Ragazzi che hanno conosciuto la parte più cinica della società di Carmelo Musumeci Ristretti Orizzonti, 27 ottobre 2015 Riflessioni di un ergastolano sugli Stati Generali dell’Esecuzione Penale. Tavolo cinque: Minorenni autori di reati. Spesso i giovani che entrano in carcere da minorenni sono ragazzi difficili che commettano dei reati. Credo che non siano però cattivi. Penso che lo diventano dopo, stando in galera. Nella stragrande maggioranza dei casi i detenuti minorenni vengono da nuclei famigliari complicati. Molti di loro hanno solo sfiorato l’amore di un padre o di una madre. Molti di loro non hanno conosciuto l’amore di una famiglia. Hanno solo conosciuto la parte più cinica della società. Penso che hanno conosciuto prima la cattiveria innocente dei bambini, poi quella dispettosa dei ragazzi e alla fine quella malvagia del carcere. Credo che molti giovani detenuti diventeranno da adulti dei delinquenti perché in carcere si sentono soli e indifesi. E si convincono che nel mondo nessuno gli voglia bene. La prima volta che entrai in carcere avevo sedici anni e l’impatto fu tremendo. Fu anche la prima volta che un gruppo di guardie mi massacrò di botte. A dire la verità un po’, ma solo un pochino, me lo meritavo. Avevo tirato un piatto di patate in faccia al brigadiere. Non lo dovevo fare. Ma era stato più forte di me. Non riuscivo a stare zitto se mi offendevano mia madre. E il brigadiere mi aveva chiamato figlio di puttana perché mi ero lamentato, avevo fame, che le patate erano poche e crude. Mi ricordo che le guardie mi erano entrate in cella e mi saltarono addosso tutte insieme. Mi riempirono di calci e pugni. Soffrii più per le parolacce che mi dicevano che per le botte. Non dissi però nulla. Non gridai. E non mi lamentai come facevano gli altri ragazzi quando venivano picchiati. Non diedi alle guardie questa soddisfazione. Loro s’incazzarono ancora di più. E mi picchiarono ancora più forte. Mi ricordo che mi rannicchiai in un angolo e mi coprii il viso e la testa con le gambe e le braccia. Il pestaggio durò dieci minuti, ma mi parve una eternità. Quando andarono via piansi come un ragazzino perché in fondo, anche se avevo commesso quella c. di rapina in un ufficio postale con una pistola giocattolo, ero solo un ragazzo. Avevo dolore dappertutto, ma quello che mi faceva più male era l’umiliazione e l’impotenza. Mi ricordo che giurai a me stesso che da grande mi sarei vendicato contro tutti e tutto, contro la società e il carcere. E credo di esserci riuscito perché quando uscii dal carcere da maggiorenne avevo appreso la cultura e la mentalità per diventare un criminale. Pensavo che certe cose nelle carceri minorile non accadevano più, ma un giovane detenuto pugliese, Andrea, che faceva parte della redazione di "Ristretti Orizzonti" mi ha raccontato che le cose non sono cambiate così radicalmente dai miei tempi. Adesso nelle carceri minorili le punizione non sono più fisiche come in passato, sono molto più sottili. E spesso più che sul corpo ti picchiano sul cuore e sull’anima. Sono convinto che le carceri minorili sono delle vere e proprie fabbriche di delinquenza per creare i detenuti che riempiranno le carceri da adulti. Non credo che ci sia la possibilità di migliorare o riformare le carceri minorili, si può solo abolirle perché chiudere un ragazzo in una cella è un crimine ancora più brutto di quello che lui ha commesso. Penso spesso che forse se non fossi stato in carcere da minorenne non sarei diventato il criminale che sono diventato dopo. Non ne sono però sicuro. Forse lo sarei diventato lo stesso, ma una cosa è certa, i giovani sono più influenzabili degli adulti. E durante la mia carcerazione da minorenne è cresciuto il mio odio verso lo Stato e tutte le istituzione che lo rappresentano. Giustizia: Dambruoso (Sc) "per contrasto alla recidiva fornire occasioni di recupero" Dire, 27 ottobre 2015 Il Questore della Camera dei Deputati, Stefano Dambruoso si è recato stamane in visita all’istituto di pena di Bollate di Milano, in occasione dell’apertura al pubblico del ristorante proprio all’interno dell’istituto penitenziario ed a venti metri dall’ingresso dell’Expo. Si tratta della prima iniziativa del genere in Italia, il ristorante interno al carcere aperto al pubblico con i detenuti al lavoro, a seguito di un periodo di formazione in un corso professionale. Presente anche il sottosegretario all’istruzione Toccafondi. "Da magistrato - ha detto Dambruoso durante l’incontro - ho contribuito a far arrestare mafiosi e terroristi ma ho sempre creduto che l’art. 27 della Costituzione che prevede il recupero e la fase emendativa del detenuto in espiazione debba essere valorizzato". Il magistrato prestato alla politica, ha ribadito l’importanza delle iniziative volte non solo al recupero ma anche capaci di rendere dignitosa la vita all’interno delle carceri, tant’è che si è reso promotore personalmente finanziando un corso di arte-terapia all’interno dello stesso carcere di Bollate consentendo a oltre 20 detenuti di apprendere l’arte del disegno e la conseguente acquisizione di creatività. Dambruoso in tale contesto ha spiegato che garantire ai detenuti un impegno quotidiano e di recupero possa servire: "Evitare che i detenuti non facciano nulla in carcere diminuirà la possibilità che appena in libertà tornino a commettere crimini". Per quanto riguarda invece la questione del sovraffollamento, Dambruoso ha focalizzato due questioni: "Come membro in Commissione Giustizia di Scelta Civica mi sono attivato per la costruzione di nuovi istituti di pena perché da magistrato e parlamentare sono convinto che sia prioritaria la certezza della pena e della sua esecuzione". "Pena certa da scontare in luoghi dignitosi: solo così il nostro Paese non sarà più condannato al pagamento di salatissime penali per sovraffollamento carcerario in luoghi indecorosi come è accaduto in tempi recenti. Nessun buonismo - ha concluso Dambruoso - quindi: pena certa e carceri sicure dove svolgere attività di recupero per evitare la recidività criminale". Giustizia: l’Anm vero e proprio sindacato, come mai Mattarella non va al congresso Cgil? di Marco Bertoncini Italia Oggi, 27 ottobre 2015 C’è da chiedersi perciò come mai i presidenti della Repubblica presenzino ai suoi congressi. Il congresso dell’Anm ha confermato quello che un quotidiano solido interprete di giudici e procuratori quale la Repubblica aveva anticipato: "I dem non sono più il nostro baluardo", era il titolo di un articolo dell’impagabile Liana Milella il 24 settembre. Passato giusto un mese, e il 24 settembre, stesso giornale, stessa articolista, ecco il titolo sull’ira di Matteo Renzi: "Non possono trattarmi come Berlusconi". In termini canonistici, diremmo che è la doppia conforme: l’appello ha confermato il primo grado. Le doglianze dei magistrati si ripetono e vedono in primo piano questioni come ferie, intercettazioni, prescrizione, che intaccano direttamente il loro lavoro. Non per nulla l’Anm è un sindacato: il sindacato, oggi unico, delle toghe. A questo riguardo ci sarebbe da chiedersi come mai i presidenti della Repubblica presenzino ai congressi dell’Anm: salvo errori, è l’unica manifestazione pubblica di un sindacato cui il titolare del Colle si faccia vedere seduto in prima fila. Non risulta che il capo dello Stato partecipi ai lavori della Confindustria o della Cgil o del sindacato dei prefetti o degli scrittori o dei diplomatici. Le rivendicazioni sindacali dei magistrati, all’evidenza, si mimetizzano da contributo essenziale alla legislazione, puntualmente contestata da chi dovrebbe solo applicarla e non già redigerla. È un fatto che Renzi stia sul gozzo a molti magistrati. Basterebbe già la legge sulle ferie a farlo diventare bestia nera; a renderlo il nemicissimo si aggiungono disposizioni e proposte sull’ingiusta detenzione, sulla responsabilità civile dei magistrati, sulla durata delle indagini e dei processi (non passa nemmeno per la mente di molti giudici e procuratori che un cittadino non può restare indagato per anni, addirittura per decenni, con quel che ne patisce in termini di vita, lavoro, rapporti sociali). Servono a poco le riflessioni argomentate del guardasigilli, cui molti rimproverano ancora il programma del Pd in tema di giustizia pubblicato addirittura sul Foglio, quotidiano fra i più aborriti dal partito dei magistrati. A nulla valgono gli appelli retorici, con accenti a metà fra i richiami quirinalizi e le sollecitazioni pontificie, della ministra per le Riforme. Renzi se n’è accorto bene: i magistrati ce l’hanno con lui e non considerano più il suo partito come la formazione politica di solido e sicuro riferimento, cui affidare pattuglie di propri esponenti da mandare in Parlamento, in enti locali, ai vertici di autorità pubbliche. Si è rotto quel rapporto che faceva sì che sovente i democratici fossero cassa di risonanza per le rivendicazioni corporative dei magistrati. Se, però, primo grado e appello, hanno visto, in poche settimane, la condanna del Pd da parte del partito dei magistrati, resta sempre la Cassazione, ultimo grado di giudizio. Può darsi che nei mesi prossimi Renzi debba cedere, perché richiamato all’ordine (sia dal proprio ministro della Giustizia, sia da altri esponenti democratici pronti a sentire gli stimoli della magistratura) ovvero perché intimorito da qualche indagine sgradita sbucata, non si dice a orologeria, ma senz’altro nel momento opportuno. In quel caso il terzo grado l’assolverebbe, riportando il Pd in vetta ai partiti prediletti dai magistrati. Giustizia: la balla dell’equilibrio tra poteri di Claudio Cerasa Il Foglio, 27 ottobre 2015 I peccati - nei rapporti tra politica e procure - che legittimano i tentativi di restringere l’azione dei pm. Ogni volta i giornali ci cascano e ogni volta che un governo ha l’occasione di scontrarsi con il mondo della magistratura la tentazione è sempre la stessa: descrivere le dinamiche del conflitto come se si trattasse di un confronto alla pari tra due pugili appartenenti alla stessa categoria. Chi parte dal presupposto che quello tra politica e magistratura sia un confronto sostanzialmente alla pari commette però un grave errore che porta a perdere di vista il punto centrale della questione. Lo scontro tra potere esecutivo (e legislativo) e potere giudiziario non è legato solo al contenuto di questa o quella riforma ma è legato a un problema più grande che riguarda una premessa che dovrebbe essere scontata e che invece non lo è. In Italia non può esistere un confronto alla pari tra politica e magistratura per la semplice ragione che nel nostro paese la magistratura, o almeno una buona parte di essa, ha sempre considerato una sua specifica prerogativa quella di poter interferire con i processi della politica. Da questo punto di vista, il principio della separazione dei poteri è una delle tante truffe linguistiche che hanno impedito di osservare quello che è successo in Italia negli ultimi vent’anni. E se non si parte dal presupposto che il nostro paese ha dovuto fare a lungo i conti con una classe politica irresponsabile che in molte occasioni ha offerto ai magistrati l’opportunità di trasformare le procure in avamposti della lotta di classe si continuerà a osservare il dito invece che la luna; e si continuerà a non capire che voler limitare il raggio d’azione dei magistrati non significa voler togliere loro strumenti necessari a svolgere le indagini, ma significa voler togliere loro strumenti che hanno permesso alla magistratura di giocare sporco con le armi del processo mediatico. Il terreno su cui si gioca lo scontro tra potere giudiziario e potere esecutivo è dunque questo e bisogna mettere tutto insieme per capire quali sono le ragioni per cui il potere giudiziario tende spesso a uscire dal suo angolo. C’entrano i vuoti lasciati dalla politica. C’entra lo spirito corporativo di difesa nei confronti di chiunque provi a riportare equilibrio tra politica e magistratura. C’entra l’idea che il magistrato svolga nella società non solo un ruolo primario nella lotta all’illegalità ma anche un ruolo pedagogico e persino di indirizzo politico. I motivi per cui l’Anm - giocando di sponda con un’opinione pubblica che si è abbuffata per anni di avvisi di garanzia o intercettazioni smozzicate spacciate per sentenze di condanna - reagisce con durezza, quando emerge un esecutivo convinto di dover restringere lo spazio di azione esercitato dal sistema giudiziario, sono questi e lo schema in fondo è sempre lo stesso. Prima si accusa il governo di voler mettere la museruola ai magistrati. Poi si usa il tema delle intercettazioni in modo strumentale, fingendo che in gioco ci sia non il diritto che viene contestato (il diritto di sputtanare e di pubblicare intercettazioni che riguardano persone terze estranee alle indagini) ma un diritto che nessuno in realtà contesta (la libertà di stampa e il diritto di fare intercettazioni). Lo schema prevede infine un capitolo che non auguriamo a Renzi: il passaggio rapido da scontro verbale, scontro cioè giocato a colpi di parole, a scontro non verbale, scontro cioè giocato a colpi di procure e di mascariamenti. Sul primo passaggio ci siamo già. Sul secondo passaggio vedremo presto se ha ragione chi sostiene oggi che non si tratta di capire se succederà, ma ormai si tratta solo di capire quando. Giustizia: la rotta di Palazzo Chigi nel conflitto con le toghe "diamogli tutto ma non alibi" di Francesco Verderami Corriere della Sera, 27 ottobre 2015 "Diamogli tutto ma non diamogli alibi": così Renzi intende continuare a muoversi al confine di quel Trentottesimo parallelo che divide il governo dalla magistratura, come fossero due Coree. Il premier non vuol dare appigli alle toghe mentre in Parlamento porta avanti il progetto della riforma penale che comprende la pietra dello scandalo: le intercettazioni. La missione della Boschi al congresso dell’Anm, il suo appello al "reciproco rispetto", non metteva certo in conto la possibilità di far cadere il muro tra l’esecutivo e il sindacato dei giudici, semmai il ministro per le Riforme si era recata a Bari preoccupata di non diventare una sorta di capro espiatorio davanti a una platea ritenuta ostile. E comunque ci aveva pensato il Guardasigilli Orlando a ribadire con toni diplomatici la linea di Renzi e il suo messaggio ai magistrati: "Fate autocritica". Nulla è cambiato nei rapporti, ovvio, né poteva essere diversamente. Perché la guerra fredda continua e le scaramucce alla linea di frontiera si susseguono. Un altro focolaio di crisi viene monitorato dal governo: è un atto del Csm che potrebbe far scoppiare l’ennesimo episodio del conflitto tra potere politico e ordine giudiziario. Per ora il caso non ha avuto l’impatto mediatico provocato dalle assise sindacali dei giudici, ma alla lunga potrebbe produrre effetti clamorosi. Tutto ruota attorno alla delibera approvata la scorsa settimana dal Consiglio superiore della magistratura che chiede di fatto al Parlamento di impedire un ritorno al loro ruolo per quei magistrati che hanno avuto incarichi politici. "Dopo 70 anni si dice una parola chiara su questa controversa materia", aveva subito commentato il vicepresidente del Csm Legnini. Ma al momento del voto aveva colpito il fatto che - a fronte dell’unanimità del plenum - l’unico ad astenersi fosse stato il rappresentante laico del centrosinistra, Fanfani, espressione del Pd. Guarda caso, proprio dai Democratici è partita una bordata contro l’organo di autogoverno dei magistrati, che il responsabile giustizia Ermini ha camuffato da interrogativo: "Come mai nei decenni passati al Csm erano rimasti tutti zitti, mentre in politica facevano carriera magistrati con nomi famosi e inchieste famose alle spalle? Come mai si solleva la questione solo adesso che in Parlamento ci sono pochi magistrati e poco noti?". La risposta l’aveva già data riservatamente Orlando a Palazzo Chigi: "Ce l’hanno con la Ferranti", l’attuale presidente della commissione Giustizia alla Camera. Un passato da pm, un presente da deputata del Pd, la Ferranti - raccontano i suoi compagni di partito - sarebbe stata presa di mira dai suoi (ex) colleghi togati, che non le avrebbero perdonato di non essersi opposta alla legge sulla responsabilità civile dei magistrati. La delibera del Csm viene quindi vissuta dai Democratici come "una sorta di fatwa per alto tradimento", come la richiesta di una "norma contra personam". Ecco il motivo per cui il Pd è uscito allo scoperto, per difendere la Ferranti, che nei suoi colloqui privati dice di esserci rimasta "assai male", ammettendo di essere ormai "un bersaglio". Ce ne sarebbe traccia - così ha confidato - nelle chat dei magistrati in cui è fatta oggetto di "offese". E ce ne sarebbe la prova persino nella delibera del Csm, che invece di essere classificata come "risoluzione" è passata come "proposta", un atto formale più importante, in base al quale il Guardasigilli viene "impegnato" a intervenire: "Quando mai è successo una cosa del genere", ha fatto notare la presidente della commissione Giustizia della Camera ad autorevoli esponenti del suo partito. Il Pd riconosce la validità del principio contenuto nella delibera del Csm, ma dentro quell’atto scorge i rischi di un nuovo scontro tra politica e magistratura. Per evitarlo, il vice ministro alla Giustizia di Ncd Costa ritiene "indispensabile una norma transitoria, perché non può esistere una legge che si applica retroattivamente. Comunque sono pochi i casi". E siccome in Parlamento di casi simili c’è (quasi) solo la Ferranti, sarà per questo che al Csm il democratico Fanfani si è astenuto? Giustizia: in Veneto Liguria e Lombardia avvocato pagato se usi un’arma contro i banditi di Alessia Pedrielli Libero, 27 ottobre 2015 Basta discriminazioni: se il delinquente può godere del gratuito patrocinio, anche l’onesto cittadino che si difende, avrà questo diritto. A stabilirlo è la legge che la Regione Veneto andrà ad approvare nelle prossime settimane: 150 mila euro di fondi per sostenere le spese legali di chi, rapinatori alle porte, dovesse decidere che è meglio reagire piuttosto che soccombere. E, per questo, dovesse finire poi nel girone di "color che hanno ecceduto". La bozza del provvedimento è stata depositata ieri, prima di arrivare al voto dovrà passare al vaglio della Commissione Affari Istituzionali, ma la firma in calce del governatore Luca Zaia blinda, di fatto, la proposta. "Non è possibile che qualsiasi reo possa godere di indubitabili benefici normativi, tra cui il patrocinio gratuito, mentre una persona irreprensibile che osi difendersi non possa espletare il suo sacrosanto diritto e si veda addirittura incriminata", recita la premessa al documento, presentato dal capogruppo Lega Nord, Nicola Fineo, che è il secondo firmatario. Per questo, "la Regione, al fine di dare sostegno alle vittime della criminalità" istituisce un fondo che potrà essere utilizzato "nei procedimenti penali perla difesa dei cittadini che, vittime di un delitto contro il patrimonio o contro la persona, siano accusati di eccesso colposo di legittima difesa o di omicidio volontario". L’ammissione al patrocinio "sarà valida per ogni grado e per ogni fase del giudizio" e le somme da erogare a copertura delle spese legali, verranno calcolate sulla base del reddito dei malcapitati cittadini. La proposta della Lega si ispira, anche nelle cifre stanziate, alla legge sul gratuito patrocinio già approvata nel giugno scorso dalla Regione Lombardia (ma ora anche la Liguria si muoverà in questa direzione) e, inoltre, andrà ad integrare un progetto sempre a firma del capogruppo Finco, depositato lo scorso agosto, che già prevedeva un fondo da l,5milioni di euro perle persone anziane vittime della criminalità. Per evitare un effetto boomerang in termini di voti, visti gli umori degli italiani, quando la questione fu sottoposta al consiglio regionale a Milano, il Pd non se la senti di opporsi e si limitò ad una blanda astensione. E anche in Veneto pare che andrà così. In realtà, una bozza di legge del tutto simile, la Lega l’aveva già messa sul tavolo durante l’epoca Galan, ma il tutto naufragò nel mare magnum dei tentennamenti Ncd. Ora, ad imporre un’accelerata è stato il caso di Vaprio D’Adda con l’accusa di omicidio affibbiata a Francesco Svignano, il pensionato che ha sparato, uccidendo un ladro che gli stava entrando in casa. Ma la questione era già urgente per i veneti: appena due settimane fa, infatti, il vicentino Ermes Mattielli è stato condannato a cinque anni e quattro mesi di carcere per aver sparato, nel 2006, a due rom che si erano introdotti nella sua proprietà e che gli stavano rubando il rame che lui raccoglieva come rigattiere. I due rimasero feriti e ora Mattielli, che è pure invalido civile, dovrà risarcirli di ben 135mila euro. Che ovviamente, essendo un rigattiere sotto processo da nove anni, non sa dove trovare. E poi c’è Graziano Stacchio, il benzinaio vicentino finito sotto processo per aver ucciso a febbraio un rapinatore, giostralo, che insieme a tre complici, armati e con i volti coperti dai passamontagna, stava sfondando a picconate la vetrina di una gioielleria. Stacchio sparò in aria, il rapinatore rispose al colpo, allora sparò alle gambe, ma il rapinatore mori comunque. Per questo è indagato per eccesso colposo di legittima difesa. La proposta di legge della Lega porta il suo nome. Giustizia: il ddl che istituisce il nuovo reato di omicidio stradale e gli "sconti" sull’alcol di Maurizio Caprino Il Sole 24 Ore, 27 ottobre 2015 Le proteste per l’ammorbidimento delle pene in alcuni casi non rallentano il passaggio dell’omicidio stradale alla Camera. Il Ddl che istituisce il nuovo reato (introducendo nel Codice penale l’articolo 589-bis) ha superato ieri la boa della discussione generale in Aula senza che emergessero contrasti politici. Non ha dunque influito la manifestazione svolta in contemporanea da alcune associazioni fuori da Montecitorio contro gli emendamenti approvati la settimana scorsa dalle commissioni Giustizia e Trasporti, che hanno tra l’altro diminuito la pena minima nei casi "intermedi" di guida in stato di ebbrezza (tasso alcolemico da 0,81 a 1,5 g/l) e di velocità particolarmente elevate (in città, doppie rispetto al limite e comunque non inferiori a 70 km/h; fuori città, l’eccesso deve essere di almeno 50 km/h): si scende dai sette ai quattro anni, comunque uno in più di quanto previsto dall’articolo 589 del Codice penale oggi in vigore per casi più gravi come alcol oltre 1,5 g/l e droga (il massimo della pena resta a 10 anni). Così Paolo Gandolfi (Pd), relatore del provvedimento, prevede che il via libera definitivo possa esserci già tra questa settimana e la prossima, in modo che il testo possa poi tornare al Senato per l’approvazione definitiva entro fine anno. "Alla Camera - dichiara Gandolfi al Sole 24 Ore - potremmo tardare solo se nei prossimi giorni si protraesse la discussione sul Codice degli appalti". In ogni caso, il sostanziale accordo sul provvedimento non dovrebbe essere influenzato dalle turbolenze politiche su altri temi. Potrebbero quindi restare tutti gli emendamenti approvati in commissione, che peraltro prevedono anche inasprimenti rispetto al testo licenziato a giugno dal Senato. Soprattutto, c’è l’ampliamento dei casi in cui scatta l’omicidio stradale: oltre a una parte di quelli legali ad alcol, droga e velocità, sono stati inclusi il passaggio col rosso, la circolazione contromano, l’inversione di marcia in corrispondenza di dossi, curve e incroci e il sorpasso con linea continua o vicino alle strisce pedonali. Tra le alte novità, il dimezzamento della pena previsto dal Senato quando la colpa non è tutta del trasgressore viene ristretto al caso in cui ci sia una condotta colposa della vittima. E l’aggravante in caso di fuga porta a un aumento di pena da uno a due terzi e comunque non inferiore a cinque anni; nel testo del Senato poteva andare da un terzo alla metà. Giustizia: rivolta delle madri della ‘ndrangheta "salvate i nostri figli da un futuro criminale" di Francesco Viviano, 27 ottobre 2015 La Repubblica, 27 ottobre 2015 "Di notte ha gli incubi, si sveglia, prova a parlare ma non gli esce la voce, poi quando ce la fa racconta di morti ammazzati, pistole. E se gli chiedo cosa ha sognato inizia a piangere: "mamma ho sognato lo zio morto ammazzato in quell’agguato, ho paura che anch’io o papà possiamo morire così". Questo è lo sfogo di una donna di ‘ndrangheta che bussa alla porta del Tribunale dei Minori di Reggio Calabria in cerca di aiuto. Chiede ai magistrati di "salvare" il figlio da un destino certo: quello di mafioso, killer oppure vittima di una delle tante faide calabresi che sembrano non finire mai. Ma il grido di Maria (nome di fantasia, ndr) non è l’unico. Da anni sono molte le donne che, sfidando la vendetta dei mariti o di altri componenti della famiglia si rivolgono a giudici del Tribunale dei Minori per salvare i loro figli. È una rivolta difficile e silenziosa per sfuggire al controllo della "famiglia" quella delle madri calabresi che, pur di dare un futuro diverso ai loro figli, rischiano la morte e con vari stratagemmi riescono a far giungere messaggi e richieste di aiuto al Tribunale di Reggio. Perché molte madri, a parte quelle che scelgono di "collaborare" con la giustizia, chiedono che il figlio venga allontanato da quel contesto senza esporsi in prima persona. "Non possono dirlo apertamente, perché allontanare da casa un figlio della ‘ndrangheta significa andare incontro a numerose criticità", spiega Roberto Di Bella, Presidente del Tribunale dei Minori di Reggio Calabria. Quello di Reggio è l’unico Tribunale d’Italia che ha intrapreso la strada dei "liberi di scegliere", adottando una serie di provvedimenti pericolosi, disponendo l’allontanamento di una ventina tra ragazzi e ragazze dalle loro stesse famiglie, inviandoli fuori dalla Calabria, lontani dal contesto mafioso, in strutture specializzate dove possono conoscere e sperimentare una nuova vita. Il ricorso contro la revoca del gratuito patrocinio va notificato al ministero della Giustizia di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 27 ottobre 2015 Corte di Cassazione - Sezione II - Sentenza 26 ottobre 2015 n. 21700. In tutti i casi in cui si agisce per contestare la revoca dell’ammissione al gratuito patrocinio il ministero della Giustizia è parte necessaria del processo, sia che si tratti dell’opposizione davanti alla Corte d’appello sia che si tratti del successivo ricorso in Cassazione. Questa, in sintesi, la pronuncia della Corte di cassazione contenuta nella sentenza n. 21700/15, depositata ieri. Nonostante abbia dichiarato il ricorso inammissibile, la Corte ha pronunciato un importante principio interpretativo a norma della seconda parte del primo comma dell’articolo 384 del Codice di procedura civile: rivestendo il ministero della Giustizia, il ruolo di debitore per il pagamento della prestazione legale a favore di persone non abbienti, esso è parte necessaria del processo di opposizione o di impugnazione per motivi di legittimità. La vicenda - Nel caso specifico la revoca del beneficio delle spese legali a carico dello Stato era stata disposta a norma del secondo comma dell’articolo 136 del Testo unico in materia di spese di giustizia (Dpr 115/2002): ossia la revoca per aver l’interessato agito in giudizio con mala fede o colpa grave. L’ordinanza del presidente della Corte d’appello confermava il provvedimento di revoca, pur non rilevando il difetto di inammissibilità - già in questa fase del giudizio - sempre per la mancata notificazione al ministero della Giustizia, in quanto parte necessaria. Rilievo contenuto, invece, nella sentenza della Cassazione che dichiarava inammissibile anche il ricorso davanti a sé per la mancata instaurazione del contraddittorio col Ministero per mancata notificazione dell’atto introduttivo. Le norme applicate - La Corte di cassazione, in questa occasione, puntualizza quanto già espresso dalle sezioni semplici e unite civili. In mancanza di una norma specifica, la giurisprudenza della Cassazione aveva già riconosciuto l’applicabilità dell’articolo 170 del Testo unico, in realtà previsto per l’impugnazione della liquidazione delle spese a favore degli ausiliari del giudice e dei custodi. Strumento definito dalla giurisprudenza di legittimità "generale" ed esperibile contro tutti i decreti di liquidazione anche quando la neghino in radice. Secondo le sezioni Unite, il procedimento che si viene a instaurare è di natura patrimoniale e incide direttamente sulla consistenza di un diritto soggettivo e, di tale procedimento è quindi parte necessaria ogni titolare passivo del rapporto di debito in questione. Ma l’individuazione dell’amministrazione competente è ciò che va definita. Per quanto attiene all’impugnazione del provvedimento che rigetta l’istanza di ammissione al gratuito patrocinio di sicuro parte necessaria del procedimento è in tal caso l’ufficio finanziario che nega i requisiti patrimoniali per il beneficio, e cioè l’Agenzia delle entrate. Ma fermo restando che concretamente la liquidazione delle spese legali nel gratuito patrocinio sono a carico del ministero della Giustizia, quando si tratta della revoca del beneficio l’impugnazione del relativo provvedimento e il successivo ricorso per cassazione è pacifico che vadano notificati al ministero della Giustizia in quanto debitore. Pedopornografia per l’allenatore che filma i ragazzi nello spogliatoio di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 27 ottobre 2015 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 26 ottobre 2015 n. 42964. Scatta il reato di produzione, e poi detenzione, di materiale pedopornografico per l’allenatore della squadra di calcio dilettantistica che riprende di nascosto le parti intime dei ragazzi, in questo caso minori di 14 anni, mentre si trovano negli spogliatoi, e poi lo archivia su hard disk esterni al pc. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 42964/2015, chiarendo che non conta il fatto che le vittime fossero del tutto inconsapevoli di essere filmate. Il caso - L’allenatore, condannato a 3 anni e mezzo, con l’aggravante di essere la persona cui i minori erano stati affidati, si era difeso negando la natura "pedopornografica" della riprese in quanto non contenevano alcun atteggiamento di natura "sessuale", né postulavano alcun coinvolgimento attivo dei minori. Inoltre, l’assenza di programmi di file sharing sul suo computer doveva ritenersi elemento sufficiente ad escludere il pericolo di diffusione delle immagini. La nuova norma - I fatti contestati risalgono al 2011, dunque la Suprema corte ricorda che non trova applicazione la disciplina "più rigorosa" introdotta dalla legge 172/2012, in esecuzione della Convenzione di Lanzarote del 2007, che ha aggiunto un comma all’articolo 600-ter del codice penale. Dotandolo di quella definizione del reato che il legislatore non aveva voluto fornire nella precedente formulazione della norma, lasciando la valutazione caso per caso all’interprete. Ad oggi dunque per pornografia minorile deve intendersi "ogni rappresentazione, con qualunque mezzo di un minore degli anni diciotto coinvolto in attività sessuali esplicite, reali o simulate, o qualunque rappresentazione degli organi sessuali di un minore di anni diciotto per scopi sessuali". La fattispecie è più stringente, spiega la sentenza, "perché, pur essendo temperata dal riferimento agli "scopi sessuali"" ricomprende nel concetto di pedopornografia anche la sola rappresentazione degli organi sessuali e non più "l’esibizione lasciva degli stessi". Un elemento quest’ultimo che, invece, secondo la Cassazione, aveva fatto da spartiacque. In particolare, e per assicurare alla norma penale la necessaria "determinatezza", si richiedeva sempre "una connotazione esplicitamente sessuale" delle immagini. Il ragionamento - E tuttavia per i giudici il materiale pornografico sequestrato, costituito da fotografie e film, è comunque "connotato dal carattere lascivo dell’esibizione dei genitali o della zona pubica o dalla rappresentazione di atteggiamenti sessualmente allusivi". In quanto da esso "emerge una paziente e impegnata ricerca dei momenti in cui i ragazzi assumono posizioni che si concretizzano in atteggiamenti lascivi ed eroticamente eccitanti, pur se non volontariamente assunti dalle giovani vittime". Del resto, come detto, la definizione di pedopornografia non richiede i requisiti della "consapevolezza del soggetto passivo, dell’interazione di questo con il soggetto attivo, o dell’assunzione volontaria di pose eroticamente eccitanti, essendo la stessa ancorata strettamente al solo dato oggettivo". Anche a prescindere, dunque, "dalle motivazioni o dall’eccitazione sessuale del soggetto attivo". Infine, riguardo al requisito della "esibizione", non è necessaria l’effettiva diffusione del materiale ma è sufficiente la sua "possibilità", e senza dubbio l’archiviazione su di un hard disk esterno si presta a tale evenienza. Lettera aperta ai componenti del Tavolo 15 degli Stati Generali dell’Esecuzione Penale Ristretti Orizzonti, 27 ottobre 2015 "Operatori penitenziari e formazione". Abbiamo letto il rapporto di medio termine elaborato dal Tavolo 15, che riteniamo di fondamentale importanza anche ai fini del lavoro degli altri Tavoli. Ci dispiace non aver individuato fra i componenti nessuna delle altre figure professionali che da quasi quaranta anni operano in carcere, oltre ai Direttori e ai tre rappresentanti della Polizia Penitenziaria, e vorremmo pertanto contribuire al dibattito, seppure dall’esterno. Concordiamo pienamente con le premesse e con l’obiettivo di "semplificazione dell’attuale modello organizzativo e di gestione del personale nonché di una riconciliazione delle varie famiglie professionali che, a distanza di 40 anni, non hanno ancora maturato un senso comune di appartenenza". La prima ipotesi formulata dal tavolo appare coerente con questo obiettivo: il sentimento di appartenenza non può maturare in un contesto in cui le diverse famiglie professionali ricevono input di segno opposto sul piano degli obiettivi istituzionali e diverso trattamento in termini contrattuali. Abbiamo molto apprezzato il focus sulla dicotomia Polizia penitenziaria/Amministrazione, che legittimamente e finalmente sostituisce nella cultura collettiva la dicotomia sicurezza/trattamento. "Legittimamente" perché questa è la realtà dei fatti, ma non possiamo certo essere fieri della strada percorsa. Possiamo "riconoscerci" tutti in un Corpo di Giustizia dello Stato. Se questo implica pari dignità delle funzioni e delle specializzazioni. Non vogliamo più essere appendice, corpo estraneo, né snaturare d’altro canto le nostre funzioni e competenze. Vorremmo che si superi la dicotomia Polizia penitenziaria /Amministrazione a favore di una amministrazione unica, in cui tutti siano valorizzati e ricevano il riconoscimento dovuto, non solo la Polizia penitenziaria, come purtroppo anche in questa ipotesi appare prioritario. Ricordiamo al Tavolo n 15 che - per gestire i detenuti presenti negli IIPP con il fine di lavorare al reinserimento sociale, come la Costituzione impone - lo Stato impiega oggi meno di mille educatori e circa 37.000 poliziotti, le cui figure apicali sono già oggi il doppio dei Dirigenti penitenziari. La seconda ipotesi sconcerta profondamente. Essa appare infatti portatrice di disarmonie e conflitti ancora più stridenti di quelli attuali, che hanno prodotto il "debito di legalità, di sicurezza e di risocializzazione" che oggi l’Amministrazione penitenziaria è chiamata a saldare. L’ipotesi di rivedere funzioni e competenze del direttore di istituto e di valorizzare e responsabilizzare le altre professionalità, ciascuna nel proprio settore, sembra non tenere conto proprio della incapacità di maturare il senso comune di appartenenza denunciato in premessa. Se questo sentimento avesse attecchito e fosse radicato, allora una simile proposta potrebbe avere senso: una consapevole e serena collaborazione nella convinzione comune di perseguire gli stessi chiari obiettivi. Ma non ora. Non siamo assolutamente pronti. Non si può sottacere che le azioni di ciascun settore si ripercuotono necessariamente in tutte le altre aree di intervento e in tutti i servizi dell’istituto, e che il destinatario di tutti gli interventi è unico e comune, la popolazione in esecuzione penale. E’ proprio questa l’origine del conflitto e della dicotomia di cui tutti sono coscienti, e la soluzione prospettata non farebbe che sancire la dicotomia, istituzionalizzando la "legge del più forte". L’impianto della legge penitenziaria, e le circolari che si sono succedute nel tempo, hanno tentato - purtroppo senza riuscirci - di armonizzare gli obiettivi istituzionali dando via via sempre più spazio alla valorizzazione delle diverse figure professionali. Fino a qualche anno fa persisteva almeno il rispetto formale dell’impianto teorico e organizzativo, ma nel corso degli ultimi anni si è assistito al venir meno persino della forma, nella scontata subordinazione del mandato risocializzante alle supposte esigenze di sicurezza, ed anche nella subordinazione di fatto degli operatori del trattamento all’autorità riconosciuta del responsabile dell’area sicurezza. Le conseguenze sono note a tutti. Questo processo appare estremamente pericoloso in termini di tenuta democratica, venendo ad indebolire via via l’organo di tutela superpartes, cioè il dirigente di ruolo civile, in barba peraltro alla Raccomandazione Re (2006)2 del Comitato dei Ministri agli Stati Membri sulle Regole penitenziarie europee, Regola 71. La seconda ipotesi prospettata dal Tavolo 15 va a nostro avviso in questa direzione, mentre la convocazione degli Stati Generali sull’Esecuzione Penale aveva riacceso un filo di speranza di poter procedere in senso opposto. Ci sembra indispensabile non perdere questa preziosa occasione, per la quale siamo grati all’attuale Ministro della Giustizia, affinché le persone in esecuzione penale possano ricevere dallo Stato l’attenzione dovuta e opportunità concrete di responsabilizzazione e reinserimento. E solo così potremo svolgere, come Amministrazione dello Stato, anche quel ruolo non secondario di tutela della sicurezza collettiva che la Costituzione ci richiede. Sottoscrivono Liliana Lupaioli (Prap Firenze); Monica Sarno (Prap Firenze); Grazia Inciardi (CC Roma Rebibbia); Marina Fedeli (OPG Montelupo); Milvia Benucci(OPG Montelupo) ; Elisabetta Beccai (CC M. Gozzini Firenze); Marilena Rinaldi (CC Massa Marittima); Gianna Maschiti(CC M. Gozzini Firenze) ; Giuseppina Canu (CR Porto Azzurro); Liberata Di Lorenzo (CC Pisa);Sabrina Falcone (CC Roma Rebibbia); Cristina De Santis (CC Livorno); Maria Bevilacqua (CR San Gimignano); Cecilia Mattioli (Prap Firenze); Filomena Moscato (CC Frosinone); Alessandro Cini (CR Volterra); Amelia Ciompi (DAP DGDT); Fabiola Papi (CC Arezzo). Foggia: a Masseria Giardino cresce l’orto curato dai detenuti foggiani teleradioerre.it, 27 ottobre 2015 È terminata la raccolta degli ortaggi della stagione estiva da parte dei detenuti dell’istituto penitenziario foggiano, inseriti nel protocollo d’intesa tra Anci e ministero della Giustizia del 20 giugno 2012. In particolare l’Amministrazione penitenziaria del capoluogo dauno ed il Comune di Foggia, attraverso la stipula di una convenzione, hanno permesso ad alcuni detenuti con pena in via di estinzione di essere impegnati in attività agricole nell’azienda agricola Masseria Giardino di proprietà del Comune di Foggia attraverso il progetto denominato "Campi liberi". Sul posto è anche presente il perito agrario Geremia Rigillo, impiegato dell’Amministrazione comunale, che cura il ciclo produttivo e istruisce i detenuti per la preparazione del terreno, la realizzazione dell’impianto di irrigazione e la messa a dimora delle piantine orticole fino alla raccolta dei prodotti, come melanzane, peperoni, pomodori, lattuga, cicorie, sedano e basilico per il periodo estivo, mentre nei mesi invernali si coltivano broccoletti, finocchi, cavolfiori e bietole. "Crediamo che questa iniziativa sia un esempio di reinserimento sociale ben riuscito - spiega il sindaco di Foggia, Franco Landella, anche grazie alla collaborazione ed alla sensibilità di Ataf SpA, che mette a disposizione un mezzo per accompagnare i detenuti a Masseria Giardino per lavorare i campi. Una iniziativa dalla doppia valenza sociale, in virtù del fatto che i prodotti raccolti vengono poi donati alla Caritas diocesana che li utilizza per la propria mensa. Il Comune di Foggia, inoltre - puntualizza il primo cittadino, stipula una assicurazione per gli infortuni sul lavoro alle persone impegnate nei campi e mette a disposizione piccole somme per le spese di gestione dell’orto sociale". Udine: in 9 Comuni percorsi reinserimento e partecipazione alla vita civile per i detenuti udine20.it, 27 ottobre 2015 Un’efficace attenzione delle istituzioni locali verso le persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, adulte e minori, mediante l’attuazione di percorsi di reinserimento e partecipazione alla vita civile. È quanto i nove Comuni raggruppati nell’Ambito Distrettuale n. 4.5 dell’Udinese stanno portando avanti tramite diverse progettualità pensate per attuare percorsi di recupero di persone adulte detenute, in esecuzione penale esterna, o ex detenute e di minori a disposizione dell’Autorità Giudiziaria Minorile o a carico del Servizio sociale dei comuni. "Si tratta dell’attuazione pratica di un protocollo d’intesa sottoscritto nel 2013 - evidenzia Roberto Orlich, dirigente dell’Ambito - che non solo mira a realizzare azioni di reinserimento, ma crea una rete tra istituzioni come i Comuni, l’Azienda per i Servizi Sanitari, il Ministero della Giustizia e numerose Onlus, insieme impegnati per la crescita civile del territorio". L’Ambito Distrettuale dell’Udinese, lo ricordiamo, dal 2006 è l’ente preposto dalla Regione alla gestione dei servizi sociali integrati erogati dai Comuni di Campoformido, Martignacco, Pagnacco, Pasian di Prato, Pavia di Udine, Pozzuolo del Friuli, Pradamano, Tavagnacco e Udine. L’ente, amministrato dall’assemblea dei nove sindaci, guidata dal sindaco di Tavagnacco Gianluca Maiarelli, eletto lo scorso anno, ha dato avvio, tra il 2014 e il 2015, a tre diverse progettualità dell’area "devianza", compresa nel più vasto insieme di azioni ed interventi di inclusione sociale e di prevenzione della marginalità. La prima progettualità, denominata "Work in process", affidata, per la realizzazione, all’Associazione Temporanea di Imprese formata dal Centro Solidarietà Giovani, dal Centro Caritas e dalla cooperativa Arte e Libro, è diretta a detenuti ed ex detenuti e a minori a disposizione dell’Autorità Giudiziaria, prevede lo svolgimento di attività di inserimento socio-lavorativo mediante 4 borse-lavoro mensili intramurarie e 55 borse-lavoro trimestrali extra-murarie e di attività formative della durata minima di 160 ore per 10 destinatari. La seconda progettualità, affidata alla cooperativa Aracon, è diretta a ragazzi e ragazze di età tra i 15 ed i 21 anni che siano in carico al Servizio sociale dei Comuni. Prevede lo svolgimento di diverse attività di carattere socio-lavorativo, formativo, informativo, educativo, aggregativo. La terza, affidata al Centro Solidarietà Giovani, è relativa al sostegno psicologico e psicoterapeutico di giovani tra i 14 ed i 23 anni e tra i 17 ed i 21 anni e prevede lo svolgimento di colloqui mirati, estesi ai componenti i nuclei familiari. Milano: a Bollate, apre "inGalera", il ristorante del carcere più stellato d’Italia La Repubblica, 27 ottobre 2015 Un progetto unico, un ponte reale che per la prima volta mette in comunicazione il "fuori e il dentro". Risultato di sinergie tra pubblico e privato, non si pone solo l’obiettivo di fornire ai detenuti competenze per il reinserimento sociale, ma vuole far riflettere sul senso della pena. Inaugura "inGalera", il ristorante nato all’interno di Bollate, la 2° Casa di Reclusione di Milano: un progetto unico in Italia, forte e ambizioso come il sogno che ha guidato la cooperativa sociale ABC La sapienza in tavola fino al raggiungimento di questo traguardo. Nata nel 2004 dentro il carcere stesso per offrire professionalità e lavoro a detenuti ammessi e non alla misura alternativa dell’art. 21 ex O. P., la cooperativa ABC crede nel valore del percorso riabilitativo, nel tentativo di eliminare lo stigma che la società imprime a chi ha trascorso un periodo della propria vita in carcere. La Casa di Reclusione di Milano-Bollate, nota per la sua politica penitenziaria volta a valorizzare l’aspetto rieducativo della pena, è il contesto perfetto per poter realizzare un sogno di questo tipo. La preziosa sinergia tra pubblico e privato. "Il ristorante "InGalera", frutto di preziosa sinergia tra il pubblico e il privato, non si pone il solo obiettivo, già di per sé rilevante, di fornire ai detenuti competenze formative e lavorative utili al loro reinserimento sociale - dice Massimo Parisi, Direttore della Casa di Reclusione di Bollate - con la sua costante apertura al pubblico, vuole costituire per chiunque un’opportunità d’interfacciarsi con l’universo carcerario e di riflettere sul senso della pena. In tal modo il ristorante può farsi portatore di un messaggio culturale - ha aggiunto - che vuole incidere sul senso comune della pena e rafforzare così le basi per un’effettiva inclusione sociale dei detenuti. Per questo va il mio sentito grazie a tutti coloro che ne hanno consentito l’attivazione". Il progetto. ABC pensa il progetto "Dal carcere alla città: il ristorante sociale, un’idea di impresa", il cui scopo è l’apertura di un ristorante che offra ai detenuti un vero e proprio curriculum lavorativo e riabilitativo. Anche PwC Italia, parte del network professionale leader nei servizi alle imprese, sulla scorta di esperienze sviluppate a livello internazionale e riconoscendo nel food un elemento determinante per la cultura e lo sviluppo del nostro Paese, ha ideato un progetto di "ristorante sociale". Ha quindi avviato la collaborazione con ABC per la pianificazione e lancio del ristorante sostenendolo finanziariamente e con le proprie competenze economiche e finanziarie. Pionieri o pirati. "In questi undici anni di lavoro in carcere, ho sempre pensato che aver costituito una cooperativa di catering sia stato davvero scoprire nuovi mondi - dichiara Silvia Polleri, Presidente della Cooperativa Sociale Abc La Sapienza in Tavola. Quando parti per trovare una terra sconosciuta puoi farlo in due modi, pioniere o pirata, orgogliosamente abbiamo sempre scelto il primo. Anche per il progetto ristorante InGalera, sognato e coccolato, persone e luoghi assolutamente differenti ma con un obiettivo comune: offrire il meglio, volere il meglio nel proprio lavoro. Desidero che InGalera diventi un marchio forte e credibile e possa costituire un importante elemento nel curriculum di ogni detenuto che vi transiterà; non dimentichiamo che chi imprime il "fine pena mai" a chi è stato in prigione è la società. Voglio contribuire a togliere questo stigma". Tavoli per 52 persone. "InGalera" offre 52 posti a sedere ed è aperto a pranzo e a cena, sei giorni su sette. Propone la formula "quick lunch" a pranzo dal lunedì al venerdì, mentre il sabato a pranzo e tutte le sere propone cena alla carta. Ci lavorano complessivamente nove persone, cinque in cucina e quattro in sala, assunte dalla cooperativa ABC la sapienza in tavola. Sono tutti detenuti, a esclusione dello chef e del maitre, professionisti esterni chiamati a dare prestigio al progetto. I tirocinanti della sezione carceraria dell’Istituto Frisi sono quattro. Coerentemente con il posizionamento di qualità che si propone, il ristorante è stato arredato grazie alla collaborazione di grandi marchi del design italiano come Alessi, Artemide e Pedrali. Brescia: a Verziano altro tentato di suicidio di una detenuta. Cgil: "Situazione critica" Corriere della Sera, 27 ottobre 2015 Un’altra detenuta italiana con problemi di tossicodipendenza e psichiatrici ha tentato di suicidarsi infilando la testa in un borsa di plastica. L’hanno trovata con la testa infilata in un sacchetto di plastica: polsi tagliati e gas nel naso. Un’altra detenuta italiana con problemi di tossicodipendenza e psichiatrici ha tentato di suicidarsi al carcere di Verziano: la seconda in una settimana. Il personale di Polizia penitenziaria l’ha portata d’urgenza in infermeria, per le cure del caso. La nota è arrivata dalla Cgil lunedì mattina: nella casa di reclusione di Verziano "dopo le varie e quotidiane risse tra detenute, vari e tanti atti di autolesionismo adesso si è passati ai tentativi di suicidio, la situazione è divenuta davvero critica ed esplosiva". Rimini: dopo le dimissioni di Grassi, i Consiglieri chiedono un nuovo Garante dei detenuti altarimini.it, 27 ottobre 2015 I consiglieri comunali Stefano Brunori, Fabio Pazzaglia e Gianluca Tamburini hanno presentato un’interrogazione al Sindaco di Rimini chiedendo chiarimenti sul futuro della figura del garante per i diritti dei detenuti, ruolo rimasto vacante dopo le dimissioni dell’avvocato Davide Grassi, avvenute lo scorso luglio. I tre consiglieri all’epoca chiesero la pubblicazione di un nuovo bando per poi effettuare l’elezione in Consiglio Comunale. Da circa tre mesi non si è saputo più nulla, denunciano i tre consiglieri. "Siamo stati tra gli ultimi Comuni d’Italia ad istituire tale figura e siamo stati gli unici a perdere nel giro di così poco tempo tale figura. Un record in negativo che solo Rimini può vantare", scrivono Pazzaglia, Brunori e Tamburini, che chiedono "l’avvio di una procedura urgente per la rielezione del nuovo garante, entro il 26 novembre". Verona: "Verona marathon corre dentro", annullata la corsa all’interno del carcere veronasera.it, 27 ottobre 2015 Doveva essere una giornata di sport anche per i detenuti ma a causa delle grandi difficoltà incontrate nell’averli a disposizione per gli allenamenti, gli organizzatori hanno deciso di cancellare l’evento. Con una nota diffusa agli organi di stampa, viene comunicato l’annullamento della corsa "Veronamarathon corre dentro" che doveva svolgersi all’intrno del carcere di Montorio tra squadre composte da 3 detenuti e 3 uomini liberi. Nel comunicato stampa che segue, gli organizzatori puntano il dito contro le difficoltà incontrate nella Casa Circondariale ad avere a disposizione i detenuti intenzionati a partecipare all’evento. Gaac 2007 Veronamarathon Asd organizzatore della manifestazione podistica programmata per questo sabato 31 ottobre 2015 nella Casa circondariale di Verona Montorio annuncia che la manifestazione non si svolgerà più. L’iniziativa aveva visto al momento della presentazione avvenuta a Montorio lo scorso 5 ottobre il coinvolgimento delle autorità comunali veronesi e di un testimonial del livello di Gianni Poli, maratoneta di fama mondiale, ed aveva immediatamente ricevuto il supporto di numerosi gruppi sportivi e di enti privati, che si sono dedicati ad indicare i loro rappresentanti per l’evento. Un progetto in cui credevamo fortemente e nel quale abbiamo messo tante energie, la finalità sociale era importante, ma a quanto sembra non sufficiente a superare alcuni ostacoli logistici all’interno del carcere che ne hanno impedito lo svolgimento. Ostacoli non dipendenti dalla presente società organizzatrice Gaac 2007 Veronamarathon. Le difficoltà sono state riscontrate all’interno della casa circondariale, in particolare nella fase di preparazione dei detenuti, per i quali era stato pianificato un programma di allenamento bisettimanale, volto sia a creare attesa per l’evento che a preparare fisicamente i candidati. Casa Circondariale che si è rivelata con il tempo una struttura poco disponibile nel complesso. Sin dalla prima sessione sono apparsi alcuni sintomi di quella che poi si è rivelata la causa del presente annuncio di abbandono del progetto: la difficoltà di trasmettere l’idea e di farla accogliere prima alla Polizia Penitenziale e poi ai singoli detenuti. Sono state effettuate sei sessioni di allenamento, delle quali una al coperto in un giorno di pioggia: le strutture sportive all’interno dell’area detentiva si sono dimostrate all’altezza, mentre altrettanto non può dirsi dell’adattamento delle procedure quotidiane della vita carceraria alle esigenze di reperire un minimo di tempo da dedicare all’attività sportiva. Chiusura, mancanza di dialogo e di apertura, questo ha portato ad avere la presenza continuativa di un numero molto esiguo di "detenuti - podisti", insufficiente per la realizzazione del progetto agonistico di staffetta mista, anche in forma ridotta, che inizialmente prevedeva 24 squadre da 6 podisti cadauna, 3 dei quali detenuti. Al termine della sesta sessione la nostra resa: troppe incertezze, un clima di sopportazione dell’iniziativa, nessuna facilitazione per favorire il successo del progetto. A nome dell’allenatore Alessandro Capovilla e del Comitato Organizzatore porgiamo un sincero ringraziamento a tutto il gruppo di detenuti che ha partecipato agli allenamenti, agli enti coinvolti che hanno sposato subito l’iniziativa, alle società sportive che hanno aderito con entusiasmo alla partecipazione, al maratoneta Gianni Poli e a tutti coloro che si sono fin da subito adoperati per la buona riuscita dell’evento. Rimane il rammarico per non essere riusciti a portare a termine questa iniziativa insieme a tutte queste persone. Lecco: "Abolire il carcere", una serata sulla situazione carceraria, con Valentina Calderone lecconews.lc, 27 ottobre 2015 "Non ci appare stupefacente che in tanti secoli l’umanità che ha fatto tanti progressi in tanti campi delle relazioni sociali non sia riuscita a immaginare nulla di diverso da gabbie, sbarre, celle dietro le quali rinchiudere i propri simili come animali feroci?". Con questa riflessione Gustavo Zagrebelsky, presidente emerito della Corte costituzionale, firma la postfazione del libro "Abolire il carcere" (Chiarelettere), scritto da Luigi Manconi, Stefano Anastasia, Valentina Calderone e Federica Resta. Proprio Calderone parteciperà alla presentazione del libro organizzata da Qui Lecco Libera martedì 27 ottobre, alle 21 in Sala Ticozzi (via Ongania, Lecco). La riflessione contenuta nel testo è attuale e ruota intorno al carcere, quello "strumento di punizione" reso inefficace non solo dalla qualità delle condizioni di vita di chi è ristretto -inumane e degradanti, come evidenziato più volte anche dalla Corte europea dei diritti dell’uomo- ma anche dall’elevatissima percentuale dei reclusi che tornano a commettere nuovi delitti: nel 68% dei casi nel nostro Paese. Dei 52.754 detenuti nelle carceri italiane al 30 giugno 2015, il 33,8% si trovava in custodia cautelare, il 32,6% era straniero e 10.538 persone avevano meno di 30 anni. Ben 1.603 gli ergastolani e 91 i morti registrati a partire da gennaio (di cui 34 suicidi). Dal 2000, in carcere sono morte 2.462 persone (dato aggiornato al 10 ottobre 2015), come se il terremoto dell’Aquila si fosse scatenato per 8 volte in quindici anni. Cifre e caratteristiche di un sistema di afflizione concepito come "pulizia della società dai suoi scarti" (Zagrebelsky) di cui si parlerà anche a Lecco, ragionando su stato di fatto e alternative immaginabili, martedì 27 ottobre, alle ore 21, presso la Sala Ticozzi di via Ongania, insieme a Valentina Calderone, direttrice dell’associazione A Buon Diritto e co-autrice del testo. Interverrà telefonicamente anche il senatore Luigi Manconi. Sono state invitate a partecipare e contribuire al dibattito la direttrice della casa circondariale di Lecco, Antonina D’Onofrio, e la Garante dei diritti delle persone private della libertà personale, Alessandra Gaetani. È un appuntamento rivolto a tutta la cittadinanza, anche perché, come sostiene Gustavo Zagrebelsky, "La condizione carceraria riguarda coloro che stanno dentro ma come problema di civiltà è prima di tutto un problema di chi sta fuori". Ue, sui rifugiati raggiunto un accordo di emergenza di Carlo Lania Il Manifesto, 27 ottobre 2015 Spinta dalla paura delle destre anti-immigrati, Bruxelles promette strutture nelle quali accogliere 100 mila profughi. A sbloccare la situazione, scongiurando all’Unione europea una nuova figuraccia, è stata la Grecia. Quando ormai l’ennesimo vertice sulla crisi dei profughi nei Balcani era a un passo dalla rottura, Atene ha accettato di aumentare le sue capacità di accoglienza rispetto ai diecimila posti attuali. Era quello che aspettavano tutti, un sì che ha permesso al mini vertice convocato domenica dal presidente della commissione europea Jean Claude Juncker di chiudersi potendo affermare di aver trovato un accordo. Quella raggiunta è un’intesa di emergenza, in tutti i sensi. Sia perché conquistata mentre a Bruxelles arrivava già l’eco della vittoria ottenuta in Polonia della destra anti-Ue e anti-immigrati del PiS di Jaroslaw Kaczynski. Ma soprattutto perché decine di migliaia di uomini, donne e bambini in marcia lungo la rotta balcanica si trovano già da settimane esposti al freddo e alla pioggia. Sono sotto gli occhi di tutti le immagini dei settemila profughi che in Slovenia marciano incolonnati attraverso i campi, diretti verso il confine con l’Austria. Trovare loro una sistemazione decente era quindi il minimo che l’Europa potesse fare. "È inaccettabile che nel 2015 la gente sia lasciata dormire nei campi e attraversare fiumi con l’acqua sino al petto in temperature glaciali" ha spiegato Juncker. L’accoglienza dei profughi è dunque uno dei 17 punti del piano approvato. È prevista la realizzazione di 100 mila nuovi posti dove alloggiare i migranti, 50 mila dei quali in Grecia e altrettanti nei Balcani. I dettagli del piano sono ancora in via di definizione, ma già si sa che di coloro che si fermeranno in Grecia 20 mila saranno gestiti dall’Unhcr, l’Alto commissariato dell’Onu per rifugiati, che prenderà in affitto da privati alberghi e case vacanze, ma utilizzerà anche scuole, palestre, caserme e tende riscaldate. Proprio la Grecia è stata a lungo sul banco degli imputati, accusata dagli altri partecipanti al vertice di non fare nulla per fermare i migranti diretti verso il nord Europa. Un’accusa alla quale Atene ha replicato ricordando come la vera porta dei Balcani sia la Turchia, che però non è stata neanche invitata a Bruxelles. Non a caso il controllo dei confini esterni dell’Unione è un altro dei punti cardine dell’accordo di domenica. Per tutti i partecipanti (Germania, Slovenia, repubblica Ceca, Polonia, Austria, Olanda, Lussemburgo, Croazia, Ungheria, Romania e Bulgaria più Serbia, Macedonia e Albania) se infatti è importante offrire un riparo ai profughi, altrettanto lo è fermarli impedendogli di proseguire nella loro marcia. E per questo è necessaria una gestione più rigida dei flussi. Verranno quindi rafforzate tutte le missioni di Frontex già in atto ai confini sia marittimi che terrestri, ma verrà anche attivato uno scambio di informazioni tra tutti i paesi sul numero di migranti in entrata e in uscita. Nessuno potrà quindi permettere ai migranti di dirigersi verso il confine di uno Stato vicino senza un accordo preventivo. E nessuna accoglienza, infine, per chi rifiuta di farsi identificare. "Senza registrazione, nessun diritto", ha sentenziato Juncker. Sarà la stessa Commissione Ue a verificare ogni settimana il funzionamento dell’accordo. L’idea che Bruxelles sta cercando di mettere nuovamente in campi è di impedire che alle frontiere interne si vedano scene come quelle dei giorni scorsi, con i migranti bloccati dalla polizia e costretti a ore, se non a giorni di attesa. Fermarli negli hotspot, secondo Juncker, permetterebbe poi di procedere ai ricollocamenti direttamente da dove si trovano. Adesso resta però da vedere se e come i paesi dell’est daranno seguito agli impegni presi. Grecia a parte, dove si sa che i migranti saranno divisi tra isole e terraferma, fino a ieri sera non era ancora chiaro dove, lungo la rotta balcanica, troveranno posto le nuove strutture. E con l’aria che tira in Europa, le brutte sorprese sono sempre possibili. Gorizia in trincea… contro i migranti di Ernesto Milanesi Il Manifesto, 27 ottobre 2015 Niente diritti né accoglienza per i migranti. Costretti a bivaccare lungo il fiume Isonzo. Sotto il castello la "guerra mondiale" non finisce mai. Un secolo dopo la trincea è altrettanto spietata. Il sindaco Ettore Romoli, erede del generale Cadorna, ha stabilito che Gorizia è di nuovo zona franca: diritti umani, leggi, perfino il più elementare buon senso non si applicano. C’è il nemico alle porte del municipio, conta solo la difesa della città irredenta, bisogna sventolare la bandiera etnica. La Grande Guerra 2015 significa credere di essere fuori dal mondo, obbedire al più bieco "autonomismo" e combattere come un fante classe 1938. Quest’angolo di Nord Est si rivela avamposto della migrazione biblica. Con la jungle - fra la boscaglia sotto il parco e il fiume - che riproduce in scala quella di Calais. Con i volontari di "Insieme con voi" che assicurano tende, coperte, cibo, medicine. Con afghani, pakistani, siriani letteralmente invisibili per le autorità. Con i fascisti di Casa Pound e Forza Nuova che riempiono l’indifferenza democratica: prossimo appuntamento sabato, all’insegna del filo spinato come soluzione finale. Così rispunta l’eco della canzone rimossa dalle grandi e piccole firme della sussidiarietà nazionale. "O Gorizia tu sei maledetta,? per ogni cuore che sente coscienza" rimbalza dai mulinelli d’acqua che il 7 agosto hanno inghiottito Taimur, poco più di vent’anni in fuga dal Pakistan; fischia nella pioggia che un paio di settimane fa ha infangato ancor di più gli indigeni concentrati su decoro e sicurezza; bussa all’ufficio del prefetto Isabella Alberti (erede del collega Vittorio Zappalorto) preoccupata dell’equilibrio politico che mantiene in sintonia governo Renzi, giunta Serracchiani e maggioranza locale Fi & Lega; chiamerà presto in causa la procura della Repubblica con il documentato esposto affidato all’avvocato Marco Barone. Gorizia è fuorilegge. Come se fosse l’Ungheria di Orbán, pronta magari a replicare la Bulgaria. E produce la fabbrica d’odio che si nutre di omertà, egoismo, irresponsabilità e propaganda. Eppure un drappello di donne resiste: hanno "adottato" i migranti come figli dello stesso mondo e si dannano l’anima affinché non siano più fantasmi. Sfidano la paura delle pantegane pur di visitare l’accampamento sull’Isonzo. Ottengono qualche coperta, anche se il magazzino comunale le avrebbe riservate… ai cani. Fanno la spola in Croazia e Slovenia per ricambiare generosità. Organizzano con parroci, medici, famiglie la quotidiana cura della "invisibile comunità". E smanettano al computer pur di avere qui Moni Ovadia, Zoro di Gazebo, Luigi Manconi o adesso gli europarlamentari. È l’istinto che avrebbe dovuto spingere i rappresentanti dell’Italia ufficiale a non abbandonare minori, a non chiudere gli occhi sull’emergenza, a non girare le spalle alla realtà. Da mesi si sa che i furgoni scaricano dall’autostrada i profughi davanti al cartello di Romans (che però non è Roma capitale…). La mèta dipende dalla commissione che valuta le richieste d’asilo: fino a primavera Gorizia era l’unica sede dell’intero Nord Est e ora continua a smaltire le pratiche di tutto il Friuli. Passaggio cruciale nell’infinito viaggio verso l’Europa promessa. Eppure, nulla è cambiato rispetto al primo impatto. Anzi. Romoli (ex parlamentare, assessore regionale e super-coordinatore di Fi) in pieno inverno aveva firmato l’ordinanza "anti bivacco" per sgomberare i migranti. E il famigerato Cie di Gradisca d’Isonzo - chiuso dall’autunno 2013 - viene riciclato come futuribile hub con il bel risultato di concentrare centinaia di profughi nel paese di 6.500 abitanti, perché il capoluogo pretende di respingerli. L’arcivescovo Carlo Maeia Redaelli ha ribadito la volontà di non disertare il fronte della supplenza: "Fra Gorizia e provincia non siamo affatto all’anno zero: il Nazareno ospita una novantina di richiedenti asilo e il dormitorio Faidutti offre un letto ad altri 30-40. Senza contare la mensa dei Cappuccini, la cena alla Madonnina e l’apporto di tante altre parrocchie. Facciamo parecchio. Faremo ancora di più". Latitano, invece, i soliti. Medici senza frontiere rilancia l’allarme: "Mai visti così tanti migranti costretti a dormire nei boschi, a due passi dalla città". E l’assessore provinciale Ilaria Cecot racconta scandalizzata: "Ho ancora nelle orecchie il rumore dell’acqua del fiume arrabbiato e il silenzio assordante delle istituzioni. Il preallarme nella jungle era scattato la mattina del 14 ottobre, quando l’Isonzo registrava una portata di 850 metri cubi al secondo. Nessuno si è preoccupato di verificare se esseri umani fossero in pericolo. Nessuno della prefettura né la Protezione civile del Comune. L’assessore Del Sordi era impegnato, esattamente in quei momenti, nella conferenza stampa contro l’accoglienza. Eravamo in tre con il regista Andrea Segre e un carabiniere. Poi si sono aggiunti alcuni volontari". Barbara Franzot, con i volontari, non smette di preoccuparsi. Scendono al fiume a verificare la situazione. Raccomandano di usare l’unica fontanella di acqua potabile. E registrano i malanni di chi dorme come può. Le donne cucinano in patronato insieme ai migranti. Intanto c’è chi gioca a calcio e volley o prega rivolto alla Mecca giusto sotto il campanile. Soprattutto campeggia l’ultima "conquista": due bagni chimici, forniti dalla Caritas e preziosi quanto il piatto caldo. Forse, se il resto d’Italia si accorgesse finalmente della stupida e pericolosa "guerra di Ettore", potrebbe imparare da Linda Tomasinsig che da sindaco Pd ragiona a voce alta. "Un maxi-Cara nel nostro Comune? È decisamente meglio dell’Isonzo o di un parco: ne siamo certi. Ma lo siamo altrettanto del fatto che risposte migliori possano e debbano venire da altri luoghi e in altri modi. Alla prefettura sono state presentate varie soluzioni da Caritas, Provincia e Medici senza frontiere: ma in tutti questi mesi non hanno ritenuto di accettarne alcuna, preoccupati più di urtare il collega del capoluogo che di adempiere al dovere dell’accoglienza" scandisce. Ecco, il bivacco di Gorizia è il vero specchio della nostra anima nera. Con buona pace dei caduti nella trappola della paura. I panni stesi ad asciugare sul monumento ai deportati appartenevano a chi deve sopravvivere in un lager a cielo aperto. "Modello Friuli": funziona per Romoli, ma anche per la vice-Renzi che governa a statuto speciale. Il 27 ottobre di dieci anni fa, quando Parigi bruciava di Anna Maria Merlo Il Manifesto, 27 ottobre 2015 Il 27 ottobre di dieci anni fa la morte di Zyed e Bouna, due adolescenti in fuga dalla polizia, innescava la rivolta delle banlieues. Nel frattempo politiche come quella sulla casa hanno modificato la scenografia, ma non la sceneggiatura. E la crisi rende quell’eredità ancora piu pesante. Dieci anni fa, il 27 ottobre 2005, Zyed Benna e Bouna Traoré, due adolescenti di 15 e 17 anni, restano fulminati a Clichy-sous-Bois in una centralina elettrica in cui si erano rifugiati per scappare dalla polizia, anche se non avevano nulla da rimproverarsi. La reazione a queste morti era stata l’esplosione delle banlieues, dalla periferia parigina alle altre grandi città francesi, una ventina di giorni di auto bruciate, di distruzioni di simboli della presenza pubblica (biblioteche, scuole, palestre) e dell’economia dominante (centri commerciali). Il primo ministro di allora, Dominique de Villepin, aveva proclamato lo stato di emergenza, che non era più stato imposto nel paese dalla guerra d’Algeria. In tre settimane, c’erano stati 4mila fermi e 600 arresti. Qualche mese fa, nel maggio 2015, i due poliziotti implicati nella caccia a Zyed e Bouna sono stati assolti dall’accusa di "non assistenza a persona in pericolo", anche se la registrazione di una telefonata aveva provato che gli agenti erano ben consapevoli dei rischi incorsi dai giovani che si erano rifugiati nella centralina. La diffidenza verso la polizia, la paura degli agenti da un lato, i controlli continui dall’altro, restano una delle più pesanti eredità del 2005. L’aumento dei traffici illeciti, uno degli effetti della crisi economica, e la maggiore visibilità dell’islam non hanno certo aiutato a migliorare la situazione. La paura è il parametro su cui si muove sempre di più, da una parte e dell’altra, lo stato delle relazioni tra i cittadini che abitano territori diversi. Nicolas Sarkozy, quando era ministro degli Interni, aveva soffiato sul fuoco, promettendo agli abitanti di Argenteuil di liberarli dalla "feccia", facendo ricorso al karcher. Da presidente, ha continuato a distillare il veleno della stigmatizzazione. François Hollande ha promesso interventi e realizzato qualcosa per lottare contro le discriminazioni, ma con il governo Valls l’operazione si è arenata. Manuel Valls ha parlato di "apartheid territoriale, sociale e etnico" e ieri, dopo una simbolica riunione interministeriale ai Mureaux, ha promesso di intervenire sui comuni che rifiutano di costruire cose popolari. Il mondo politico continua però a perpetrare l’immagine di un "noi" e "loro" che mina alla base la società francese, fomentando la diffidenza reciproca. Il termine maggiormente ricorrente tra gli abitanti delle periferie urbane che parlano della loro condizione resta negli anni sempre lo stesso: "rispetto". Clichy-sous-Bois resident walks Friday, Oct. 20, 2006 past photos of Zyed Benna, rear left, and Bouna Traore, who died after being electrocuted in a power substation on Oct. 27, 2005 in Clichy-Sous-Bois, outside Paris.In the minds of young people, it was fear of police that drove Zyed and Bouna to their deaths and started of three weeks of rioting, car burnings and attacks on police that raged through housing projects and laid bare decades of discrimination against In dieci anni, ci sono stati interventi di vario tipo nelle banlieues. A cominciare dalla casa: sono stati spesi 48 miliardi di euro per il rinnovamento urbano che ha riguardato circa 600 quartieri, 151mila abitazioni vetuste sono state abbattute, 320mila ristrutturate, 136mila ricostruite. Sono in programma altre 50mila demolizioni-ricostruzioni, oltre a un rafforzamento della rete dei trasporti con il progetto del "Grand Paris". Queste politiche hanno cambiato un po’ la scenografia, ma non la sceneggiatura, malgrado qualche iniziativa nella scuola per promuovere i più meritanti, creazioni di agenzie per favorire gli investimenti (hanno partecipato persino gli Usa), leggi che riconoscono la realtà delle discriminazioni ecc. Ma la crisi economica aggravata nel 2008 ha colpito duro soprattutto le classi popolari, concentrate nelle periferie, che negli anni hanno perso la coesione sociale un tempo creata dal fatto di lavorare nella stessa fabbrica, di aderire al sindacato o al Pcf. I dati sono drammatici: nei quartieri popolari, il reddito medio è pari al 56% di quello medio del paese, la disoccupazione è di 10 punti superiore (20 per i giovani fino ai 25 anni), il precariato dilaga (100mila beneficiari dell’Rsa, il reddito di solidarietà, nel dipartimento della Seine-Saint-Denis, che conta 1,5 milioni di abitanti). Se si prende l’Rer dalla stazione Luxembourg del centro di Parigi fino a La Courveuve, nella prima periferia nord, si perdono 15 anni di speranza di vita. Il 51,4% dei minorenni che vivono nei quartieri popolari sono sotto la soglia di povertà (è sotto questa soglia il 38,4% di questa popolazione, contro il 13,9% in Francia), nella Seine-Saint-Denis la mortalità infantile è del 40-50% superiore alla media francese. Malgrado tutte queste difficoltà, la società mostra resistenza. È nelle banlieues dove c’è il maggior tasso di creazione di imprese. I giovani studiano, più del 50% dei figli di operai hanno il Bac (maturità), molti continuano all’università. Avvocati, medici, insegnanti, ricercatori, quadri dirigenti sono sempre più numerosi a venire dai quartieri popolari. Il Bondy Blog, nato nel 2005, continua a raccontare storie di battaglie, di successi e di sconfitte di una gioventù francese nata nelle banlieues, che però per 7 francesi su 10 restano "pericolose". Io, il Foglio, i Radicali e la guerra in Iraq… perché la pensiamo diversamente di Adriano Sofri Il Foglio, 27 ottobre 2015 Non ero d’accordo con questo giornale al tempo della guerra di Bush e Blair in Iraq, non sono d’accordo col giudizio che qui ne viene motivato oggi, a ridosso della mezza autocritica, nemmeno inedita, di Blair. Ma trovo che la gamma di reazioni di oggi sia significativa di una vasta confusione, e della ricerca affannata, così tipica di tutte le crisi da confusione, di una via facile facile. Ieri ho ascoltato il programma di Radio 3, "Tutta la città ne parla", dedicata al tema. Franco Cardini (superlavoro: un paio d’ore dopo raccontava gustosamente la Ferrara estense per RaiTre con Massimo Bernardini, "Il tempo e la storia") ha ricordato la responsabilità di inglesi e francesi alla fine della Prima guerra mondiale, che era un risalire piuttosto indietro. Arduino Paniccia, mostrandosi cortesemente d’accordo, avvertiva però che le guerre mosse in nome dei diversi islam hanno ormai una motivazione autonoma. Secondo Domenico De Masi il pacifismo, che alla vigilia di quella guerra irachena aveva toccato il culmine - fu vezzeggiato allora dal New York Times col titolo di Superpotenza - non ne è uscito sconfitto, perché come tutti i movimenti il pacifismo non può che avere un andamento carsico, inabissarsi e riaffiorare. De Masi è fiducioso che ciò torni ad avvenire, quando le circostanze lo esigano. Impeccabile teoricamente, l’argomento è naufragato di fatto sui quattro anni e mezzo di carneficina siriana, dove perfino il numero dei morti - oltre 250 mila secondo valutazioni condivise - eccede quello, certo controverso, dei morti nella guerra d’Iraq. Il pacifismo, che fu allora davvero espressione di una passione profonda e generosa di tanta parte dell’occidente e dei suoi giovani, volle ispirarsi - e continua a farlo - all’atteggiamento compendiato in Italia dallo slogan "Senza se e senza ma", che intende esprimere una sete d’assoluto, e si traduce nella rinuncia a misurarsi con le situazioni concrete. Scoppiata davvero la guerra che si voleva sventare, quell’assolutezza diventa una frustrata impotenza mondiale. Di fronte al contagio di guerre civili e internazionali dilagato nel medio oriente, attraverso un territorio che va almeno dal Maghreb e l’Africa centrale all’Afghanistan, con Siria e Iraq al centro, il pacifismo non è esistito se non con grottesche manifestazioni periferiche per scongiurare un qualche uso della forza a protezione delle vittime. La passione generosa che vi si affidava anche a costo di restarvi congelata non è spenta, ma rinunciando al merito, cioè a chiedersi se e ma e quando e come, ha potuto riemergere solo attraverso varchi improvvisi e laterali, come la solidarietà col calvario dei migranti, esplosa finalmente nell’estate scorsa. È tragico che spesso questa generosità ripudi a priori ogni iniziativa mirata ad arginare le origini della risacca dei migranti fino alle nostre coste e ai nostri fili spinati. Nell’ora di "Tutta la città" mi ha meravigliato l’assenza di una voce dei Radicali. Pannella e i suoi sono restati quasi ossessivamente attaccati al punto della vigilia della guerra in Iraq e delle responsabilità di Blair, nel corso di questa dozzina d’anni, e hanno assiduamente seguito i lavori della commissione d’indagine inglese. Riconosciuta questa tenacia, io ho creduto allora e poi che Pannella s’ingannasse a figurare un Saddam Hussein disposto e anzi pronto all’esilio, e che Bush e in particolare Blair abbiano voluto chiudergli la strada scatenando una guerra decisa da tempo e a ogni costo. Non credetti e non credo che quella disponibilità esistesse, e al contrario penso che Saddam, come ogni tiranno di lunga data - come oggi Bashar el Assad - fosse ubriaco della sua onnipotenza. Qui è il punto della divergenza coi miei amici Radicali e d’altra parte con i miei amici del Foglio. Ero contrario alla guerra d’Iraq e all’esaltante napoleonismo dell’esportazione della democrazia. Ritenevo allo stesso tempo che il movimento pacifista, rinunciando a completare il proprio No alla guerra con il No alla dittatura di Saddam, si mutilasse di un’efficacia politica e, peggio, contribuisse a rafforzare, con la stessa formidabile estensione delle sue manifestazioni, la persuasione di Saddam che alla fine l’intervento non sarebbe avvenuto. Lungi dall’indurlo all’esilio e a una transizione, l’unilateralità del pacifismo internazionale lo confermava nel suo delirio. Questa la mia differenza dai Radicali: Saddam non sarebbe andato in esilio. Questa la mia differenza dal Foglio: non solo perché continua a sostenere la giustezza della guerra di Bush jr. e Blair, ma perché continua a immaginare che sia giusto intervenire militarmente per abbattere le dittature, senza bisogno di appigli in false o vere minacce di armi di distruzione di massa. Nella mia idea di polizia internazionale, nome che vi sembra tuttora troppo imbelle o velleitario, chissà perché, si può e si deve intervenire contro le dittature quando il loro popolo si sia ribellato e mostri il proprio desiderio di libertà e democrazia - due parole che si completano, l’una riguardando le persone e l’altra la loro convivenza. Ma in quel caso, come nella Siria del primo tempo di ribellione e repressione, una forza legittima vuole proteggere una popolazione dai crimini di guerra e contro l’umanità di un dittatore apertamente disconosciuto. Infine, mi sembra evidente che fra quella guerra d’Iraq e la vicenda corrente del vicino oriente c’è un legame: ciò che non basta a togliere ai protagonisti delle infamie di oggi una piena responsabilità, e a farne degli epigoni feroci ma automatici delle colpe di Bush e di Blair e dell’occidente. Questo continuo risalire lungo il filo - i fili, poi: ciascuno attaccandosi al proprio prediletto - è semplicemente un modo per lasciare che le infamie continuino a compiersi, e che gli infami ne siano assolti, o almeno decorati delle attenuanti. Quanto a Blair, se il suo errore al momento della guerra d’Iraq fu l’eruzione di un diverso delirio di potere, la più umbratile carriera di consulente prezzolato di despoti e sfaccendato mediatore diplomatico del Dopoguerra è a suo modo altrettanto incresciosa. L’Onu si rimangia posizioni riformatrici sulle droghe, nel silenzio di Palazzo Chigi di Marco Perduca (già Senatore Radicale) huffingtonpost.it, 27 ottobre 2015 La 24esima Conferenza sulla riduzione del danno, organizzata quest’anno in Malesia dalla rete Harm Reduction International è assurta agli onori della cronaca per il leak di uno studio sulle droghe delle Nazioni unite reso noto al mondo da Richard Branson. Il documento pubblicato sul blog del fondatore della Virgin riguardava un documento preparato dai funzionari dell’Ufficio Onu per la droga e il crimine, Unodc, per chiarire quali politiche di riduzione del danno siano possibili nel rispetto delle tre convenzioni internazionali in materia di droghe. Branson, che fa parte della Global Commission on Drug Policy, un gruppo di personalità internazionali che promuovono la legalizzazione delle droghe, e che ha oltre sei milioni e mezzo di seguaci su Twitter, violando un probabile embargo s’è assunto la responsabilità di condividere col mondo quella che a suo parere - e di chiunque segua la faccenda da tempo o comunque abbia un approccio laico ai problemi - era un’ottima idea. Apriti cielo! Nel giro di pochi minuti il corrispondente del New York Times a Washington chiedeva il parere del’ufficio degli USA per la Droga. La risposta, di cui non resta però traccia su internet, pare sia stata l’aver negato il coinvolgimento degli Stati Uniti nella preparazione del documento e la conferma che le posizione di Washington in materia son altre. Sollecitato dai 500 delegati alla Conferenza in Malesia e dalla stampa di tutto il mondo, l’Unodc ha risposto dicendo che non possono adottare quel documento semplicemente perché non è ancora pronto. La prossima sessione plenaria della Commissione Droghe dell’Onu si terrà all’Unodc di Vienna a metà dicembre, in quella sede di discuterà dei documenti da presentare alla sessione speciale dell’Assemblea generale sulle droghe, Ungass, prevista per aprile 2016. Anche Branson è stato sollecitato dalla stampa internazionale che gli voleva far spifferare anche il nome del paese che, apparentemente, aveva bloccato l’adozione di quelle raccomandazioni. Pur non facendo nomi (in realtà nessuno ha le prove di come siano andati realmente i fatti, e forse è meglio lasciar il tutto avvolto da un alone di mistero con la speranza che la vicenda non sia ancora chiusa), Branson ha voluto ricordare come nei soli Stati Uniti "più di 1,5 milioni di persone sono state arrestate nel 2014 per reati non violenti connessi alle droghe - l’83% dei quali per mero possesso!" ricordando inoltre che a livello globale "una persona su cinque è in carcere per reati di droga". È dal 2009 che il sistema delle Nazioni Unite ha avviato una riflessione su quale sia il modo migliore per "controllare" a livello internazionale la presenza delle sostanze stupefacenti proibite. Se le agenzie specializza come l’Organizzazione Mondiale della Salute, il programma per lo sviluppo, il fondo mondiale contro l’Aids e l’Alto commissario per i diritti umani hanno sposato la causa della depenalizzazione delle droghe, l’Unodc di Vienna resta ancorato a una visione politica generale che predilige la punibilità di certi comportamenti piuttosto che le risposte socio-sanitarie. È vero che, anche grazie all’atteggiamento di non belligeranza proibizionista dell’Amministrazione Obama, a Vienna soffia un’aria più fresca, ma la presenza di Russia, che ha nominato il direttore di Unodc, Egitto, che coordina la preparazione dell’Ungass 2016, e della Tailandia, che presiede la Commissione sulle droghe, rende qualsiasi tentativo di minima modifica dell’architettura proibizionista un’opera titanica. In tutto questo, da Palazzo Chigi non si sente volare una mosca. Non c’è un sottosegretario alle "droghe", non c’è più notizia sulla convocazione della sesta conferenza nazionale sulle dipendenze, gira voce che si voglia re-introdurre la "modica quantità" e che il Dipartimento per le politiche antidroga passi alla Lorenzin. Queste sono le famigerati "conclusioni" del documento dell’Unodc da me tradotte dall’inglese, magari nella lingua di Dante risultano più ragionevoli e condivisibili. Le convenzioni internazionali per il controllo delle droghe non impongono agli Stati Membri [dell’Onu] l’obbligo a criminalizzare l’uso o il possesso personale delle sostanze stupefacenti. Gli Stati Membri possono prendere in considerazione l’implementazione di misure per promuovere il diritto alla salute e ridurre la sovrappopolazione delle carceri, ivi compresa la decriminalizzazione dell’uso e del possesso personale nei seguenti modi: - assicurare che le loro legislazioni, politiche e loro applicazioni siano aggiornate con il rispetto delle evidenze scientifiche relative all’uso degli stupefacenti, loro dipendenza, HIV e in conformità con gli obblighi internazionali in materia di diritti umani. - coinvolgere significativamente i membri delle comunità affette [dai problemi relativi alle sostanze illecite] per sviluppare, implementare, monitorare e valutare servizi e politiche che affliggono la loro salute e le loro vite. - implementare e incrementare pacchetti di politiche onnicomprensive di riduzione del danno di interventi sull’HIV per persone che fanno uso di sostanze per via iniettiva, sulla base di quando previsto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, Unodc, e le linee guida tecniche di Unaids. - investire più risorse nella scienza, interventi basati sul rispetto delle evidenze [scientifiche] e dei diritti umani, incluso campagne di prevenzioni, cure per la dipendenza da sostanze e altri interventi di riduzione del danno. Francia: caso Franceschi; colpo di scena in appello, assolta l’infermiera che non lo curò di Marco Gasperetti Corriere della Sera, 27 ottobre 2015 Era stata condannata in primo grado insieme al medico del carcere dove era morto il giovane di La mamma: "Non mi arrendo, pretendo giustizia". Giustizia non è stata fatta e il caso di Daniele Franceschi rischia di essere archiviato nel peggiore dei modi, ovvero con una mezza verità e tanti misteri e incongruenze ancora da chiarire. Cinque anni dopo quella terribile morte e una condanna in primo grado, la corte di appello correzionale di Aix-en-Provence ha assolto l’infermiera che avrebbe dovuto curare Daniele Franceschi, il carpenterie di 36 anni, padre di un bambino, morto in una cella del carcere di Grasse. Ribaltando la sentenza di primo grado, il giudice francese ha ritenuto non colpevole l’infermiera del carcere, Stèphanie Colonna, che insieme al medico Jean Paul Estrade avrebbe dovuto soccorrere il giovane colpito da una crisi cardiaca. Il procuratore generale, Ibis Granger, aveva chiesto la conferma della condanna e l’interdizione perpetua dalla professione. Il medico Estrade non ha fatto appello e dunque non è stato giudicato in secondo grado, anche se le conclusioni della seconda corte giudicante di fatto confermano la sua colpevolezza. "Una decisione che non comprendiamo, assurda e senza alcuna spiegazione - ha commentato l’avvocato francese della famiglia Franceschi, Luc Febbraro. Leggerò le motivazioni e faremo ricorso alla Corte suprema. Quell’infermiera non curò Daniele e doveva essere condannata anche in secondo grado". Deluso anche l’avvocato Aldo Lasagna, il legale italiano della famiglia Franceschi: "Siamo increduli per questo risultato e certamente faremo ricorso alla Supera Corte francese - commenta l’avvocato della famiglia Aldo Lasagna -. Pretendiamo un intervento immediato delle autorità italiane per avere almeno una risposta sul misero degli organi "spariti" di Daniele". Sconvolta mamma Cira, che aveva già protestato davanti al carcere di Grasse (dopo aver scritto all’Eliseo) ed era stata malmenata da un poliziotto francese, che adesso non esclude un’altra clamorosa protesta davanti ai palazzi istituzionali francesi. "‘ una vergogna. Voglio la verità su mio figlio e pretendo la restituzione degli organi di mio figlio. Ridatemi almeno il suo cuore", dice commossa Cira Antignano. Sul caso degli organi misteriosamente spariti la senatrice del Pd, Manuela Granaiola, ha inviato a settembre una lettera al ministro della Giustizia Orlando che però, a distanza di oltre un mese, non ha ottenuto ancora una risposta. Ad uccidere Daniele Franceschi, come è stato stabilito da innumerevoli e anche controversi esami medici (gli organi non sono mai stati restituiti alla famiglia) non fu dunque una fatalità come alcune autorità francesi avevano cercato di accreditare in un rimo momento. Il carpentiere deceduto in carcere dove era stato rinchiuso per una carta di credito fasulla, era sì morto per una crisi cardiaca provocata probabilmente da cause naturali, ma nessuno l’aveva curato come il caso richiedeva. Così, dopo giorni di malessere, inutili tentativi del giovane italiano d’essere curato e strazianti lettere inviate alla madre, il cuore di Daniele si era fermato dopo una tremenda agonia e il giovane, rimasto solo in cella nonostante le sue condizioni, era stato soccorso con grave ritardo. Nel processo di primo grado il giudice del tribunale di Grasse aveva condannato per omicidio involontario (l’omicidio colposo nel nostro ordinamento) il medico del carcere Jean Paul Estrade e l’infermiera Stephanie Colonna, assolta invece l’altra infermiera Francoise Boselli. Diverse le pene. Al dottor Estrade erano stati inflitti 1 anno di reclusione (pena sospesa) e 1 anno di interdizione dalla professione. L’infermiera Colonna era stata condannata a 1 anno di carcere e tre mesi di interdizione e anche in questo caso la pena è stata sospesa. Il pubblico ministero, Parvine Derivery, aveva chiesto due anni di carcere per l’infermiera Colonna, un anno per il medico Estrade e sei mesi per la Boselli. Nella requisitoria il pm aveva dimostrato come gli imputati avrebbe avuto la "possibilità di salvare Daniele ma non l’hanno fatto, e l’unica loro preoccupazione era stata solo quella di "coprirsi a vicenda e non fare chiarezza sulla vicenda che offende tutti i francesi". L’avvocato francese della famiglia Franceschi, Luc Febbraro, aveva stigmatizzato il comportamento degli imputati: "È grave che non abbiano neppure chiesto scusa alla famiglia". Nel carcere di Grasse si è consumata anche un’altra morte sospetta di un giovane italiano. Si chiamava Claudio Faraldi, 29 anni, di Ventimiglia e morì due anni dopo, come Daniele, solo in una cella. Stati Uniti: un immigrato etiope paladino dei detenuti sordi di Ivano Abbadessa west-info.eu, 27 ottobre 2015 È un immigrato sordo etiope il nuovo paladino dei detenuti non udenti nelle carceri americane. Abreham Zemedagegehu, 41 anni, il cui caso sta facendo discutere gli Stati Uniti, ha citato in giudizio il potentissimo sceriffo della contea di Arlington, in Virginia, per non aver tenuto in considerazione, durante la sua detenzione a causa di un furto compiuto nel 2014, la disabilità di cui è affetto. "In carcere nessuno era in grado di comunicare con me" - ha denunciato ai magistrati Abreham Zemedagegehu. Un gravissimo disservizio che lo ha costretto a subire trattamenti disumani e degradanti. Al punto che saltava spesso pranzo e cena perché non poteva sentire la campanella che annunciava l’ora dei pasti. Senza contare che non ha mai potuto comunicare con l’esterno a causa della mancanza di apparati telefonici adeguati alle sue esigenze. E non ha trovato nessun medico capace di comprendere i farmaci che chiedeva. Ma c’è di più. Secondo le più importanti organizzazioni per i diritti umani, infatti, quella di Abreham Zemedagegehu non è un’eccezione. Ma la cartina di tornasole di un sistema penitenziario per nulla attrezzato a garantire i servizi basilari ai detenuti disabili uditivi che rappresentano tra il 5% e il 7% dell’intera popolazione carceraria. Eppure, denunciano le ONG, basterebbero anche solo piccoli accorgimenti per cambiare le cose drasticamente. Sul modello di quelli adottati da alcuni stati come, ad esempio la stessa Virginia (sotto la cui giurisdizione, però, non ricade il carcere di Arlington dove si trovava Abreham perché federale) che oramai è considerato un vero e proprio modello da imitare. Nelle prigioni di sua competenza, infatti, i sordi hanno a disposizione pannelli di messaggi elettronici per gli annunci e videofonini per le chiamate a parenti e amici. Mentre in altri casi, sia nei corsi professionali che nelle le udienze disciplinari o le visite mediche possono usufruire di interpreti della lingua dei segni. Iran: appello per salvare le vite di quattro detenuti minorenni all’epoca del loro arresto ncr-iran.org, 27 ottobre 2015 Il regime iraniano ha condannato a morte quattro giovani detenuti nella prigione di Sanandaj, minorenni quando commisero i loro reati. La Resistenza Iraniana chiede a tutte le agenzie internazionali per i diritti umani, ed in particolare al Segretario Generale dell’Onu, all’Alto Commissario per i Diritti Umani, ai competenti inviati dell’Onu, all’Unione Europea e al Governo degli Stati Uniti, di prendere provvedimenti urgenti per impedire queste crudeli esecuzioni che violano molte leggi e trattati internazionali. Yousef Mohammadi, 20 anni e Heeman Oraminejad, 18 anni, avevano entrambi 14 anni quando commisero i loro reati e ora sono stati condannati a morte. Siavosh Mahmoudi e Amanej Hosseini (Oveissi) arrestati a 17 anni, rischiano anche loro di essere impiccati. Un altro giovane, di nome Kiomars Nasseiri, detenuto anch’egli nella prigione di Sanandaj e arrestato quando era ancora minorenne, viene minacciato di essere condannato a morte. Amnesty International ha detto che con l’esecuzione di due detenuti (Fatemeh Salbehi e Samad Zahabi), che avevano meno di 18 anni quando commisero i loro reati "ci si è fatti beffe della giustizia minorile". AI ha aggiunto: "L’utilizzo della pena di morte è crudele, disumano e degradante in qualunque circostanza, ma è assolutamente rivoltante quando viene inflitta come pena per un crimine commesso da una persona minore di 18 anni". Anche il Segretario Generale dell’ONU Ban Ki-moon ha espresso la sua "profonda tristezza", il 19 Ottobre 2015, per l’esecuzione di due detenuti minorenni ordinata dal regime iraniano. Il comunicato del Unsg precisa: "Sembra che oltre 700 esecuzioni siano avvenute finora quest’anno" e le ha definite "il numero più alto registrato negli ultimi 12 anni". Ha poi chiesto al regime iraniano di stabilire una moratoria sulle esecuzioni in previsione di abolire del tutto la pena di morte. Ma il regime iraniano, che costantemente aumenta la catastrofica portata della repressione per creare un clima di terrore soprattutto verso i giovani, è incapace di fermare o persino di attenuare questa ondata di repressione ed in particolare il numero delle esecuzioni che mirano a contrastare le sempre maggiori proteste e la rabbia del popolo. In risposta alla condanna mondiale per le vergognose e sistematiche violazioni dei diritti umani in Iran, il capo della magistratura del regime, Sadeq Larijani, ha dichiarato: "Noi non abbandoneremo mai la legge della Sharia. La questione dei valori islamici riguarda la qualità del governo delle nazioni e gli altri non hanno alcun diritto di intervenire". E tutto questo nonostante il regime iraniano abbia sottoscritto i patti internazionali, come la Convenzione sui Diritti del Bambino, che vietano l’esecuzione di minorenni. Segretariato del Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana Medio Oriente: 100 minorenni palestinesi detenuti nella prigione israeliana di Ofer infopal.it, 27 ottobre 2015 Il detenuto Abdul-Fattah Doula, rappresentante dei minori incarcerati nella prigione di Ofer, ha raccontato a un avvocato del Comitato per i detenuti palestinesi che Israele sta tenendo prigionieri 100 minori, 40 dei quali hanno meno di 16 anni, tutti sequestrati a ottobre. Doula ha aggiunto che ciò rappresenta un aumento del 400% del numero di bambini detenuti. Ha inoltre riferito che 22 bambini sono stati assaliti nel corso dell’arresto, poi picchiati e torturati; molti erano stati attaccati da cani dell’esercito e altri torturati con scariche elettriche, oltre a essere sottoposti e continui abusi verbali. Il Comitato per i detenuti ha dichiarato che i segni di tortura si potevano vedere sui corpi di molti bambini. Circa il 60% dei bambini erano stati fatti prigionieri dopo che i soldati avevano invaso le loro case, e cinque di loro erano stati feriti da colpi d’arma da fuoco prima del loro arresto. L’Autorità carceraria israeliana ha anche trasferito 70 bambini detenuti nella prigione di Majeddo e ha aperto una nuova sezione per la detenzione dei bambini nel carcere di Givon. Il Comitato ha anche dichiarato che, dall’inizio di questo mese, l’esercito ha anche rapito quasi 1000 prigionieri, metà dei quali erano bambini, e molti di loro sono della Gerusalemme occupata. Siria: a Palmira nuovo orrore Isis, detenuti legati alle colonne e fatti esplodere Il Messaggero, 27 ottobre 2015 Altro orrore a Palmira, in una Siria dove i raid russi e quelli della Coalizione a guida Usa non fermano la furia dello Stato islamico. I jihadisti hanno preso tre detenuti, li hanno legati a tre colonne nel centro del sito archeologico patrimonio dell’umanità e poi li hanno fatti saltare in aria. La denuncia arriva dall’Osservatorio nazionale per i diritti umani (Ondus) che da maggio scorso - da quando i seguaci di Baghdadi hanno conquistato l’area - ha registrato con drammatica puntualità le nefandezze dell’organizzazione terroristica nell’antica città di Palmira. "È una nuova barbarie", scrive l’Ondus, e segnala che da settimane l’Isis ‘inventà nuove e sempre più crudeli esecuzioni, non limitandosi più solo a decapitazioni e crocifissioni pubbliche. Due giorni fa il Site, il sito di monitoraggio dell’estremismo islamico sul web, ha dato conto di un’altra barbara esecuzione, immortalata in tragiche foto pubblicate dai jihadisti: un soldato siriano è stato messo davanti a un carro armato, che poi gli è passato sopra, facendolo a pezzi. Altre decine di militari, in Siria e Iraq, sono stati costretti a scavarsi la fossa, prima di essere sgozzati o colpiti da un proiettile alla nuca. Mentre solo ieri, in Libia, nella roccaforte jihadista di Sirte, l’Isis ha decapitato tre giovani, originari di Misurata, nel cortile di una scuola. Nelle ultime due settimane, nel Paese destabilizzato dalla crisi politica, l’Isis ha crocifisso 12 persone, accusate di "aver fumato sigarette e hashish". La Libia è la "nuova frontiera" dell’Isis, molti aspiranti combattenti vengono spediti in Nord Africa "perché entrare in Siria e Iraq è diventato troppo pericoloso", spiegano i reclutatori del ‘Califfatò. Ma la furia omicida e distruttiva dei jihadisti si concentra in particolare su Palmira. All’inizio del mese hanno fatto saltare in aria il monumentale Arco di Trionfo, risalente all’epoca romana. Il 30 agosto il Tempio di Bel, il ‘simbolo di Palmirà, considerato il più importante e meglio conservato del sito archeologico. Pochi giorni prima, il 23, quello di Baal Shamin. "Gli estremisti sono terrorizzati dalla storia e dalla cultura, perché la conoscenza del passato toglie credibilità e delegittima tutti i pretesti usati per i loro crimini", ha tuonato la direttrice generale dell’Unesco, Irina Bokova. Palmira, la "sposa del deserto", è divenuta un teatro dell’orrore. Tra le tante esecuzioni di massa, anche la barbara uccisione di Khaled al Asaad, 82 anni, uno dei massimi esperti siriani di antichità ed ex direttore del sito, decapitato in pubblico in una piazza della città. Marocco: torturarono detenuto a morte, arrestati 8 poliziotti Aki, 27 ottobre 2015 Le autorità marocchine hanno arrestati otto poliziotti di Casablanca con l’accusa di aver torturato un detenuto fino a farlo morire. Lo riportano i giornali Assabah e Al-Ahdath. Il sito casacity.ma riferisce invece che il detenuto torturato a morte, un giovane marocchino, venne arrestato ad agosto mentre era sotto effetto di stupefacenti. Prima portato in una stanza di polizia, venne trasferito in ospedale dove è deceduto. L’autopsia ha stabilito che il giovane è morto per le ferite riportate durante la sua detenzione. A maggio Amnesty International aveva diffuso un rapporto nel quale parlava della pratica della tortura come "endemica" in Marocco, dove la legge non autorizza simili pratiche. Libia: Al-Saadi Gheddafi incontra Hrw e denuncia violazioni processuali Askanews, 27 ottobre 2015 Al Saadi Gheddafi e altri tre esponenti dell’ex regime libico hanno denunciato gravi violazioni processuali nel corso dell’incontro avuto il 15 settembre scorso con Human Rights Watch (Hrw) nella prigione al-Hadba di Tripoli. Oltre a Gheddafi, i ricercatori di Hrw hanno incontrato anche l’ex capo dell’intelligence libica, Abdullah Sanussi, e due ex premier, Abuzeid Dorda e al-Baghdadi al-Mahmoudi, condannati a morte il 28 luglio scorso per il loro ruolo nella repressione della rivolta del 2011, mentre Gheddafi è ancora sotto processo. Hrw ha tenuto a precisare di aver incontrato ciascuno dei detenuti individualmente per 30-45 minuti, in privato, senza la presenza di guardie. "La Corte suprema deve affrontare le molte accuse di gravi violazioni al giusto processo mosse dagli imputati e dai loro legali quando valuterà gli appelli ai verdetti - ha detto Sarah Leah Whitson, direttore Hrw per il Medio Oriente e Africa del Nord - e la corte di assise deve garantire il pieno riconoscimento dei suoi diritti ad Al Saadi Gheddafi". Le violazioni denunciate dai quattro detenuti comprendono, tra le altre, l’impossibilità di incontri privati con i legali, l’impossibilità di convocare o interrogare testimoni, il rifiuto delle autorità giudiziarie di consentire agli imputati di intervenire durante il processo e intimidazioni ai danni dei legali da parte di gruppi armati. Uno degli imputati ha anche denunciato maltrattamenti durante gli interrogatori. Gheddafi ha anche raccontato di essere stato tenuto in isolamento in una cella senza finestre dal giorno della sua estradizione dal Niger, nel marzo 2014, senza alcuna possibilità di comunicare con altri detenuti; non ha ricevuto visite dai familiari, ma in sporadiche occasioni ha potuto telefonare ai propri parenti alla presenza di una guardia. Gheddafi ha inoltre riferito di aver avuto accesso a cure mediche. Iran: regista condannato a sei anni di carcere e 200 frustate per un film mai girato di Leone Grotti Tempi, 27 ottobre 2015 Il regime islamico l’ha condannato per "propaganda antigovernativa" e "insulto nei confronti di ciò che è sacro". Peccato che le scene per cui è stato accusato non siano mai state girate. "Non capisco quello che mi sta succedendo. Mi aspetto di tutto". È frastornato il regista iraniano Keywan Karimi, 30 anni, appena condannato dal regime islamico iraniano a sei anni di carcere e 223 colpi di frusta per un film mai girato. O meglio: Karimi un film l’ha prodotto, ma ciò che gli viene contestato non c’è. Ripercorrendo con il Le Monde la sua "storia kafkiana", non sa dire se "verrò arrestato domani oppure se, grazie a una forte mobilitazione internazionale, il governo cambierà idea sulla condanna". Karimi ha vinto diversi primi in giro per il mondo con i suoi cortometraggi, ma l’ultimo film girato, Writing on the city, gli ha causato dei guai. Il documentario di 60 minuti racconta la storia del paese attraverso i graffiti e i messaggi scritti sui muri di Teheran dalla rivoluzione del 1979 al movimento di rivolta del 2009. Karimi è stato condannato ufficialmente per "propaganda antigovernativa" e "insulto nei confronti di ciò che è sacro", a causa di una scena di sesso. "Sono 10 anni che giro film e non mi sono mai posto il problema di ciò che è vietato. Realizzo film per la storia, per testimoniare quello che succede nel mio paese e nella mia vita", racconta al quotidiano francese. I problemi sono cominciati nel 2013. Dopo aver annunciato a settembre la realizzazione del suo nuovo film, il 14 dicembre la polizia gli ha fatto visita a Teheran: "Mi hanno portato via l’hard disk con tutto il materiale del film. Sono stato arrestato e detenuto nel carcere di Evin (il più duro di tutto il paese) per due settimane, poi mi hanno liberato su cauzione". Nell’hard disk i giudici hanno trovato le immagini delle proteste del 2009, dopo la rielezione del presidente Mahmoud Ahmadinejad. "Mi hanno accusato di aver girato quelle immagini ma io gli ho spiegato che si trattava di materiale d’archivio", continua il regista. "Io ho chiesto e ottenuto un’autorizzazione per usare quelle immagini. Ho mostrato ai giudici tutti i documenti ma non mi hanno neanche ascoltato". La propaganda antigovernativa, dunque, non esiste. Così come il secondo capo d’accusa. La presunta scena di sesso, infatti, era stata preventivata ma non è mai stata girata: "L’attrice non ha accettato e così ho rinunciato a girarla". Ma per i giudici l’intenzione è sufficiente per condannarlo. Il regista parla da casa sua ma potrebbe essere arrestato in ogni momento: "Per ora sono libero ma non so cosa accadrà domani. Spero che il mio film venga trasmesso in qualche festival e che qualcuno mi dia il suo sostegno". Karimi non è l’unico artista iraniano perseguitato dal regime islamico retto dalla Guida suprema, l’ayatollah Ali Khamenei. Un altro celebre dissidente, suo malgrado, è Jafar Panahi, arrestato nel 2010 per aver cominciato a preparare un film sulle proteste del 2009. Le autorità gli hanno proibito di girare pellicole per 20 anni ma gli hanno concesso la libertà vigilata. Panahi ha continuato a fare il suo lavoro clandestinamente e il suo ultimo film, Taxi Teheran, girato con un cellulare, ha vinto l’Orso d’oro all’ultimo festival di Berlino.