Giustizia: criminali non si nasce, si diventa di Luigi Cancrini (Psichiatra, già deputato Pd) L’Unità, 28 ottobre 2015 Gli interventi dei magistrati e delle forze di polizia sono importanti ma da soli non bastano. Vanno date ai giovani e ai giovanissimi speranze, occasioni e alternative di vita. Nei quartieri più abbandonati servono eserciti di educatori e psicologi. La vicenda dei due giovani uccisi in strada a colpi di pistola a Roma, in zona Ponte di Nona è una vicenda che verrà chiarita nelle prossime ore e nei prossimi giorni. Si sono uccisi a vicenda? Sono stati uccisi insieme da qualcun altro? Quello che è certo, però, è il dato per cui le periferie romane sono sempre più nelle mani di una criminalità più o meno organizzata. Contro cui le iniziative normali della polizia e della magistratura non bastano più. Rendendole sempre più simili a quelle di altre città come Napoli o Palermo. All’interno di una situazione in cui, in tutto il paese, cresce un allarme sociale sempre più difficile da contrastare. Un punto da chiarire subito, a scanso di equivoci, è quello che riguarda l’origine di questa criminalità. I due giovani uccisi ieri erano italiani come italiani erano gli altri due morti in circostanze analoghe a Napoli. L’organizzazione dello spaccio, al centro, una volta di più, delle ipotesi investigative continua ad essere abitualmente nelle mani di gruppi criminali autoctoni, gli stranieri vengono utilizzati a volte come mano d’opera, o come utenti. Al di là delle strumentalizzazioni più populiste, la criminalità organizzata è un problema nostro che dobbiamo affrontare con coraggio e determinazione. Partendo, a mio avviso, da un dato di fatto spesso scioccamente trascurato. In tanti luoghi del nostro paese, infatti, l’inizio di una carriera criminale è legata alle circostanze di vita in cui crescono tanti nostri ragazzi. Vi è una correlazione significativa, in queste zone, fra evasione dall’obbligo scolastico, insufficienza dei servizi sociali e sviluppo di comportamenti devianti. Il modo in cui drammaticamente questi comportamenti vengono tollerati o rinforzati all’interno di famiglie già colluse con delle attività criminali propone una spiegazione purtroppo estremamente semplice per lo sviluppo di una anti-socialità sempre più pericolosa. Per chi la agisce e per chi vive intorno a lui o a lei. Il fatto che alcune di queste famiglie malavitose diventino il punto di riferimento di intere comunità, come ben dimostrato di recente a Roma dai funerali di Casamonica, ci mette di fronte al radicamento, in queste zone, in queste periferie, di una cultura o di una subcultura che si pone in antitesi aperta o in aperta guerra conle forze dell’ordine e con i principi della legalità. Contro cui di fatto nulla possono i pur importanti interventi dei magistrati e delle forze di polizia. Chi sta in guerra sa che avrà delle perdite e i clan criminali in guerra con tutti noi sanno che qualcuno dei loro aderenti finirà in galera. Da cui, comunque, non è poi così difficile uscire. Come ben dimostrato dai due giovani uccisi l’altra notte a Roma, liberi tutti e due nonostante avessero numerosi precedenti penali alle spalle: dallo spaccio di stupefacenti all’omicidio volontario. Come tutte le malattie gravi, la criminalità organizzata che cresce nelle periferie delle nostre città non dovrebbe più essere curata solo con degli interventi sul singolo atto criminale che ne è il sintomo, la manifestazione più evidente e più vistosa. Il discorso che dobbiamo avere il coraggio di iniziare è un discorso mirato sulla prevenzione. Servono, nei quartieri più abbandonati di queste nostre città, piccoli eserciti di insegnanti, educatori, psicologi, assistenti sociali per portare a zero la dispersione scolastica e per offrire speranze, occasioni e alternative di vita ai giovani e ai giovanissimi oggi abbandonati a se stessi. Serve, nei confronti delle famiglie che non si occupano in modo adeguato dei loro figli, un intervento deciso dei servizi e dei Tribunali per i Minori. La clinica insegna che l’anti-socialità dell’adulto è il frutto velenoso della trascuratezza in cui è cresciuto il bambino e i genitori che non sono in grado di occuparsene vanno dapprima sostenuti e poi eventualmente sostituiti con interventi forti delle istituzioni. Come hanno cominciato a fare a Reggio Calabria (ne parla su Repubblica del 27 ottobre 2015 Francesco Viviano) i giudici che si sono occupati in questi ultimi mesi dei ragazzi agli inizi di una carriera delinquenziale: sulle orme dei loro padri, zii, fratelli e nonni. Con l’aiuto di una nuova generazione di "madri coraggio" che hanno saputo opporsi ai pregiudizi familistici in cui sono state cresciute e costrette, accettando o incoraggiando l’invio dei loro figli in strutture assistenziali e rieducative di altre regioni. Sapendo bene, per dolorosa esperienza diretta, il rischio altissimo che questi figli avrebbero avuto, restando in loco, di dover scegliere un giorno solo se ammazzare tremendamente le stesse. Intervenire per modificarle non è solo un’urgenza, è un dovere morale dell’Italia che sta cambiando. Di cui questo Governo, così coraggioso in tanti altri campi, deve assolutamente prendere atto. Da domani, però, non a partire dal 2016 o dal 2017. Giustizia: le gabelle di Orlando sui detenuti di Beppe Battaglia (Associazione Casacaciolle) Il Manifesto, 28 ottobre 2015 Come un fulmine a ciel sereno il ministro della giustizia Orlando ha emanato un decreto con il quale si aumenta di oltre il 100% le spese di "mantenimento carcere" a carico delle persone detenute. Il decreto ha valore retroattivo al mese precedente (dal primo agosto 2015). Da un euro e mezzo (centesimo più, centesimo meno) la quota giornaliera che ogni persona detenuta doveva pagare è stata portata a tre euro e sessantadue centesimi giornalieri. Per i detenuti che lavorano all’interno del carcere (pulizie, cucine, piccola manutenzione: le attività cosiddette domestiche) alle dipendenze del ministero della giustizia, come per altre attività lavorative remunerate, la trattenuta viene fatta alla fonte, in busta paga. Per quelli che non lavorano s’incaricherà Equitalia, a fine pena, di presentare il conto, avviando spesso inseguimenti esattoriali persecutori per intascare ad ogni costo il… fitto dell’albergo! Tenuto conto che tutte le persone detenute che lavorano in carcere alle dipendenze del ministero della giustizia sono tutti contratti part time di due o tre ore giornaliere, si può facilmente immaginare cosa guadagna al netto un lavorante detenuto! Ovviamente, quando si passa ai dati statistici scodellati dal ministro o dai suoi funzionari della giustizia non è raro sentire dire che in questo o in quel carcere ci sono tot detenuti lavoratori, tacendo accuratamente di dire quante sono le ore lavorative concesse e soprattutto quale è il prezzo orario di tale prestazione lavorativa. Viene taciuto completamente da questi campioni della giustizia che le tabelle orarie sono aggiornate ad oltre trent’anni fa! A questo proposito, all’udienza tenuta dal capo del Dap (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) con tutti i Garanti, alcuni dei quali hanno sollevato la questione dell’aggiornamento delle tabelle orarie del lavoro dei detenuti, il capo del Dap con grande "candore" così argomentava la risposta: "a noi conviene risarcire i pochi detenuti che a fine pena fanno ricorso, piuttosto che aggiornare le tabelle. Tanto, i detenuti che fanno ricorso (e tutti lo vincono) sono pochissimi, presi dall’euforia della liberazione vogliono solo mettere distanze tra loro e il carcere, invece l’aggiornamento delle tabelle ci costerebbe molto di più". Non c’è che dire per un funzionario della giustizia. Il ministro della giustizia non può non sapere questo stato di cose, quando ci mette tutta la sua solerzia aumentando di oltre il 100% le spese del "mantenimento carcere" a carico della persona detenuta e dimenticando completamente, invece, il doveroso (e legale) aggiornamento delle tabelle orarie risalenti ad oltre trent’anni fa! Un duplice problema, dunque: di onestà etica e di legalità. Altro che caporalato! Se tanto ci dà tanto, c’è da credere che anche i diciotto tavoli di lavoro istituiti dal ministro per… riformare l’ordinamento penitenziario, alla fine, partoriranno qualche topolino avvelenato con grande dissipazione di energie e tanta prosopopea propagandistica. Signor ministro, ma è davvero troppo pretendere un po’ di decoro etico, un po’ di giustizia amministrativa, un po’ di buonsenso politico? O è diventato lecito ogni sorta di abuso sulla pelle delle persone detenute? Giustizia: ddl sull’omicidio stradale, pena minima elevata a cinque anni di carcere di Maurizio Caprino Il Sole 24 Ore, 28 ottobre 2015 Risale la pena minima per i casi più rilevanti di omicidio stradale. Ieri alla Camera il Comitato dei nove ha concordato un aumento a cinque anni, dopo che le commissioni Giustizia e Trasporti l’aveva abbassata a quattro. Ci si attesta comunque più in basso rispetto ai sette anni previsti dal testo che era stato licenziato a giugno dal Senato. La pena massima per gli stessi casi resta invece uguale: 10 anni. Al momento non si prevedono ulteriori novità, per cui il disegno di legge dovrebbe essere approvato in tempi brevi: si parla di stasera, salvo variazioni legate alla lunghezza del dibattito sul Codice degli appalti. L’aumento della pena minima, deciso dopo un incontro con le associazioni che l’altro ieri avevano manifestato davanti alla Camera contro ogni ipotesi di ammorbidimento, riguarda chi causa un incidente mortale mentre è in stato di ebbrezza "media"?(da 0,81 a 1,5 g/l) o circola a velocità alta (in città, più del doppio del limite, a patto che vada comunque a più di 70 km/h; fuori città, a oltre 50 km/h più del limite) o compie un’inversione di marcia in corrispondenza di curve, incroci o dossi o sorpassa con striscia continua o vicino a un attraversamento pedonale. Restano pene più alte per neopatentati e conducenti professionali e per chi è in stato di ebbrezza oltre 1,5 g/l o sotto effetto di droghe o fugge dopo l’incidente. Va considerato pure che c’è la revoca della patente per 15 o 30 anni, secondo i casi. Sanzioni molto alte, che hanno indotto il servizio Studi della Camera a segnalare una possibile incostituzionalità: mancherebbe l’uguaglianza rispetto ad altri casi di omicidio "aggravato", come quello per violazione delle norme anti-infortuni sul lavoro e per colpa medica grave. Il minimo assoluto di pena riguarda invece chi causa un incidente violando qualsiasi altra norma del Codice della strada: due anni (con un massimo di sette). Sono le stesse pene oggi previste per l’omicidio colposo con l’aggravante della violazione delle norme stradali. Giustizia: polizia "in armi" contro il nemico invisibile di Marco Bascetta Il Manifesto, 28 ottobre 2015 L’Italia è sulla soglia di una sanguinosa Intifada? Dobbiamo attenderci una ondata di violenti scontri di piazza in tutto il paese? A giudicare dalle posizioni espresse dall’Associazione nazionale funzionari di polizia (Anfp) e dalla sua segretaria Lorena La Spina in occasione della presentazione, a palazzo Chigi, di un libro (Dieci anni di ordine pubblico, ricerca a cura di A. Forgione, R. Massucci, N. Ferrigni), si direbbe proprio di sì. In uno degli autunni più tiepidi della recente storia italiana, l’Anfp vede addensarsi le nubi della guerriglia urbana, ma, come nei titoli dei film "poliziotteschi" di una volta, "la polizia è disarmata", denunciano, o meglio non armata a sufficienza per fronteggiare le nuove insidie del nemico. Questa volta, infatti, non è di organico e turni che si parla, quanto proprio di armi. Cosa desiderano, dunque, i nostri funzionari di polizia? Sul piano difensivo uniformi e protezioni più adeguate, scudi leggeri e resistenti. Su quello legislativo norme più severe contro chi "abusa del diritto di manifestare" (Daspo, etc.). Su quello offensivo, proiettili di gomma, fucili marcatori (armi che sparano sfere ripiene di vernice per "marcare" i manifestanti violenti ai fini del riconoscimento), manganelli Tonfa, nonché una task force specializzata nello stanare, non si sa con quali metodi, i "guerriglieri" intrufolati nella massa dei manifestanti. I proiettili di gomma, è noto, possono provocare danni assai gravi, così come i manganelli con anima di ferro. Quanto ai fucili marcatori, sappiamo, come si è visto il primo maggio a Milano, che i cosiddetti black-bloc sono soliti disfarsi degli indumenti indossati durante gli scontri. Cosicché la "marcatura" servirà più a fabbricare la vittima di turno, scelta a caso tra i manifestanti, che a non a individuare il responsabile di qualcosa: macchiato, dunque reo e non viceversa. Ma quel che è più grave è che questa logica di escalation degli armamenti (che può comprendere lacrimogeni sempre più tossici) rischierà di alimentarsi da entrambe le parti. Così come la sanzione spropositata di reati lievi spingerà a commetterne di sempre più gravi. Che l’ordine pubblico significhi anche e soprattutto trattativa, rinuncia alle zone rosse e alle città proibite, a sgomberi violenti privi di mediazione politica, garanzia di non essere esposti all’arbitrio di uomini in divisa, è completamente estraneo all’orizzonte di questa logica belligerante (non priva di toni vittimistici) che, non a caso, difende strenuamente l’anonimato di chi la pratica, rifiutando il codice identificativo per gli agenti impiegati in operazioni di ordine pubblico. A motivo di questa pretesa di riarmo si insiste sulla presenza (volutamente esagerata) di "professionisti della violenza". Ma si tratta, il più delle volte, di "incappucciati" occasionali, animati più che da uno status professionale da quei contesti di contrapposizione e di scontro che una saggia gestione dell’ordine pubblico dovrebbe saper ridurre al minimo. I dati di questa presunta Intifada italiana, constano di 9490 manifestazioni nel 2014. 24 al giorno quelle che comporterebbero questioni di ordine pubblico e cioè dispiegamento di forze di polizia. Se si pensa che vi rientrano episodi come i ripetuti presidi davanti al Miur di viale Trastevere a Roma, così come i malati di Sla davanti al Ministero delle finanze, le trasferte provocatorie di Matteo Salvini o i comizi politici della più varia natura, non sembrano davvero, per un paese democratico di 50 milioni di abitanti, cifre da destare allarme o da suggerire escalation militari. Basterebbe una cultura democratica un poco più evoluta di quella che circola dalle parti dell’Anfp. Giustizia: i penalisti romani si battono per il diritto di difesa, accusati di condotta mafiosa di Barbara Alessandrini L’Opinione, 28 ottobre 2015 Alla fine sono i penalisti ad essere finiti sul banco degli imputati nell’ultima fase dello scontro apertosi in vista del processo di "Mafia Capitale" tra giornalisti, magistrati ed avvocati della Camera penale di Roma (Cpr), che da tempo conducono una battaglia per la difesa dei diritti imputati nel processo "Mafia Capitale" ed in generale contro il rischio fortissimo, paventato dal mondo dei penalisti, che questo processo sia un esperimento in vitro di quella che si vorrebbe essere la giustizia del futuro, incardinata sulla progressiva e dilatata applicazione degli strumenti investigativi, processuali e di prevenzione con l’equiparazione del cosiddetto "doppio binario" e della legislazione speciale previsti per reati di mafia, ad altre tipologie di reato e di realtà delittuose che non dovrebbero essere affrontati in chiave mafiosa. Con tutto ciò che questo comporta in termini di contrazione dei diritti e di violazione del giusto processo così come stabilito dalla Costituzione. L’attacco agli esponenti della Camera penale di Roma, formulato durante la trasmissione condotta da Maurizio Martinelli, Tg2 "punto di vista" da Lirio Abbate e Carlo Bonini, non prende di mira soltanto gli avvocati direttamente impegnati nell’attività difensiva ma l’intera Camera penale romana e rappresenta la scomposta replica ad un esposto presentato a settembre scorso da alcuni penalisti romani alla Procura della Repubblica contro 78 giornalisti che hanno seguito "Mafia Capitale" affinché, come previsto dall’articolo 115 del Cpp, comunicasse all’Odg la violazione plurima dell’articolo 114 del Cpp. Ossia del divieto, previsto da quell’articolo, di pubblicazione arbitraria di atti del procedimento penale nella fase delle indagini preliminari e di quelli del fascicolo del Pubblico ministero se si procede a dibattimento. A Giuseppe Pignatone il compito di informare i Consigli di disciplina territoriali perché facciano le loro valutazioni disciplinari. Nel frattempo, però, l’accusa rivolta ai penalisti e formulata durante la trasmissione condotta da Maurizio Martinelli, senza che sia stata data la possibilità di contraddittorio agli interessati, e presentata con tutti i crismi di un’iniziativa a nome dell’intera categoria, poiché espressa platealmente in compagnia di colleghi ammiccanti, si è connotata di toni così aspri violenti e offensivi che come scrivono i penalisti "spetterà alla magistratura stabilirne la liceità". In quella che dalla Camera penale di Roma viene definita "una campagna di pretestuosa e calunniosa disinformazione", l’accusa esplicita rivolta ai difensori degli imputati di "Mafia Capitale" è quella di essere servi della mafia, di aver adottato un atteggiamento di fiancheggiamento mafioso, insomma di essersi messi a difesa non degli imputati bensì dei reati e di conseguenza di rappresentare la prova dell’esistenza di "Mafia Capitale". Ed a nulla sono valse le motivazioni addotte dai penalisti che hanno motivato l’esposto come mera richiesta di intervento dell’Ordine dei giornalisti, per tentare di mettere un argine al pericolo di che un’informazione spregiudicata dal punto di vista delle garanzie processuali e unilaterale, perché quasi sempre frutto di pubblicazione di atti che passando dalla polizia giudiziaria, sono solo dell’accusa o del Gip, inquini il processo compromettendone il principio di oralità e cosiddetta verginità cognitiva del giudice cui è vietata l’utilizzazione di atti del Pm nella fase del dibattimento in cui si forma la prova. Sulle barricate già era salita la Finsi, attribuendo all’esposto l’obiettivo di volere perseguire i giornalisti anche in sede penale. Eventualità da escludere. Dalla Cpr la puntualizzazione che "nessuno vuole il Soviet né la galera per i giornalisti": la detenzione non viene mai applicata per l’articolo 684 del Cp (che stabilisce l’arresto fino a 30 giorni o l’ammenda di 258 euro per chi pubblica atti o di documenti del procedimento penale di cui sia vietata per legge la pubblicazione) e con una oblazione da 129 euro il reato si estingue. Nessun intento censorio, dunque. Soltanto l’urgenza di un’informazione più responsabile. Perché tanta veemenza accusatoria, che va ben oltre l’asprezza dei toni lecita in qualsiasi scontro di posizioni, da parte del mondo giornalistico? Perché ogni volta che ci si avventura nel campo minato dei diritti, degli imputati e degli indagati, e se ne denuncia la compressione anche a mezzo stampa, il rischio che venga compromessa la garanzia all’imputato che il giudice si formi il convincimento in dibattimento, faccia a faccia con l’accusa, si grida allo scandalo e alla minaccia della libertà di informazione se non addirittura si chiama in causa l’intenzione intimidatoria, si pronunciano definizioni infamanti, "che travalicano i limiti del Codice penale" come gli stessi penalisti hanno scritto in un comunicato e si trasformare in modo calunnioso la loro protesta nella "prova" che a Roma c’è la mafia? È lecito pensare che tanta verve si saldi con l’arroccamento del mondo della magistratura nei confronti delle richieste dei penalisti da tempo in agitazione contro la menomazione del diritto degli imputati detenuti di partecipare al proprio processo "in corpore vivo" e contro l’imposizione di stare lontano da chi li accusa, da chi li giudica e da chi li difende. Come se il processo fosse una proprietà di cui una parte della giustizia potesse disporre in modo autoritario in spregio alla sua funzione di accertamento delle responsabilità penali e della pari dignità che vi devono trovare sia l’accusa che la difesa. Una ricerca di spazio raziocinante nel diritto, quella dei penalisti romani, che hanno ingaggiato una "folle" battaglia per il diritto alla difesa e insieme contro le risibili logiche securitarie e di risparmio invocate dal Tribunale di Roma e alla base dell’organizzazione delle udienze del processo dato che ad un unico trasferimento dei detenuti imputati nel carcere di Rebibbia cui l’aula bunker del processo è collegata da un più che sicuro tunnel sotterraneo si preferivano plurimi e cadenzati spostamenti dagli istituti di pena di appartenenza sprovvisti dell’attrezzatura per le videoconferenze ad altre carceri di quell’attrezzatura provviste. Un cortocircuito logico che anche il Tribunale deve aver colto se, nonostante l’Anm del Lazio abbia a suo tempo risposto picche ai penalisti difendendo la scelta di far partecipare al processo gli imputati detenuti secondo videoconferenza "perché la legge lo consente", ha dato un timido segnale di apertura ai penalisti accogliendo la richiesta da loro avanzata alla Procura della Repubblica di revocare la videoconferenza per 14 imputati sebbene tre detenuti restino esclusi. Il punto vero è che non dovrebbe mai rappresentare uno scandalo parlare dei diritti di difesa degli imputati e che è fazioso voler vedere nelle battaglie per la legalità processuale la difesa del reato. "Il che, peraltro - scrive l’avvocatura romana - avviene solo nei Paesi autoritari, identificando previamente gli avvocati, e persino le associazioni che li rappresentano, con i reati di cui sono accusati gli imputati". Così come è una scorretta deformazione della realtà far regolarmente pendere sulle battaglie che i penalisti portano avanti da decenni, e va loro riconosciuto, insinuazioni su una loro presunta natura sindacale, mentre si dovrebbe poter ragionare dialetticamente ma civilmente sulla possibilità di fare un’informazione più corretta e meno lesiva delle garanzie del singolo. Senza che nessuno intenda attentare al diritto all’informazione. Di questo, di quanto la funzione esemplare ultima del processo Mafia Capitale fosse già preannunciata ben prima dell’emissione degli ordini di custodia cautelare sia stata preannunciata da alcuni giornali non a caso ora durissimi nei confronti delle posizioni dei penalisti e delle battaglie intraprese in nome della Costituzione e del Giusto Processo si parlerà il 12 novembre (alle ore 15) a Roma in un convegno del Tribunale Dreyfus che si terrà nella sede dell’Associazione Nazionale Mutilati ed Invalidi di Guerra a piazza Adriana. Giustizia: Mafia Capitale; processo a distanza soltanto a 3 imputati, soddisfatti i penalisti Agi, 28 ottobre 2015 "Viva soddisfazione" degli avvocati penalisti per l’ordinanza emessa ieri nel procedimento Mafia Capitale con la quale il Tribunale di Roma, "a seguito della ferma presa di posizione della Camera Penale di Roma e dell’Unione delle Camere Penali Italiane, con l’appoggio di numerose Camere Penali territoriali", ha revocato le precedenti disposizioni "aventi ad oggetto l’irragionevole ed indiscriminata applicazione dell’articolo 146 bis (processo a distanza) a tutti gli imputati detenuti, limitandola a soli tre imputati su 17 (di cui uno al 41bis ed altri due accusati di essere promotori della presunta associazione)". Le Camere penali rilevano che "si tratta certamente di un risultato straordinario che conferma la fondatezza della protesta dell’avvocatura penale italiana volta al fine di garantire i principi fondanti del processo accusatorio, del contraddittorio e dell’immediatezza e di contrastare la disumanizzazione e la mortificazione del dibattimento e che smentisce clamorosamente coloro che avevano strumentalmente denunciato tale iniziativa". Secondo l’Ucpi, "la revoca del provvedimento dimostra con tutta evidenza la natura arbitraria e vessatoria di questo strumento ed i rischi che comporterebbe l’estensione, propugnata dall’emendamento governativo al ddl sul processo penale, del "processo a distanza", con una sua applicazione immotivata e senza limiti a tutti i processi con detenuti (ed anche a processi nei quali l’imputato non sia detenuto)". La Giunta dell’Ucpi, dunque, in conformità a quanto espresso nella relazione del Congresso straordinario che si è svolto a Cagliari lo scorso settembre, si riserva "di indire una grande manifestazione, deliberando una astensione a livello nazionale ed organizzando diverse giornate di studio, in collaborazione con le Camere penali territoriali, sul tema della tutela dei principi del "giusto ed equo processo" e sui rischi della introduzione di riforme di impronta efficientistica, tecnocratica ed autoritaria, che inevitabilmente deprimono il primato della giurisdizione, subordinandola di fatto alla discrezione di organismi amministrativi, ponendo in essere ogni altra iniziativa al fine di evitare che l’emendamento sul 146 bis, così come di recente approvato dalla Camera dei Deputati, divenga legge dello Stato". Giustizia: Mafia Capitale; Buzzi e Carminati seguiranno il processo in videoconferenza di Valeria Di Corrado Il Tempo, 28 ottobre 2015 I grandi protagonisti di Mafia Capitale saranno fisicamente assenti. Massimo Carminati e Salvatore Buzzi potranno seguire solamente "a distanza", tramite videoconferenza, "per tutta la sua durata" il processo che si celebrerà nell’aula bunker di Rebibbia. I presunti promotori del sodalizio di stampo mafioso, finiti in manette lo scorso dicembre, non lasceranno quindi i loro rispettivi carceri: la casa di reclusione di Parma, dove Carminati è detenuto in regime di 41 bis, e la casa circondariale di Tolmezzo, in cui è recluso Buzzi. Lo stesso provvedimento emesso dal presidente della decima sezione penale del tribunale di Roma, Rosanna Ianniello, vale anche per Riccardo Brugia, rinchiuso a Terni e ritenuto uomo di fiducia dell’ex esponente dell’estrema destra. Il collegio rileva "il permanere di inderogabili e gravi esigenze di ordine e sicurezza con riferimento agli imputati che, secondo le contestazioni, assumono le qualità di capi e organizzatori della associazione di stampo mafioso". Sempre per motivi di sicurezza, essendo in corso il loro trasferimento presso il carcere di Rebibbia, non potranno essere in aula gli altri 14 imputati detenuti, tra cui l’ex ad di Ama, Franco Panzironi, e l’ex componente del Tavolo di coordinamento per i migranti Luca Odevaine, ma solo per la prima udienza, quella del 5 novembre, fissata nell’aula Occorsio del Palazzo di giustizia. I 22 imputati, sui 46 complessivi, che sono al momento agli arresti domiciliari, sono invece stati autorizzati a raggiungere con mezzi propri l’aula del processo, "senza necessità di scorta e seguendo l’itinerario più breve". Nei prossimi giorni la Camera penale organizzerà una nuova assemblea per decidere se revocare o meno l’astensione dalla prima settimana di udienze (dal 9 al 12 novembre) alla luce delle parziali aperture del tribunale. Giustizia: accuse al giudice antimafia "decisioni sotto dettatura" Orlando: va sospesa di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 28 ottobre 2015 "Uso distorto" del suo ruolo di giudice per le misure di prevenzione, piegato a "interessi privati", con il risultato di minare "la credibilità della risposta delle istituzioni al fenomeno mafioso". Per questi motivi il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha chiesto al Consiglio superiore della magistratura di sospendere dalle funzioni (e anche dallo stipendio, secondo il procuratore generale della Cassazione Pasquale Ciccolo) Silvana Saguto, fino a due mesi fa presidente della sezione del tribunale di Palermo che gestisce i beni sequestrati ai clan. A Caltanissetta la giudice è inquisita per corruzione e altri reati, ma secondo i titolari dell’azione disciplinare è necessario intervenire subito, "indipendentemente" dall’esito dell’inchiesta penale, poiché "le verifiche fin qui condotte riscontrano l’esistenza di gravi irregolarità nelle gestione delle procedure di conferimento degli incarichi e di liquidazione dei compensi degli amministratori giudiziari". All’Ispettorato del ministero e al Csm - che riunirà venerdì la sezione disciplinare per decidere sulla richiesta di sospensione - sono giunti da qualche giorno gli atti raccolti dalla Procura di Caltanissetta. L’indagine coinvolge, oltre alla Saguto e altri quattro magistrati, alcuni amministratori di beni sequestrati e confiscati, tra i quali l’avvocati Gaetano Cappellano Seminara e il professor Carmelo Provenzano. Il primo viene indicato come "verosimile fonte di approvvigionamento di denaro tratto dal patrimonio di società in amministrazione giudiziaria, per far fronte alla crescente situazione di indebitamento della famiglia della dottoressa Saguto". Ma insieme a lui anche Provenzano avrebbe provveduto a "corrispondere somme di denaro" e altre utilità alla giudice, in un "rapporto di scambio" per aver ricevuto incarichi nella gestione di patrimoni tolti alla mafia. Proprio Provenzano, che nella sua qualità di docente avrebbe pure scritto la tesi di laurea al figlio della Saguto ("l’ha fatta lui, praticamente", confessa la giudice in un’intercettazione) è protagonista di molti dialoghi registrati che sostengono le accuse. Come quella del 12 giugno scorso, quando il professore chiama la giudice "ringraziandola per la segnalazione del suo nome al prefetto quale potenziale commissario del Centro accoglienza per i rifugiati a Mineo". L’uomo aggiunge che "se va bene... non ci ferma più nessuno e siamo inamovibili ovunque, non solo qua". L’indomani la Saguto lo richiama per dirgli che un ulteriore passo avanti è stato fatto per la nomina, e Provenzano le risponde: "Io ringrazio tutti e tutto, pero so benissimo il fast mover di tutto quello che è nato perché è nato, va bene, tu sei una potenza! Ma non potenza di potere, proprio di energia e di coinvolgimento a 360 gradi". Nelle manovre in favore di Cappellano Seminara, gli investigatori palermitani del Nucleo di polizia tributaria della Guardia di Finanza inseriscono anche i contatti e le mosse con un collega romano della Saguto, Guglielmo Muntoni, responsabile delle misure di prevenzione nella capitale. L’11 giugno l’avvocato siciliano chiama Muntoni che gli chiede: "Vuole cominciare allora la nostra collaborazione? C’avrei una cosa grossina in cui gli immobili sono tutti nel messinese, per cui gli viene più comodo". La segnalazione di Cappellano Seminara a Muntoni era arrivata dalla Saguto, che - secondo gli inquirenti - voleva in primo luogo favorire il marito, l’ingegnere Lorenzo Caramma, il quale a sua volta doveva ricevere un incarico dall’avvocato-amministratore. Lo dice lei stessa l’8 luglio, parlando con il collega Fabio Licata (ora indagato): "Muntoni gli ha dato un incarico a Cappellano apposta per far lavorare Lorenzo; quello si spaventa a dargli l’incarico a Lorenzo... e perciò dico, ma Muntoni l’aveva nominato per dargli l’incarico". Il 4 agosto la microspia della Finanza piazzata dentro l’ufficio della Saguto registra un dialogo tra lei e Cappellano. L’avvocato ha presentato un’istanza di liquidazione e propone: "La vogliamo fare così ci leviamo il problema? Con questa pennuzza?". La giudice acconsente e, annotano gli investigatori, "su dettatura del Cappellano inizia a scrivere... In pratica, così come già rilevato in altre occasioni, il Cappellano ha dettato alla Saguto il testo di un provvedimento la cui emissione è demandata alla valutazione del giudice". Gli stessi colleghi della Saguto parevano consapevoli della situazione, soprattutto dopo alcune denunce televisive sulla gestione degli incarichi. Licata ne parla con Chiaramonte (anche lui indagato) e dice: "Se ci fanno un’ispezione, ci fa un culo così... È screditata (riferito alla Saguto, ndr)...". Chiaramonte risponde: "Lei non lo capisce... pensa alle sue cose personali... non gliene fotte niente, però relativamente... è convinta di sfangarsela... lei non ha saputo che è cambiato il clima complessivo". Ingiusta detenzione, no all’automatica riduzione dell’indennizzo per chi ha precedenti di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 28 ottobre 2015 Corte di cassazione - Sezione IV penale - Sentenza 27 ottobre 2015 n. 43373. Aver subito altre condanne, non giustifica l’automatica riduzione dell’indennizzo per "ingiusta detenzione". Lo ha stabilito la Corte di cassazione, sentenza 43373/2015, superando un precedente indirizzo secondo cui le persone già finite dietro le sbarre patirebbero "un danno minore", perché, per un verso, la loro immagine sociale sarebbe "già compromessa", per l’altro, avrebbero "una dimestichezza con l’ambito giudiziario e penitenziario" che renderebbe "meno traumatica la pur ingiusta privazione di libertà". Il caso - Facendo applicazione di questi principi, la Corte di appello di Brescia aveva liquidato, a titolo di equa riparazione, 20.700 euro ad un uomo che aveva fatto circa 170 giorni di detenzione, fra carcere e domiciliari, perché ingiustamente accusato di furto in abitazione. Per i giudici di secondo grado, il fatto che il ricorrente fosse già stato in carcere per oltre un anno e mezzo, circa due anni prima, aveva reso "certamente meno traumatico" l’impatto psicologico con l’ambiente carcerario, per cui gli erano stati riconosciuti 150 euro al giorno per la custodia cautelare e 100 per il periodo trascorso a casa. I parametri - La Suprema corte ricorda che nel liquidare il quantum il giudice deve contemperare il parametro aritmetico con una valutazione equitativa che tenga conto delle caratteristiche del caso. Sotto il primo profilo va considerato che per il massimo della custodia cautelare, ovvero 2190 giorni (pari a sei anni) il tetto all’indennizzo è fissato in 516.456 euro. Il che equivale a 235,82 euro al giorno, dimezzabili in caso di detenzione domiciliare. Tuttavia, precisa la sentenza, mentre la cifra massima è insuperabile, il parametro aritmetico giornaliero è indicativo e può essere cambiato, verso l’alto o verso il basso, se opportunamente motivato. La motivazione - È invece illegittimo l’abbattimento dell’indennizzo per il semplice fatto che l’avente diritto era già stato in carcere. Infatti, "l’esistenza di una precedente esperienza carceraria può avere, secondo i casi, sia un effetto di riduzione della sofferenza cagionata dalla carcerazione, sia un effetto di massimizzazione di quella sofferenza". Dunque, "la pregressa esperienza carceraria può incidere sulla determinazione dell’ammontare dell’indennizzo ma giammai in termini presuntivi ed assiomatici". Del resto, un’automatica e generalizzata riduzione della somma liquidata per tutti i soggetti che abbiano subito precedenti detenzioni "renderebbe la valutazione equitativa priva di adeguata e logica motivazione". Introducendo anche un "fattore di disuguaglianza tra i cittadini" censurabile sotto il profilo costituzionale. Il giudice che voglia ridurre l’indennizzo, dunque, dovrà fare "specifico riferimento alle eventuali esperienze detentive subite dalla parte e alla loro idoneità a determinare una rilevante compromissione dell’immagine sociale e/o una certa assuefazione all’ambiente carcerario, tali da giustificare la presunzione di una minore afflittività della successiva detenzione". Ma nulla di tutto questo è stato detto nel caso affrontato. Mentre il ricorrente aveva sostenuto di essersi rimesso in carreggiata dopo gli errore del passato, conducendo una nuova vita nel rispetto della "piena legalità". Da qui l’annullamento dell’ordinanza con rinvio alla Corte di secondo grado che dovrà valutare le specificità del caso. Tenuità del fatto anche se la parte offesa non compare davanti al giudice di pace di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 28 ottobre 2015 Via libera alla particolare tenuità del fatto anche se la parte offesa non compare davanti al giudice di pace. Le Sezioni unite, con la sentenza 43264 depositata ieri, dirimono il contrasto sulla possibilità o meno di dichiarare l’improcedibilità dell’azione penale per la particolare tenuità del fatto in base all’articolo 34, comma 1 Dlgs 274/2000 quando la vittima del reato, regolarmente citata o irreperibile, non compare in udienza. L’articolo 34, al comma 3 prevede che quando è stata esercitata l’azione penale la particolare tenuità del fatto può essere dichiarata con sentenza solo se l’imputato e la persona offesa non si oppongono. La giurisprudenza si è spaccata sul significato da dare all’assenza della "vittima": per alcuni si può leggere come un segnale di rinuncia, per altri la mancata comparizione non può essere interpretata come volontà di non opporsi. Entrambe le tesi - secondo la Cassazione - partono dal presupposto sbagliato che si necessario accertare un’adesione implicita o esplicita. La norma in esame, al contrario, non presuppone un adesione al proscioglimento ma solo la condizione negativa del "veto" che, a parere della Suprema corte, deve essere necessariamente espresso, anche attraverso memorie, solo dopo l’esercizio dell’azione penale e mai acquisito prima. Per questo è del tutto irrilevante, ai fini della valutazione del giudice sulla sussistenza della particolare tenuità, un’assenza dalla quale non si può desumere alcuna opposizione. La conclusione della Cassazione valorizza il senso "liberatorio" della particolare tenuità del fatto come applicato al processo minorile e dall’articolo 131-bis del codice penale, introdotto dal Dlgs 28/2015. Né l’uno né l’altro di questi istituti - sottolineano i giudici contempla una facoltà inibitoria esercitabile, oltre che dall’imputato, anche dalla persona offesa. È vero che la differenza potrebbe essere nella natura "conciliativa" del procedimento davanti al giudice di pace, ma è altrettanto vero che la disparità di trattamento è stata oggetto di un rinvio alla Consulta da parte del giudice di pace di Napoli. Un dubbio considerato inammissibile perché basato su un presupposto sbagliato ma che, secondo la Cassazione, poteva essere fondato. Ancora una volta a supporto della loro scelta i giudici ricordano la "nuova" particolare tenuità del fatto. Ai fini della pronuncia di sentenza predibattimentale, ai sensi dell’articolo 131-bis, è necessario soltanto che la persona offesa sia citata e si può prescindere dall’acquisizione della sua volontà se non compare. Sia quando esiste un potere di interdizione, limitato solo al Dlgs 274/2000, sia quando la persona offesa può solo interloquire, come accade per l’applicazione del 131-bis, la mancata comparizione non può impedire l’adozione della sentenza liberatoria. Senza raggiri l’inadempimento civile non è truffa di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 28 ottobre 2015 Tribunale di Trento - Sezione penale - Sentenza 29 maggio 2015 n. 467. Se il venditore, dopo il pagamento dell’acconto, non dà esecuzione al contratto perché il compratore si rifiuta di accettare l’aumento del corrispettivo inizialmente pattuito, non si configura il delitto di truffa, bensì un semplice inadempimento civilistico da verificare dinanzi ala giudice civile. In tal caso, manca infatti il rapporto causale diretto tra gli artifizi che caratterizzano il reato di cui all’articolo 640 c.p. e la prestazione del consenso viziato. A ribadire il confine tra l’inadempimento contrattuale e la truffa è il Tribunale di Trento con la sentenza 467/2015. I fatti - All’origine della vicenda c’è la stipula di due distinti contratti per l’installazione di due impianti fotovoltaici presso l’abitazione e l’azienda agricola di un imprenditore. Gli accordi prevedevano il versamento, come acconto, della metà dell’importo, del valore complessivo di 44mila euro, prima dell’inizio dei lavori. Dopo il pagamento, la società contraente effettuava i primi sopralluoghi e richiedeva le opportune autorizzazioni al Comune. Quest’ultimo, recependo una prescrizione della Soprintendenza per i beni ambientali e il paesaggio, condizionava l’autorizzazione alla "colorazione rosso - bruna" dei pannelli da installare. Questo comportava degli aumenti dei costi per la società, che comunicava all’imprenditore la necessità di rivedere il corrispettivo pattuito. Di qui una lunga serie di missive che sfociava nella risoluzione di fatto del contratto e in una querela per truffa nei confronti della società, in quanto l’imprenditore era stato indotto in errore circa la serietà del contratto posto in essere per la fornitura di impianti fotovoltaici versando gli acconti previsti. Necessario il rapporto causale tra artificio e consenso viziato - All’esito del giudizio abbreviato il Tribunale fuga ogni dubbio su ipotetici risvolti penali della vicenda. Il caso di specie presenta solo connotati civilistici senza profili di rilevanza penale: si ha a che fare con inadempimenti contrattuali, da verificare nell’apposita sede in ordine alle rispettive responsabilità, mentre difettano del tutto i requisiti degli artifizi o raggiri, di cui alla fattispecie dell’articolo 640 c.p.. Per il giudice, infatti, l’unilaterale modificazione in corso di esecuzione delle modalità esecutive del contratto rispetto a quelle pattuite, con conseguente aumento del prezzo, "oltre che giustificata dall’imprevedibile decisione del comune interessato di variare la tipologia dell’impianto da installare … non è comunque idonea ad integrare il delitto di truffa, in quanto manca l’elemento specifico di detta ipotesi criminosa costituito dall’esistenza di un diretto rapporto causale tra gli artifici posti in essere dall’agente e la prestazione di un consenso viziato da parte del soggetto in tal modo tratto in inganno, e può solo configurare, come detto e ricorrendone i presupposti, un inadempimento contrattuale". Lettere: la società chiede più sicurezza, non la tutela dei pistoleri di Lorenzo Cuocolo (professore di Diritto comparato alla Bocconi di Milano) Secolo XIX, 28 ottobre 2015 È inutile girarci attorno: l’esigenza di sicurezza è avvertita in modo sempre più preoccupato dai cittadini. La percezione delle persone comuni è che i pericoli, soprattutto legati alla piccola criminalità, siano in costante aumento. Sia nelle grandi città, sia nei paesi. Bande organizzate, sbandati, cani sciolti: ormai nessuno si sente al sicuro, neppure dentro alle mura domestiche. La politica, come sempre, cavalca le paure. In questi giorni stiamo assistendo ad una rincorsa verso il consenso a basso costo. Le forze di centrodestra guidano la battaglia contro il male, proponendo misure spesso discutibili e a volte estreme. Le forze di centro-sinistra, per contro, assumono per lo più atteggiamenti imbarazzati, morbidi e sfuggenti, non volendo né giustificare il far west, né perdere consensi condannando chi sorprende un ladro in casa e gli spara. La Liguria di Toti si è subito messa in scia a Veneto e Lombardia, approvando in giunta un progetto di legge volto a pagare con i soldi della Regione (cioè quelli dei cittadini) le spese legali di chi è accusato di eccesso di legittima difesa. Cioè: se trovo un ladro in casa e sparo, la Regione mi paga l’avvocato. Questa proposta lascia al giurista non poche perplessità. Anzitutto, non può essere la Regione ad adottare una norma simile. Il nostro ordinamento non è federale e ciò comporta, tra l’altro, che il sistema giurisdizionale sia unitario. La disciplina di "giurisdizione e norme processuali" è riservata dalla Costituzione allo Stato. Inoltre, la norma appare irragionevole: l’ordinamento prevede già il patrocinio a spese dello Stato. Se, cioè, l’imputato in un processo penale non ha i mezzi per pagarsi l’avvocato, a ciò farà fronte lo Stato. Non si comprende, dunque, perché la Regione dovrebbe intervenire: se il soggetto accusato di eccesso di legittima difesa ha i soldi, allora non vi è ragione che paghi la Regione con risorse pubbliche. Se, al contrario, è indigente, sarà comunque coperto dal patrocinio a spese dello Stato. Dal testo del progetto di legge, poi, non si capisce se la Regione voglia pagare gli avvocati solo a chi sia infine assolto, oppure anche chi venga condannato per eccesso di legittima difesa. Qualora il pagamento regionale fosse "a fondo perduto", cioè destinato anche a chi sia riconosciuto colpevole di aver esagerato nella difesa, si avrebbe il paradosso di un possibile effetto criminogeno della norma, cosa che la renderebbe senza dubbio incostituzionale. Ma, al di là delle considerazioni tecniche, sembra che la proposta della giunta Toti, così come quelle di Lombardia e Veneto, persegua un intento condivisibile con mezzi del tutto sbagliati. Se, infatti, è apprezzabile l’attenzione politica per l’esigenza di sicurezza dei cittadini, è pur vero che non si possono ottenere risultati duraturi indulgendo a reazioni fai-da-te o, peggio, incentivando cittadini pistoleri. Una società sicura, infatti, si costruisce su regole solide e applicate in modo efficace. Perché la politica non si occupa di aumentare i controlli, sostenere le forze di polizia, garantire processi rapidi e pene certe? Questi sono gli obiettivi di lungo respiro che dovrebbe porsi e che porterebbero ad una società più sicura. È preferibile che diminuiscano i furti in casa o che la Regione mi metta una mano sulla spalla quando sono a processo perché ho sorpreso un ladro in casa mia e gli ho sparato? Veneto: solo l’11% dei detenuti occupato in un’attività lavorativa interna alle carceri Ansa, 28 ottobre 2015 L’11% delle persone detenute nelle carceri venete per scontare una condanna risulta regolarmente occupato in un’attività lavorativa interna, disciplinata dal Ccnl. Tradotto in valori assoluti, si tratta di 280 detenuti-dipendenti su una popolazione di 2.500 unità (di cui 125 donne) distribuita su 9 strutture. Sono alcuni dei dati di cui si è parlato oggi, a Venezia, nel corso di una tavola rotonda dal titolo "Fare impresa dal carcere" e nella quale sono state in particolare analizzate le esperienze in corso nei penitenziari di Belluno e Treviso. "Le possibilità di recidiva - ha spiegato la direttrice detenuti e trattamento del Provveditorato all’amministrazione penitenziaria del Triveneto, Angela Venezia - risultano fortemente ridotte per i detenuti che in carcere hanno seguito un percorso formativo ed un avviamento al lavoro, con la continuazione dell’esperienza all’esterno, e non sono rari i casi in cui, dopo una permanenza in carcere, cittadini stranieri hanno utilizzato le competenze maturate per aprire una propria attività nei paesi d’origine". Gli impieghi nelle strutture venete sono realizzati attraverso l’impegno di una serie di cooperative sociali che stabiliscono convenzioni con imprese locali per le forniture di particolari lavorazioni. Si tratta di operazioni nel campo della falegnameria, dell’assemblaggio, di sartoria, panetteria, pasticceria fino, della digitalizzazione di documenti, dei prodotti cosmetici e molti altri. Grazie anche agli incentivi di legge per l’assunzione di lavoratori detenuti ed alla qualità delle lavorazioni raggiunta negli ultimi anni, è stato anche sottolineato, non mancano casi di aziende venete che hanno ritirato le commesse verso produttori stranieri per affidare almeno una parte di esse a piccole imprese create all’interno dei penitenziari. Abruzzo: Garante dei detenuti; mancano 4 voti ed è "fumata nera" per Rita Bernardini abruzzo24ore.tv, 28 ottobre 2015 Diciassette voti a favore, quattro in meno del quorum qualificato necessario di 21: fumata nera per Rita Bernardini nella seduta di Consiglio regionale che avrebbe dovuto eleggere il nuovo Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà. Ancora una volta la maggioranza di centrosinistra ha provato a convergere sul nome del segretario dei Radicali, prima escluso e poi riammesso dal Tar tra i papabili. Dalla prossima seduta, basterà una maggioranza semplice di 18 preferenze. In maggioranza era assente l’assessore Donato Di Matteo, ma con il centrosinistra si è schierato l’ex Cinque Stelle, ora al gruppo misto, Leandro Bracco, quindi c’è stato un franco tiratore che ha votato scheda bianca o altri candidati. Lo scorso Consiglio erano stati in due a deviare dall’indicazione della Bernardini che, come evidenziato dal coordinatore della maggioranza, il dem Camillo D’Alessandro, "è il nome del centrosinistra". Dalla prossima seduta, comunque, per eleggere il Garante dei detenuti basterà una maggioranza semplice di 18 preferenze. Sono state 5 le schede bianche, mentre hanno riportato voti anche Francesco Lo Piccolo (4), Salvatore Braghini (2), Gianmarco Cifaldi (1) e Manlio Madrigale (1). Per il sottosegretario alla Presidenza della Giunta, Mario Mazzocca, capogruppo di Sinistra ecologia libertà, Bernardini "non può essere messa in discussione da nessuno, tanto meno in modo così maldestro" e per questo "Sel sosterrà con convinzione, come tutta la maggioranza, la sua nomina a tale importante ufficio nella prossima seduta utile". Puglia: che fine hanno fatto le Rems? nessuna traccia nella regione, si rischiano sanzioni ilfarmacistaonline.it, 28 ottobre 2015 Il ministero della Salute ha inviato una lettera alle Regioni per sollecitare il passaggio dagli Ospedali psichiatrici giudiziari alla realizzazione delle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, in adempimento della legge 81/2014. "La maggior parte delle Regioni è inadempiente e la situazione si sta facendo drammatica. Vi sono ancora 5 Opg aperti, in pieno spregio della legge e le Rems operative sono al collasso". "Il ministero della Salute ha inviato una lettera a Piemonte, Veneto, Toscana-Umbria, Lazio, Abruzzo-Molise, Campania, Puglia e Calabria per sollecitare il passaggio dagli Ospedali psichiatrici giudiziari alla realizzazione delle Rems, le residenze per la esecuzione delle misure di sicurezza, praticamente strutture sanitarie a tutti gli effetti, in adempimento alla legge 81 del 31 marzo 2014. Come pienamente previsto, la maggior parte delle Regioni è inadempiente e la situazione si sta facendo drammatica. Il risultato è che vi sono ancora 5 Opg aperti, in pieno spregio della legge e le Rems operative sono al collasso". Lo dichiara in una nota il componente della commissione Sanità del Senato, Luigi d’Ambrosio Lettieri (Cor). "Sono stato un forte sostenitore della necessità di superare gli Ospedali psichiatrici giudiziari. Un segno di civiltà, oltre che di necessità sanitaria. Ma quello che poteva e doveva essere un new deal, è diventato quasi un titolo senza contenuti perché le difficoltà non sono affatto superate. Non solo perché le Rems non sono disponibili nella maggior parte delle regioni, ma anche perché c’era una sfida da vincere che non è stata debitamente affrontata. Mi riferisco alla costruzione di un nuovo sistema che implicasse una rivoluzione culturale ed etica nell’approccio alla psichiatria giudiziaria per offrire servizi adeguati che non fossero Opg in scala minore - prosegue il senatore. La situazione all’interno degli Opg è stata anche oggetto di una indagine da parte della Commissione parlamentare di inchiesta sull’efficienza del servizio sanitario. Molte ombre e pochissime luci, considerato che appariva chiaro come gli OPG non assolvessero quasi per nulla il compito di cura della persona autrice di reato affetta da disturbi psichiatrici, occupandosi quasi esclusivamente dell’aspetto relativo alla detenzione, senza offrire, quindi, alcuna soluzione adeguata". "Mantenimento della sicurezza dei pazienti, del personale e del pubblico; realizzazione di un ambiente terapeutico rassicurante e protettivo, senza apparire oppressivo; inserimento positivo della struttura residenziale nella comunità locale: sono tre aspetti fondamentali che richiedono la necessaria integrazione di ruoli e competenze tra i vari attori in campo, attraverso una efficace collaborazione inter-istituzionale sul territorio. Tempo non ce n’è più e si rischiano sanzioni salate che alla fine sarebbero i cittadini a pagare", conclude d’Ambrosio Lettieri. Bari: al lavoro in carcere per i disabili, presentazione del progetto "Atelier dell’Ausilio" Corriere di Puglia e Lucania, 28 ottobre 2015 "Atelier dell’Ausilio", un laboratorio-officina dell’inclusione e della solidarietà, dove detenuti e condannati in affidamento riparano e rimettono sul mercato carrozzine e protesi per disabili. È il progetto di inserimento sociale lavorativo, a vantaggio anche della spesa pubblica, che sarà presentato dal presidente del Consiglio regionale Mario Loizzo, giovedì 29 ottobre, alle 12, nella sala Guaccero al secondo piano del palazzo di via Capruzzi a Bari. Alla conferenza stampa interverranno il Garante regionale delle persone soggette a restrizione della libertà personale Pietro Rossi, il provveditore per l’amministrazione della Giustizia in Puglia Giuseppe Martone, il direttore del carcere di Lucera Valeria Pirè, il dirigente della Sezione "Sicurezza del cittadino, politiche per le migrazioni e antimafia sociale" del Prap Stefano Fumarulo e il direttore di Escoop, la prima società cooperativa europea, Marco Sbarra. La "Bottega dell’Ausilio" è nella Casa circondariale di Lucera, l’officina nella zona industriale di Cerignola. Sette gli operatori impegnati, tre reclusi e quattro in affidamento ai servizi sociali, tutti assunti con contratti regolari e integrati in un progetto di grande significato, al servizio delle società, dei disabili e che garantisce un risparmio al servizio sanitario pubblico. Il progetto è sostenuto dalla Fondazione "Con il Sud" attraverso l’Iniziativa "Carceri 2013", con numerosi partner privati e pubblici. Avellino: la denuncia dell’Osapp "carenza del personale ed inidoneità degli alloggi" irpinianews.it, 28 ottobre 2015 "Nel pomeriggio di ieri si legge nella nota dell’Osapp - si è svolta presso la Casa Circondariale di Ariano Irpino, un’assemblea Sindacale con il personale di Polizia penitenziaria, hanno partecipato, il Segretario Generale Dott. Leo Beneduci, il Segretario Regionale Vincenzo Palmieri, nonché altri organi della Segreteria Provinciale e locale, coordinati dal delegato Regionale Ettore Sommariva. La delegazione è stata accolta dal Comandante di Reparto, Commissario Capo D.ssa Tiziana Perillo, dal Direttore dell’Istituto Penitenziario, Dott. Gianfranco Marcello, dopo i saluti, si è svolta l’assemblea con il Personale della Polizia Penitenziaria Arianese e della Provincia di Avellino, il Segretario Generale Beneduci ha illustrato e ha informato il personale in merito alle iniziative intraprese a livello Nazionale e nonché le fasi attuali del rinnovo contrattuale delle forze dio Polizia e il Riordino delle carriere delle forze di Polizia. A livello locale invece è stato evidenziato da parte del Poliziotti Arianesi, la grave e cronica carenza di Personale di tutti i ruoli e qualifiche, Ispettore, Sovrintendenti ed Agenti/Assistenti, inoltre la grave carenza di personale Amministrativo appartenenti al Comparto Ministeri, provocando l’impiego dei Poliziotti Penitenziari in compiti non Istituzionali. Altro problema è la inidoneità della Caserma della Polizia Penitenziaria, degli alloggi demaniali, tutto ciò, non garantisce al personale ed in particolar modo nel periodo invernale, di poter pernottare all’interno della struttura Penitenziaria. Non poteva emergere la grave situazione che versa la struttura Arianese, visto che dalla sua apertura (anno 1980) ad oggi, poco è stato fatto in merito alla manutenzione ordinaria e straordinaria, nonché all’ammodernamento dello stesso. A conferma di tutto ciò, basta vedere la struttura esternamente, inter-cinta in ferro, completamente arrugginita e corrosa dalla ruggine, muro di cinta, con evidenti segni di deformazione del ferro e del cemento pertanto è facile capire il degrado e l’abbandono in cui versa, l’intera struttura preesistente, inoltre è da circa un anno che la cucina detenuti situata al vecchio padiglione detentivo è chiusa a causa le pessime condizioni in cui versava, ma ad oggi ancora nulla è stato fatto per ripristinarla e in tale condizioni si trova un po’ tutto la vecchia struttura e Uffici compresi. Non potevamo soffermarci sulla questione Infermeria, che si trova dislocata al piano più alto e priva di ascensori e montacarichi per il trasporto delle lettighe, ed inoltre non viene neanche assicurata la fornitura di acqua, sia al Personale Sanitario, nonché ai detenuti ivi ricoverati. Pertanto in caso di un soccorso e trasferimento urgente in Ospedale, cosi come successo ultimamente, diventa complicato il trasporto del detenuto dall’infermeria fino a raggiungere l’automezzo di soccorso che si trova ad una notevole distanza e bisogna scendere diverse scale che certamente non sono agevoli per i soccorritori. Un altro problema avvertito e purtroppo da tempo segnalato, è la mancanza di un Nucleo Traduzioni e Piantonamenti locale, tutto ciò, comporta un dispendio di Uomini e mezzi che di volta in volta devono venire da Avellino - Bellizzi fino ad Ariano Irpino e in caso di necessità ed urgenza a seguito ad es. ad un malore improvviso di un detenuto o alle visite ambulatoriali presso i vari Ospedali della Provincia e non solo, se ne devono fare carico i Poliziotti Penitenziari Arianesi, che già sono pochi e senza che vi siano automezzi adeguati disponibili, considerato che il nucleo è di stanza ad Avellino. Va detto inoltre che al Vecchio padiglione detentivo gli ascensori non sono funzionanti da anni e quando bisogna soccorrere un detenuto bisogna trasportarlo a mano, alla faccia dell’eliminazione delle barriere architettoniche, in carcere esistono ancora". Vicenza: il Pd interviene nel dibattito sul servizio mensa nel carcere di San Pio X Giornale di Vicenza, 28 ottobre 2015 Il gruppo consiliare Pd interviene nel dibattito sul servizio mensa nel carcere di San Pio X. Ecco il testo dell’interrogazione. "Nei giorni scorsi, a partire dalla denuncia del Coordinatore Regionale Fp Cgil Veneto Giampietro Pegoraro e di Agostino Di Maria della Segreteria Fp Cgil Vicenza, sono apparsi numerosi articoli sulle testate giornalistiche locali in cui i sindacati delle forze di Polizia Penitenziaria hanno denunciato la presenza di vermi e larve nei pasti del personale della casa circondariale di San Pio X. Il servizio è in appalto esterno alla società DJ Service di Bergamo. Si è inoltre aggiunta la segnalazione che il locale adibito a mensa del personale, risulterebbe avere delle mancanze di tipo igienico, testimoniate anche dalla presenza di ratti e topi. Infine il direttore Fabrizio Cacciabue segnala un decadimento delle strutture che richiede pesanti interventi di manutenzione straordinaria. Consapevoli della difficoltà e della delicatezza del lavoro svolto dalla Polizia Penitenziaria, in condizioni spesso precarie, e consci che la gestione delle carceri e del personale addetto non è di competenza del Comune di Vicenza ma dello Stato italiano, che il bando per l’affidamento del servizio di mensa è gestito dalla Regione chiediamo: quali azioni il Comune intende intraprendere nei confronti della Regione Veneto per tutelare il diritto a consumare pasti decorosi?, quali azioni Comune intende intraprendere nei confronti dell’Ulss 6, incaricata di svolgere ogni sei mesi i controlli sull’igiene?, quali azioni intende intraprendere il Comune per sollecitare lo Stato Italiano e in particolare il Ministero della Giustizia per richiedere gli interventi di manutenzione straordinaria che la struttura richiede?". Roma: firmato un protocollo sulla "Casa famiglia protetta" intitolata a Leda Colombini Agi, 28 ottobre 2015 È stato sottoscritto oggi il protocollo d’intesa per l’avvio del progetto della Casa famiglia protetta del Comune di Roma. A firmarlo sono stati il Capo del Dap Santi Consolo, l’assessore alle Politiche Sociali del Comune di Roma Francesca Danese e il segretario generale Fondazione Poste Insieme Onlus, promossa da Poste Italiane, Massimiliano Monnanni. A pochi giorni dal sopralluogo effettuato da Santi Consolo e da Francesca Danese nella villa sottratta alla criminalità organizzata, situata a Roma in via Kenya 72, per verificare l’idoneità della struttura destinata ad accogliere la prima Casa famiglia protetta, il protocollo formalizza l’impegno dei sottoscrittori per il completamento delle procedure di apertura nei tempi stabiliti dal cronoprogramma già concordato. Il risultato è stato ottenuto in tempi record grazie alla proficua collaborazione e alla condivisione di intenti tra Dap, Comune di Roma e Fondazione Poste Insieme Onlus. L’impegno tra le parti attribuisce al Dap le procedure per la segnalazione al Comune di Roma dei nominativi delle persone alla detenzione o agli arresti domiciliari da inserire nel progetto (che saranno poi ammessi con provvedimento del Tribunale di Sorveglianza) e ogni necessario supporto per l’accoglienza e la gestione delle misure. Nella fase iniziale l’Amministrazione Penitenziaria impiega detenuti ammessi al lavoro esterno per la pulizia della struttura e degli spazi verdi e per piccoli interventi di manutenzione. Il Comune di Roma, attraverso il Dipartimento Politiche Sociali e Sussidiarietà, si impegna a rendere operativa la struttura di accoglienza e provvede alla gestione e al controllo delle attività. La Fondazione Poste Insieme Onlus concorre alla copertura delle spese di gestione della struttura con un finanziamento di 150mila euro per il 2015 con la previsione di ulteriori stanziamenti. La Casa famiglia protetta è stata intitolata a Leda Colombini. Lecco: pene alternative al carcere da calare sul caso specifico, dibattito in Sala Ticozzi lecconews.lc, 28 ottobre 2015 Il sovraffollamento, la carcerazione preventiva e l’omologazione dei detenuti sono solo alcune delle problematiche della situazione carceraria italiana, condizioni che dovrebbero essere superate dalla rivendicazione individuale degli stessi detenuti e dalla loro rieducazione. Da questa riflessione muovono Luigi Manconi, Stefano Anastasia, Valentina Calderone e Federica Resta, autori per Chiarelettere di "Abolire il carcere", libro presentato ieri sera in sala Ticozzi dall’associazione Qui Lecco Libera insieme ad Alessandra Gaetani, garante della Casa Circondariale di Pescarenico, responsabile della verifica del rispetto dei diritti dei detenuti. In apertura alla serata Duccio Facchini di "Qui Lecco Libera" ha illustrato alcuni dati numerici relativi alle carceri e alle condizioni di reclusione per introdurre l’intervento di Alessandra Gaetani. Considerate le condizioni di detenzione, Valentina Calderone esplicita quanto sature siano le prigioni italiane, che ospitano ben 10.000 detenuti oltre la soglia di tollerabilità. La vera problematica della carceri è però relativa alla mancata opera di recupero e rieducazione precedente al rientro dei detenuti nella società ed è a questo che si appoggia la proposta insita nel volume di abolire le carceri, sostituendole con pene differenti. Cannabis: presentato Ddl per legalizzazione a fini terapeuticiIl senatore Luigi Manconi, in collegamento telefonico, semplifica la questione, riprendendo l’introduzione del libro, legata ad una citazione di Belén Rodriguez. Belén, parlando del caso Corona, sintetizza il concetto portante di questo libro, spiegando come una pena ha una sua ragione e persegue un suo scopo di sanzionare e rieducare, se si adatta alla personalità del condannato, favorendone il ripensamento. Nel caso Corona, questi era dipendente dal denaro e non potrebbe esserci sanzione migliore di emanciparlo dalla dipendenza con una pena pecuniaria. L’abolizione della reclusione carceraria dovrebbe essere una "ragionevole proposta per la sicurezza dei cittadini", come cita il sottotitolo del volume, in quanto privare l’uomo della libertà non contribuisce alla sicurezza dei cittadini, ma la insidia facendone uscire cittadini incattiviti e maggior danno sociale. Secondo i dati del Ministero della Giustizia infatti il 68% dei carcerati è recidivo, mentre di coloro sottoposti a misure alternative solo il 20%. Roma: a Rebibbia una mostra di quadri realizzati dai detenuti, nel segno della rinascita Adnkronos, 28 ottobre 2015 Disegni e acquarelli. Autoritratti e facce scomposte. Un campo da calcio e uomini sdraiati o in cammino. Bianco e nero ma soprattutto un’esplosione di colore, che è comunicazione oltre le sbarre. Che è la speranza per un futuro di rinascita. C’è questo ed altro ancora nella mostra dal titolo "Il Figliol Prodigo", realizzata nel carcere romano di Rebibbia. "Tanti colori per scordarsi le sbarre e i dolori", sintetizza Mauro, uno dei detenuti che ha preso parte al progetto artistico presentato oggi all’interno del carcere romano e che dall’11 novembre al 13 dicembre prossimi sarà ospitato al museo Delle Mura del Comune di Roma, in via di Porta San Sebastiano, 18. "Ho usato dei colori, il nero e il chiaro, che rappresentano il bene e il male. E ancora il rosso e il verde, l’amore e la speranza", così parla Gino della sua opera soddisfatto della suo ‘scambiò con gli artisti che hanno partecipato al progetto. Questi (Paolo Bielli, Alessandro Costa, Giuseppe Graziosi, Marina Haas, Vincenzo Mazzarella, Laura Palmieri, Elena Pinzuti) hanno suggerito le tematiche - amore, tempo, luce, stagioni, spazio, consapevolezza - e proposto dei materiali lavorando per gruppi, il resto è opera della creatività degli 11 detenuti di Rebibbia che hanno saputo decifrare l’esistenza umana "soprattutto con la vivacità dei colori". "Il colore - spiega l’artista Elena Pinzuti - ha senza dubbio un valore emozionale, è un modo di esternare una ferita, una situazione di sofferenza che i detenuti vivono. Il colore è una forma terapeutica di comunicazione". Attraverso la pittura "si recupera la consapevolezza del fare", aggiunge l’artista Marina Haas sottolineando che è stata un’esperienza forte. "Mi ha fatto riflettere che l’uomo è molto carico di influenze, si può fare qualcosa di significativo utilizzando pochi materiali". Come hanno fatto i detenuti-artisti protagonisti della mostra. "Spero tanto che ci incontreremo tutti fuori", dice Sanna che ha lavorato a quattro mani con Kandeh e che sostiene che questa esperienza è "un punto di rinascita per permettere a noi detenuti un futuro". Un segno di speranza per tutti loro che hanno dato vita una spettacolare opera corale che è vita nel colore: un lenzuolo lungo 10 metri con degli uomini sdraiati esposta nel teatro del carcere romano. "Un’iniziativa molto importante - sottolinea il vice commissario penitenziario Angela Briscese - perché il trattamento dei detenuti è fondamentale nel processo di rieducazione e di riabilitazione dei detenuti. Ben vengano queste iniziative che permettono anche ai soggetti ristretti di esprimere la loro personalità e attraverso la creatività anche la possibilità di socializzare, di venire a contatto con il mondo esterno". D’altronde lo sottolinea fermamente anche il Provveditore dell’Amministrazione Penitenziaria Maria Claudia Di Paolo che "qualunque attività rieducativa in carcere, in particolare quella culturale, aiuta a far riscoprire le inclinazioni migliori". Alla mostra era presente, tra gli altri, il regista Marco Risi, autore dei film "Mery per sempre" e "Ragazzi fuori": "Ai detenuti l’artisticità gli riesce bene, per esempio quando entrano in contatto con la pittura o la recitazione. Li cambia e quando escono non ricadano negli stessi errori". L’idea del progetto, spiega anche il curatore del progetto Vincenzo Mazzarella, nasce dal tema della Misericordia di questo anno giubilare e come spunto si è guardato alla parabola "Il Figliol Prodigo" per proporre una riflessione sulla capacità di ogni essere umano di ritornare sulle proprie responsabilità anche attraverso una forma mediata di linguaggio: quella dell’arte. Un progetto artistico che ha come obiettivo di riaffermare come ogni persona sia portatrice di doveri ma anche di diritti inalienabili e come in ognuno di noi vi sia anche un po’ dell’altro. Un progetto artistico che ha dato vita anche ad un calendario: una copia sarà donata a Papa Francesco come augurio per il nuovo anno. Grazie alla disponibilità dell’Amministrazione Penitenziaria e dei suoi operatori e della Sovrintendenza ai Beni Culturali di Roma, è stato possibile ai volontari della Cooperativa sociale Pronto Intervento Disagio e dell’Associazione Radicale Nessuno Tocchi Caino insieme ad alcuni artisti dell’avanguardia contemporanea romana, la realizzazione di opere pittoriche dei detenuti con il preciso scopo di portare alla luce attraverso immagini, colori, segni quello che spesso con le parole non si riesce a comunicare. Ancona: i detenuti leggono ai propri figli le "Fiabe in libertà" di Emiliano Moccia Corriere della Sera, 28 ottobre 2015 Leggere le favole ai propri figli è importante. Perché crea contatto, condivisione, legami e sviluppa nei bambini fantasia, creatività, immaginazione. Lo sanno bene i detenuti della casa circondariale di Montacuto, in provincia di Ancona, che hanno cercato di trasformare in realtà un desiderio nascosto, difficile da realizzare nelle ristrettezze delle celle. Quello di sentirsi chiedere: "Papà, mi racconti una favola?". Ed allora, si sono dati da fare, cercando di accorciare le distanze dai loro figli, cercando di essere presenti almeno con la voce in mancanza del contatto fisico. E lo hanno fatto attraverso le "Fiabe in Libertà", un audiolibro scritto, musicato e prodotto da loro stessi all’interno del carcere grazie all’idea sostenuta dall’associazione Radio Incredibile e alla collaborazione dell’Area Educativa ed il personale di Sicurezza della casa circondariale diretta da Santa Lebboroni. L’esperienza dei detenuti. Nell’audiolibro, dunque, è possibile ascoltare i detenuti che narrano ai bambini cinque favole, cinque storie che raccontano di principesse, castelli e giovani eroi che combattono il male. La confezione, destinata ai bambini tra i 6 e i 10 anni, racchiude un dvd ed un volume illustrato, ed i proventi della vendita serviranno a finanziare la seconda edizione. Il lavoro è stato firmato da Ettore, Nicky, Alberto, Veselin, Giovanni, Rubin, Hedi, Marco, Marien, Veselin, Rocco, Nini, Robertino, Stefano, Elio. Alcuni di loro, nel frattempo, sono tornati in libertà e probabilmente quelle storie le stanno raccontando e leggendo dal vivo ai loro figli. "È stata una bella esperienza - hanno raccontato i detenuti coinvolti nell’iniziativa - perché ci ha riconsegnato una parte di infanzia. Con questo dvd vogliamo raccontare ai bambini che sono fuori le favole che nessuno ci ha raccontato quando i bambini eravamo noi. E quelle che noi, adulti, da qui dentro non riusciamo a raccontare ai nostri figli. Abbiamo lavorato insieme, anche riprendendo favole della tradizione di altri paesi. Ci chiamano uomini neri, ma anche noi abbiamo sentimenti ed emozioni da trasmettere". Il progetto di inclusione. L’audiolibro "Fiabe in Libertà" è stato reso possibile grazie alla Fondazione Cariverona, nell’ambito di Esodo, il progetto vicino ai percorsi giudiziari di inclusione socio-lavorativa per detenuti, ex detenuti e persone in misura alternativa della pena. Alla realizzazione editoriale del progetto promosso dall’associazione Radio Incredibile ha collaborato anche Hacca Edizioni. Il Laboratorio Minimo Teatro ha seguito, invece, il training teatrale e la costruzione delle storie e dei personaggi, mentre Musicandia ha realizzato le attività di audio-engineering e post-produzione. La realizzazione grafica e interfaccia del dispositivo multimediale è stata affidata allo studio di Patrizia Principi. Il cofanetto, contenente un libro di 80 pagine + dvd, viene venduto al prezzo di 14.90 euro attraverso i canali web. Cosenza: reading nel carcere, con brani tratti dal romanzo storico Gelusa cn24tv.it, 28 ottobre 2015 Lunedì 26 ottobre alle 15 all’interno dello Spazio Teatro della Casa Circondariale di Cosenza alla presenza del Direttore Filiberto Benevento, in sinergia con Bruna Scarcello, le educatrici e il personale penitenziario, si è tenuto un reading di brani tratti dal romanzo storico Gelusa di Loredana Nigri. Numerosi i detenuti che hanno apprezzato le letture di Angelo Lombardi, Milly Pulitanò, Antonio e Luciana Sicilia e Loredana Nigri, letture intervallate dalla chitarra di Riccardo Sicilia. Gelusa racconta 100 anni storia calabrese, 1830/1940, con un lessico misto, italiano-dialetto, e affronta le storie minime di 17 personaggi, sullo sfondo di una Calabria bellissima e disperante. Temi universali sottendono le vicende dei protagonisti. La violenza e la sopraffazione, il desiderio di vivere autenticamente, la morsa della povertà e dell’ignoranza, la speranza e la disillusione, l’amore per la propria terra e soprattutto l’incommensurabile potere della cultura quale motore di ogni processo di cambiamento. La scrittrice Loredana Nigri, che sta ricevendo numerosi premi e riconoscimenti per la sua attività letteraria e professionale, ha proposto ai detenuti dette letture in questa chiave evolutiva, con l’intento di sottolineare, attraverso la narrazione, che non c’è riscatto, né modifica dei comportamenti sbagliati, senza cultura. Loredana Nigri che ha regalato diverse copie del romanzo alla Biblioteca della casa circondariale, ha così commentato la presenza di "Gelusa" tra i detenuti: "Conosco la realtà carceraria per motivi legati alla mia professione di assistente sociale. Ho sempre nutrito un forte rammarico e ammarezza per quanta indifferenza circondi sia i detenuti che i lavoratori della Casa Circondariale. La mia convinzione è che ognuno di noi dovrebbe fare qualcosa per migliorare la qualità della vita carceraria. Qualcosa che però integri e poi superi il momento di intrattenimento per divenire un’ occasione di riflessione. Ciò perché abbiamo in una certa misura la responsabilità gli uni degli altri, soprattutto quando "gli altri" sbagliano. È sbagliato delegare ai soli operatori carcerari la riabilitazione dei detenuti". Nel caso del romanzo Gelusa, aggiungiamo noi, la calabresità e il forte attaccamento alla nostra terra potrebbero rafforzare il sentimento di identità e l’orgoglio di essere figli di una terra antica e sapiente ma sfortunata, che ha tesori artistici, e che ha il suo cuore pulsante nel rispetto per la sua natura indomita e incantevole e nell’intensità e forza delle relazioni umane. Pordenone: dal Papa un regalo ai detenuti, corona del rosario inviata a ciascuno di loro Ansa, 28 ottobre 2015 Con grande emozione è stata accolta oggi, dai detenuti del carcere di Pordenone, la corona del Rosario inviata ad ognuno di loro da Papa Francesco e consegnata da padre Edmondo Caruana, responsabile editoriale della Lev, in occasione dell’incontro organizzato nell’ambito della rassegna editoriale "La Libreria Editrice Vaticana a Pordenone". "Per noi è stato un momento molto importante e un grande onore essere ricordati da Papa Francesco" - ha dichiarato il direttore del Carcere circoscrizionale, Alberto Quagliotto. "I detenuti - ha detto il cappellano del carcere, don Piergiorgio Rigolo - hanno apprezzato molto il regalo del Santo Padre e sicuramente pregheranno per lui come ha chiesto". L’incontro è stato l’occasione per presentare i due volumi, editi dalla Lev, "Anche il Signore è un carcerato" e "Dite ai detenuti che prego per loro" che sono stati dati in omaggio ai 70 reclusi. Un’occasione questa che ha permesso ai relatori anche di fare il punto sulla situazione delle carceri in Italia. "Situazione di grande difficoltà", come ha dichiarato il presidente del Tribunale di Pordenone, Francesco Pedoja, secondo il quale "è necessario uno sforzo comune per migliorare specialmente la situazione nel futuro imminente". Per l’ex Guardasigilli e presidente emerito della Consulta, Giovanni Maria Flick, "la detenzione ormai non può essere l’unica pena". Citando la Costituzione, Flick ha inoltre ribadito che "la permanenza nel carcere per le persone deve avere una reale finalità educativa". Per don Virgilio Balducchi, ispettore generale dei cappellani delle carceri Italiane, si deve superare il luogo comune che "una bella pena in carcere tranquillizza tutti". Proprio per questo ha dichiarato che il Governo più che destinare tutte le risorse disponibili a ristrutturare le carceri deve pensare anche a finanziare le iniziative alternative. Su questa linea don Gino Rigoldi, fondatore di Comunità Nuova e Cappellano del Carcere minorile "Beccaria" di Milano, ha annunciato un progetto che dovrebbe partire a gennaio 2016 di un salario minimo di reinserimento da destinare ai giovani poveri che escono dal "Beccaria" per evitare che ritornino a delinquere. Una vita per la pace, premiata Emma Bonino di Mario Platero Il Sole 24 Ore, 28 ottobre 2015 L’accoppiata è improbabile, George Soros che introduce Emma Bonino e le consegna il premio ICG per il perseguimento della pace. In realtà i due si conoscono da 35 anni e hanno ormai un rapporto di amicizia profondo: "Mi chiese fin dall’inizio di iscrivermi all’internazionale radicale - racconta Soros, in un affettuoso ricordo dei loro trascorsi - ho sempre rifiutato, con veemenza. Ma oggi ho una notizia: dopo 35 anni mi sono iscritto, sono un membro dell’internazionale radicale". La forza di Emma Bonino è anche in questo segnare un punto con il difficilissimo e corteggiatissimo George Soros. Il premio è per la sua carriera, per quello che ha fatto nei decenni per la pace. Soros ricorda la sua battaglia contro il cancro. E lei punta con l’indice al berretto rosso e verde che le copre la testa. È energica più che mai, dal podio, da dove raccoglie l’applauso più caloroso della serata, al tavolo da dove urla di essere più allegri durante la presentazione del premio ai Nobel per la pace Beji Caid Essebsi e Rached Ghannouchi. "Momento difficile mi dice, ma sono ottimista per le zone calde. Sono preoccupata per l’Europa: la chiusura davanti a un numero limitato di rifugiati non fa parte della nostra storia di apertura. I voti in Polonia e in Ungheria preoccupano". Fra gli altri premiati in questa serata, sponsorizzata tra gli altri dalla Ferrero, c’è Sir Richard Branson, fondatore di Virgin e del gruppo degli "anziani", vecchi politici della prima linea che possono svolgere un ruolo di saggi. Fra loro c’è Jimmy Carter che proprio l’altro giorno ha scritto un articolo, una sorta di canto del cigno per proporre una soluzione a cinque: "Ci vorrà l’impossibile - ha scritto - che Russia, Stati Uniti, Iran, Arabia Saudita e Turchia si mettano d’accordo". Del resto lui, unico leader americano ad aver fatto la pace fra Israele e Egitto, ha la credibilità per poter aprire un spiraglio. La Bonino condivide: "Oggi in Siria si spara ma arriveremo alla pace. Ci siamo arrivati in altre situazioni che sembravano impossibili, basti pensare al Kosovo. L’importante è non dimenticare mai la "società aperta", che poi, nell’opera di Popper è forse la tesi più cara al mio vecchio amico George". Pena capitale, abolizione per imparare i diritti di Pasquale De Salve (Nessuno Tocchi Caino) L’Opinione, 28 ottobre 2015 Colgo l’occasione dell’apertura del Salone dello Studente che si tiene in questi giorni, dal 28 al 30 ottobre, e successivamente del congresso del Forum dei Giovani, che si terrà verso la metà di Novembre, occasioni foriere di dibattiti ed in cui si parlerà anche di giovani e detenzione, per stimolare una riflessione, alla luce di alcuni preoccupanti dati che sono stati evidenziati nel corso dell’ultimo mese e che mostrano lampanti criticità attraverso cui si sviluppa, durante il loro percorso di crescita nelle scuole, la loro opinione sulla pena di morte e la loro visione dei diritti fondamentali e civili. In questi mesi di grande dibattito sull’abolizione della pena capitale, grazie ai discorsi di Papa Francesco, alla storica prima visita di un Presidente Usa in un penitenziario, ed all’intensificarsi del cammino per l’affermazione della nuova Moratoria Onu del 2016, è stato effettuato un sondaggio, promosso dal sito Skuola.net, per la Giornata mondiale contro la pena di morte, che riprende il sentimento degli studenti italiani sull’argomento e che merita una riflessione più approfondita L’accettazione della morte come pena da infliggere, infatti, sembra essersi sedimentata come opinione comune tra i nostri studenti ponendoci dinanzi ad alcuni punti interrogativi su cui urge dare risposta. C’è da chiedersi come mai una percentuale tanto alta di studenti, circa il 50 per cento, risulti vicina ad assumere un’opinione favorevole alla pena di morte. C’è da chiedersi quali rischi si celano dietro l’evidente assenza di dibattito sui diritti che dovrebbe essere generato dalla discussione sul tema. C’è da chiedersi quali siano le conseguenze per un paese che si sviluppa nella convinzione che tale pena sia giusta. Il 64,18% del campione intervistato non ha mai parlato di pena di morte con i propri insegnanti, l’83,49% chiede di parlarne. Cifre che dimostrano, la quasi totale assenza di dibattito e la superficialità con cui la tematica è trattata. Che si tratti di un argomento spinoso non c’è ombra di dubbio; ma: esistono scuse a cui appellarsi quando se ne scavalca la trattazione? Nemmeno il fatto che tale pena in Italia non c’è per Costituzione. Intavolare una discussione sulla pena di morte, come anche su quelle pene che, come l’ergastolo, tanto più se aggravato dall’esclusione da qualsiasi beneficio penitenziario (ergastolo ostativo) e dal regime di detenzione del 41 Bis, rappresentano una reale morte civile e sociale per il detenuto, equivale a sviscerare sino alla radice quei valori primari che chiamiamo Diritti e che permettono al giovane di crescere sviluppando principi di civiltà: fondamentali per la comprensione del senso di cittadinanza e del significato di Democrazia. La portata, in termini d’importanza, dell’abolizione di queste sanzioni, infatti, è tale da permetterci di affermare con certezza, e per diritto, il superamento della legge del più forte sul più debole in favore di un significato più alto di Giustizia che contiene in se anche il principio del diritto alla riabilitazione. È bene ricordare che, diversamente dai sistemi monarchici e dittatoriali in cui il Re, ancora oggi, si fa Stato dimostrando tramite l’esemplarità della pena il suo potere sui sudditi (vedi Arabia Saudita ed Iran), nei regimi democratici in cui vige la pena di morte l’individuo demanda allo Stato, suo sostituto, un omicidio istituzionalizzandolo per legge e tramite sentenze. Eppure l’esistenza stessa della società accade per limitare le pulsioni umane più violente, come la vendetta, sostituendo ad esse il senso di una Giustizia che, per quanto possa talvolta risultare sorda ai richiami della misericordia, non può essere cieca dinanzi alle evidenze come alla possibilità dell’errore. È ciò che avviene in questi giorni in Usa e che ci è chiaro osservandone gli eventi: l’esecuzione di Kelly Renee Gissendaner, la sospensione dell’esecuzione di Richard Glossip e la Moratoria sulla pena di morte in Ohio derivante dalla discussione sul reperimento e l’utilizzo di farmaci sbagliati per l’iniezione letale. È compito civico dell’educatore promuovere la discussione su di un paradigma fatto di violenza, orgoglio e sottomissione che non può fare altro che allontanarli dalla, pur faticosa, ricerca di maggiore armonia nella convivenza civile. Loro stessi dimostrano già l’assuefazione alla morte tipica degli anziani e la percezione dell’assenza delle istituzioni a tal punto da considerare un omicidio per mafia (3% di risposte alla domanda "Per quale tra questi reati applicheresti la pena di morte?"), che intacca il tessuto democratico del nostro paese ogni volta che accade, di una normalità tale da risultare meno importante di un omicidio comune (5%). Nonostante ciò i nostri studenti, che, come me, non conoscono il dolore della tortura per mano dello Stato e della condanna ad vitam, condannerebbero, anche con morte civile e sociale, proprio quei reati, il pluriomicidio (29%), l’omicidio per scopi terroristici (15%) e l’infanticidio (12%), che intaccano, con la paura e la negazione dello sviluppo per le generazioni future, la crescita della società e l’autodeterminazione dei suoi individui, a dimostrazione di intelligenza contro un nemico sociale che, il più delle volte, sappiamo assumere i connotati del pericolo fantasma più che del pericolo reale. Per l’Italia, però, è necessario che si sviluppi in essi, oltre a questa capacità, anche il senso di superiorità civile necessario per affermare e poi tutelare quei diritti fondamentali e civili che permettono di scardinare meccanismi di prevaricazione e che permettono al Paese di reggersi come Stato Democratico per Diritto come da Costituzione. Nessuno tocchi Caino è, quindi, oltre che una questione morale, un imperativo, non uccidere, perché non riguarda esclusivamente i convincimenti di natura individuale o religiosa ma la giustezza dell’atto sociale. È necessario, per questo, ristabilire il giusto dibattito pubblico, e non solo durante le ore di lezione, sull’esigenza dell’affermazione civile dei diritti perché possano divenire spina dorsale, radice, della cultura e dell’educazione del nostro paese. Non si dimentichi che oggi l’Italia si candida ad affermare un ruolo di leadership per la conduzione della battaglia in favore della nuova Moratoria Onu 2016 contro la pena di morte ed a far parte del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. È necessario dimostrare di possedere la consapevolezza necessaria per guidare questo processo. Ed essa si forma tenendo presente che la leadership politica assume più forza se supportata da una coscienza civica che sostiene un senso di cittadinanza con rinnovato e maggiore impegno individuale e collettivo; tenendo presente che, come l’affermazione di un diritto vive nell’istante in cui accade, la sua tutela vive proiettata al futuro già dall’istante successivo ed è compito, come sempre, tanto delle generazioni presenti quanto di quelle future. L’Occidente si pente troppo di Antonio Polito Corriere della Sera, 28 ottobre 2015 Un’onda di pentimento per le guerre in Medio Oriente percorre l’Occidente. Perfino un leader come Blair, che pure fece dell’interventismo democratico il cuore della sua dottrina internazionale, sembra ora ritirarsi con tante scuse, ammettendo errori, colpe, omissioni, bugie, sottovalutazioni. Che senza dubbio ci furono, specialmente dopo l’invasione angloamericana dell’Iraq, provocando un danno incalcolabile alla causa occidentale. Ma che forse non consentono di concludere, alla maniera di Donald Trump, che il mondo sarebbe migliore con Saddam e Gheddafi ancora al potere. Come spesso gli accade quando cerca di liberarsi del "fardello dell’uomo bianco", l’Occidente si dà anche colpe non sue. Per esempio: è una vulgata che non diventa più vera solo perché viene ripetuta ogni sera in tv (lo dicono spesso anche il nostro premier Renzi e il nostro ex premier Berlusconi) l’idea che sia stato l’intervento militare dell’Europa ad aprire la strada all’islamismo e al caos in Libia. Bisognerebbe infatti ricordare che da Tripoli a Bengasi era già in corso una sanguinosa guerra civile quando Francia e Gran Bretagna decisero di aiutare i ribelli anti Gheddafi. L’Europa non provocò la guerra, ma di fronte a un conflitto già esploso ai suoi confini aveva solo due scelte possibili: aiutare il dittatore o aiutare i suoi nemici. Chi oggi critica quell’intervento avrebbe dunque preferito puntellare il tiranno con la forza delle armi? La terza opzione in Libia, non fare niente, non era praticabile, perché ci stava già scaricando addosso caos, instabilità e profughi: esattamente come è accaduto dopo che noi occidentali ce ne siamo lavati le mani, in una seconda guerra civile. L’alternativa del diavolo esce confermata dalla tragedia della Siria: lì l’Occidente ha scelto per anni di non intervenire (meglio: lo ha scelto Obama, l’unico che avrebbe potuto). È stato forse più fausto l’esito di quella guerra civile? Ci sono forse stati meno morti, meno profughi, meno terrorismo islamico perché ci siamo astenuti dall’azione? E chi può dire che cosa sarebbe diventata la Libia se avessimo scelto di comportarci come in Siria? In realtà l’esperienza ci insegna che l’Occidente ha dovuto spesso pentirsi di essersi disimpegnato, o di non essersi impegnato abbastanza. Non a caso in Afghanistan Obama è stato costretto a restare, rinunciando alla sua ambizione di terminare il mandato senza più guerre in corso. Anzi, la lunga inazione gli suggerisce oggi addirittura di valutare l’invio di truppe in prima linea, tra l’Iraq e la Siria. I vuoti di potere prima o poi si riempiono sempre, e se li riempie Putin è un problema. D’altra parte gli unici due esempi di successo di un intervento militare occidentale, il Libano e l’ex Jugoslavia, dove i nostri soldati hanno veramente messo fine alla guerra e tuttora assicurano una pace seppure imperfetta, hanno richiesto un impegno molto lungo e dispendioso, che dura da decenni. Spesso gli stessi che danno agli Stati Uniti e all’Europa tutte le colpe di ciò che non va nel mondo sono anche coloro che sventolano come una bandiera pacifista la terribile constatazione di papa Francesco, secondo il quale è in corso una "terza guerra mondiale". Ma se davvero c’è la terza guerra mondiale, qualcuno può pensare che l’Occidente se ne possa tener fuori, limitarsi a guardare, magari circondandosi di muri taglia fiamme e anti profughi per evitare che l’incendio ci lambisca? La verità è che l’Occidente, con tutti gli errori che ha commesso, non è la causa di un conflitto che scaturisce da una vera e propria guerra civile interna all’Islam; ma non può disinteressarsene solo perché ne è la periferia. La presunzione di voler lasciare il mondo com’è, congelando la storia, solo perché così conviene al nostro quieto vivere, non è meno "imperialista" della presunzione di poterlo cambiare a piacimento, giocando alla guerra. Nella politica, come nella morale, non far niente può essere talvolta più pericoloso di far troppo. Migranti: sì della Ue alla flessibilità sul deficit, via libera alla manovra di Alberto D’Argenio La Repubblica, 28 ottobre 2015 Le spese per la crisi saranno scontate dai bilanci L’Italia vuole 3,3 miliardi, scontro con il Nord Europa. Era il segnale in codice che tutti aspettavano, Jean-Claude Juncker lo aveva promesso a Matteo Renzi e al Cancelliere austriaco Werner Faymann come prova del suo impegno politico sui rifugiati. Le parole che il presidente della Commissione ha pronunciato di fronte al Parlamento europeo sulla possibilità di concedere flessibilità aggiuntiva sui conti per compensare i governi delle spese sostenute nella gestione dell’emergenza migranti, per l’Italia possono valere dagli 1,6 ai 3,3 miliardi. Ma la partita per arrivare a questo risultato è stata complessa e ancora oggi tutt’altro che chiusa. Se fino alla scorsa settimana Bruxelles sul bonus sui migranti si nascondeva dietro la formula "sarà valutata Paese per Paese", ieri a Strasburgo Juncker è andato oltre assicurando che la Commissione "applicherà la flessibilità per i rifugiati perché siamo in una situazione eccezionale". Un piccolo passo avanti lessicale decisivo nella battaglia aperta dai governi di Italia e Austria, peraltro fino a pochi giorni fa pessimisti sulla possibilità di vittoria. Ora invece c’è la certezza che la clausola sarà applicata. Renzi, in viaggio in Sud America, da Bogotà non ha commentato direttamente l’apertura di Juncker, limitandosi a ricordare che "noi italiani ogni giorno facciamo uscire le navi per salvare migliaia di persone, forse perderemo voti ma così salviamo l’idea di Italia". Come dire, a questo punto è chiaro che se Bruxelles allarga le maglie del risanamento in favore di chi si impegna a tamponare la crisi migranti, l’Italia è in prima fila per beneficiare dello sconto sul deficit. Una certezza arrivata solo nelle ultime 48 ore, ma ora si combatte sulla quantità dello sconto. Il governo nella Legge di Stabilità per i migranti chiedeva 3,3 miliardi di flessibilità per il 2016, pari allo 0,2% di deficit aggiuntivo. La manovra, sulla quale Bruxelles si esprimerà a metà novembre, porta il deficit dal 2,6% del 2015 al 2,2%, con uno sconto di 13 miliardi sul risanamento visto che lo scorso anno l’Italia aveva concordato con l’Europa un disavanzo 2016 all’1,4%. Lo sconto dello 0,4%, deficit all’1,8, è già stato formalmente concesso la scorsa primavera. Poi Renzi e Padoan hanno chiesto ulteriore flessibilità per le riforme (0,1%) e per gli investimenti (0,3%). Nei contatti informali tra Roma e Bruxelles è arrivato il via libera all’operazione, che concede a Roma 13 miliardi di deficit con i quali finanziare la manovra e in particolare il taglio delle tasse sulla casa. Una promozione, che sarà formalizzata a metà del prossimo mese, all’inizio tutt’altro che scontata. Basti pensare che venerdì scorso - rigorosamente dietro le quinte - si è andati a un passo dallo scontro frontale tra Europa e Italia. I governi di centrodestra hanno reagito duramente all’intenzione del commissario agli Affari economici, il socialista francese Pierre Moscovici, di mettere in mora il Portogallo, dove il popolare Pedro Passo Coehlo è uscito azzoppato dalle elezioni del 4 ottobre e non ha ancora inviato la Legge di stabilità a Bruxelles. La reazione dei leader e dei commissari di centrodestra all’intenzione di Moscovici, potenzialmente letale per Coelho e in grado di spalancare le porte di Lisbona alla sinistra, è stata talmente veemente che come ritorsione gli uffici di Juncker avevano preparato due lettere di bocciatura delle manovre di Italia e Francia. Un drammatico giro di telefonate nella notte tra Bruxelles, Roma e Parigi ha evitato il peggio, con lo stesso Juncker che ha bloccato l’escalation invitando tutti a darsi una calmata. Quindi, sempre tramite canali riservati, i messaggi distensivi sul via libera alla finanziaria italiana ma con il chiaro avvertimento che Portogallo e Spagna, dove Rajoy il 20 dicembre si gioca la Moncloa, devono essere lasciati in pace. Poi, appunto, l’apertura sui migranti, anche in questo caso dettata da ragioni politiche: in Austria la Grande Coalizione tra cristianodemocratici e socialisti vacilla, con il Paese che potrebbe sbandare verso la destra estrema dell’Fpö. Anche in questo caso Berlino - dove la Merkel non vuole una sterzata estremista di Vienna che potrebbe aprire la strada a una radicalizzazione in Germania - e i popolari all’interno della Commissione di Juncker sono andati in soccorso di Vienna, spingendo Bruxelles ad aprire alla flessibilità sui migranti. Risultato ottenuto? Sì, ma non ancora del tutto. Mentre a Roma già si brindava al successo, in effetti la clausola ci sarà, da Bruxelles hanno mandato un messaggio criptato a Palazzo Chigi e al Tesoro: per definire l’impatto della flessibilità sui migranti si calcoleranno le spese sostenute dall’aprile 2015, non dal 2014. In pratica se il governo calcolava per il 2016 un incremento di 3,3 miliardi nei costi per gestire i flussi migratori rispetto agli anni scorsi, ora il delta per il calcolo si restringe e parte da un periodo già di emergenza. Con il risultato che per l’Italia, ma non per i paesi del Nord investiti dai flussi solo da pochi mesi, il bonus potrebbe ridursi a poche centinaia di milioni di euro. I negoziati dunque proseguono e inizia ad affacciarsi una soluzione più vantaggiosa: Bruxelles potrebbe riconoscere a Roma tutta la flessibilità sui rifugiati, ma limare dello 0,1% quella sugli investimenti. Il deficit potrebbe così salire dal 2,2 al 2,3%, 1,6 miliardi con i quali Renzi potrebbe anticipare parte del taglio Ires o il piano di edilizia scolastica. I prossimi giorni saranno cruciali ma intanto l’Italia può considerare la sua manovra espansiva promossa, risultato impensabile ai tempi del rigore selvaggio. Profughi: la beffa delle quote, dall’Italia all’estero solo 90 migranti in un mese di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 28 ottobre 2015 Dovevano essere trasferiti 40mila rifugiati: finora accolte 525 richieste. Roma ha speso oltre 1 miliardo e ricevuto 310 milioni. Il piano era chiaro: 40mila migranti da trasferire in due anni. Eritrei e siriani via dall’Italia per essere ospitati negli Stati dell’Unione Europea che avevano accettato l’agenda messa a punto dal presidente della Commissione europea Jean-Claude Junker. Un mese dopo la sigla dell’accordo siglato per "alleggerire" la situazione anche in Grecia e Ungheria dopo le migliaia di arrivi dei mesi scorsi, il progetto si rivela quello che in molti temevano: un flop. Per raggiungere il risultato bisognava infatti far partire 80 stranieri al giorno. E invece in un mese soltanto 90 hanno lasciato il nostro Paese: 40 sono andati in Svezia, 50 in Finlandia. I "nulla osta" sono solo 525. Gli altri rimangono in attesa e a scorrere la lista delle disponibilità rischiano di dover aspettare per mesi, forse per sempre. Perché sono appena 525 le richieste accolte, ma nessuna con effetto immediato. Si materializzano dunque i timori del ministro dell’Interno Angelino Alfano che aveva più volte ribadito la linea del governo: "Apriremo i cinque "hotspot" imposti dalla Ue per effettuare l’identificazione e il foto-segnalamento dei migranti soltanto quando andrà a regime la redistribuzione". E infatti al momento funziona in via sperimentale soltanto Lampedusa, sul resto la partita è aperta. E certamente - soprattutto dopo il chiarimento proveniente proprio da Juncker - il governo farà pesare il proprio impegno nell’accoglienza per ottenere da Bruxelles la maggiore flessibilità possibile nella tenuta dei conti pubblici. Anche tenendo conto che solo per quest’anno i costi hanno superato il miliardo di euro. Dieci in Germania venti in Francia. Il sistema "Dublinet" è una sorta di cervellone dove vengono inserite le schede di tutti gli stranieri "registrati" e le indicazioni sulle possibili destinazioni. Tutti gli Stati membri sono collegati e gli uffici competenti accedono in tempo reale. In Italia è gestito dal Dipartimento Immigrazione del Viminale diretto dal prefetto Mario Morcone. I richiedenti asilo non possono esprimere preferenza sul Paese dove andare, ma durante il vertice a Bruxelles si era stabilito di tenere conto di eventuali motivi per privilegiare una meta piuttosto che un’altra: presenza di familiari, conoscenza della lingua. Evidentemente anche questo non è stato però sufficiente per convincere i vari governi a concedere il via libera. La Germania - nonostante la cancelliera Angela Merkel avesse addirittura dichiarato pubblicamente di voler accogliere tutti - ha dato disponibilità per dieci posti. Va un po’ meglio con la Spagna: 50 persone. Appena 20 per la Francia. La Svezia ne può prendere 100, la Finlandia ne accetterà 200. Sul resto, buio totale. Tra i Paesi che avevano mostrato apertura, sia pur timida, c’erano Olanda e Portogallo. E invece nulla, al momento hanno comunicato che non possono prendere nessuno. Tutto fermo sugli "hotspot". A questo punto bisogna attrezzarsi. Secondo i dati aggiornati al 25 ottobre sono giunti nel nostro Paese 139.770 persone, tra loro 37.495 eritrei e 7.194 siriani. In tutto sono dunque 44.689 gli stranieri tra i quali si sarebbe dovuto scegliere chi far andare altrove. Rispetto allo scorso anno c’è stata una sensibile diminuzione degli sbarchi, pari al 9 per cento, visto che nel 2014 furono 170.100. Molti di loro sono tuttora presenti e distribuiti nelle strutture governative e in quelle temporanee reperite dalle prefetture nelle Regioni utilizzando anche alberghi, residence, campeggi. L’Italia finora ha speso un miliardo e 100 milioni di euro, dall’Europa è previsto che arrivino appena 310 milioni di euro. Una cifra irrisoria, soprattutto tenendo conto che altri soldi dovranno essere stanziati per l’apertura degli altri "hotspot" a Pozzallo, Porto Empedocle, Trapani. Per ora si è deciso però di fermare tutto. Visti i primi risultati, il governo ha deciso di bloccare l’apertura dei centri di smistamento. Del resto tutti i tentativi, anche recenti, di varare un piano comunque con gli altri Stati sono falliti miseramente e i numeri contenuti nel cervellone "Dublinet" ne sono la prova più evidente. "Forse perderemo consenso e voti, ma salvando quelle vite salviamo l’idea di Italia", dichiara Matteo Renzi. Il governo dunque conterà sulle proprie forze, ma con la pretesa di ottenere da Bruxelles un margine più ampio sui conti. Il Pentagono: mandare truppe in Medio Oriente di Chiara Cruciati Il Manifesto, 28 ottobre 2015 La sicurezza Usa consiglia ad Obama di mandare unità speciali sui fronti siriano e iracheno, per rispondere al ruolo russo. Anche l’Iran manderà altri generali per garantirsi il dopoguerra. La Russia preme sul fronte mediorientale, tanto da poter stravolgere la politica finora seguita dal presidente Usa Obama, "nessuno stivale sul terreno". A fare pressioni sulla Casa Bianca è il Pentagono: secondo quanto riportato ieri dal Washington Post, consiglieri della sicurezza hanno suggerito di spostare truppe di terra in Siria e Iraq. La proposta, dicono fonti anonime, riguarda il dispiegamento di forze speciali in territorio siriano e consiglieri militari sulle linee del fronte iracheno. Anche se dovrebbe trattarsi di numeri limitati, una simile iniziativa richiederebbe l’autorizzazione formale di Obama, il presidente che ha ritirato le truppe dall’Iraq e promesso di non inviarne altre. Ad un anno dalla fine del suo mandato, il presidente è sotto pressione: sempre più numerosi i consiglieri che puntano sui marines a terra, anche se lontani dai combattimenti. Secondo il Washington Post, è possibile che le forze speciali vengano mandate per coordinarsi con i combattenti alleati sul terreno (siriani moderati e kurdi siriani delle Ypg) e per ricevere informazioni di intelligence, ormai assenti dopo la scomparsa dell’Esercito Libero. Nel mirino ci sarebbero la siriana Raqqa e l’irachena Ramadi, roccaforti Isis che, se riprese, indebolirebbero non poco il califfato. Operazioni militari o no, la proposta è indicativa della fretta che pervade l’establishment statunitense alle prese con la prepotenza militare e diplomatica russa. Un ruolo, quello di Mosca, che se preoccupa gli Stati uniti e i loro stretti alleati, fa muovere anche l’Iran: Teheran, che dalla Russia ha ricevuto sostegno e che con Putin condivide il supporto al presidente siriano Assad, starebbe inviando altri consiglieri militari nel paese. L’Iran intende rafforzare la propria presenza, finora gestita dalle Guardie Rivoluzionarie e da 150mila miliziani sciiti, per segnare punti importanti sul campo di battaglia. Abbastanza importanti da sedersi al futuro tavolo del negoziato e partecipare attivamente alla definizione di condizioni finali che tutelino l’asse sciita. Di negoziati torna a parlare il segretario di Stato Usa Kerry che sta organizzando per venerdì a Vienna un nuovo incontro sulla guerra civile siriana e il futuro del presidente Assad. Secondo il Dipartimento di Stato, vi prenderanno parte una decina di paesi arabi e europei. Non è ancora confermata la presenza dell’Iran. Droghe, la società civile dialoga in Europa di Susanna Ronconi (delegata Forum Droghe al Csf) Il Sole 24 Ore, 28 ottobre 2015 Parte da Ungass 2016 - l’assemblea Onu sulle droghe che si terrà a New York - l’impegno della nuova compagine del Civil Society Forum on Drugs (Csf), l’organismo europeo che, sotto l’egida della Commissione, promuove il dialogo tra istituzioni comunitarie e organizzazioni della società civile. Il Csf è stato rinnovato quest’anno, con 45 associazioni in rappresentanza dei paesi membri e di tutte le diverse, a volte contrapposte, visioni sulle droghe (per l’Italia Itaca, Parsec, Forum Droghe e San Patrignano), e rimarrà in carica per tre anni. All’inizio di ottobre, in occasione della prima assemblea del nuovo Csf, a Bruxelles, si è puntato sulla elaborazione di un testo in vista di Ungass, partendo dalla comune valutazione attorno all’importanza che, in quella sede globale, arrivi la voce della società civile europea. Come sempre, quando i contesti sono così variegati dal punto di vista delle posizioni - dal più classico proibizionismo in stile svedese, all’approccio di riduzione del danno, all’orizzonte della normalizzazione - arrivare a un accordo è questione faticosa; il testo per Ungass, tuttavia, contiene alcuni punti cruciali utili a sollecitare un confronto globale aperto e non rituale. Tra questi, innanzitutto l’invito a coniugare meglio e di più le politiche globali sulle droghe con il rispetto dei diritti umani, includendo l’obiettivo di stabilire un correlato set di indicatori per valutare le politiche sotto questo profilo e quello di far prevalere la salute dei consumatori come priorità. A questo proposito vi è anche un chiaro invito a non finanziare alcun intervento o progetto che rischi di non rispettare pienamente i diritti umani fondamentali. Sul piano delle politiche, si invita a trovare alternative tra "proibizione e legalizzazione" in favore di forme di decriminalizzazione del consumo e del possesso per l’uso individuale, l’abolizione della pena di morte nonché lo storno di una quota di fondi, oggi finalizzati alla repressione, verso prevenzione, cure e riduzione del danno. Una raccomandazione sollecita modalità efficaci e basate sull’evidenza di valutazione delle politiche e invita a una "flessibilità verso politiche alternative, consentita dalle stesse convenzioni internazionali"; un’altra sottolinea l’importanza della partecipazione attiva dei diversi soggetti, consumatori inclusi, alla definizione di politiche e interventi. Non è ancora chiaro se il Csf potrà prendere parola direttamente a New York; in questa direzione ci si sta muovendo, anche chiedendo l’appoggio della Commissione Europea. Oltre ad Ungass, il Forum si è dato altre priorità, con altrettanti gruppi di lavoro che dovranno elaborare proposte: il 2016 è l’anno in cui scrivere il nuovo Piano d’azione europeo, sulla base della Strategia 2013-2020, e il Csf dovrà dare indicazioni sulla base dei cambiamenti del fenomeno, delle nuove domande e della valutazione del Piano precedente. Un secondo gruppo riguarda la partecipazione della società civile e dei consumatori nei processi decisionali in tema di droghe a livello nazionale: una buona occasione per noi italiani, che su questo fronte scontiamo anni di silenzio, sordità e latitanza delle istituzioni preposte. Attraverso il Csf abbiamo l’opportunità di dialogare con l’Horizontal Drugs Group (Hdg) a cui partecipano i referenti nazionali per le droghe. All’incontro di Bruxelles tra Cdf e Hdg era presente per il Dipartimento Politiche Antidroga la nuova responsabile, Patrizia De Rose. Vediamo se il cortocircuito Europa-Italia concorre a mettere in moto anche da noi un movimento virtuoso. Brasile: Human Rights Watch "nelle carceri un inferno, stupri, cocaina, violenze" blitzquotidiano.it, 28 ottobre 2015 Per far fronte al disordine, gli agenti penitenziari hanno scelto di consegnare le chiavi delle celle ad alcuni detenuti. Nelle carceri brasiliane il personale è ridotto all’osso e le condizioni detentive sono al limite dell’umano. A dirlo è un rapporto di Human Rights Watch che fotografa una situazione scioccante con agenti che arrivano a consegnare le chiavi delle celle ai prigionieri. Nel gigante sudamericano, infatti, per far fronte alle crescenti condizioni di disordine gli agenti penitenziari hanno scelto di delegare la sicurezza ad alcuni detenuti consegnando loro le chiavi delle celle. Si tratta di una sorta di corpo di sicurezza "speciale" e parallelo a quello ufficiale, metodo al limite dell’illegalità molto usato in Sud America per ristabilire l’ordine. In compenso le guardie lasciano passare attività illecite portate avanti da questi secondini improvvisati e intascano tangenti. Secondo Hrw, "lo Stato ha lasciato che il male prendesse il suo posto". Nelle carceri si segnalano rivolte, sovraffollamento al limite dell’inverosimile, stupri, risse violentissime, vendita di crack e cocaina e detenuti che dormono nei corridoi per mancanza di spazio. Il Daily Mail pubblica gli scatti di Human Rights Watch sconsigliati ad un pubblico sensibile. Libia: Human Rights Watch "Saadi Gheddafi tenuto in isolamento in cella senza finestre" Ansa, 28 ottobre 2015 In isolamento in una cella senza finestre e sottoposto a violazioni dei suoi diritti legali. Si consuma così la detenzione di Al-Saadi Gheddafi, il terzogenito dell’ex leader libico, nella prigione di al-Hadba di Tripoli, secondo la sua denuncia raccolta da Human Rights Watch che ha avuto con lui un incontro il 15 settembre, di cui l’organizzazione per i diritti umani dà conto ora. L’incontro sarebbe il primo con un’organizzazione internazionale da quando Gheddafi è giunto nel paese dopo l’estradizione dal Niger nel marzo 2014. Hrw gli ha chiesto di un video pubblicato in agosto in cui alcuni detenuti tra cui lui, erano sottoposti a maltrattamenti durante gli interrogatori. Al-Saadi Gheddafi ha detto di essere stato "terrorizzato", ma di non volerne parlare. Il processo a suo carico è in corso e il direttore di Human Rights Watch sottolinea che la corte di assise deve garantire i suoi pieni diritti. Il detenuto ha denunciato di non aver avuto un avvocato durante tutta la fase di istruzione del processo e che le autorità gli hanno rifiutato colloqui privati con i suoi avvocati per "problemi di sicurezza". Attualmente Saadi Gheddafi, un passato da calciatore in Italia, è accusato di omicidio di primo grado, di consumo illegale di alcool e di privazione illecita della libertà, mentre la procura sta ancora indagando su reati di tipo finanziario. Marocco: detenuti salafiti vicini al pentimento, aspettano la grazia reale Nova, 28 ottobre 2015 I detenuti salafiti marocchini sono vicini a trovare una soluzione definitiva alla disputa che li vede impegnati contro lo stato marocchino da 30 anni. Secondo quanto rivela il sito informativo marocchino "Hespress", sarebbe vicina al successo l’iniziativa avviata dallo sceicco salafita Hasan Khattab, decano dei fondamentalisti islamici marocchini in carcere con 30 anni di detenzione, il quale insieme a Abdel Razzaq Sumah, da 20 anni in carcere, sta cercando di porre fine alla questione del Movimento dei mujaheddin del Marocco. I membri del gruppo stanno infatti per annunciare il loro pentimento giurando fedeltà al re del Marocco, ottenendo in cambio la grazia reale. Da mesi sono in corso incontri con i capi salafiti in carcere e i funzionari dello stato marocchino che coinvolge 24 detenuti islamici i quali potrebbero essere liberati nelle prossime settimane dietro il pagamento di una cauzione.