Giustizia: il cambiamento in carcere di Andrea Orlando (Ministro della Giustizia) Il Manifesto, 29 ottobre 2015 Il ministro della Giustizia Andrea Orlando risponde alla lettera pubblicata ieri a firma di Giuseppe Battaglia sul mantenimento in carcere dei detenuti. Non vi è dubbio che esista un principio generale che obbliga chi ha responsabilità pubblica ad adempiere a quegli atti che evitino all’amministrazione di dover rispondere di danno rispetto alla gestione delle risorse. La pur dolorosa questione, sollevata dalla lettera di Giuseppe Battaglia al "manifesto", rientra in tali obblighi: appartiene alla correttezza amministrativa provvedere all’adeguamento di tabelle e quindi oneri dovuti, come la norma stabilisce, per il mantenimento quotidiano in carcere. Se ci si è risolti a provvedere ora è perché, contrariamente al passato, si è messa in campo una vasta operazione di trasformazione del sistema detentivo che, se per ora ha dato risultati solo sul piano della riduzione numerica delle presenze (si è passati da 66.000 a 52.000 detenuti) deve necessariamente nel breve periodo dare risultati anche sul piano della qualità della vita nelle strutture detentive e su quello della sensatezza del periodo trascorso all’interno di esse. Gli Stati generali dell’esecuzione penale che ho avviato nei mesi scorsi stanno discutendo proprio di questo. Per offrire al termine delle soluzioni praticabili che diano la possibilità nel nostro Paese di un carcere, limitato ai casi che effettivamente richiedano questo tipo di sanzione, centrato sul ritorno alla società esterna dopo un percorso dignitoso e significativo, tale da ridurre il rischio di commettere nuovi reati. Tuttavia la lettera coglie un punto di verità non eludibile: accanto al dovere di adeguare le cifre del mantenimento c’è anche quello di adeguare le retribuzioni per coloro che in carcere lavorano. Qui si evidenzia una simmetrica mancanza del passato che deve essere risolta. E che sarebbe stata risolta in contemporanea con l’altra se non avessimo preferito però ripensare completamente il sistema del lavoro in carcere, nelle sua varie modalità. L’apertura di un tavolo di lavoro su questo tema, l’avvio di un rapporto con le realtà imprenditoriali e il parallelo avvio di ambiti di studio in collaborazione con alcune Università ci ha portato a rinviare il mero adeguamento - che rischiava di restringere a questo un problema ben più complesso - e a proporre a breve un piano complessivo entro cui collocare il doveroso adeguamento delle retribuzioni del lavoro detentivo. Impegno che intendiamo mantenere con certezza e con rapidità. Giustizia: il Dap ha emanato una nuova Circolare sulle modalità di esecuzione della pena Comunicato Dap, 29 ottobre 2015 La circolare emanata lo scorso 23 ottobre dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria si inserisce nel percorso di definizione e innovazione delle modalità di esecuzione della pena avviato nel recente passato che, coniugando gli obiettivi di sicurezza e trattamento, ha consentito un graduale superamento del criterio di perimetrazione della vita penitenziaria all’interno della camera di pernottamento. Sono state definite, con maggiore dettaglio, le modalità custodiali da adottarsi sulla base di approfondite valutazioni dei differenti livelli di pericolosità della popolazione detenuta, fornendo dei concreti criteri utili ad orientare la discrezionalità delle direzioni degli istituti, recependo le indicazioni fornite sul punto da diverse organizzazioni sindacali. Si è tenuto altresì nella dovuta considerazione la condivisibile aspettativa europee relativa alla possibilità per i detenuti di permanere fuori dalla camera detentiva per un minimo di otto ore giornaliere, salvo ostino specifiche esigenze di sicurezza. D’altra parte, la circolare offre concrete indicazioni per organizzare la vita detentiva soprattutto fuori dalle sezioni, negli spazi comuni dedicati alle attività trattamentali che dovranno essere il più possibile incrementate. Soprattutto negli istituti ove sarà in vigore la custodia aperta, sarà incrementata la possibilità di libero movimento dei detenuti all’interno di spazi definiti e presidiati con la già sperimentata "vigilanza dinamica". A tal proposito le Direzioni degli istituti sono state invitate a formulare progetti che favoriscano tale modalità custodiale, anche per il tramite di impianti di videosorveglianza. In conclusione, si evidenzia come le concrete indicazioni contenute nella circolare in questione siano funzionali al raggiungimento degli obiettivi di sicurezza, alla responsabilizzazione dei soggetti in stato di detenzione e all’incremento delle attività trattamentali necessarie per l’attuazione della finalità rieducativa della pena. Giustizia: rapporto tra tribunali ed economia, una questione di misura di Michele Ainis Corriere della Sera, 29 ottobre 2015 I giudici italiani hanno appena celebrato il loro 32º congresso. Ce ne rimane un’eco d’accuse e controaccuse fra politica e giustizia, secondo tradizione. Eppure quel congresso puntava a una questione ben più rilevante della polemica sulle correnti giudiziarie o sulle intercettazioni. Economia e giustizia: come coniugarle? Non lo sappiamo, però sappiamo come farle bisticciare. La sentenza costituzionale che ha annullato le promozioni di 767 funzionari dell’Agenzia delle Entrate, mettendo in crisi l’Agenzia e facendo ballare la poltrona della sua direttrice, non è che l’ultimo episodio della serie. In questa baruffa non c’è un colpevole, tuttavia non c’è nemmeno un innocente. Mettiamola così: la politica fa troppe leggi, la magistratura le prende un po’ troppo sul serio. L’una e l’altra, insomma, fanno il proprio mestiere, ma senza preoccuparsi del mestiere altrui. Questo vale, innanzitutto, nei riguardi del potere legislativo. Difatti, che cos’è la legge? Uno specchio dei nostri amori, dei nostri umori. Siamo noi, la legge. Sennonché la società italiana è diventata volubile come una farfalla; la politica ne insegue gli svolazzi, disegnando norme che durano quanto un battito d’ali (esempio: il saliscendi sui limiti al contante, da 5.000 euro a 1.000, da 1.000 a 3.000); l’instabilità legislativa nuoce all’economia, gonfia la discrezionalità del potere giudiziario; e piovono i conflitti. Sulla giustizia pesa inoltre una legislazione schizofrenica, che da un lato cerca di saziare la fame di diritti, e la sazia aprendo il rubinetto del diritto (abbiamo in circolo 50 mila leggi statali e regionali); dall’altro lato rincorre la domanda d’efficienza e di risparmio che intonano in coro gli italiani, e vi risponde negando in molti casi la tutela giudiziaria. Succede, per esempio, sul fronte della giustizia amministrativa. Dove si sta verificando una fuga dalle garanzie attraverso l’uso di rimedi alternativi a quelli giurisdizionali, attraverso le regole di soft law, attraverso oneri economici che scoraggiano i ricorsi (ormai i contributi unificati dei due gradi di giudizio, per i contratti di qualche rilievo, ammontano a 15 mila euro). Contemporaneamente viene compresso il diritto di difesa; si nega l’annullamento dei contratti per l’aggiudicazione delle grandi opere, stabilendo una tutela puramente risarcitoria, che poi ricade sulla collettività mediante la tassazione; vengono ridotti i controlli preventivi di legittimità, o altrimenti si concentrano in un’unica autorità (l’Anac), che tuttavia non può controllare l’universo; e ovviamente si mette alla berlina il giudice, quando una sentenza provochi ritardi nell’esecuzione dei lavori. Però quest’ultimo tradisce la sua specifica funzione quando a sua volta divorzia dal buon senso, che nel diritto - come nella vita - coincide con il senso della misura. Nelle questioni giuridiche, difatti, la quantità diventa qualità; e questa massima vale anche per la dimensione economica su cui nuota la tutela dei diritti. Qualche esempio. A Como, nel 2004, un barbone è stato sorpreso a rovistare tra i rifiuti, venendo immediatamente denunziato per furto di cosa pubblica. A Milano, nel 2005, un marocchino è stato processato per una truffa da 28 centesimi, impegnando per mesi magistrati, cancellieri, traduttori. A Trieste, nel 2009, i giudici hanno inflitto una multa di 25 euro a un detenuto curdo: aveva tentato d’impiccarsi riducendo a striscioline due federe, e perciò distruggendo un bene della pubblica amministrazione. A Roma, nel luglio 2015, la seconda sezione penale del tribunale ha processato un romeno incensurato per furto aggravato di un bene pubblico: aveva raccolto 22 pigne. Non che il nostro ordinamento sia cieco rispetto alle grandezze su cui incide ciascun comportamento giuridicamente rilevante. Per dirne una, nell’aprile scorso è entrato in vigore il nuovo art. 131-bis del codice penale, che funziona da esimente "per l’esiguità del danno o del pericolo". Ma la via maestra passa attraverso l’uso dei principi generali, che mettono in comunicazione il diritto con la storia, con la società, con il costume, e per l’appunto con l’economia. È questa la finestra cui deve affacciarsi il giudice. Senza inventare nuove regole, senza forzare le regole esistenti; più semplicemente, adeguandole ai casi della vita. Giustizia: basta con la favola del "conflitto" tra magistratura e politica di Antonio Esposito Il Fatto Quotidiano, 29 ottobre 2015 "Se il vicepresidente del Csm afferma, nel corso dei lavori del congresso nazionale dell’Anm che "il Paese e la giustizia italiana non hanno bisogno di una nuova stagione di scontro tra magistratura e politica", deve ritenersi che la ventennale campagna di delegittimazione della magistratura, scientemente organizzata, ha raggiunto il perverso risultato che intendeva. Inculcare nell’opinione pubblica la convinzione dell’esistenza di un perdurante conflitto tra magistratura e classe politica, conflitto che, in realtà, non è mai esistito e che non può ontologicamente esistere: la magistratura non può essere in "conflitto" per la funzione da essa esercitata costituzionalmente con requisiti di imparzialità e terzietà, sicché, il magistrato che sia in "conflitto" con qualche imputato - sia esso o meno un politico - dovrebbe essere espulso immediatamente. In realtà, ciò viene comunemente definito "conflitto" - e che ebbe anche l’avallo di un ex presidente della Repubblica - non è altro che una volontaria distorta interpretazione del doveroso esercizio della funzione giurisdizionale nei confronti di singoli esponenti politici accusati, di volta in volta, di gravi reati. Ogni qualvolta si è doverosamente esercitata l’azione penale nei confronti di esponenti politici, soprattutto se di "primo piano", si è assistito alle scomposte reazioni di costoro che, all’unisono, hanno "gridato" alla persecuzione, alla giustizia a orologeria, alla giustizia politica, affermazioni sempre ripetute, in maniera martellante, dagli esponenti politici appartenenti all’area politica dell’indagato o del condannato e della stampa a essa contigua, trasmettendosi, così, il devastante messaggio di una magistratura che agiva con intenti persecutori o come "braccio armato" di una fazione politica. E l’insofferenza verso le iniziative di magistrati si è ancor oggi manifestata con le esternazioni (improprie) del capo del governo - su cui ha, peraltro, concordato qualche autorevole magistrato - che, in relazione alla richiesta di autorizzazione di arresto del sen. Azzollini, ha affermato che "il Parlamento non è il passacarte del pm", laddove giammai i magistrati si sono sognati di ritenerlo tale, e sono sempre stati pronti a rispettare le decisioni dell’aula sovrana. Così come, sempre su tale vicenda, vi sono stati perentori inviti alla magistratura a non invadere la sfera di autonomia del Parlamento, laddove, se sconfinamento vi è stato, esso è avvenuto a opera del Parlamento che non ha, nel rigettare l’autorizzazione all’arresto, limitato il proprio esame al fumus persecutionis. In questo contesto si inquadra la proposta di legge (c.d. legge bavaglio) che vuole vietare la pubblicazione di conversazioni ritenute penalmente irrilevanti, mentre il cittadino ha il diritto di essere informato su tutto quello che riguarda l’uomo pubblico, e la politica dovrebbe avere tutto l’interesse a conoscere ciò che abbia rilevanza ai fini dell’accertamento di una responsabilità politica, onde comminare all’uomo pubblico che ha tenuto comportamenti scorretti, precise sanzioni politiche. E sempre in tale prospettiva si afferma che "per richiedere le dimissioni di un membro del governo bisogna attendere l’esito definitivo dei giudizi penali, atteso il principio di presunzione di innocenza", con ciò rimandando e subordinando ogni valutazione politica all’esito delle decisioni penali definitive facendo finta di dimenticare che tale verifica, causa il macchinoso sistema processuale, è sempre tardiva in quanto la sentenza definitiva arriva a distanza di anni, spesso con una declaratoria di prescrizione, quasi sempre "spacciata" per una sentenza di assoluzione, che supera, di fatto e di diritto, ogni oramai tardiva verifica. Ed è proprio la prescrizione lo snodo decisivo di un contesto finalizzato a ridurre il pericolo dell’accertamento di responsabilità politiche e penali. Solo così si spiega perché mai la "scellerata" legge "ex Cirielli" del dicembre 2005 -che ha portato al macero ben 1.600.000 processi - non sia stata ancora modificata neanche da quella parte politica che - nonostante l’avesse qualificata come legge ad personam - non ritenne di modificarla quando era al governo (2006-08). E del resto, dopo un silenzio durato anni, giace in Parlamento dall’agosto 2014 una proposta di legge che risolve in modo assolutamente insufficiente la questione e che, perdurando l’ecatombe dei processi, non è stata a tutt’oggi approvata. Sarà, in tal modo, possibile all’uomo politico dichiarato colpevole (in taluni casi anche arrestato), in primo e/o secondo grado, ma "prescritto", sfuggire alla condanna, alle pene accessorie, e ritornare a occupare posti di governo e in Parlamento (come sovente è accaduto). La verità è che la classe politica - investita da anni, da Nord a Sud, (basti pensare ai consigli regionali "inquisiti"), da una serie di scandali - non ha alcuna volontà di "bonificarsi" e farsi "bonificare". Giustizia: è la gente a delegittimare una magistratura che non lavora per lei di Giorgio Oldoini Libero, 29 ottobre 2015 Il presidente dell’Anm ha dichiarato che esiste una strategia di delegittimazione della categoria e che la giustizia non deve essere subordinata all’economia. Eppure, i magistrati non hanno mai avuto così alta considerazione da parte dei governi come in questo periodo e come non avviene negli altri Paesi europei. Per risolvere questioni delicate, i ministri si affidano nelle mani di magistrati di "provate capacità", veri e propri protagonisti della vita pubblica. La più seria accusa che può essere rivolta ai partiti è semmai quella di avere abdicato al proprio ruolo. Una concentrazione di poteri che consenta di sfidare l’autorità dello Stato rappresenta un pericolo per qualsiasi forma di società organizzata. Nessuno può impedire ai magistrati di occuparsi della "cosa pubblica", di diventare difensori civici, sindaci, governatori, deputati, presidenti del Senato o ministri. Tuttavia, quest’onda lunga ha finito per mettere in crisi la stessa rappresentanza sindacale della categoria, che è arrivata a criticare dall’interno la mancanza di una cultura di self-restraint. Alla prova dei fatti, non è quindi l’élite politica che cerca di delegittimare la magistratura. Sono semmai gli imprenditori che si ribellano alla gestione inefficiente della giustizia, che non possono far conto sulla certezza del diritto e devono passare attraverso le forche caudine di diversi gradi di giudizio, di una giurisprudenza "ballerina" e "creativa". Chi ha mai detto che la giustizia deve essere subordinata all’economia? L’impresa che inquina, aggira le regole della competizione, corrompe pubblici ufficiali, deve subire le giuste sanzioni, anche se il prezzo sarà pagato dai lavoratori, ogni volta gettati via come utensili consumati. Tuttavia, non si conoscono Paesi al mondo che consentano ai magistrati di chiudere stabilimenti in fase di "indagine" sulla base d’ipotesi di reato confermate in giudizio in percentuali modeste. Qualcuno ricorderà forse la feroce battaglia giudiziaria contro il termovalorizzatore di Acerra e i danni provocati all’impresa che nessuno ha risarcito. Si è trattato di un caso di cannibalismo tra istituzioni (magistratura di Napoli e ministero dell’Ambiente), un esempio negativo riportato nei testi di diritto americani. Il vero processo di delegittimazione si deve dunque alla gente comune, che verifica come la quasi totalità delle denunce di scippi, furti, stupri non dia luogo a condanne. La criminalità non dovrebbe trovare un’astratta differenziazione classista e un diverso grado di sanzione con riguardo alle fasce sociali in cui si manifesta, dal momento che a ogni livello di ricchezza si trovano profittatori che vanno puniti e vittime che occorre proteggere. La Magistratura ha ricoperto fin qui un pregnante ruolo di supplenza giustificato da un’interrotta serie storica di emergenze, ma non è riuscita a rimediare ai mali della società, che si sono anzi aggravati nell’ultimo ventennio. È venuto il momento di uscire da schemi corporativi: le istituzioni che pretendono la massima autonomia, non possono addossare all’esterno le proprie stesse responsabilità. La "domanda" di giustizia è cambiata e il Paese non può permettersi di andare avanti sotto i continui scossoni di sterminate indagini, cui non fanno seguito tempestive verifiche pubbliche. Giustizia: il Csm per un magistrato davvero indipendente (e mai di parte) di Renato Balduzzi Avvenire, 29 ottobre 2015 Il Csm ha fatto negli scorsi giorni alcune proposte al ministro della Giustizia e, per suo tramite, al Parlamento sui rapporti tra magistrati e cariche politiche: l’indipendenza e l’imparzialità del magistrato sono un bene così grande per la tenuta morale di una collettività da giustificare limitazioni, anche serie, all’esercizio, da parte del magistrato, dei diritti politici che pure condivide con tutti gli altri cittadini. Nessuno pensa a un magistrato asettico, semplice bocca della legge e senz’anima (per richiamare un noto passo del barone di Montesquieu): c’è un’ineliminabile valenza creativa nell’attività di interpretazione e applicazione del diritto. Ciò che tuttavia non può e non deve cambiare sono l’apparenza e la sostanza della divisione dei poteri e dell’indipendenza del giudiziario, cui fanno appunto da contrappeso specifici doveri e limitazioni per i magistrati. Un commentatore autorevole, Sabino Cassese, ha giudicato le proposte del Csm "timidissime e corporative", per tre ragioni: essersi limitato a chiedere l’estensione a tutte le cariche politiche delle regole vigenti per l’elezione a parlamentare di un magistrato, non aver distinto tra cariche elettive e chiamate e non avere previsto che, al rientro dalla politica, il magistrato vada a svolgere funzioni diverse da quelle giudiziarie. Mi capita sovente di essere d’accordo con il professor Cassese, ma questa volta devo dissentire. Su tutti e tre i punti il Csm si è espresso proprio in senso rovesciato: ha chiesto al legislatore di estendere a tutte le cariche pubbliche la regola che impedisce al magistrato di candidarsi al Parlamento nel medesimo territorio in cui ha esercitato funzioni giudiziarie negli ultimi sei mesi, contemporaneamente allungando tale termine, nonché di differenziare tra magistrati eletti e "nominati", proprio per la particolare delicatezza degli incarichi conferiti dai vertici degli esecutivi nazionali, regionali o locali. Non solo: ha proposto, almeno nei casi di prolungata attività politica, che il rientro nei ruoli avvenga non necessariamente in magistratura, ma in una funzione per la quale le esigenze di imparzialità e indipendenza siano meno cogenti rispetto a quelle di un magistrato. Insomma, un invito forte alla politica affinché concluda al più presto un iter legis, da tempo avviato, le cui premesse sono largamente fatte proprie sia dalla pubblica opinione, sia dalla generalità dei magistrati. Nessuna timidezza, nessuna difesa corporativa. E, nel contempo, nessuna pretesa, da parte del Csm, di svolgere impropri ruoli di terza camera. Giustizia: Serie B Calcio, al via una campagna a favore dei bambini con genitori detenuti picenotime.it, 29 ottobre 2015 Dal 31 ottobre all’8 dicembre, dall’11esima alla 17esima giornata, la Serie B ConTe.it sostiene Bambinisenzasbarre Onlus. L’associazione da 12 anni tutela i diritti dei 100mila bambini con genitori detenuti per promuovere gli "Spazi Gialli", luoghi di accoglienza all’interno delle carceri. La campagna è possibile grazie a B Solidale Onlus, progetto con il quale la Lnpb e le 22 associate si confrontano con il Terzo Settore. "7 giornate di Campionato, 77 partite da giocare a fianco dei figli di detenuti per realizzare nuovi Spazi Gialli negli Istituti penitenziari italiani che accolgano i bambini che entrano in carcere per incontrare il proprio genitore - ha dichiarato il presidente della Lega B Andrea Abodi. Sostenere progetti come quello di Bambinisenzasbarre è lo strumento tramite cui B Solidale intende comunicare la valenza sociale del calcio". L’arbitro e i capitani delle 22 squadre scenderanno in campo con la maglietta dell’Associazione Bambinisenzasbarre. Sui maxischermi degli stadi, nei messaggi audio nel pre-partita e nell’intervallo, sui siti web delle squadre, legab.it, di B Solidale e sui social network si inviterà a sostenere il progetto "Lo spazio giallo nel grigio del carcere" che permetterà di accogliere negli Spazi Gialli, degli Istituti penitenziari italiani, i bambini che si preparano al colloquio con il papà o la mamma detenuti. "Sono 100mila i minorenni che entrano nelle carceri italiane per dare continuità al legame affettivo con il proprio genitore in stato di detenzione. Sono bambini vulnerabili a rischio di emarginazione per i pregiudizi, per le difficoltà economiche, per la vergogna sociale che la detenzione del proprio genitore comporta - ha sottolineato Lia Sacerdote presidente dell’Associazione Bambinisenzasbarre. Siamo grati alla Lega B per essersi messa al loro fianco. Lo sport può essere un importante veicolo per sostenere progetti di inclusione sociale e contribuire a consolidare il processo di trasformazione culturale necessario per una società solidale dove i figli di genitori detenuti non siano emarginati, dove la "Carta dei figli di genitori detenuti", unica in Europa, sia applicata e il sistema carcerario consideri la presenza di questi minorenni e la necessità di mantenere e proteggere i legami del nucleo familiare". Giustizia: no all’estradizione del marocchino Touil, la pena di morte è ostativa Askanews, 29 ottobre 2015 I giudici della quinta sezione penale della corte d’Appello di Milano hanno negato l’estradizione verso la Tunisia di Abdelmajid Touil, il 22enne marocchino accusato di essere coinvolto nell’attentato al museo del Bardo di Tunisi del 18 marzo scorso. L’imputato rischiava infatti di essere condannato a morte e "la pena capitale è ostativa all’estradizione" non essendo ammessa nell’ordinamento italiano. Nella loro sentenza del 26 ottobre scorso e che è stata depositata oggi, i giudici della Corte d’appello di Milano hanno tenuto conto che la "convenzione bilaterale di estradizione Italia-Tunisia non prevede alcun meccanismo della conversazione della pena di morte in altra sanzione detentiva, né l’autorità tunisina ha fornito alcuna assicurazione sulla non esecuzione della pena capitale". Al diniego di estradizione consegue automaticamente la revoca delle misure cautelari e la scarcerazione di Touil, che dovrebbe essere rilasciato subito dopo il deposito delle motivazioni. Il 22enne marocchino si trova recluso nel carcere di Opera (Mi) dal 20 maggio scorso con l’accusa di terrorismo internazionale e in particolare di legami con gli autori dell’attentato al Museo del Bardo di Tunisi in cui persero la vita 24 persone. Procura Milano chiede archiviazione inchiesta su Touil La Procura di Milano ha deciso di non adottare lo stato di fermo né alcuna misura cautelare nei confronti di Abdelmajid Touil, dopo che i giudici della Corte d’appello di Milano ne hanno disposto la scarcerazione conseguentemente alla decisione di non estradarlo in Tunisia. I magistrati nei giorni scorsi hanno inoltre avanzato richiesta di archiviazione dell’inchiesta italiana a carico del 22enne tunisino sospettato di associazione terroristica e della strage al museo del Bardo di Tunisi del 18 marzo scorso. Ora spetterà al giudice valutare se archiviare o meno il procedimento. Dalle indagini condotte dalla Digos della Questura di Milano e dal Ros dei Carabinieri, sarebbe stato accertato che dal 17 febbraio scorso Touil non si sarebbe mai spostato dal territorio italiano e dunque non avrebbe potuto partecipare materialmente alla strage come ritenuto dagli investigatori tunisini dopo che un indagato avrebbe riconosciuto il giovane tunisino in una foto. Anche la questione sollevata dagli investigatori tunisini della scheda telefonica di Abdelmajid Touil avrebbe una spiegazione secondo gli inquirenti italiani. Dalle indagini, infatti, risulta che la scheda per il cellulare è stata effettivamente acquistata e attivata dal giovane marocchino il 3 febbraio scorso e risulta che sia stata utilizzata fino a due giorni dopo, il 5 febbraio, per chiamare alcuni suoi familiari e conoscenti e anche il numero di uno scafista che, nei giorni successivi, lo avrebbe portato in Italia dove è giunto il 17 febbraio con un barcone, insieme con altri migranti, sbarcando a Porto Empedocle, in provincia di Agrigento. Touil ha più volte spiegato che il suo telefonino, con quella scheda e il suo passaporto gli è stato requisito dagli scafisti il 5 febbraio prima di mettersi in viaggio. La scheda rimane muta fino all’8 marzo quando, montata su un altro apparecchio telefonico ricomincia a effettuare delle chiamate dalla città tunisina di Medenine, periodo in cui Touil si trova sempre, "con certezza" nel nostro paese. Quello che per gli investigatori tunisini era un terrorista in realtà sarebbe uno degli scafisti a cui il giovane marocchino si era rivolto per venire nel nostro paese. Scafisti che, a questo punto potrebbero essere in qualche modo coinvolti nella terribile strage al Museo del Bardo di Tunisi. Giustizia: Touil "non è un terrorista", ma passa dal carcere al Cie in attesa dell’espulsione di Marina dalla Croce Il Manifesto, 29 ottobre 2015 Scagionato il giovane tunisino accusato dell’attentato al Bardo: in quei giorni era in Italia. Scagionato pienamente dall’accusa di essere uno degli attentatori del museo del Bardo a Tunisi e scarcerato, rigettata l’estradizione perché per i reati di cui è accusato in Tunisia è prevista la pena di morte, ma espulso dalla Questura di Milano perché è irregolare, senza neppure una parola di scusa per averlo mantenuto in carcere da innocente per più di cinque mesi. È l’assurda sorte toccata ad Abdel Majid Touil, il ventiduenne tunisino arrestato lo scorso 20 maggio in Italia, su richiesta delle autorità tunisine, con l’accusa pesantissima di essere un componente della cellula islamista radicale che il 18 marzo precedente aveva causato una strage di turisti (24 i morti, tra i quali due italiani, e 45 i feriti) nel museo di Tunisi. Già a poche ore dall’arresto era apparso chiaro che l’inchiesta presentava dei buchi, ma ciò non era stato sufficiente a evitare che Touil finisse additato come l’ennesimo mostro da sbattere in prima pagina. A scagionare il ventiduenne tunisino erano le testimonianze che lo davano in Italia nei giorni dell’attentato e il fatto che chiunque lo conoscesse era pronto a giurare che non avesse nulla a che fare con il terrorismo islamico. Touil aveva spiegato ai giudici di essere stato a lezione d’italiano in una scuola per stranieri di Gaggiano, il paese del milanese in cui vivono i suoi familiari, il 16 e il 19 marzo, giorni precedenti e seguenti l’attentato, e la sua versione è stata poi confermata da testimonianze, dai registri della scuola e dagli stessi insegnanti. Il giorno della strage, aveva affermato inoltre dal carcere facendo sapere di non essere un jihadista, era con sua madre davanti alla tv per guardare le notizie e le immagini di quello che stava accadendo nel suo Paese. Gli inquirenti dell’altra sponda del Mediterraneo erano invece partiti dall’individuazione di una scheda telefonica effettivamente acquistata e attivata dal ragazzo a Tunisi lo scorso 3 febbraio, giorno in cui era arrivato dal Marocco, e da alcuni contatti tra l’utenza di Touil e quella di alcuni personaggi legati al commando jihadista, nonché da un presunto "riconoscimento fotografico" che avrebbe dovuto costituire la prova del nove della sua colpevolezza. Ma le indagini condotte dalla Digos e dai Ros hanno scagionato completamente Touil: il giovane avrebbe telefonato a una persona poi finita nell’inchiesta tunisina, durante il viaggio dalla Tunisia alla Libia, solo perché questa era uno scafista e lui stava cercando di arrivare in Italia. Le verifiche degli inquirenti hanno ribaltato l’ipotesi accusatoria formulata da Tunisi e hanno dato ragione al ragazzo, appurando che, dallo scorso 17 febbraio, quando è sbarcato a Porto Empedocle in Sicilia, non si è mai mosso dall’Italia. Nei mesi precedenti e successivi all’attentato non si è mai mosso da Gaggiano (dove sarà poi arrestato il 20 maggio) e questo mette in dubbio il presunto "riconoscimento fotografico" del giovane, da parte della polizia tunisina, sul luogo dell’attentato. La scheda acquistata da Touil rimarrà muta invece fino all’8 marzo, quando ricomparirà e rimarrà fissa a Medenine, una città della Tunisia sudorientale, caricata su un altro cellulare. L’ipotesi è che gli sia stata requisita prima dell’imbarco assieme al passaporto, come lui stesso aveva sostenuto durante l’interrogatorio. Per questi motivi il procuratore ha chiesto l’archiviazione del caso e la Corte d’Appello ha disposto la scarcerazione immediata. I giudici hanno detto no anche alla richiesta di estradizione, perché "i fatti più gravi contestati all’estradando (terrorismo internazionale e strage, ndr) sono puniti dal codice penale tunisino con la pena di morte" e "la convenzione bilaterale di estradizione Tunisia-Italia non prevede alcun meccanismo di conversione della pena di morte in altra sanzione detentiva", motivazione che lascia presumere che il giovane in ogni caso non sarebbe stato estradato. Accompagnato in Questura, a Touil è stata notificata l’espulsione dall’Italia perché senza permesso di soggiorno ed è stato trasferito nel Cie di Torino, passando da una forma di detenzione a un’altra. Ora rischia di essere rimandato indietro, nonostante la sua famiglia viva in Italia, aggiungendo al danno pure la beffa. Il senatore del Pd Luigi Manconi ha annunciato un’interrogazione parlamentare sul caso e il suo avvocato ha anticipato che Touil, sulla base del rischio che in Tunisia potrebbe essere condannato alla pena capitale, chiederà asilo politico in Italia. Giustizia: "Dama nera"; se l’inquisita è una donna, questa è sempre spacciata in partenza di Goffredo Pistelli Italia Oggi, 29 ottobre 2015 Il giustizialismo e il politicamente corretto, che spesso s’accompagnano in chi li predica, in questi giorni prendono strade diverse. Accade infatti che un’inchiesta della Procura di Roma sui vertici dell’Anas, per una vicenda di appalti e favori, di corruzioni e concussioni, veda protagonista una donna, una dirigente apicale dell’ente, Antonella Accroglianò. L’accusa suffraga le ipotesi di colpevolezza con intercettazioni ambientali, ampiamente diffuse dalle cronache giudiziarie, in cui la dirigente, con fare deciso, dà disposizioni ai collaboratori. Immagini in cui gli inquirenti individuano un linguaggio in codice e comportamenti illeciti che sono valsi alla donna il nomignolo di "Dama nera", non è chiaro se coniato nelle ricostruzioni degli inquirenti o nei resoconti dei cronisti giudiziari. Un appellativo che vuole evidentemente coniugare l’alto rango amministrativo e la capacità di delinquere, il profilo dirigenziale, raramente appannaggio di donne, e l’acume criminale, qualità negative che però devono avere riscontri in un processo, sempre che vi si giunga. Non è di garanzie processuali che però vogliamo parlare, anche se una narrazione così enfaticamente accusatoria rischia di influenzare, in qualche modo, il lavoro dei giudici che potrebbero avere qualche remora a mandare assolta una figura così tratteggiata. Il punto è che per nessun altro indagato di sesso maschile si usano ironicamente definizioni da letteratura noir, di nessun altro funzionario si dice che è il Diabolik della mazzette o il Joker degli appalti. Questo vezzo, o vizio, della macchina mediatico-giudiziaria, non è nuovo. Ai primi anni 90, una funzionaria dei servizi segreti, finita in un’inchiesta di distrazione di fondi, che peraltro lambiva il Quirinale, divenne subito "la Zarina", mentre un paio di anni fa, per una senatrice della Lega, Rosi Mauro, durante un’indagine sui finanziamenti di quel partito, da cui poi fu pienamente scagionata, la definizione più sobria fu quella di "Badante", per via della sua vicinanza al senatore Umberto Bossi. Quando cioè la protagonista di un’inchiesta per corruzione è una donna, e in posizione di responsabilità, la presunzione di innocenza sfuma, anzi il sarcasmo pare diventare una pena accessoria e anticipata, una sorta di contrappasso. Il tutto nel silenzio assordante di quanti, sulla parità di genere a cominciare dal lessico, e sulla lotta al sessismo, son pronti a dar battaglia, come "la" presidente della Camera Laura Boldrini. Non sarà per caso che, dinnanzi al giustizialismo arrembante, anche il politicamente corretto batta in ritirata? Giustizia: omicidio stradale; maxi-sanzioni, ma arresto in flagranza solo per alcol e droga di Maurizio Caprino Il Sole 24 Ore, 29 ottobre 2015 Pene più severe, arresto in flagranza ed "ergastolo della patente", per chi causa un incidente mortale commettendo un’infrazione grave. Sono le conseguenze dell’introduzione nel Codice penale del reato di omicidio stradale, per la quale manca solo l’ultimo passo: l’ok definitivo del Senato, dopo che ieri sera la Camera ha approvato quello che sembrerebbe essere il testo definitivo. Infatti, tra i partiti non c’è la volontà di dare ancora battaglia su una questione che dal punto di vista strettamente politico è considerata poco rilevante. Tanto che nel voto di ieri sera i sì sono stati 276, i no appena 20 e le astensioni 101. Ciò non toglie che anche ieri l’Aula abbia ritoccato il testo uscito la settimana scorsa dalle commissioni Giustizia e Trasporti. Il più importante è l’obbligo di arresto in flagranza limitato ai casi di stato di ebbrezza con un tasso alcolemico superiore a 1,5 grammi/litro o sotto l’effetto di droghe (nel testo originario era previsto per ogni caso di omicidio stradale). Altra novità dell’ultim’ora è l’eliminazione dell’obbligo per il pm di avvalersi non di periti "generici" ma di esperti in ricostruzione di incidenti stradali. La motivazione è che si è voluto sventare l’assalto di una lobby, ma si rischiano conseguenze pratiche, soprattutto se si pensa a un’ulteriore modifica apportata al testo la settimana scorsa dalle commissioni Giustizia e Trasporti: l’inclusione nell’omicidio stradale di ulteriori infrazioni rispetto a quelli di droga e alcol inizialmente previsti. È innanzitutto il caso della velocità "spropositata"?(per i dettagli, si veda la scheda a destra). In sostanza, il reato scatta anche quando l’omicida ha superato una certa velocità, la cui determinazione esatta in caso d’incidente è sempre difficile e richiede grande professionalità. Tra l’altro, nella pratica, non sempre nei casi previsti dal testo la velocità può davvero considerarsi "spropositata": fuori città, basta superare di 50 km/h il limite, che non di rado in Italia non è quello generale ma quello ben più basso imposto dall’ente proprietario della strada per scaricarsi da ogni possibile responsabilità. Così, per esempio, su molti tratti autostradali montani con limite a 80 basterà andare ai canonici 130 per ritrovarsi indagati per omicidio stradale. Discorso analogo per il sorpasso con striscia continua, perché in Italia le attuali norme di costruzione delle strade impongono l’uso di questa striscia ben più frequentemente che all’estero. E questo è il principale motivo per cui negli ultimi 15 anni sulle strade italiane le strisce continue sono proliferate in tratti dove prima il sorpasso era consentito. Inoltre, il disegno di legge uscito dalla Camera contiene un’altra modifica che penalizza il conducente per questioni legate alle carenze della strada: inizialmente era prevista l’attenuante in tutti i casi in cui il guidatore non ha colpa esclusiva (quindi anche quando parte della responsabilità è del gestore), ora invece il beneficio scatta solo quando il concorso di colpa è con la vittima. Per il resto, da ricordare il modo con cui è stato risolto il problema della dubbia costituzionalità dell’"ergastolo della patente", cioè della revoca a vita della licenza di guida. Si voleva evitare che il responsabile di un omicidio stradale, dopo aver subìto la revoca della patente, potesse legalmente rimettersi alla guida rifacendo l’iter per conseguire una nuova patente come un candidato qualsiasi (attualmente il Codice della strada prevede una preclusione solo per i recidivi, mentre agli altri basta attendere tre anni). La soluzione trovata alla Camera è stata quella di imporre un periodo di revoca molto lungo (quindi quasi assimilabile a un "ergastolo") prima di poter chiedere il foglio rosa: 15 anni, che scendono a 10 solo quando c’è colpa anche da parte della vittima e salgono a 20 se l’interessato era stato già condannato per ebbrezza media o grave o per guida sotto effetto di droghe e addirittura a 30 in caso di fuga. Revoche "lunghe" anche per chi incorre nell’altro reato introdotto dal Ddl, quello di lesioni personali stradali: cinque anni per le lesioni gravi o gravissime, che diventano 10 in caso di precedenti condanne su alcol o droga e 12 in caso di fuga. Si perde la disponibilità della patente (in questo caso per sospensione, non per revoca) per un tempo lungo anche prima della condanna: la sospensione del documento subito dopo un incidente (già prevista con varie sfumature dal Codice della strada, articolo 223) può arrivare fino a cinque anni. Quando si viene condannati in via non definitiva, la sospensione può essere prorogata fino a un massimo di 10 anni. Lettere: il nostro rito accusatorio è un fallimento di Bruno Tinti (ex magistrato) Il Fatto Quotidiano, 29 ottobre 2015 Recentemente sono tornato nel mio Palazzo di Giustizia, a Torino. Ho ritrovato i riti a cui ho partecipato per 40 anni. E mi sono ancora una volta convinto che il sistema è stato costruito per non funzionare. Processo penale; medio/ semplice, 1 o 2 imputati, 3 avvocati, 4 o 5 testimoni. La procedura prevede che il pm riassuma i fatti e indichi le prove a carico dell’imputato. Poi i testimoni dell’accusa; il pm li interroga e gli fa ripetere quello che hanno detto 3 o 4 anni prima. Se sono testi in buona fede, nessun problema. Ma ce ne sono di quelli che "non ricordo bene, forse sì, forse no"; oppure "sì, dissi così ma ero tanto spaventato, il pm mi intimidì, mi minacciò". Che può essere vero: ai testimoni falsi si ricorda che possono finire in prigione. In ogni modo, per questo teatrino occorrono 2/3 ore; vanno messe in conto le interruzioni degli avvocati che protestano perché il testimone viene intimidito, gli si suggeriscono le risposte, le domande vengono ripetute e "signor giudice, il teste ha già risposto a questa domanda" (vero ma ha mentito e si cerca di fargli dire la verità). Poi gli stessi testimoni vengono interrogati dagli avvocati. I difensori mirano (come è giusto che sia) a far emergere contraddizioni e inesattezze. Anche qui vanno messi in conto gli interventi del pm, che protesta, chiarisce, si oppone etc.: 2 ore. A questo punto arrivano i testimoni della difesa: stesso teatrino a parti invertite, prima i difensori interrogano e poi il pm controinterroga. 2/3 ore. Poi ci sono la requisitoria del pm, le arringhe dei difensori, forse le repliche. Se va tutto bene, 8/10 ore di udienza è il processo è finito. Il giudice dovrà scrivere la sentenza nei giorni successivi, ma questi sono fatti suoi. Una persona normale penserebbe: il giorno tale finalmente si fa questo processo. Invece no. Perché il giorno tale, di processi così ne sono stati fissati 5/6. Se ne fa un pezzettino di ognuno. Per esempio si sentono i testi del pm e poi si rinvia per sentire quelli delle difese (che, per fortuna, non sono stati convocati, ci si è messi d’accordo prima). L’udienza successiva sarà tra 2/3 mesi, poi altro rinvio per la requisitoria del pm e altro ancora per le arringhe degli avvocati. E così capita ad ogni altro processo. Insomma per arrivare alla fine servono 5/6 udienze, un anno più o meno. Perché si fa così? Prima di tutto per via del codice di procedura: non importa che i testimoni siano stati sentiti nella fase delle indagini, che gli avvocati abbiano letto tutti gli atti e avuto il tempo di indicare criticità e approfondimenti, che avrebbero potuto svolgere indagini difensive e sentire loro i testimoni che il pm, pur sollecitato, abbia rifiutato di sentire. I testimoni devono essere sentiti in udienza, tutti; quello che hanno detto prima non vale niente. Ma poi anche perché capita che uno o più testimoni non si presentino e il giudice ha il terrore di "sprecare" l’udienza: se non ha fissato altri processi, che farà quel giorno? Siccome non gli viene in mente che potrebbe scrivere sentenze o studiare altri processi, ecco che per ogni udienza ne fissa 5/6, così, se uno non si può celebrare, passa al prossimo. Tutto questo è assolutamente folle, a ogni udienza tutti si devono studiare quello che è successo 3/4 mesi prima: ovviamente nessuno se lo ricorda. E, quando pm e avvocati fanno le loro requisitorie e arringhe, il giudice molto spesso non sa nemmeno cosa stanno dicendo, prende appunti e poi dovrà ristudiarsi tutto prima di emettere la sentenza. Che spesso sia giusta non manca mai di stupirmi. Lazio: Fp-Cgil; nelle carceri emergenza continua, 100 agenti in meno e 500 detenuti in più rassegna.it, 29 ottobre 2015 La Fp Cgil di Roma e Lazio denuncia una "crisi strutturale del sistema": carenza di 1.000 agenti su un organico previsto di oltre 4.000; di contro, sovraffollamento di detenuti, sono 5.722, a fronte di una capienza di 5.272. È una crisi strutturale, quella del sistema penitenziario del Lazio, con un sovraffollamento che, per quanto in calo rispetto alla situazione esplosiva di qualche anno fa, si attesta su numeri da emergenza rossa: al 30 settembre - ultimi dati del ministero della Giustizia -, i detenuti erano 5.722, a fronte di una capienza di 5.272. "Un tale sovraffollamento diventa ancora più intollerabile, perché s’inserisce in una situazione di grave carenza di personale, sotto organico e ulteriormente indebolito dall’assenza di agenti, distolti dai compiti di istituto e destinati, in alcuni casi impropriamente, a funzioni amministrative o comunque non legate alla vita in carcere. Su un organico previsto di oltre 4.000 agenti, la carenza è di quasi mille unità. Un fatto intollerabile, per due ragioni: perché diviene fisicamente difficile garantire una vita dignitosa, tanto ai detenuti quanto agli agenti, e perché l’assenza di troppi colleghi dagli istituti disincentiva il lavoro, sempre più faticoso, di chi non si è sottratto al proprio dovere", si legge in una nota della Fp Cgil di Roma e Lazio. "Perde valore persino la vigilanza dinamica - che permette ai detenuti una circolazione libera dentro i reparti -, perché gli agenti si trovano a sorvegliare fino a 100 detenuti per volta, e le attività didattiche subiscono un forte ridimensionamento: non è difficile immaginare, dando un’occhiata alla cronaca nera degli ultimi mesi, quanto questa condizione influisca sulle vivibilità, e quindi alimenti tensioni sempre crescenti. Servono interventi urgenti, investimenti in personale, maggiore attenzione alle attività didattiche per i detenuti e all’assistenza psicologica per gli agenti, un progetto complessivo di miglioramento della vita in carcere. Ma è necessaria soprattutto un’azione di giustizia che riporti negli istituti tutto il personale distolto e destinato ad altre attività. Necessità di cui dovrebbero farsi carico tutte le istituzioni preposte", chiude il sindacato. Palermo: Ass. Antigone "al carcere Pagliarelli situazione degradante per alcuni detenuti" Ristretti Orizzonti, 29 ottobre 2015 Lunedì scorso Pino Apprendi, rappresentante di Antigone, si è recato al carcere Pagliarelli di Palermo dopo aver raccolto strane voci sulle condizioni di alcuni detenuti che, per motivi precauzionali (tendenze al suicidio) sarebbero stati tenuti nudi, in isolamento e senza coperte. "Ho visitato il reparto di isolamento - dice Pino Apprendi - dove vi erano 4 celle occupate da 4 persone; due di queste non avevano in dotazione alcuna coperta. Avendo fatto notare ciò alla direttrice, la stessa mi riferiva che la coperta sarebbe stata data dietro richiesta. Visitando il reparto degenza della psichiatria - continua Pino Apprendi - ho notato che un ragazzo tossicodipendente viveva in una cella priva di letto, tavolo e sgabello; a terra vi era un pezzo di gommapiuma che faceva da materasso, una coperta e due piatti di pasta. Il ragazzo rivolgendosi a me ed alla direttrice chiedeva delle condizioni migliori, di essere trasferito nella stanzetta accanto dove c’era, a suo dire la televisione, ed infine chiedeva il metadone. In seguito ho incontrato il medico che mi ha spiegato che a norma di regolamento ancora non poteva somministrare il metadone. In un’altra cella adiacente un altro giovanissimo mi riferiva che da tre giorni aveva perdite di sangue interno ed aveva ricevuto solo cure da infermieri; quando ho riferito al medico del carcere, lo stesso ha minimizzato l’accaduto. Devo dire - conclude Apprendi - che vedere il giovane tossicodipendente in quelle condizioni non mi ha fatto pensare ad un posto dove il recupero della persona umana debba essere messo al primo posto". Savona: detenuti e agenti sono d’accordo "mantenete aperto il carcere di Sant’Agostino" di Claudio Vimercati Secolo XIX, 29 ottobre 2015 Le voci (ufficiose) arrivano da Roma: il carcere di Sant’Agostino chiude. Il ministero di Giustizia ha firmato il decreto. Nel piano di dismissioni di istituti di pena c’è, come rivelato dal Sappe, il Sindacato autonomo della polizia penitenziaria, anche quello di Savona. Le condizioni fatiscenti e degradate, denunciate da anni, ne hanno sancito la fine, anche se non sarà molto probabilmente traumatica, ma avverrà per gradi. "La procedura non è semplice - spiega Donato Capece, segretario generale del Sappe. Se ne parlerà il prossimo anno". I problemi sul tappeto sono tanti. "Un’idea - spiega ancora Capece. in attesa che venga costruito il nuovo carcere, potrebbe essere quella di trasformare il Sant’Agostino in una casa di arresto, dove possano essere ospitate persone arrestate e in attesa di interrogatorio. Questo consentirebbe di mantenere un presidio degli agenti penitenziari". Gli agenti di custodia, appunto. Sono cinquanta e con la chiusura del carcere sono destinati ovviamente altrove. "Su questo non transigeremo - dice Capece -. Ci batteremo contro deportazioni in altre sedi. Prima di tutto dovranno essere accolte le richieste del personale. Una parte, ad esempio, potrebbe andare alla scuola penitenziaria di Cairo. Un’altra rimanere al Sant’Agostino a presidio della casa di arresto". Intanto hanno preso posizione anche i detenuti che in una lettera inviata al ministro della giustizia "si dicono "preoccupati soprattutto per i propri genitori, mogli, figli, fidanzate, che dovranno fare ulteriori sacrifici per poter vedere al colloquio il proprio famigliare. È giusto pagare le nostre colpe, ma quello che vi preghiamo di osservare è di non fare pagare queste colpe anche a persone che sono fuori da questo mondo ma che vi si ritrovano solo per amore dei propri cari". E proseguono: "Vi chiediamo prima di chiudere che almeno vi sia un altro carcere in zona, dove sarebbe più facile per tutti. Sia per i parenti che per la polizia penitenziaria". Rovigo: il nuovo carcere è costato 29 milioni di euro, ma non apre perché mancano agenti di Maurizio Tortorella Panorama, 29 ottobre 2015 I lavori per la nuova struttura da 2010 posti, iniziati nel 2007, sono terminati. Sono costati 29 milioni di euro. Ma la prigione resta inutilizzata. Perché mancano 180 agenti. A Rovigo, il 23 luglio 2007, era sbarcato in pompa magna perfino il ministro della Giustizia dell’epoca, Clemente Mastella. Con forbici e nastro tricolore d’ordinanza, il Guardasigilli aveva dato il via la costruzione del nuovo carcere: una capienza di 210 posti, destinato a soli detenuti uomini. Fu detto in quell’occasione che i lavori strutturali sarebbero durati quattro anni, per una spesa di 28 milioni di euro. Le cronache della giornata riportano, scolpito nell’inchiostro, l’equilibrato realismo di Mastella, politico reso saggiamente pessimista dal meridionalismo: "Speriamo di adoperarci affinché l’opera non resti un’incompiuta". Parole fatalmente premonitrici. Perché di anni in realtà ne sono serviti otto, e di milioni (finora) ne sono stati impegnati 29. E alla fine, tra mille traversie e difficoltà sovrumane, pare che lo abbiano costruito per davvero, il nuovo carcere di Rovigo: da fuori, almeno, si vedono gli alti muri di cinta con le casematte delle guardie; e poco più in là gli edifici destinati alle celle, dipinti di un bel giallo rosato, con le grandi finestre sbarrate… Insomma, tutto sembra finalmente a posto. Eppure non lo aprono, il carcere nuovo. Perché per farlo funzionare, tra arredi e strutture interne, pare che di milioni ne manchino ancora 20 (venti!). Soprattutto, mancano gli agenti penitenziari necessari: si dice ne servano 180. Strano: di passaggio a Rovigo, lo scorso marzo, l’attuale ministro della Giustizia Andrea Orlando aveva garantito l’imminente apertura della struttura. Invece nulla. "Spero sia un problema momentaneo" commenta il presidente dell’Ordine degli avvocati della città, Giampietro Berti: "Altrimenti sarebbe un scandalo di proporzioni nazionali". E ha ragione, l’avvocato Berti: lo scandalo c’è tutto. E grida vendetta. Perché è vergognoso che il denaro pubblico venga sprecato in questa maniera assurda. E quello di Rovigo non è uno scandalo locale, ma assurge a caso nazionale, se non continentale. Perché l’indecorosa vicenda del carcere fantasma accade in un Paese che soltanto due anni fa è stato clamorosamente condannato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per lo stato infame delle sue strutture carcerarie. La Corte di Strasburgo, nel 2013, censurò l’Italia per il trattamento inumano riservato ad alcuni suoi reclusi, costretti in spazi inferiori ai quattro metri quadrati, in strutture fatiscenti (l’80 per cento delle prigioni italiane ha più di un secolo di vita), senza servizi igienici e senza docce, e quasi prive di assistenza medica. Ed è vero il dato di cui oggi fa vanto il ministro Orlando: da allora il numero ufficiale dei detenuti è calato da 68.258 a 52.144 (ultimo dato del 31 luglio 2015). Ma il problema non è affatto risolto. Perché la capienza massima complessiva delle 198 strutture penitenziarie italiane resta di 49.552 posti, e denuncia quindi la presenza di oltre 2.500 reclusi oltre la norma. A Rovigo ora ci sono 210 nuovi posti, costati 138 mila euro l’uno e inutilizzati. Sempre Rovigo, aggiunge l’avvocato Berti, la casa circondariale di via Giuseppe Verdi, quella che nel 2007 doveva essere sostituita in quattro anni e oggi contiene ancora 75 detenuti (in sovrannumero) "è vecchissima e necessiterebbe di interventi di manutenzione straordinaria che fino a ora non sono mai stati effettuati in quanto si pensava di doversi trasferire nel carcere nuovo". Le cronache recenti parlano di aggressioni violente e di agenti ridotti allo stremo. Vogliamo dirla tutta? Lo scandalo del carcere fantasma meriterebbe forse l’attenzione non soltanto del ministero della Giustizia, ma anche della locale Procura: c’è un magistrato, a Rovigo? Verona: a Montorio ieri pomeriggio il blitz degli ispettori ministeriali di Angiola Petronio Corriere Veneto, 29 ottobre 2015 Sono arrivati, d’improvviso, ieri pomeriggio. Per la seconda volta in un anno -cosa assolutamente anomala - al carcere di Montorio si sono presentati gli ispettori del Dap, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Il loro intervento era stato "sollecitato" con una serie di esposti dai sindacati della polizia penitenziaria che ieri hanno avuto con loro un colloquio di oltre tre ore. Martedì, intanto, un altro agente è stato aggredito. E sabato ci sarà un presidio. Quando si dice la "corrispondenza". Sia quella epistolare che quella d’intenti. Sono giorni a dir poco intensi, dal punto di vista della "corrispondenza", quelle di ieri e dell’altro ieri al carcere di Montorio. Con una missiva spedita telematicamente martedì dai sindacati della polizia penitenziaria Sappe, Osapp, Uspp, Fns Cisl e Cgil funzione pubblica alla volta del provveditore regionale, del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, alla direttrice del carcere, al prefetto Mulas e al sindaco Tosi in cui si proclama per l’ennesima volta nel giro dì due anni lo stato d’agitazione con tanto di presidio fuori dal carcere sabato. E con un "riscontro" assolutamente immediato, visto l’arrivo - ieri pomeriggio - di sette ispettori del Dap alla casa circondariale. Quelli che nelle carceri non arrivano mai a caso. E che a Verona si sono presentati per la seconda volta in un anno. Con l’altra visita, quella del 15 ottobre, del direttore della sezione "detenuti e trattamento" sempre del Dap. Atti concreti per un "malessere" che ormai neanche l’amministrazione penitenziaria può ignorare. Sono arrivati sull’onda dei continui esposti sindacali contro la direzione, quegli ispettori. Sulla scia di una guerra intestina che ormai si gioca su due fronti assolutamente schierati: quello della direttrice Maria Grazia Bregoli e quello dei sindacati. Alcuni di loro hanno parlato per oltre tre ore con i rappresentanti dei lavoratori. E hanno preso nota di quella "mancanza di sicurezza" che da tempo all’interno di Montorio vanno lamentando. Celle date a fuoco dai detenuti, con tanto dì interrogazioni parlamentari, interventi di deputati e sindaco, aggressioni denunciate in continuazione dagli agenti, cancellazione di eventi come la "Verona Marathon" perché a detta degli stessi organizzatori in carcere hanno trovato "chiusura e mancanza di dialogo". Fino agli ultimi episodi, in termini temporali, denunciati nella lettera dei sindacati: un detenuto scarcerato martedì per fine pena nonostante due giorni prima avesse minacciato e insultato una poliziotta. E l’aggressione di un carcerato che con un coltello artigianale, di quelli che vengono ricavati limando gli spazzolini e affilando dei pezzi di ferro e che aveva nascosto nelle mutande, ha tentato di colpire prima al fianco e poi al collo un agente. "Più volte - hanno scritto le organizzazioni sindacali - abbiamo lamentato l’incapacità di questa dirigenza nella gestione della popolazione detenuti, ha mancata o ritardata applicazione delle procedure disciplinari in diversi casi ha contribuito a diffondere la convinzione di una possibile impunibilità". La Bregoli rimane abbarbicata nel suo silenzio. E sabato, giorno in cui a Montorio si sarebbe dovuta correre la maratona, ci sarà un’altra manifestazione. Questa volta fuori dal carcere. Quella del personale della polizia penitenziaria con tanto di famiglie a seguito. L’ennesima battaglia dì una guerra che al momento non conosce vincitori. Lecce: la "differenziata" anche nella Casa circondariale, obiettivo sensibilizzare i detenuti lecceprima.it, 29 ottobre 2015 Gli ospiti del penitenziario gestiranno l’intero ciclo dei rifiuti, dalla raccolta alla divisione all’interno delle celle, al conferimento nei cassonetti. Coinvolti nel progetto anche gli agenti penitenziari e il personale del carcere di Borgo San Nicola. La raccolta differenziata anche nella Casa circondariale di Lecce. E non si tratta solo di un progetto ambientale, tra i pochi in Italia, ma di un programma che intende coinvolgere e sensibilizzare i detenuti. I quali gestiranno l’intero ciclo dei rifiuti, dalla raccolta alla divisione all’interno delle celle, fino al conferimento nei cassonetti. Coinvolti nel progetto anche gli agenti penitenziari e il personale del carcere di Borgo San Nicola. Questa mattina la firma del protocollo d’intesa tra l’amministrazione del penitenziario, la ditta Monteco e il Comune di Lecce presso la sala conferenze della Casa circondariale. "È un progetto che ritengo molto vicino all’educazione civica - ha detto la direttrice del penitenziario, Maria Rita Russo - perché insegnare alle persone il senso del rispetto e della correttezza sia la cosa più importanti per tutti, e non solo per i detenuti". "La raccolta differenziata è importante e necessaria - ha aggiunto, ma, soprattutto, poterla realizzare in questo istituto penitenziario, dà la possibilità a tutti, detenuti e persone libere che qui lavorano, di valorizzare ancor più il senso civico dell’iniziativa. Quando le istituzioni si incontrano per un progetto socialmente utile è comunque un successo, al di là di quanta raccolta differenziata riusciremo a produrre. Ringrazio pertanto la ditta Monteco, per la disponibilità - ha concluso la direttrice - dato che possiamo già parlare di successo dell’iniziativa, riuscendo a rendere partecipi del progetto i detenuti. Esprimo pertanto la loro soddisfazione, perché non vedono l’ora di iniziare". È poi intervenuto l’amministratore di Monteco, Mario Montinaro: "È vero, non è stato difficile proporre ai detenuti il corso di formazione per attuare la differenziata, perché da subito si sono rivelati entusiasti. Ed hanno infatti dimostrato una sensibilità che non sempre si trova nei cittadini liberi". "Sono certo - ha spiegato - che qui avremo risultati soddisfacenti e non solo per quel che riguarda il servizio, ma anche un risultato di natura sociale. Qui abbiamo trovato un senso di civiltà molto marcato e forse noi persone libere abbiamo qualcosa da imparare da chi si trova ad affrontare la vita in carcere". Infine ha preso la parola Andrea Guido, l’assessore alle Politiche ambientali del Comune di Lecce: "Il progetto è proprio quello di avviare la raccolta differenziata in tutti gli uffici del carcere e nei luoghi che ospitano i detenuti. Un progetto sociale il quale prevede che gli ospiti della Casa circondariale siano parte attiva. Daremo inoltre la possibilità di mettere a disposizione piccoli premi alle sezioni di appartenenza dei detenuti. Coloro che raggiungeranno gli obiettivi della differenziata potranno beneficiare, per esempio, di un abbonamento alla pay tv, che andrà sempre alla sezione di appartenenza, oppure di un computer". Milano: Expo chiude, finisce il sogno degli 83 detenuti al lavoro tra i visitatori di Giuseppe Guastella Corriere della Sera, 29 ottobre 2015 Sei mesi dopo il bilancio è più che positivo: solo in tre sono evasi, due sono stati ripresi quasi subito. L’aria autunnale fredda e nebbiosa che ristagna da ore non contribuisce ad alleviare la malinconia lungo il cardo e il decumano, ma se c’è qualcuno tra i ventimila che lavorano ad Expo che è più triste degli altri per l’inesorabile avvicinarsi della chiusura di sabato, beh, quelli sono le decine di detenuti che per sei mesi hanno vissuto un sogno. All’inaugurazione del primo maggio, più che una scommessa calcolata sembrò un vero azzardo l’impiego di 83 detenuti delle carceri di Opera, Bollate, Busto Arsizio e Monza nel progetto nato da un accordo tra Tribunale di sorveglianza e Provveditorato lombardo dell’amministrazione penitenziaria e finanziato dal Ministero della giustizia con 600 mila euro della cassa delle ammende, quelle versate dai condannati. Sei mesi dopo il bilancio è più che positivo: solo in tre sono evasi (due sono stati ripresi quasi subito) ed uno è tornato in carcere perché stava provando a riprendere la sua vecchia attività di truffatore. "Una percentuale di devianza irrisoria" dice Francesca Valenzi, direttore dell’ufficio detenuti e trattamento del Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria lombardo soddisfatta per i risultati, ma soprattutto perché "i detenuti di sono confrontati con se stessi e con il popolo cosmopolita dei visitatori di Expo maturando un’esperienza unica". In turni di sei ore al giorno, dalle otto alle 17, per 500 euro al mese (tanto quanto gli altri detenuti ammessi al lavoro esterno) si sono occupati di assistenza ai visitatori, dando informazioni e distribuendo mappe e consigli, di organizzazione delle enormi file che hanno assediato gli ingressi ed hanno anche dato una mano alle forze dell’ordine per sorvegliare il sito, tanto che per questo hanno ricevuto un formale attestato di stima. Sono stati lavoratori esattamente come tutti gli altri e nessuno avrebbe potuto riconoscerli come detenuti, a meno che non sapesse che a contraddistinguerli era solo una anonima pettorina gialla. Dopo sei mesi, l’entusiasmo di Antonio Vitiello, un napoletano di 52 anni ospite del carcere modello Bollate per reati di droga, non è diminuito. Lo incontriamo di nuovo. Allora disse che non vedeva l’ora di lavorare, oggi riavvolge il nastro dei ricordi di quello che definisce senza esitare "il periodo più bello della mia vita". La cosa più piacevole che gli è capitata? "Vedere mamme che allattavano al seno i loro figli tra i viali dei padiglioni". Quella più difficile? "Quando all’ingresso arrivavano migliaia di persone che dovevano essere instradate verso i tornelli". Anche Francesco Catanzaro, 14 anni per rapina quasi interamente scontati, tira le sue somme. "Cosa mi ha colpito? Sentirmi dire grazie, da un lato, e dall’altro dover imparare a far rispettare le regole agli altri. Una cosa alla quale non ero abituato. Dopo un periodo così lungo trascorso in luogo "positivo", dove milioni di persone sono arrivate per divertirsi, e dove la sicurezza è stata garantita ai massimi livelli, tornare alla realtà di tutti i giorni non è facile, specie per chi ha ancora davanti a sé mesi, se non anni, di notti in cella e di lavoro all’esterno, ammesso che lo trovi". "Credo nell’amministrazione penitenziaria, il mio desiderio - dice Antonio - è di riuscire a cambiare la mia vita definitivamente. Ho tre figli, e se riesco a trovare un lavoro a Milano, trasferisco la famiglia qui e in Campania non ci torno più". La nuova scommessa è questa: "Vorremmo riuscire a ricollocare tutti - si augura la dottoressa Valenzi - stiamo cercando altre opportunità e non è escluso che le troviamo". Una potrebbe essere il Giubileo 2016 a Roma, la cui organizzazione ha già chiesto formalmente di poter utilizzare i detenuti che hanno lavorato ad Expo. Genova: maxi rissa nel carcere di Marassi; 20 detenuti feriti, il Ministero ordina indagine La Repubblica, 29 ottobre 2015 Una ventina i feriti tra due gruppi di sudamericani e albanesi che hanno usato coltelli rudimentali. Maxi rissa nel carcere di Marassi. Cento detenuti, due gruppi di sudamericani e albanesi, armati di coltelli rudimentali si sono affrontati poco dopo le 13 durante l’ora d’aria. Gli agenti erano solo 40, ma sono riusciti a dividerli: 20 i feriti, tutti curati nell’ infermeria del carcere. La notizia è stata data dai sindacati di polizia penitenziaria, che denunciano per l’ennesima volta "i seri problemi di sovraffollamento, che creano tensioni tra i detenuti". Aggiungono: "Ormai gli eventi critici non si contano più a Marassi - ha detto Angelo Urso, segretario generale della Uil-pa Penitenziari, un istituto che si conferma uno dei più caldi. È assolutamente necessario che il Governo assuma misure straordinarie rifuggendo dall’idea che l’emergenza penitenziaria sia superata semplicisticamente con la ‘favolettà dei tre metri quadri garantiti a ciascun detenuto. Cogliamo con favore la circolare diffusa qualche giorno fa dal Capo del Dap in tema di modalità di esecuzione della pena - ha concluso D’Urso - ma non ci sfugge che interviene dopo e a conferma di una lunga serie di direttive che sono lungi dall’essere attuate e si scontrano con i tagli economici che non permettono di investire in ammodernamenti e nuove tecnologie e con la riottosità a attuarle di qualche dirigente". Il Ministero ordina un’indagine. È stata aperta un’indagine del Ministro della Giustizia Andrea Orlando sulla maxi rissa avvenuta ieri nel carcere di Marassi tra detenuti albanesi e latino americani. Due diversi gruppi "etnici" si sono affrontati a calci e pugni e armati di coltelli rudimentali costruiti con oggetti di recupero come posate e pezzi di metallo. Nessun ferito grave ma la partecipazione di decine di detenuti ha messo in serio pericolo la sicurezza del carcere dove, da tempo, la polizia penitenziaria denuncia una costante carenza di personale e condizioni di vita sempre più scadenti. Rifugiati: nuove barriere crescono, anche all’interno di Schengen di Anna Maria Merlo Il Manifesto, 29 ottobre 2015 L’Austria alza una barriera al confine con la Slovenia, Lubiana "costretta ad adottare misure per fermare il flusso di migranti" se non verrà rispettato l’accordo del summit con i Balcani. Poco per volta, la Ue si barrica, non solo più alle frontiere esterne, ma ormai anche nello spazio Schengen. Nuove barriere crescono, poco per volta l’Europa si barrica non solo più alle frontiere esterne, ma persino al suo interno, nello spazio Schengen. L’Austria ha precisato ieri le "misure strutturali" evocate la vigilia dalla ministra degli Interni, Johanna Mikl-Leitner: dovrebbe venire costruita una doppia barriera alla frontiera con la Slovenia, paese dell’Unione. "Si tratta di assicurare un ingresso ordinato e controllato nel nostro paese - ha affermato Mikl-Leitner - non di chiudere la frontiera", per "adottare tutte le precauzioni" di fronte a dei migranti considerati "più impazienti, aggressivi e emotivi" negli ultimi tempi. La scorsa settimana, Mikl-Leitner aveva evocato la necessità di un’Europa fortezza. Il primo ministro, il social-democratico Werner Faymann, ha precisato che non ci saranno fili spinati, come in Ungheria, ma che la barriera si limiterà ad essere una "porta con parti laterali" chiuse. "Non crediamo che il problema attuale dei rifugiati, che riguarda tutta l’Europa, possa venir risolto con la costruzione di barriere e di muri", ha reagito il portavoce di Angela Merkel. Ma di fronte alla scelta austriaca, anche la Slovenia si prepara ad alzare barriere al confine con la Croazia. Il paese è in affanno, dal 17 ottobre circa 90mila rifugiati hanno transitato per la nuova rotta dei Balcani, che passa per la Slovenia (dopo la chiusura dell’Ungheria). "Se gli accordi di domenica", al mini-vertice di Bruxelles con i Balcani, "non verranno rispettati, la Slovenia sarà costretta a adottare nuove misure per fermare il flusso di migranti", ha affermato il primo ministro sloveno Miro Cerar. E ha aggiunto: "se necessario siamo pronti a costruire una barriera anche subito". In Germania, l’accoglienza si raffredda. Il ministro degli Interni, Thomas de Maizière, ieri ha accusato l’Austria di mandare migranti verso il confine tedesco "nelle ore notturne", in modo che entrino in Germania senza essere notati. In Germania, le scelte di Angela Merkel sono sempre più criticate e nel suo partito crescono ambizioni che fanno leva su un’inversione di tendenza dell’accoglienza (anche il ministro delle finanze, Wolfgang Schäuble, che nel passato è stato agli Interni, sembra stia scaldando i motori). La lunga marcia verso l’Europa-fortezza era iniziata in Spagna nel ‘93, nelle enclave nordafricane di Ceuta e Melilla, oggi ormai protette da un triplice muro di metallo. Ha fatto seguito la Grecia nel 2012, con la prima barriera al confine turco. Poi l’anno scorso la Bulgaria ha alzato uno sbarramento di 160 km, in parte finanziato dalla Ue. L’Ungheria fa figura di "modello" con i due muri innalzati, prima al confine con la Serbia poi con la Croazia. Con una scelta contraria a questo processo di chiusura, ieri l’Europarlamento ha votato a favore di 1,16 miliardi di euro aggiuntivi nel bilancio Ue 2016 a favore di misure per i rifugiati, contro la posizione del Consiglio (che rappresenta gli stati, ma sul bilancio Ue c’è la co-decisione). Un’inchiesta dell’istituto Ifop, realizzata in sette paesi europei, rileva che i cittadini europei hanno sguardi differenti sulla crisi dei rifugiati, ma al di là delle divergenze nazionali permane comunque all’interno di ogni paese una divisione tra elettorato di destra e di sinistra. In media generale, la Francia e la Gran Bretagna, che sono tra i paesi meno toccati dalle ultime ondate di arrivi, sono i più reticenti (per 46% di francesi e britannici non è un dovere accogliere, opinione condivisa solo dal 21% dei tedeschi e dal 32% degli italiani). Francia e Germania, seguiti dall’Olanda, si oppongono in maggioranza (rispettivamente solo 46% e 44% di favorevoli) alla ripartizione dei rifugiati, proposta dalla Commissione con il programma che riguarda per il momento 160mila persone. La maggior parte dei paesi, Italia compresa, ritengono di non avere i mezzi necessari per far fronte all’arrivo dei rifugiati (mentre per il 55% dei tedeschi sono "un’opportunità" per l’economia). Francia e Gran Bretagna sono anche in testa nello scetticismo verso l’aiuto allo sviluppo per evitare gli arrivi, iniziativa considerata efficace invece dal 55% dei tedeschi, mentre danno la preferenza al rafforzamento dei controlli alle frontiere e, soprattutto in Francia (29%), all’intervento militare in Siria. L’intervista a Martin Schulz "Italia beffata sui migranti, i paesi Ue mantengano i patti" di Federico Fubini Corriere della Sera, 29 ottobre 2015 Forse perché Martin Schulz ha iniziato la carriera politica come sindaco (socialdemocratico) di una piccola città della Westfalia, sa cosa vuol dire. "Gestire una crisi migratoria senza risorse adeguate - dice il presidente dell’Europarlamento - significa mettere gli abitanti uni contro gli altri". Solo 90 migranti trasferiti dall’Italia in altri Paesi, su 40 mila. L’accordo sulle quote sembra un flop. Sorpreso? "No. Uno dei grandi problemi è che promettiamo nei nostri vertici europei cose che poi gli Stati poi non applicano. Appena 90 trasferimenti è un dato scioccante, ma non mi stupisce. Vedo bene, e non da ora, la riluttanza dei governi a mantenere le promesse che fanno a Bruxelles. Per questo cerco di spingere e sottolineo quanto è importante stare ai patti. La rilocalizzazione dev’essere sistematica e obbligatoria". C’è chi dice che se non si trova una soluzione comune è a rischio il mercato unico europeo, non solo la libertà di circolazione delle persone. "Ci sono divisioni politiche chiare nell’Unione europea e evidentemente può esserci un impatto sul mercato unico. Certi Stati credono ancora che si possano dare risposte su scala nazionale a un problema globale. È semplicemente impossibile. Questa è una sfida globale, oggi l’instabilità attorno all’Unione rischia di creare flussi ancora maggiori. L’unica possibile risposta è comune". Però lei ha appena partecipato a un curioso vertice europeo a Bruxelles: solo i leader dei Paesi balcanici, l’Austria e la Germania. È questa la risposta comune? "È un sintomo che viviamo tempi strani il fatto che ci siano anche degli strani formati per gli incontri. Jean-Claude Juncker, il presidente della Commissione, ha cercato di riunire i Paesi più interessati dalla rotta balcanica. Dopotutto abbiamo appena avuto tre vertici con tutti e 28 i leader e risultati esigui. Però ogni tentativo di fare passi avanti è benvenuto. Sarei stato felice se anche a quest’ultimo vertice fossero state invitate anche l’Italia e la Svezia, coinvolte dai flussi migratori. Ma non ero io a fare gli inviti". Juncker accetta la flessibilità sul deficit per l’emergenza migranti. L’Italia la vuole, la Germania non la chiede per sé. Chi ha ragione? "I conti pubblici tedeschi sono in buone condizioni, la Germania non ha bisogno di eccezioni. Ma sono felice che ora Juncker accetti quest’ipotesi, è da mesi che la sostengo e c’è voluto tempo perché molti governi erano riluttanti. Del resto il Trattato europeo prevede esenzioni per situazioni eccezionali e se non lo è questa, non so quale altra lo sia. In passato sono stato sindaco di una città (Würselen, in Renania del Nord-Vestfalia, ndr), so cosa vuol dire tagliare servizi ai cittadini perché ci sono rifugiati da accogliere. Vuol dire mettere gli uni contro gli altri". Eppure l’impressione è che le regole di bilancio dell’area euro ormai siano a pezzi. Francia, Italia e Spagna in sostanza le ignorano. "Il fiscal compact è uno strumento utile per stabilizzare la situazione dei conti pubblici. Ma non è possibile garantire stabilità finanziaria nel tempo senza crescita, e per la crescita occorrono investimenti. Non solo privati, anche pubblici. Un’applicazione troppo restrittiva del fiscal compact rischia di impedirli". Gli investimenti vanno trattati con più indulgenza del giudizio europeo sui conti? "Dipende di quali investimenti parliamo. Sicuramente dobbiamo incoraggiare gli investimenti in istruzione, quelli per la lotta alla disoccupazione giovanile, quelli per le infrastrutture che danno competitività. Per esempio sulle reti digitali. Per dieci anni ci hanno detto che bastava tagliare la spesa pubblica e gli investimenti privati sarebbero arrivati da soli. Poi abbiamo visto che non era così, servivano azioni anche del settore pubblico". Che giudizio dà dell’approccio dell’Italia su questo? "Penso che Matteo Renzi con gli obiettivi della Legge di stabilità vada nella buona direzione, ma attendiamo il giudizio della Commissione". Una persona comune può chiedersi se è utile quest’Europa piena di divieti, che lascia un Paese da solo sull’emergenza migranti. Non viene da qui il "populismo"? "È una domanda assolutamente giustificata. Vede, io sono tedesco. Se nel mio Paese le cose andassero male, nessuno si chiederebbe se la Germania è utile ma cosa fare per gestirla meglio. Così è per l’Europa. Ogni settimana aggiungiamo miliardi di reddito, ma abbiamo milioni di giovani disoccupati. Abbiamo bisogno di distribuire le opportunità in modo più onesto, più giusto. Del resto il populismo della Lega Nord o del Front National c’erano anche prima dell’emergenza rifugiati. Da anni. Sfruttano la diffidenza dei cittadini". La Polonia cresce in fretta e da tempo. Perché gli anti-europei vincono anche lì? "Se c’è un Paese in Europa che gode da anni dei miliardi e miliardi dei fondi comunitari, è proprio la Polonia. È uno dei più dinamici, grazie all’integrazione nel mercato unico. Ma anche lì c’è una parte del Paese che ne ha approfittato enormemente, un’altra no. Il problema sono le diseguaglianze. Non l’Europa". Piano dell’Anci per l’emergenza profughi, incentivi ai Comuni che li ospiteranno di Carlo Lania Il Manifesto, 29 ottobre 2015 Aumento dei posti Sprar, divisione dei richiedenti asilo in un numero sempre maggiore di Comuni e incentivi per quei municipi che accettano di ospitare profughi nel propri territori. Sono tre punti di un piano che l’Anci, l’Associazione dei comuni italiani, sta finendo di organizzare per fronteggiare l’emergenza migranti e che verrà presentato nelle prossime settimane al ministero degli Interni. "Il piano punta a rendere più ordinata, sicura e gestibile l’accoglienza e l’integrazione dei profughi e dei migranti", ha spiegato ieri il presidente dell’Anci, e sindaco di Torino, Piero Fassino. L’idea all’origine del piano è duplice: da una parte non farsi trovare impreparati di fronte a nuovi e ingenti sbarchi di migranti lungo le nostre coste. Dall’altra rendere i sindaci degli oltre 8.000 comuni italiani maggiormente protagonisti dei progetti di accoglienza e non semplici esecutori delle decisioni assunte dai prefetti. Esigenze entrambe dettate soprattutto dalla convinzione che sia in Libia che in Siria certamente non si arriverà in tempi stretti all’attuazione di alcun piano di pace che sia in grado di fermare le partenze di centinaia di migliaia di disperati. Da qui la convinzione di non perdere ulteriore tempo. Oggi l’insieme delle strutture che compongono il sistema di accoglienza nel nostro paese ospita complessivamente 99.096 migranti. La maggior parte di questi, 70.918, pari al 72% del totale, trova posto in strutture temporanee, reperite nella maggior parte dei casi dai prefetti per far fronte alle emergenze del momento. Altri 21.814 (21%) nei centri Sprar, il Sistema di protezione richiedenti asilo e rifugiati, e 7.290 (7%) nei Cara. 464 migranti, infine, si trovano ancora nei Cie, i Centri di identificazione ed espulsione. L’intenzione del Viminale, fatta propria dall’Anci, è di aumentare di ulteriori 10mila posti il sistema Sprar, quello che in questi anni ha fornito i migliori risultati, estendendolo al maggior numero possibile di Comuni. Su più di 8.000 municipi, oggi solo 700 hanno accettato di ospitare dei profughi, con i comprensibili problemi di sovraffollamento e relativa crescita della tensione tra le popolazioni. L’Anci spera di portare adesso questo numero ad almeno 4.000 comuni grazie a un’opera di convincimento dei sindaci. Il numero dei profughi verrebbe deciso in base all’estensione del territorio e al numero di abitanti di ciascun comune. "L’adesione al progetto diventa meno complicata se riusciamo far capire ai primi cittadini l’importanza del progetto", spiega Matteo Buffoni sindaco di Prato e delegato Anci per l’immigrazione. "È importante che i sindaci possano sapere subito e in anticipo quanti migranti avranno senza dipendere dalle decisioni dei prefetti. È previsto anche un sistema premiale: in cambio della disponibilità all’accoglienza, i comuni che aderiscono potrebbero avere un allentamento del patto di stabilità". Il principio è lo stesso che, a livello europeo, ho portato il presidente della Commissione Ue Jean Claude Juncker ad aprire alla possibilità di una flessione sui conti pubblici per gli Stati che si sono spesi maggiormente nell’assistere i profughi. Per quanto riguarda i costi, infine, sarebbero totalmente a carico del ministero degli Interni. Nel 2015 - secondo i dati contenuti in un rapporto presentato la scorsa settimana dal Viminale, l’intero impianto dedito all’accoglienza è costato finora 1.162 milioni di euro, dei quali 918,5 per strutture governative e temporanee e 242,5 milioni per i centri Spar. Una cifra pari ad appena lo 0,14% della spesa pubblica nazionale. Il Viminale intanto è alla ricerca di nuove strutture in cui ospitare i migranti. Vecchie caserme dismesse comprese, come le 12 che il ministro della Difesa Roberta Pinotti ha detto ieri in commissione Schengen di aver già messo a disposizione. Per il Ministero al Cara "Sant’Anna" di Crotone è tutto ok, eppure... di Simona Musco Il Garantista, 29 ottobre 2015 "Nessuna irregolarità": così la cooperativa Misericordia viene "assolta" davanti alla commissione Antimafia Ma la 5Stelle Ferrara non ci sta: "Le criticità restano". "Nessuna irregolarità sulla gestione del Cara Sant’Anna". La voce è autorevole e il pubblico pure: a dirlo davanti alla Commissione parlamentare Antimafia è il capo Dipartimento per le Libertà civili e l’Immigrazione del Ministero dell’Interno, Mario Morcone. Il 20 ottobre scorso, in seduta segreta, Morcone ha così "assolto" la cooperativa Misericordia di Isola Capo Rizzuto, sulla cui gestione erano state sollevate diverse ombre da parte di parlamentari ed europarlamentari che, a turno, avevano messo piede all’interno del centro. Nel corso dell’audizione, il prefetto Morcone, recita una nota della Misericordia, ha ricordato anche come "in assenza di provvedimenti dell’autorità giudiziaria", la prefettura continuerà ad affidarsi alla Misericordia di Isola Capo Rizzuto, vincitrice della gara. Ma i dubbi rimangono, specie a chi, come l’euro-parlamentare del M5S, Laura Ferrara, ha più volte chiesto spiegazioni e documenti sul centro di Isola. "Le criticità, di fatto, permangono - spiega oggi. Le varie ispezioni hanno rivelato molti aspetti da approfondire. E la Prefettura, ovvero il braccio del Ministero dell’Interno sul territorio, non è in possesso di documenti importanti, come i bilanci consuntivi e quelli relativi ai subappalti, per i quali aveva investito il Ministero senza riscontro. Come fa Morcone oggi a dire che è tutto ok?". Le domande della Ferrara, da febbraio 2015 ad oggi, sono rimaste senza risposta. "Sembra strano che la Prefettura non detenga documenti che, in base alla convenzione che la stessa mi ha inviato, dovrebbe possedere". Ma non solo: "Sappiamo di un’indagine in corso sul Cara", spiega l’euro-parlamentare. Che lì vuole tornarci per fare chiarezza. Un sistema "ai confini della legalità", aveva evidenziato in un documento inviato alla Prefettura di Crotone. A partire dagli scarsi controlli sanitari e dalle condizioni igieniche, definite "estreme": stanze "sprovviste di armadi ed altro mobilio", letti coperti da "un unico lenzuolo sudicio", bagni "in comune" e "pozzetti aperti dai quali fuoriesce continuamente acqua putrida e stagnante". Sulla base di quella ispezione, la Ferrara aveva chiesto tutta una serie di documenti. Il 16 febbraio il Prefetto rispondeva: "I componenti della commissione "Praesidium" non hanno mai riportato criticità di natura sanitaria riconducibili a quelle evidenziate". Ma ammetteva: il centro, la cui capienza contrattuale è di 729 posti, è sovraffollato, tanto da "sfiorare, in particolari contingenze, anche le 2000 presenze". Ma la documentazione richiesta dalla Ferrara risulta "in gran parte non detenuta". Nessuna notizia di bilanci e rendiconti consuntivi dell’Ente gestore, sulla selezione dei fornitori e sulla costruzione di nuovi alloggi. Eppure, la convenzione consegnata dallo stesso funzionario impone all’ente gestore la consegna di rendiconti dettagliati e ogni due mesi un report sui servizi effettivamente erogati, sulle prestazioni sanitarie, l’assistenza generica, le presenze effettive di personale e l’analisi dei costi, la quantità dei beni acquistati, il tutto sotto l’occhio vigile della Prefettura. Che però non sa nulla. Stati Uniti: nei "bracci della morte" entra un po’ d’aria Il Manifesto, 29 ottobre 2015 In Virginia i detenuti rinchiusi nel braccio della morte godranno d’ora in poi di un trattamento meno disumano. Hanno intentato un’azione legale. Hanno perso la causa ma vinto la battaglia. Potevano lasciare le loro celle singole solo tre volte la settimana per la doccia, e per cinque giorni gli era concessa un’ora d’aria in un cortiletto. D’ora in poi avranno mezz’ora d’aria quotidiana in più, in un nuovo cortile più ampio e dotato di un cesto per la pallacanestro e strumenti ginnici. Potranno passare un’ora in grappi di quattro, scrivere mail, telefonare, disporre di qualche gioco da tavolo. Non dovranno più parlare con i familiari da dietro una barriera di vetro: potranno toccare, essere toccati, tenere la mano. È la conclusione di una disputa iniziata quando un condannato a morte, Alfredo Prieto, poi giustiziato, aveva intentato un’azione legale impugnando l’incostituzionalità dell’abitudine a mettere i condannati a morte in isolamento assoluto. Prieto aveva vinto, ma la Corte d’Apello aveva annullato la sentenza e la Corte suprema della Virginia aveva convalidato l’annullamento. Ma a quel punto anche gli altri condannati a morte hanno seguito l’esempio di Prieto, fino a che la pioggia di ricorsi ha convinto l’amministrazione della Virginia, dove le condizioni nel braccio della morte erano anche più dure che nelle altre 30 sezioni simili attive negli Usa, a modificare le norme. Cose distanti da noi: roba americana che non ci riguarda. Dovrebbe riguardarci, invece, dal momento che le condizioni di vita dei detenuti nei bracci della morte americani, e a maggior ragione dopo la decisione della Virginia, sono meno crudeli di quelle che in cui sono costretti i detenuti italiani in regime di art. 41 bis. Con una differenza in più: mentre nei bracci della morte Usa ci finiscono solo i condannati in via definitiva, nei braccetti della morte tricolori abbondano i detenuti in attesa di giudizio e persino in attesa di rinvio a giudizio. Sono raggelanti le lettere che arrivano all’associazione del Partito radicale "Nessuno tocchi Caino", una delle poche, come Antigone, a occuparsi di quello che tutti i civilissimi italiani preferiscono non vedere. Parlano di una realtà bestiale che non è affatto esagerato definire metodica tortura. Denunciata dalla Ue, condannata dalla Commissione europea per la prevenzione della tortura per violazione della Convenzione europea dei diritti, severamente criticata dall’Onu. Va da sé che non tutte le carceri sono uguali, quanto a 41 bis. Nessuna è migliore, qualcuna è peggiore. A Sassari, pei esempio, l’ora d’aria quotidiana si svolge in una celletta dotata di due feritoie. Nelle restanti 23 ore di prese d’aria non si avverte il bisogno. Le regole sono uguali per tutti, come quella che impone di vedere i familiari solo per un’ora al mese, senza contatto fisico, e in giorni fissi. Se per qualche motivo il parente è costretto a saltare il turno si rimanda la visita al mese successivo, senza possibilità di recupero. Poi però ci si può sbizzarrire con la fantasia. A Sassari sbattere senza posa i pesanti e fragorosi cancelli di ferro si è rivelata un metodo tanto crudele quanto raffinato. L’America, si sa, ha un sistema carcerario durissimo. Quel che non si sa, perché non lo si vuole sapere, è che l’Italia tante volte è peggio. Turchia: Erdogan ordina il blitz anti-media. "Sangue su di noi, è come un golpe" di Marco Ansaldo la Repubblica, 29 ottobre 2015 Raid con gli agenti in tenuta anti-sommossa per insediare a quattro giorni dal voto nuovi vertici in un gruppo editoriale ostile. Una tessera da giornalista insanguinata. Sotto questa macchia, un simbolo oggi, causata dal blitz della polizia su un gruppo editoriale ostile al Presidente Tayyip Erdogan, la Turchia domenica va nuovamente a votare. Ripetendo le elezioni di giugno, che non sono riuscite a portare alla formazione di un governo condiviso. All’alba, in tenuta antisommossa, sparando con i cannoni ad acqua e lanciando gas lacrimogeni, gli agenti hanno fatto evacuare i dipendenti della sede del gruppo Koza-Ipek a Istanbul, per far entrare gli amministratori nominati dal tribunale e sostituire la gestione attuale, accusata di legami con la rete "illegale" dell’imam Fethullah Gulen, ex alleato divenuto il nemico numero uno di Erdogan. I giornalisti si sono opposti. E nella notte un gruppo di una ventina di loro è rimasto asserragliato nell’edificio, tentando in ogni modo di far uscire il giornale di questa mattina. Impresa che pare impossibile. Ma le 28 pagine del giornale Bugun appariranno comunque domani sull’account Twitter del quotidiano. Dopo i durissimi scontri, alla fine, sul selciato, è stata raccolta la carta stampa, macchiata di sangue, del reporter di inchiesta Mustafa Kilic, del quotidiano Millet, uno dei media sotto accusa assieme al giornale Bugun e alle tv Bugun tv e Kanalturk. "Ci hanno picchiati", dice uno dei reporter. C’è un golpe contro i media. I golpe non avvengono solo con i tank, commenta Abdulhamit Bilici, direttore di Zaman. Gli agenti, una volta dentro l’edificio, hanno staccato i cavi per interrompere le trasmissioni delle due tv. E nel pomeriggio il direttore di Bugun Tv, Tarik Toros, è stato portato fuori dagli ufficiali di polizia, annunciando ai media presenti fuori dal palazzo di essere stato destituito dal suo ruolo: "Sono profondamente rammaricato di non essere riuscito a garantire le trasmissioni. Spero che riprenderemo presto da dove abbiamo sospeso, abbiamo ancora molto da dire". L’irruzione è avvenuta all’indomani della decisione del governo di mettere il gruppo Koza- Ipek, critico nei confronti del Partito della Giustizia e dello Sviluppo, fondato da Erdogan e al potere dal 2002, in amministrazione controllata. La holding è accusata dal leader turco di "manovrare la propaganda" antigovernativa per conto di Gulen, residente da molti anni in Pennsylvania, e acerrimo oppositore del Presidente dopo esserne stato alleato per i primi anni. Ma dal 2007, dopo che l’alleanza aveva portato all’esclusione dei militari come forza di influenza del Paese, le posizioni fra i due si sono divise e Gulen è divenuto è diventato per Erdogan il nuovo nemico da abbattere. In questo clima la Turchia va alle urne fra quattro giorni. Con un ennesimo, allarmante attacco alla libertà di stampa. L’opposizione sia socialdemocratica sia del partito curdo sostiene che il blitz altro non è se non una vendetta di natura politica. Gulen, in esilio volontario negli Stati Uniti da molti anni, è a capo di un impero formato da una fitta rete di società, Ong, scuole sparse in tutto il mondo, media e istituti finanziari, che negli ultimi due anni sono finiti nel mirino del governo. Ieri le autorità hanno poi lanciato un sito web che contiene gli elenchi dei "terroristi" più ricercati dalla polizia. Ma l’idiosincrasia di Erdogan nei confronti del partito curdo, il cui buon risultato a giugno ha impedito il suo disegno di arrivare a una Repubblica presidenziale, ha fatto sì che le liste siano in maggior parte composte da ribelli curdi del Pkk, più che di jihadisti del Califfato islamico. Gli "wanted" sono distribuiti in cinque elenchi secondo il livello di pericolosità: da quello rosso (pericolo massimo) al grigio. In mezzo ci sono gli elenchi blu, verde e arancione. Un esempio? Solo due presunti membri del sedicente Stato Islamico sono nell’elenco rosso. La maggior parte dei suoi militanti, anche quelli ricercati dopo la strage del 10 ottobre alla stazione di Ankara (102 morti), compare nell’elenco blu.