provveditorato umbro sull’amministrazione penitenziaria a quello della Toscana. "Sarebbe importante - ha detto Fiorio - mantenere l’esperienza del "Polo universitario penitenziario", comprendente l’ufficio del garante, l’Università degli studi di Perugia, l’Adisu e il Prap, che hanno firmato un protocollo con l’obiettivo di favorire il diritto allo studio. Per quanto riguarda l’assistenza sanitaria, medici e infermieri offrono una copertura di 24 ore al giorno, ma dal dicembre 2014 è entrato in vigore un piano di ristrutturazione della medicina penitenziaria che prevede la costituzione di graduatorie aziendali all’interno delle quali saranno selezionati e assunti con contratti annuali nuovi medici, alcuni dei quali potrebbero essere alla loro prima esperienza lavorativa, circostanza che potrebbe arrecare disagi dal momento che i detenuti, oltre ai sintomi ordinari legati alle malattie di cui soffrono, hanno una serie di sintomatologie collaterali legate alla condizione detentiva che potrebbero non essere correttamente trattate da medici inesperti, che potrebbero anche essere più esposti a valutazioni non corrette sullo stato patologico a volte millantato dai detenuti allo scopo di ottenere ricoveri ospedalieri esterni". Il garante ha anche segnalato la circolare che preclude la possibilità di essere rappresentato da persone da lui delegate nei colloqui con i detenuti e il fatto che vi assista un agente di polizia che non si limita al controllo a vista ma ascolta anche, secondo Fiorio, "in violazione della legge, che lo prevede solo per il 41 bis". Il garante ha sottolineato anche l’importanza delle attività culturali che affievoliscono le conflittualità della detenzione, come ad esempio il teatro, e l’utilità di mettere a contatto le scuole con la popolazione carceraria, per una migliore cognizione sociale delle problematiche connesse. Infine, la possibilità che siano incrementate sia le visite, per esempio alla domenica, per non discriminare i figli delle persone detenute, e i trasporti verso le strutture detentive, che generalmente non godono di fermate nelle adiacenze. Roma: Orlando "per il Giubileo utilizziamo i detenuti per il miglioramento della città" Askanews, 30 ottobre 2015 "Interverremo per rafforzare in modo strutturale gli uffici e credo saranno previste norme per far fronte alla domanda eccezionale che si svilupperà sul fronte della giustizia, è avvenuto per Expo e credo avverrà anche per il Giubileo". Così il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, in occasione della firma di un accordo con la regione Lazio. "Abbiamo cominciato a progettare un utilizzo dei detenuti per gli interventi di miglioramento della città e abbiamo fatto qualche esperienza pilota molto positiva e mi auguro che in cooperazione con gli enti territoriali si possa fare una cosa di dimensioni più ampie. Anche perché questo - come ci ha ricordato più volte il Santo Padre - è il Giubileo della Misericordia e il tema della modalità dell’esecuzione della pena - ha detto - sarà importante e al centro dell’attenzione come lo è spesso nelle parole del Papa e credo che questo lavoro possa andare esattamente in quella direzione. Ho detto che parlare in astratto di riabilitazione, rieducazione, restituzione rischia di essere poco compresa dall’opinione pubblica che è fortemente condizionata da molte paure talvolta anche indotte e dimostrare concretamente che chi sta in carcere può dare una mano a risolvere alcuni problemi della comunità credo sia il modo migliore per affermare questi principi" ha concluso il ministro Orlando. Savona: pentole contro inferriate, i detenuti contestano l’annunciata chiusura del carcere Il Secolo XIX, 30 ottobre 2015 Dopo la lettera al ministro, la contestazione. Con il rumore, assordante, di pentole e coperchi sbattuti con violenza contro le inferriate. È la protesta, pacifica che l’altra sera e ieri pomeriggio, hanno inscenato i detenuti del Sant’Agostino contro la notizia della chiusura del carcere di Savona. "Almeno prima costruitene un altro" hanno scritto nella lettera. Ma ormai lo smantellamento è iniziato, come dimostra lo spostamento, iniziato negli ultimi due giorni, dei primi detenuti nelle carceri di Sanremo e Marassi. Stando a quanto trapelato, ne rimarranno al Sant’Agostino, una ventina, al massimo venticinque, in attesa della chiusura definitiva che comunque dovrebbe slittare al prossimo anno. Un piano di dismissione che a sua volta non trova d’accordo il Sappe, il sindacato autonomo di polizia penitenziaria. I sindacalisti chiedono che il Sant’Agostino, in attesa della costruzione del nuovo carcere, non chiuda del tutto, ma resti aperto come "casa arresto", nella quale "parcheggiare" le persone arrestate e in attesa di interrogatorio. Questo consentirebbe di mantenere un presidio degli agenti penitenziari. E gli altri? Il Sappe, su questo punto, non transige. "Non accetteremo - dice il segretario regionale Michele Lorenzo - deportazioni in massa. Dovranno prima essere accolte le richieste del personale. Una parte degli agenti potrebbe poi essere spostata alla scuola penitenziaria di Cairo". Il Sappe intanto sta pensando di organizzare un sit-in di protesta davanti al palazzo del Governo o del tribunale. Bari: "Atelier dell’Ausilio", così il carcere si apre alla società Agenparl, 30 ottobre 2015 Ridurre la spesa sanitaria delle Asl, combattere gli sprechi, reinserire socialmente condannati, recuperare materiali che diventerebbero rifiuti, offrire ai disabili un servizio personalizzato: sono diversi i significati del progetto "Atelier dell’Ausilio". L’iniziativa di reinserimento socio-lavorativo, è stata presentata a Bari, in Consiglio regionale e impegna sette operatori, formati professionalmente, regolarmente contrattualizzati dal 1 ottobre. Tre sono detenuti e lavorano nell’officina allestita nel carcere di Lucera. Quattro sono in affidamento ai servizi sociali e curano il magazzino e i trasporti, in una piattaforma logistica nella zona industriale di Cerignola. L’attività consiste nel ritiro, manutenzione, sanificazione e restituzione di carrozzine e presìdi protesici, assegnati in comodato gratuito a disabili, ad anziani e persone non autosufficienti. Materiali che anche per un guasto banale finiscono spesso negli scantinati. Per l’Asl di Foggia si stima un abbattimento del 60-70% della spesa per il nuovo. Significa risparmiare ogni anno almeno 5milioni di euro degli 8 milioni assegnati al servizio, ma sufficienti a coprire le esigenze di sei mesi. Una "buona pratica" che sta entrando solo ora a regime ma che vale: tutti d’accordo gli intervenuti, il presidente del Consiglio regionale Mario Loizzo, il garante regionale dei detenuti Pietro Rossi, il provveditore della giustizia in Puglia Giuseppe Martone con il dirigente della Sezione sicurezza del cittadino Stefano Fumarulo, il direttore del carcere di Lucera Valeria Pirè e Marco Sbarra, direttore di Escoop, che con altre imprese di partenariato sociale sta realizzando il progetto, finanziato dalla Fondazione Con il Sud (350mila euro, nell’ambito dell’iniziativa Carceri 2013) e da partner privati (70mila euro). Offre ai soggetti selezionati un mestiere da spendere sul territorio e un’attività produttiva che può continuare nel tempo. Si realizza così pienamente il dettato della Costituzione che vuole la pena destinata alla riabilitazione del condannato, ha sottolineato il presidente del Consiglio regionale. "Abbiamo l’obbligo di tentare e ritentare, con mille iniziative come questa, che ha un valore straordinario, un carattere concreto e simbolico - ha detto Loizzo - sono piccoli numeri ma danno il senso di quanto è possibile fare per raggiungere obiettivi che qualificano la società civile". Un progetto da estendere alle altre realtà carcerarie in Puglia (3200 i reclusi, dopo un picco di oltre 5000, ha osservato Martone). Il limite la mancanza di fondi e gli spazi ristretti, in strutture carcerarie obsolete. Al primo si proverà a dare risposte proprio sulle indicazioni di questo progetto pilota. Il presidente Loizzo si è detto disponibile a monitorarlo, per trovare insieme al presidente Emiliano, all’Assessorato alla sanità ed ai direttori generali delle Asl, forme e modi per sostenere ed estendere "un’esperienza per molti aspetti virtuosa". Siracusa: "non c’è il braccialetto elettronico", detenuto resta in carcere un mese in più di Daniela Franzò Giornale di Sicilia, 30 ottobre 2015 Era stato ammesso ai domiciliari con l’ausilio del "braccialetto elettronico" lo scorso settembre ma il provvedimento non è diventato esecutivo in quanto la casa di reclusione era sprovvista dello strumento per il controllo elettronico delle persone sottoposte a misure alternative al carcere. La difesa ha insistito nella richiesta e ritenendo legittimo il diritto del detenuto ad usufruire del beneficio di legge alla luce di una recente sentenza della Cassazione ha riproposto l’istanza che è stata accolta questa volta dal gip senza condizioni, cioè senza l’ausilio dello strumento elettronico. È così tornato in libertà ieri pomeriggio il siracusano Vincenzo Latina, 23 anni, rimasto coinvolto lo scorso 15 maggio nell’operazione antidroga denominata "Euripide e Mammona" con l’arresto di ventitré persone ritenute a vario titolo coinvolte in una presunta organizzazione dedita al traffico delle sostanze stupefacenti lungo l’asse tra Sicilia, Lombardia e Calabria. A firmare il provvedimento, in accoglimento di un’istanza presentata dal difensore dell’indagato, avvocato Junio Celesti, è stato il gip del tribunale di Catania Giancarlo Cascino dinanzi al quale è pendente il procedimento per gli imputati, tra cui Vincenzo Latina, che hanno chiesto ed ottenuto di definire la loro posizione giudiziaria avvalendosi del rito abbreviato. L’udienza è fissata per il 16 novembre. Roma: la villa del boss diventa una Casa Famiglia, manutenzione affidata ai detenuti di Mirella D’Ambrosio Corriere della Sera, 30 ottobre 2015 Pochi giorni dopo il sopralluogo effettuato nella villa sottratta alla criminalità organizzata, che si trova a Roma in via Kenya 72, per verificare l’idoneità della struttura destinata ad accogliere la prima Casa Famiglia protetta, il protocollo formalizza l’impegno del Capo del Dap Santi Consolo, l’assessore alle Politiche Sociali del Comune di Roma Francesca Danese e il Segretario Generale di Fondazione Poste Insieme Onlus, promossa da Poste Italiane, Massimiliano Monnanni. L’accordo, siglato nella sede del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, sancisce l’avvio del progetto per la Casa Famiglia protetta del Comune di Roma. Sarà il DAP a segnalare al Comune di Roma i nominativi delle persone (che si trovano in regime di detenzione o agli arresti domiciliari), da inserire nel progetto - poi ammessi con provvedimento del Tribunale di Sorveglianza - e ogni necessario supporto per l’accoglienza e la gestione delle misure. Inoltre, saranno impiegati detenuti in art. 21 O.P. per la pulizia della struttura, degli spazi verdi e per i piccoli interventi di manutenzione. Vicenza: Casa circondariale di San Pio X; dopo i vermi, fotografati scarafaggi nel cibo vicenzatoday.it, 30 ottobre 2015 Dopo i vermi nel cibo, il personale del Casa circondariale di San Pio X si è trovato degli scarafaggi nel piatto. Chiusa la mensa interna, i sindacati sul piede di guerra: "Adesso partono le denunce". L’igiene alimentare all’interno del carcere di San pio x torna a far discutere. Dopo i vermi ritrovati nel cibo fornito al personale del carcere una settimana fa, questa volta a finire nel piatto sono stati alcuni scarafaggi. A seguito di questo episodio il Direttore della casa circondariale ha disposto la chiusura della mensa interna. Sembra servita a poco l’ispezione dei tecnici dell’Ulss 6 chiesta dia sindacati che ora minacciano le denunce. "La Funzione Pubblica CGIL ha chiesto immediatamente un incontro al provveditorato ed invierà una richiesta di ispezione presso la Casa per il giorno 9 Novembre p.v. - scrivono i sindacati - Nel frattempo chiediamo al Direttore di predisporre ed assegnare ai dipendenti un buono pasto da consumarsi all’esterno della Casa Circondariale. Avvisiamo anche che questo comunicato stampa verrà inoltrato al Nas dei Carabinieri di Vicenza per gli adempimenti che ne derivano. Ci preme ricordare che anche la situazione organica del personale civile amministrativo si trova in carenza del 50%, in particolare nell’area giuridico pedagogica che, a fronte di una popolazione carceraria di circa 250 soggetti, con capienza della Casa Circondariale di 136 unità, è insufficiente per quanto previsto dalle norme. L’area pedagogica svolge la sua attività professionale per i detenuti, la polizia penitenziaria e la magistratura di sorveglianza ed è quindi necessario integrare i tre funzionari oggi in servizio con almeno altre sei unità, anche in considerazione della imminente apertura del nuovo padiglione, che avrà una capienza di ulteriori 200 detenuti. Ribadiamo e riteniamo indispensabile un intervento fattivo per ripristinare le condizioni igienico sanitarie di tutta la Casa Circondariale. Verona: carcere di Montorio, agente aggredito da un detenuto con coltello rudimentale veronasera.it, 30 ottobre 2015 Sabato 31 ottobre, gli agenti di polizia penitenziaria manifesteranno davanti alla casa circondariale di Montorio contro il disagio degli ultimi mesi. Il 28 ottobre l’ultimo episodio di violenza da parte di un detenuto. L’iniziativa "Veronamarathon corre dentro" è stata annullata, ma nel giorno della gara che avrebbe visto coinvolti 15 detenuti, davanti al carcere di Montorio si terrà un altro "evento". Sabato 31 ottobre, infatti, gli agenti di polizia penitenziaria manifesteranno davanti alla casa circondariale per esprimere tutto il loro disagio per la situazione insostenibile in cui versa al momento la struttura. Ogni settimana si segnalano episodi di violenza nel carcere veronese e l’ultimo in ordine di tempo risale a mercoledì 28 ottobre. Questa volta un detenuto ha aggredito un agente con una rudimentale arma fendente, nascosta nella biancheria intima. Come riferisce L’Arena, il detenuto ha cercato di colpire al fianco e al collo un poliziotto. Su L’Arena, si riporta una nota stampa di pochi giorni fa dei rappresentati sindacali degli agenti penitenziari, Sappe, Osapp, Uspp, Cisl e Cgil, i quali avevano chiesto ai dirigenti del Dipartimento di sospendere la manifestazione sportiva del 31 ottobre: "Egregio provveditore, più volte abbiamo lamentato alle autorità l’incapacità di questa dirigenza nella gestione della popolazione detenuta, in particolare nei confronti di quei soggetti che si sono resi responsabili degli eventi critici più gravi avvenuti nell’istituto. La mancata o ritardata applicazione delle procedure disciplinari in diversi casi, ha contribuito a diffondere nella popolazione detenuta la convinzione di una possibile impunibilità, con le conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti (vedasi esponenziale crescita eventi critici). Non temiamo smentita perché anche in occasione dell’ultimo episodio che ha visto oggetto della violenza verbale di un detenuto una delle poliziotte, che lo vogliamo ricordare è accaduto nella mattinata del 21 ottobre, il soggetto in questione, che aveva il fine pena nella giornata gusto ieri, è uscito dalla struttura penitenziaria senza che venisse adottato alcun provvedimento disciplinare. Mentre gli appartenenti al corpo della polizia penitenziaria hanno svolto con tempestività l’attività prevista, la direzione veronese non ha adottato alcun provvedimento". Siena: vecchi pneumatici riciclati diventano un campo sportivi per detenuti di Cristina Montagnaro Il Messaggero, 30 ottobre 2015 Un campo da calcio, realizzato grazie al riciclo di copertoni raccolti sul territorio. Nasce a Siena, nella casa circondariale Santo Spirito di Siena, una struttura completamente realizzata in gomma riciclata, proveniente dalla frantumazione di pneumatici fuori uso. Sul campetto da calcio potranno giocare settanta detenuti del carcere di Siena. La riqualificazione del campetto da calcio è stata possibile grazie al connubio con l’amministrazione di Rapolano Terma, in provincia di Siena, che ha contribuito al recupero e alla rimozione di 2000 tonnellate di pneumatici fuori uso, ammassate abusivamente da oltre 20 anni, con un forte rischio per la salute dei cittadini. Una parte di quei Pfu prelevati nella collina di Rapolano, oggi, sono diventati granuli utilizzati per la pavimentazione del campo sportivo dell’Istituto Santo Spirito, uno spazio di 150 metri quadrati ricavato all’interno delle mura perimetrali del carcere. Il progetto è stato ideato dall’Uisp, unione italiana sport per tutti, che si occuperà di gestire le attività all’interno del carcere, attraverso i suoi educatori. "La realizzazione del campo da calcio in gomma riciclata per i detenuti del Santo Spirito rappresenta un concreto esempio di economia circolare, - spiega Giovanni Corbetta, direttore generale di Ecopneus. capace di generare impatti positivi a livello economico, ambientale e sociale È questa la "circular economy" che Ecopneus vuole favorire, incentivando il recupero dei pneumatici arrivati a fine vita come materia destinata a nuovi usi". E infatti i pneumatici usati se raccolti in maniera corretta possono costituire una risorsa importante, utilizzabile in molti modi: per fare strade più sicure, per ridurre l’inquinamento acustico, per costruire campi da calcio, atletica, basket e pallavolo. Libro: "Il prezzo di due mani pulite", di Francesco De Palma, presentato a Secondigliano di Rosanna Borzillo Nuova Stagione, 30 ottobre 2015 Al Centro penitenziario di Secondigliano, la presentazione del libro di Francesco De Palma sulla storia di Floribert Bwana Chui. Floribert Bwana Chui era un giovane credente, estroverso, ottimista: ha pagato con la vita il suo desiderio di non cedere alla illegalità, di mantenere le sue "mani pulite". La storia di Floribert potrebbe essere la storia di chiunque decide di non abbassare la testa e di resistere alla corruzione perciò non c’è uditorio migliore che l’istituto penitenziario di Secondigliano per raccontare la vicenda del giovane congolese. Qui, l’autore del libro "Il prezzo di due mani pulite", Francesco De Palma, con il direttore del carcere Liberato Guerriero, un detenuto, il cappellano don Raffaele Grimaldi, il giornalista Gianluca Abate, e il procuratore della Repubblica Giovanni Colangelo, mercoledì 7 ottobre, sono intervenuti ad un dibattito moderato da Antonio Mattone della Comunità di Sant’Egidio. "La storia di Floribert - spiega Mattone - ha appassionato tutti i detenuti durante le catechesi. In tanti hanno partecipato al progetto della comunità "Liberare i prigionieri in Africa" e la storia del nostro giovane amico è diventata esempio da condividere e sui cui riflettere. Floribert è un martire dell’integrità contro la corruzione". Floribert si affaccia all’età adulta in una Repubblica Democratica del Congo appena uscita dalla guerra civile. A venticinque anni trova lavoro come caposervizio dell’Agenzia congolese che vigila sulla qualità delle merci in entrata e in uscita dal Paese. Intende lavorare con rettitudine, nonostante viva in uno dei contesti tra i più violenti e corrotti del mondo; quando gli offrono migliaia di dollari perché faccia passare una partita di riso avariato, il giovane rifiuta. E continua a farlo anche quando seguono le minacce. La sua coscienza gli impedisce di scendere a patti. Ed è la morte. Martire dell’integrità di fronte alla corruzione, Floribert indica una via di riscatto per il Congo e per l’Africa. "Ma la storia di Floribert può essere la storia di ciascuno di noi - spiega il procuratore della Repubblica Giovanni Colangelo - Rapine, furti, omicidi hanno conseguenze su chi non ha fatto nulla. Basterebbe valutare il peso delle proprie azioni anziché sforzarsi di fare grandi gesti. Non abbiamo bisogno di eroi - prosegue, fissando i detenuti - ma di cittadini responsabili". In lui "si possono rispecchiare - prosegue Colangelo, rivolto ai detenuti presenti- tutti quelli che scelgono di respingere la criminalità, coloro che scelgono di non stare in silenzio e, rischiando in prima persona, di non danneggiare gli altri". "In realtà Floribert - aggiunge il giornalista Abate -è il nostro Diana, una persona che ha respinto la criminalità. Dalla storia, una grande lezione: una regione deturpata e offesa ed un uomo che si ribella, che non vuole girare la testa dall’altra parte. Come Floribert, così ci sono tanti qui a Napoli che scelgono la strada dell’onestà, ma non cerchiamo martiri, cerchiamo uomini che facciano il proprio dovere civico". Al dibattito anche il cappellano don Raffaele Grimaldi che ha ricordato "il sangue versato nelle strade, la terra umiliata e ferita, i soprusi perpetrati - invitando tutti - ad un esame di coscienza per rifiutare la violenza che uccide". Commuovente la testimonianza di Santo, un detenuto, che ha raccontato la sua emozione nel leggere il libro e la storia di Floribert "un esempio che deve illuminare tutti noi". Floribert non è morto invano. Stranieri criminali? Meno degli italiani di Adriana Comaschi L’Unità, 30 ottobre 2015 Aumentano invece le denunce contro autoctoni. La Lega, spiazzata, insorge. Numeri che fanno giustizia dei pregiudizi. E che raccontano un’Italia impaurita, incapace di distinguere tra campagne mediatiche e realtà quando si tratta di accostare migranti e criminalità. Accostamento strumentale, appunto, se come testimonia il rapporto Idos gli stranieri nel Belpaese commettono in proporzione meno reati degli italiani e meno gravi. E a sfatare un altro luogo comune che li vuole "liberi subito" nonostante i crimini commessi, lo studio evidenzia anche come in caso di accuse o condanne, i migranti vengano "più facilmente fermati e arrestati" rispetto agli autoctoni. Un quadro che il leghista Roberto Calderoli bolla subito come "un concentrato di falsità". Facile capire il perché Calderoli accosti quasi 500 pagine fitte di dati alla "Pravda di Lenin" che dipinge "un mondo fantastico". È lo stesso vice presidente del Senato del resto a spiegare cosa trova inconcepibile: uno dossier "che descrive gli immigrati come brava gente, che non delinque, vittima di stereotipi, che contribuisce in modo determinante al Pil". Ad essere precisi, lo studio non sostiene ovviamente che i migranti non delinquono, ma appunto che non lo fanno in misura maggiore degli autoctoni, e che anzi si verifica il contrario. Uno schiaffo comunque a uno dei punti cardine della fortuna politica del Carroccio, nel la lotta senza esclusione di colpi per la leadership del centrodestra. Non solo, il dossier nota in premessa come "in questi anni di crisi è crescente, secondo Eurostat. la preoccupazione dei cittadini, sia in Italia che negli altri Stati dell’Ue, nei confronti degli immigrati e della loro criminalità, spesso enfatizzata sui media. Siamo di fronte a un complesso fenomeno di psicologia sociale che nel passato ha riguardato l’atteggiamenti di molti paesi esteri verso gli immigrati italiani. Una metodologia in grado di ridimensionare le reazioni infondate consiste nel corretto utilizzo delle statistiche". Ed ecco allora i dati. Il dossier allarga lo sguardo alle denunce di reati di tutta l’Europa a 28 Stati. E si sofferma su un punto: tra il 2004 e 2013 le denunce contro italiani, a fronte di una popolazione in leggera diminuzione, sono cresciute del 28% (da 513.618 a 657.443), mentre quelle contro stranieri risultano in calo del 6,2% (da 255.304 a 239.701), nonostante una popolazione più che raddoppiata. E ancora, in questo stesso arco di tempo si può mettere a fuoco l’incidenza percentuale delle denunce contro stranieri sul totale di quelle contro autore noto: anche questa voce registra un calo, e di ben un terzo, dal 32,5% al 26,7%, con una maggior incidenza nel Centro (32,5%) e nel Settentrione (Nord Est 36,3% e Nord Ovest 37,2%) rispetto alle Isole (12,0%) e anche al Sud (13,2%). Un paragrafo è dedicato anche ai detenuti stranieri. Al 30 giugno 2015, l’amministrazione penitenziaria ne ha rilevati 17.207, pari al 32,6% dei 52.754 reclusi delle 198 carceri italiane. A fronte di un calo delle presenze carcerarie negli ultimi anni, il numero dei reclusi stranieri è diminuito in misura maggiore di quel lo dei detenuti italiani, e cioè del 4% in cinque anni. Il dossier rileva poi come "i detenuti stranieri commettono - o sono accusati di avere commesso - i reati meno gravi dal punto di vista dei beni o degli interessi costituzionalmente protetti. Ma nei loro confronti maggiormente opera l’azione di repressione di polizia: essi più facilmente vengono fermati o arrestati rispetto agli autoctoni". In cifre: negli istituti di pena il 29,3% dei condannati in via definitiva è straniero, come lo è il 39,5% dei detenuti non ancora condannati ma in attesa di giudizio e il 40,7%di quelli in attesa di primo giudizio. Altissima poi la percentuale degli stranieri condannati a pene lievi, cioè a meno di tre anni di carcere: è del 43%. Quanto ai reati commessi, il 76,9% dei detenuti stranieri è in carcere per reati legati alla prostituzione, il 34,7% per violazione della legge sulle droghe, il 27% per reati contro il patrimonio. In coda alla frontiera prima del muro "la barriera austriaca non ci fermerà" di Andrea Tarquini La Repubblica, 30 ottobre 2015 A Spielfeld sono iniziati i lavori per blindare il confine, ma mille migranti sfondano il blocco: "Vogliamo arrivare in Germania". Alla fine hanno deciso il tutto per tutto. Quando dopo ore d’attesa sotto la pioggia hanno saputo dell’imminente innalzamento del muro austriaco, oltre mille migranti del campo di transito sloveno di Sentilj hanno preso bimbi e anziani e hanno sfondato le barriere metalliche già poste da Vienna e da Lubiana. "Basta aspettare, no ai vostri muri, marciamo verso un futuro migliore, viva la Germania, viva la Merkel", hanno gridato. E sono riusciti a passare. La crisi dell’Europa oggi ha il suo epicentro qui, nella placida zona collinosa tra Austria e Slovenia dove da un lato e dall’altro del confine i villaggi si somigliano come ai tempi di Francesco Giuseppe. Qui dove feste in comune e matrimoni misti erano tradizione, il muro annunciato apre gelide crepe di diffidenza. "Non ci fidiamo più di quelli dell’altra parte", dicono entrambi, usando un linguaggio d’odio sconosciuto dal 1945. La linea dura austriaca iniziata l’altro ieri sera, qui ha suscitato shock: a Spielfeld e per diversi chilometri a est e a ovest del passaggio di confine, sorgerà al una barriera per sigillare la frontiera. Il muro di Orbán fa proseliti, qui lo vedi con i tuoi occhi. Non si sa quanto sarà lunga né alta la barriera, ma genieri del Bundesheer, il piccolo esercito austriaco, e i tecnici governativi sono già al lavoro per progettarla in corsa. "Dobbiamo costruire un’Europa-fortezza", ha detto ieri la ministra dell’Interno austriaca, la democristiana Johanna Mikl-Leitner, durante una visita al confine, per confortare e incitare alla linea dura poliziotti e soldati allo stremo, troppo pochi contro lo Tsunami umano. "Non ne possiamo più, neanche il loro Muro ci fermerà", dice il 29enne afgano Mohammed Reza Musafari, e racconta: "Siamo stati svegliati prima dell’alba dai poliziotti sloveni, in modo rude. "Muovetevi, adesso andate in Austria", ci hanno detto. Abbiamo marciato nel buio tra i campi, finché soldati e poliziotti austriaci ci hanno fermato, e per ore siamo rimasti nella Terra di nessuno, l’Austria, via del sogno verso la Germania era solo a 300 metri ma irraggiungibile. E non potevamo più tornare indietro, gli sloveni ce lo avevano detto. Allora alla fine abbiamo sfondato". Sono appena arrivati qui dalla parte austriaca, e Mohammed Reza si stringe alla giovane moglie: lei ha forti dolori al ventre, non sanno nemmeno se sia malata o incinta perché nessun medico li soccorre. Chiedono ad agenti e militari, "qual è la via per la Germania?" e nessuno dà loro una risposta. Spielfeld, simbolo dell’Europa senza frontiere di Schengen che rischia di morire. "Gli sloveni", dicono i poliziotti austriaci, "ci hanno inviato senza preavviso treni speciali con a bordo duemila o tremila profughi, ma al massimo ne sono passati cinque-seicento". Nervi a fior di pelle nei profughi che hanno sfondato le recinzioni, nei soldati e negli agenti. Il benvenuto caloroso, il soccorso solidale che vedemmo in ottobre dalla parte austriaca del confine con l’Ungheria di Orbán, è sparito. "Andatevene, giornalisti, non avete l’autorizzazione a stare qui", intima un militare del Bundesheer a colleghi della tv austriaca. Militari e poliziotti respingono persino i giovani volontari e i medici delle Ong accorsi per aiutare i migranti, prima che nasca il muro di Vienna. Muro troppo piccolo per arginare la grande migrazione: da Spielfeld, in una settimana, di migranti ne sono passati oltre 58mila e 75 autobus carichi di profughi sono attesi in Baviera provenienti dall’Austria. "Non sappiamo gestire la crisi e adesso annunciamo il muro, intanto a Vienna abbiamo già migliaia di migranti senza tetto, con l’inverno e le gelate in arrivo. Le stazioni della capitale sono già piene, non c’è più posto", spiega allarmato Peter Hacker, responsabile governativo per i migranti. Anche i poliziotti sono allo stremo, troppo pochi davanti alla marea umana: e ora minacciano uno sciopero. "Nelle prossime ore, con noi ancora senza muro, potrebbero arrivarne altri 14 mila", afferma un ufficiale in tenuta da campo. Scontri, scambio d’insulti, tensione tremenda tra migranti passati a forza, militari e agenti. Da lontano, i profughi hanno visto la ministra ideatrice del muro, Johanna Mikl-Leitner, che da una collina osservava la situazione. Non conoscono i volti d’Europa, hanno subito chiesto con speranza: "Chi è, Angela Merkel?". "No, vi sbagliate, sedetevi in terra e non andate oltre", gli hanno risposto in inglese urlando nervosissimi i militari del Bundesheer. "Imparate ad aspettare: e a lungo. Avete tempo". Immigrati: l’Italia ci guadagna 3 miliardi l’anno di Corrado Giustiniani Secolo XIX, 30 ottobre 2015 Una svolta epocale. Adesso sono più gli italiani che emigrano degli stranieri che giungono da noi. Non accadeva da quarant’anni. Il 1975 era considerato infatti l’ultimo testimone della nostra ultracentenaria storia di espatri. Dall’anno dopo, l’inversione di segno. Non si espatria più, arrivano gli immigrati. Non ce ne siamo quasi accorti, perché i primi stranieri erano quasi invisibili, i pescatori tunisini di Mazara del Vallo, confinati nei pescherecci, le colf filippine e di Capo Verde, chiuse nelle case dei ricchi di Torino, Milano, Genova, Roma. E i primi venditori ambulanti che battevano le spiagge estive e a fine stagione sembravano sparire. Poi l’esplosione, che ha portato a stimare gli stranieri regolarmente presenti in Italia a 5 milioni 421 mila. Ma l’anno scorso 155mila connazionali hanno lasciato il Paese in cerca di maggior fortuna all’estero, mentre gli stranieri della Penisola sono aumentati soltanto di 92mila unità. Parola del Dossier Statistico Immigrazione 2015, la bibbia degli addetti ai lavori, curato dal Centro di ricerche Idos e dalla rivista Confronti, finanziato dalla Chiesa Valdese. Pochissimi gli ingressi per lavoro, riservati oggi solo agli stagionali dell’agricoltura, ai lavoratori autonomi e professionalità elevate. Gli stranieri sono aumentati quasi soltanto grazie ai ricongiungimenti familiari e ai nuovi nati, 75 mila, nel 2014, da genitori non italiani. Sull’altro piatto della bilancia, in 155 mila non hanno rinnovato il permesso di soggiorno, perdendo così il diritto a restare in Italia. E dire che ci furono annate in cui gli immigrati aumentavano a botte di mezzo milione: nel 2007 furono 530 mila in più, l’anno dopo 505 mila. Ma come la mettiamo allora con l’impressione di essere invasi dall’estero, che tuttora i media ci istillano, e sulla quale i politici della Lega soffiano? Sono i profughi, i richiedenti asilo a caratterizzare l’attuale stagione migratoria: 60 milioni in tutto il mondo. E 170 mila sbarchi in Italia, lo scorso anno, anche se poi le domande di asilo sono state soltanto 65 mila. Fuggono i siriani (prevalentemente in Grecia) gli eritrei, gli afghani. È un tema che ci accompagnerà per molti anni e al quale l’Europa non ha saputo ancora dare una degna risposta. Il rapporto Idos fornisce più di un segnale incoraggiante sugli immigrati che si sono stabiliti in Italia. Per molti, integrazione non è una parola vuota. Ben 130 mila, nel 2014, hanno ottenuto la cittadinanza italiana: il 30 per cento in più dell’anno prima, e due volte e mezza in più rispetto ai 53 mila del 2008. Inoltre sei cittadini non comunitari su dieci hanno il permesso permanente per lungo soggiornanti, che si conquista dopo cinque anni di residenza regolare e che darà diritto ai loro figli di essere italiani alla nascita, quando la riforma della cittadinanza passata alla Camera sarà varata anche dal Senato. Il 53 per cento degli immigrati sono donne e il 23 per cento minori, un dato che conferma la dimensione familiare della presenza straniera. Ma ancora: non è vero che gli immigrati siano ladri di welfare. Il saldo tra quanto l’Italia spende per gli stranieri, e le entrate che questi procurano è di 3,1 miliardi di euro a loro favore. Tra gettito fiscale (6,1 miliardi) e contributi previdenziali (10,5 miliardi) ci arrivano infatti 16,6 miliardi di euro, mentre il totale delle uscite (sanità, scuola, giustizia e altro) è di 13,5 miliardi. Persino nel penale ci sono miglioramenti: dal 2004 al 2013 le denunce con autori noti sono diminuite del 6 per cento per loro (da 255 a 239 mila) nonostante la popolazione immigrata da allora sia più che raddoppiata, mentre quelle a carico di italiani sono aumentate del 28 per cento, toccando quota 657 mila. Persino nelle 198 ultra affollate carceri italiane gli immigrati, che vengono messi dentro più facilmente, a parità di reato, sono in leggera diminuzione: al 30 giugno 2015 erano detenuti 17.200 stranieri, il 32,6 per cento del totale. Sempre tanti, ma quattro punti percentuali in meno rispetto a cinque anni prima. "Uso della forza per prendere le impronte" di Leo Lancari Il Manifesto, 30 ottobre 2015 Ricorrere all’uso forza per identificare i migranti che rifiutano di fornire spontaneamente le proprie generalità e di farsi prendere le impronte digitali. È l’ipotesi a cui starebbe pensando il governo, almeno stando a quanto affermato ieri in commissione Migranti della Camera dal direttore del Dipartimento immigrazione e della polizia di frontiera Giovanni Pinto. Se confermata, la novità rappresenterebbe un deciso cambio di linea rispetto al comportamento tenuto fino a oggi dalle forze dell’ordine anche se dovrebbe comunque prima ottenere il via libera da parte del parlamento. Ma intanto ha lasciato senza parole i deputati di fronte ai quali Pinto ha parlato. "Un’ipotesi, quella avanzata dal prefetto, che ci ha lasciati stupiti e che personalmente non mi trova d’accordo", ha commentato il presidente della Commissione Gennaro Migliore. Quella del capo Dipartimento immigrazione e polizia di frontiera fa parte delle audizioni indette dalla commissione parlamentare per il suo lavoro di indagine sull’accoglienza dei migranti in Italia. "Il governo - ha spiegato Pinto - sta cercando di introdurre una norma che consenta l’uso della forza nei confronti dei migranti che rifiutano il foto segnalamento". Non si tratta, ha aggiunto, "di spaccare le ossa, ma di permettere un uso della forza commisurata alle esigenze di identificare chi arriva in Italia, come ci chiede l’Europa". Da Frontex arriveranno dieci esperti in raccolta delle impronte per aiutare i funzionari italiani a superare le difficoltà che incontrano: "Ci sono migranti che si mettono in posizione fetale per evitare di essere identificati, a volte si impiegano anche 40 minuti per una identificazione", ha proseguito Pinto. La norma messa a punto dal Dipartimento guidato da Pinto, si trova attualmente sul tavolo del ministro degli Interni Alfano per una sua valutazione. Prevede la possibilità di trasferire in un Cie il migrante che rifiuta di farsi identificare, con relativa richiesta al giudice di autorizzare il trattenimento e - si specificherebbe - il prelievo coattivo delle impronte digitali, nel rispetto della dignità dello straniero. Tutto da chiarire cosa si intenda per prelievo coattivo delle impronte, se poggiare forzatamente la mano del migrante sulla macchina che rileva le impronte (con il rischio tra l’altro di rendere non valida l’operazione) o altro. Se comunque Alfano darà il suo via libera, spetterà poi al consiglio dei ministri valutare la norma e, infine, al parlamento. Se è vero che quello delle identificazioni è uno dei punti sui quali Bruxelles insiste di più con l’Italia, accusata di non impegnarsi più di tanto nel prendere le impronte digitali dei migranti, è pur vero che da quando in Europa si è giunti a un accordo sui ricollocamenti di siriani ed eritrei le cose sono cambiate. Come dimostrano i numeri, che parlano di una media di identificazioni pari al 70% dal primo gennaio al 30 settembre, improvvisamente balzata al 95% a ottobre, dopo il consenso trovato proprio sui ricollocamenti. Una novità infine per i richiedenti asilo che hanno ottenuto il permesso di soggiorno per motivi umanitari o per protezione sussidiaria. Fino a ieri il rinnovo doveva essere fatto presso la questura che aveva rilasciato il provvedimento. Su proposta ella commissione Migranti il Viminale ha reso possibile effettuare i rinnovi presso qualunque questura. Arabia Saudita: Premio "Sakharov" a Raif Badawi, il blogger condannato a morte di Michele Giorgio Il Manifesto, 30 ottobre 2015 Il riconoscimento dell’Europarlamento potrebbe salvare il blogger saudita da altre frustate e, forse, spingere le autorità a lasciarlo raggiungere la famiglia in Canada. Intanto si teme per la sorte del 21enne sciita Ali Mohammed an Nimr, arrestato quando era ancora minorenne, condannato a morte per decapitazione e crocifissione. Raif Badawi come Nelson Mandela e Malala Yousafzai. Il blogger saudita condannato dai giudici del suo Paese a mille frustate, dieci anni di prigione e ad una multa di 266mila dollari per aver offeso le monarchia Saud e le gerarchie religiose, si è visto assegnare ieri il Premio Sakharov, il "Nobel" del Parlamento europeo creato nel 1988 per gli alfieri dei diritti umani e della libertà di espressione. Un riconoscimento che potrebbe salvarlo da altre frustate e, forse, spingere i sauditi a lasciarlo partire e a raggiungere la moglie e i figli che hanno ottenuto l’asilo politico in Canada. Quella delle frustate è "la più brutale delle condanne, una vera tortura", ha detto il presidente dell’Europarlamento Martin Schulz, "faccio appello al re dell’Arabia Saudita affinché conceda la grazia lo liberi immediatamente". Schulz ha ricordato che i rapporti della Ue con i partner sono regolati anche sul rispetto dei diritti umani. Bene per Badawi ma quanta ipocrisia nelle parole del presidente Schulz. L’Ue che premia il blogger è quella che da decenni tace di fronte alle sistematiche violazioni in Arabia saudita dei diritti umani e politici, ai diritti negati alle donne, alle migliaia di prigionieri politici, alla negazione dei diritti delle minoranze religiose ed etniche e all’assenza di democrazia e di elezioni. È la stessa Europa che reclama democrazia e libertà in Siria e una dura punizione per il "brutale dittatore Bashar Assad" che deve uscire di scena, con le buone o con le cattive. I Saud al contrario sono intoccabili, perché fedeli alleati dell’Occidente in una regione strategica e perché comprano, grazie ai petrodollari, assieme agli altri monarchi del Golfo, armi statunitensi ed europee per decine di miliardi di dollari. Barack Obama qualche mese fa ha accolto con grande calore alla Casa Bianca il re saudita Salman. Raid Badawi rischia di tornare davanti alle centinaia di spettatori che lo scorso gennaio accanto alla moschea Al-Jafali di Gedda hanno assistito alle prime 50 frustate della sentenza che prevede altre 19 serie da 50. Il 30 luglio 2013 Badawi era stato condannato a sette anni di prigione e "soltanto" a 700 frustate ma l’anno successivo la pena in appello è stata aumentata a 1.000 colpi e dieci anni di prigione. La Corte suprema sino ad oggi ha rinviato la seconda sessione di frustate per le pressioni dei centri internazionali per i diritti umani e di alcuni Paesi. Ma la macchina della "giustizia" sarebbe pronta ad ordinare la ripresa della punizione. Ensaf Haidar, la moglie del blogger, ha saputo da fonti attendibili che a breve riprenderà il ciclo di frustate. Non ci sono per ora conferme ufficiale ma l’allarme non è infondato. Le autorità saudite non hanno mai indicato di voler rinunciare alla punizione di Badawi, anzi, hanno denunciato con irritazione le "ingerenze straniere" volte, affermano, ad imporre modelli estranei alla "cultura" del regno dei Saud. Badawi è colpevole di aver dibattuto, sul suo sito "Free Saudi Liberals", temi politici e religiosi. Già nel 2008 è stato condannato per apostasia e per aver denunciato che le università e le scuole religiose del paese sono laboratori dell’estremismo wahabita, corrente tra le più rigide del sunnismo. Badawi non è l’unico attivista in carcere. Molti altri sono dietro le sbarre e scontano pene persino più dure della sua. La condizione più critica è quella del 21enne sciita Ali Mohammed an Nimr, arrestato quando era ancora minorenne per aver partecipato a una protesta contro il regno. Lo attende una sentenza di morte per decapitazione e crocifissione. A complicare la posizione di an Nimr, che ha confessato le sue "colpe" sotto tortura, affermano gli attivisti dei diritti umani, è la sua stretta parentela con lo sceicco Nimr Baqr an-Nimr, un famoso imam sciita e oppositore della casa reale. Si teme anche per l’avvocato Waleed Abulkhair, arrestato e condannato lo scorso anno per "incitamento dell’opinione pubblica". Abulkhair era il legale di Raif Badawi e il suo arresto è strettamente legato al caso del blogger. Inizialmente era stato condannato a cinque anni di reclusione, pena prima sospesa e poi, a sorpresa, inasprita da un altro tribunale, specializzato in "terrorismo", che a inizio 2015 lo ha condannato a 15 anni. Il pugno di ferro delle autorità saudite si è inasprito durante la "primavera araba". Nel regno non ci sono state rivolte ma il timore che il malcontento tra i sudditi più giovani sfoci in azioni concrete ha spinto la monarchia a usare il bastone con i dissidenti politici e gli attivisti delle riforme. Di fronte a tutto ciò Bruxelles finge di non vedere. Non sarà il Premio Sakharov assegnato a Raif Badawi a cancellare l’ipocrisia europea. Turchia: la risposta dei media turchi "contro l’oppressione" di Fazila Mat Il Manifesto, 30 ottobre 2015 "Voci della democrazia unite contro l’oppressione". Così la prima pagina del quotidiano Cumhuriyet riassumeva ieri, all’indomani del blitz della polizia alla sede del gruppo mediatico (Koza) Ipek di Istanbul, il coro di protesta all’oscuramento dei canali televisivi Bugün e Kanal Türk e al blocco della diffusione dei due quotidiani dello stesso gruppo, Bugün e Millet. Un coro formato dai media turchi non pro-governativi come da numerosi giuristi, rappresentanti politici e della società civile. Il fatto ha unito i settori più disparati della società, dal movimento politico curdo ai kemalisti, dal partito dei nazionalisti che hanno condannato l’operazione all’unisono. Una situazione considerata quasi una minaccia dai media pro-governativi come Star che parla invece di una messa in scena pianificata dall’"organizzazione terroristica di Gülen e i loro alleati" per creare tafferugli spargendo la voce che si "stava attentando alla libertà di stampa". Un’operazione, insomma, "per influenzare la percezione dei fatti". Così, ad esempio, scrive anche l’editorialista del quotidiano Hüseyin Gülerce: "A tre giorni dalle elezioni, la decisione di assegnare dei commissari alle società in seno al gruppo Koza Ipek, ci ha dimostrato ancora una volta il livello di polarizzazione della nostra società", e aggiunge: "La resistenza dimostrata all’ingresso della sede dei media della Holding e il fatto che i deputati del Chp, Mhp e Hdp [rispettivamente il partito kemalista, nazionalista e filo-curdo ndr] che in condizioni normali non riescono a stare insieme, abbiano unanimemente sostenuto questa resistenza, ci serva da esempio per capire chi va a braccetto con chi". Ma le voci hanno contestato l’operazione della polizia seguita dalla decisione di "commissariare" 22 società del gruppo Koza Ipek, sotto indagine dallo scorso settembre, non solo per motivi legati alla libertà di stampa. Come Murat Yetkin che su Radikal scrive che il fatto è estremamente "preoccupante non solo per la libertà di stampa e di espressione, ma anche per l’indipendenza della magistratura dall’esecutivo e non ultimo per il diritto di proprietà e la libertà di investimento". Una questione particolarmente criticata è, ad esempio, proprio quella del commissariamento (peraltro a figure che risultano per la maggior parte membri del partito governativo o vicino a esso). Il prof. Metin Feyzioglu, a capo dell’Ordine nazionale degli avvocati contesta addirittura la stessa decisione di commissariamento "di cui", scrive, "non risulta la necessità". "L’operazione che prevede la cessione ai commissari della direzione delle società del gruppo infrange numerosi diritti e libertà fondamentali, tra cui il diritto di proprietà e la libertà di stampa", afferma sempre Feyzioglu. Ieri intanto, per la prima volta il nome e la foto dell’imam stanziato negli Stati uniti, è apparso nella "lista rossa del terrorismo" del ministero dell’Interno. Il nome di Gülen appare accanto a quella di diversi dirigenti del Pkk (Partito dei lavoratori del Kurdistan). Un altro quotidiano filo-governativo, Sabah, ha fornito la notizia scrivendo: "Sabah vi rivela l’accordo segreto tra il Pkk e il movimento di Gülen". Una nuova teoria complottistica? Stati Uniti: detenuti girano video rap in cella, puniti con 1.000 giorni di isolamento a testa di Eva Cabras rockit.it, 30 ottobre 2015 Nel Kershaw Correctional Institute in South Carolina, un gruppo di detenuti ha realizzato il primo video di musica rap mai girato nella cella di una prigione. Grazie a un cellulare introdotto clandestinamente nella struttura, i carcerati hanno girato la clip dal titolo "Ìm on Fire" e l’hanno immediatamente diffusa sul web, generando comprensibilmente un fenomeno virale senza precedenti. L’impegno da parte dei rapper criminali è ammirevole, visto che il beat di sottofondo e la parte destinata agli strumenti sono frutto dell’uso creativo di oggetti trovati all’interno della cella. Data l’immediata diffusione del video, non è stato difficile risalire agli autori e i vertici della prigione non ci sono andati leggeri con la punizione. Innanzitutto, addio privilegi. Niente più tempo in cortile, niente mensa e sconti per buona condotta neanche a parlarne. In più, a ciascun detentuo sono stati inflitti 1000 giorni di isolamento forzato, per un totale cumulativo di 20 anni. Certo, gli autori del pezzo rap non sono agnellini e sono dentro per rapina a mano armata, omicidio e affiliazione alle gang, ma per un video musicale hanno decisamente subito gli effetti di un pugno di ferro mai visto. Lo stato del South Carolina non è comunque nuovo a questo tipo di provvedimento estremo in materia di social network: nel 2013, il detenuto Tyheem Henry ha collezionato ben 13.680 giorni di isolamento e perso 27.360 giorni di visite, telefono e mensa. Il tutto per aver pubblicato di nascosto 38 post su Facebook con un telefono introdotto senza permesso in cella.