Cambiare il carcere per permettere alle persone detenute di cambiare Il Mattino di Padova, 26 ottobre 2015 Cambiare il carcere per permettere alle persone detenute di cambiare. Non è un gioco di parole questo, ma una profonda verità: dal carcere si esce spesso cambiati in peggio, lo dicono anche persone, come l’ex magistrato Gherardo Colombo, che per anni hanno usato come pena principale la galera, e ora non ci credono più. Ma dove proprio non si riesce a pensare a pene diverse e più sensate, bisogna che almeno il tempo della carcerazione non sia insensato e poco umano. Agli studiosi e agli esperti che stanno lavorando negli Stati Generali dell’esecuzione delle pena anche per cambiare la qualità della vita detentiva, offriamo i piccoli suggerimenti di chi quella vita se la vive ogni giorno. Alla ricerca di un carcere, che potrà cambiarci… Sono innumerevoli le carceri in cui i detenuti vivono sognando le realtà dei pochi istituti di classe "superiore" come Bollate, Volterra, Padova, Rebibbia. Ma quanti di noi sono stati così fortunati da poter raccontare tale esperienza? Personalmente mi trovo in carcere da otto anni, di cui cinque a Padova, dove sono arrivato dopo un periodo turbolento, con isolamenti, denunce, momenti infelici passati nei circondariali, che di rieducativo non hanno niente, con regimi punitivi dove ti devi solo "fare la galera", comunque oggi sono ancora vivo dalle ferite riportate dentro queste mura. La redazione di Ristretti Orizzonti ha incontrato gli esperti degli Stati Generali, che hanno chiesto a noi detenuti come potrebbero migliorare le carceri italiane. Io non avevo mai fatto parte di una giornata così importante, dove si parlava addirittura di come migliorare la condizione di tutti noi detenuti. Quello che però non potrò dimenticare sono le primissime parole del magistrato, dott. Bortolato, quando ci ha incoraggiato a volare alto con le nostre proposte. In tutta sincerità qui a Padova, anche se ho fatto qualche casino, mi sento più pacato, non vivo più quella totale assenza di vivibilità che ho sperimentato in altre carceri. Sento di aver lasciato anche l’ira che mi accompagnava in quei luoghi dove cercavano di rieducarmi con la forza, piuttosto di capire quale fosse in realtà il mio problema. Qui a Padova le cose non vanno proprio al 100% di come dovrebbero andare, ma la macchina comunque cammina… Cosa potrebbe far stare bene me detenuto? Vorrei avere uno spazio adeguato, una cella singola dove poter trovare la mia serenità, la mia intimità, e non dover rivivere ancora convivenze forzate in celle affollate, dove mi è capitato di dormire a terra per mancanza di una branda, e dove è più facile che avvengano conflitti per motivi legati alle diverse abitudini, desideri, necessità. Con celle singole si eviterebbero tante tensioni e il detenuto stesso potrebbe provare a riflettere da solo in tranquillità. Vorrei provare a sentirmi libero dentro, non soltanto un numero di identificazione, abbandonato in una sezione a far crescere la mia inefficienza, ma in un circuito che anche se chiuso e controllato, consenta di partecipare ad attività sociali, ricreative e sportive, dove siano coinvolti più detenuti possibile, anche quelli che stanno chiusi nella propria cella, facendosi affliggere dalle angosce e debolezze che portano tante persone anche a farla finita. Vorrei che mi fosse data la possibilità di coltivare l’affetto della mia famiglia, facendo più colloqui in ambienti più accoglienti, dove possa magari mangiare e giocare con i miei nipoti in un’area verde, dimenticandomi di qualche anno fa, quando ero in carceri in cui ero separato dai miei da un bancone di marmo di quasi un metro che mi divideva dal mondo! Qui a Padova abbiamo la fortuna di poter fare telefonate via Skype, un’occasione per rivedere parenti che non si vedono da anni e ci è anche permesso di telefonare quando vogliamo, mentre da altre parti ci sono giornate e orari limitati, che possono non coincidere con la presenza in casa dei familiari, obbligandoci a perdere la telefonata. In altri posti non ci si può nemmeno lavare tutti i giorni, perché le docce sono concesse solo due o tre volte alla settimana. Perché oltre che della libertà io detenuto debbo essere privato anche della mia pulizia personale o di una telefonata con i miei cari? Sono tante le cose che non vanno negli istituti italiani, siamo uno dei pochi Paesi in Europa a non avere i colloqui intimi e io penso che la persona che vuole intraprendere una strada nuova per reinserirsi nella società, debba farlo vicino alla propria compagna, ma nella maggior parte dei casi i legami non sopravvivono alla detenzione per il troppo calvario che provoca. Penso che per una persona detenuta stare senza un contatto fisico con i propri famigliari sia una forma di castrazione affettiva che porta alla distruzione di molte famiglie. Ammetto di aver fatto molti casini nella mia detenzione, a volte anche per niente, proprio perché niente avevo in quei circuiti e niente avrei perso, avrei potuti evitarli ma non mi interessava farlo. Quanti detenuti ancora stanno facendo una detenzione così? devo sentirmi fortunato ad essere "in galera" a Padova dove sto scrivendo questo articolo con il mio PC che ho in cella mentre in altre carceri non si può nemmeno portare una bottiglia d’acqua al colloquio con i propri familiari, per i soliti motivi di sicurezza? Quello che non hanno capito è che non potranno rieducarci, tenendo le persone in tensione continua, come se tutti i giorni dovessimo combattere una guerra. Quando mi ricordo di tutto questo provo ancora odio verso quei metodi, perché non mi hanno voluto rieducare per reinserirmi nella società, ma infilzarmi giorno dopo giorno. Solo qualche mese fa sono stato trasferito per processo, atterrando di nuovo in un manicomio di carcere in Campania, che mi ha dato tanto sconforto, questa volta veramente non sopportavo più quell’ambiente all’apparenza cambiato solo dall’apertura delle celle, ma dove rimanevano 3 docce a settimana, la telefonata stabilita il giorno che dicono loro, un vitto veramente pietoso, una sanità che secondo me non funziona, dove per qualsiasi patologia il medico ti prescrive la solita pillola chiamata tra noi detenuti "pillola di Padre Pio". Un mese in quel lager mi è sembrato il mese più lungo in questi 8 anni, dopo aver vissuto nel regime di Padova, più calmo e rieducativo, anche se non da promuovere in tutti gli altri aspetti, ma dove posso vivere sperando di poter riuscire un giorno a reinserirmi nella società come un uomo migliore, e non cambiato in peggio da tutta questa privazione. Raffaele Delle Chiaie Non sapere l’italiano porta quasi sempre i detenuti stranieri ad "aumentarsi la pena" Nell’occasione degli "Stati Generali" è stato, giustamente, istituito il tavolo che affronta i problemi dei detenuti stranieri. Io che sono straniero vorrei raccontare le difficoltà che ho incontrato e continuo ad incontrare in carcere. Io sono albanese, prima che mi arrestassero pensavo di non avere problemi a parlare la lingua italiana perché nella vita quotidiana con poche parole e gesti non avevo difficoltà a farmi capire. Ma appena sono stato fermato e arrestato, mi sono reso conto che non sapevo parlare; al processo mi sono avvalso della facoltà di non rispondere, lasciando tutto in mano alla fortuna e all’avvocato che mi era stato assegnato, non vi dico a quanti anni sono stato condannato perché non li voglio ricordare. Sono stato portato in carcere dove continuavo a non parlare perché non capivo quello che mi veniva detto: per comperare le sigarette dovevo rivolgermi ad un mio connazionale e ad un italiano che lui conosceva per scrivermi la "domandina"; durante il colloquio di "primo ingresso" con gli operatori continuavo a dire "sì ho capito" anche se non capivo niente, ma la situazione diventava pericolosa quando avevo a che fare con gli agenti, perché io non capivo e non facevo quello che mi veniva detto e questo veniva interpretato come disobbedienza, causandomi molti rapporti disciplinari, due denunce per una rissa con gli agenti penitenziari e vari mesi in celle di isolamento. Dopo più di 4 anni di detenzione credevo di aver imparato la lingua, ma mi sbagliavo. Qualche mese fa sono stato espulso per 15 giorni dalle attività perché ho interpretato in modo letterale le parole di un agente e nella mia lingua quelle parole erano offensive, quindi gli ho risposto male. Quando mi è stato spiegato con calma che avevo capito male era troppo tardi. Partecipando alla redazione di "Ristretti Orizzonti" ho imparato molte cose e tra l’altro sento spesso che un articolo della Costituzione, l’art. 27, dice che "la pena deve tendere alla rieducazione del condannato". E io ho il dubbio che si possa rieducare un condannato che non capisce veramente quello che gli viene detto. I detenuti stranieri nelle carceri italiane sono più del 30%, di varie nazionalità e culture e sono pochi i detenuti stranieri che capiscono veramente la lingua italiana. Secondo me è necessario che in ogni istituto penitenziario venga istituito un mediatore culturale che si occupi di tradurre e spiegare le regole, i diritti e i doveri, così si eviterebbero molte tensioni sia tra detenuti e agenti sia tra detenuti di nazionalità diverse. Sarebbe bello che questi mediatori culturali fossero persone esterne, ma con i tempi che corrono e la scarsità di risorse si potrebbe ripiegare su un detenuto idoneo per svolgere temporaneamente questo compito. Se anche i detenuti stranieri devono essere rieducati e magari uscire migliori di quando sono entrati, in carcere prima devono capire quello che possono e devono fare. Marsel Hoxha Giustizia: Orlando; mettere in un angolo quelli che dicono "bisogna buttare via la chiave" Ristretti Orizzonti, 26 ottobre 2015 Dall’intervento del Ministro della Giustizia Andrea Orlando al congresso nazionale dell’Anm. "Mi spiace che di carceri non si ragioni più dal momento in cui si è superata la triste situazione del sovraffollamento. E non lo dico dal punto di vista di chi ha dato qualche contributo ad andare in questa direzione, ma dal punto di vista vostro. Noi abbiamo un sistema dell’esecuzione penale che è tra i più cari in Europa e che ha il più alto tasso di recidiva. Voi lavorate per mandare della gente in galera che quando esce è peggio di quando vi è entrata: credo che questo sia un elemento di frustrazione che dovremmo affrontare tutti insieme, anche in questo caso insieme. Perché una volta superata la situazione di sovraffollamento non abbiamo risolto il tema del modello attraverso il quale avviene la detenzione, che nel nostro Paese è un modello passivizzante, carcero-centrico, che finisce per perpetuare le gerarchie criminali che si realizzano all’esterno del carcere stesso. In questo io credo che una discussione seria, ampia - anche dei costi/benefici, senza approcci ideologici, e nel confronto fra questo e altri sistemi a livello europeo - io credo che debba essere fatta. Anche per fronteggiare quel populismo penale contro il quale il presidente Sabelli ha speso parole importanti nei mesi scorsi. Ma che va sconfitto non semplicemente con una discussione fra addetti ai lavori, ma parlando alla società italiana. Cercando di confinare in un angolo gli imprenditori della paura. Cercando di mettere in un angolo quelli che dicono "bisogna buttare via la chiave". Senza considerare il fatto che la nostra Costituzione dice, non per caso, una cosa abbastanza diversa". Giustizia: spreco del cibo nelle carceri, da Bollate la sfida del "fai da te" Adnkronos, 26 ottobre 2015 In carcere, in tutte le carceri italiane "c’è una sorta di simbolica bulimia alimentare", che porta molti detenuti "a riempirsi la ciotola di cibo per il solo scopo di gettarla via". Cibo in carcere e quotidiano spreco alimentare per milioni di euro l’anno. Una realtà a cui non si fa caso ma che nell’anno di Expo suona come una stecca. Qualche numero descrive il fenomeno a livello nazionale. A settembre 2015, secondo i dati Istat, nelle carceri si trovano 52.294 detenuti. Tra le forme di protesta più diffuse, oltre allo sciopero della fame, c’è il rifiuto del vitto che, al 2013, secondo gli ultimi dati, ammonta ufficialmente a 1.548 casi anche se il fenomeno pare essere molto più diffuso. Prendendo per buono il dato di 1.548 rifiuti e considerando che lo Stato paga 3,80 euro al giorno per detenuto per colazione, pranzo e cena si arriva alla cifra di 5.882 euro al giorno gettati, ben 2.146.930 euro all’anno. E questo solo per chi rifiuta di servirsi dal carrello ufficialmente. Poi c’è il fenomeno di cui nessuno parla mai, quello che porta i detenuti appunto a riempirsi di cibo al carrello per poi gettarlo in cella, ma che è una realtà così presente da portare il conto economico dello spreco a lievitare a dismisura, a decine di milioni di euro all’anno. A sollevare il tema e "fotografare" una realtà per molti scomoda o più semplicemente ignorata è una detenuta "atipica" di Bollate, il carcere modello in Italia, una struttura dove i detenuti che accedono a servizi e progetti sono numerosi e dove, non casualmente, il tasso di recidiva è al 17%. È il carcere a ridosso dell’Esposizione Universale dove le finestre, in particolare quelle del reparto femminile, si affacciano su Expo dedicato proprio alla nutrizione e all’energia. Si chiama Marina Cugnaschi ed è la giovane descritta sul web come "l’eroina anarchica", "l’eroina alternativa", condannata a 11 anni e rotti per gli scontri del G8 a Genova. È lei che, forse con un occhio ai padiglioni di Expo, ha avuto il ‘coraggiò di descrivere e firmare in un articolo di Carte Bollate, la rivista del carcere, cosa accade e perché. Ma anche di suggerire un approccio diverso per evitare uno spreco statale che, a fine anno, costa milioni. È Marina a parlare per la prima volta di "una sorta di simbolica bulimia alimentare", a cercare di dare una risposta a questo fenomeno per arrivare a proporre, a chi l’ha incontrata, qualcosa di molto meglio in termini di spreco e, soprattutto, di riabilitazione. La "forma di rifiuto di alimenti" scrive Marina, avviene perché sono "avvertiti come privi di proprietà benefiche e a cui si fa fatica a dare un valore nutritivo. Forse, perché associati al nulla a cui la perdita della libertà ci condanna, si passano gli anni a ripetere gli stessi gesti in nome del diritto di essere alimentati e del dovere di alimentarci". In altre parole, "nel rifiuto e nello spregio di quel cibo si compie un piccolo rituale di rifiuto della carcerazione e dell’istituzione". La proposta che suggerisce la giovane detenuta è coraggiosa, forse non immediatamente praticabile su tutto il territorio nazionale, ma potrebbe funzionare. In sintesi il suo pensiero è: basta gettare cibo e risorse pubbliche. Meglio sarebbe consentire ad ogni detenuto di acquistare con la stessa somma (3,80 euro al giorno) il necessario per fornirsi tramite il sopravvitto i prodotti che gli servono e invogliarlo, di fatto, a cucinare per sé. Basta sprechi e via libera, soprattutto, ad una pratica antica come il mondo ma sempre valida di riabilitazione personale se è vero, come scientificamente provato, che il cibo è legato all’affettività. Cucinare è prendersi cura di sé e degli altri, è volersi e volere bene. È una pratica e una cura insieme. Un esercizio che in carcere potrebbe aiutare ogni singolo detenuto a pensare a sé, alla sua condizione, per portarlo a volersi bene. Il primo passo, insomma, di un percorso di riabilitazione. La realtà descritta da Marina è invece un processo regressivo di dipendenza che porta a rabbia e frustrazione. Un passaggio disumanizzante e non un momento rieducativo dove il carcere perde la sua funzione per diventare una sorta di ‘discaricà. Ed è una realtà in cui ci si imbatte subito. "L’approccio col cibo in carcere - scrive Marina - è uno degli aspetti più avvilenti della vita di un recluso. La prima volta che ci si trova dietro un blindo (porta di ferro a sbarre), si sperimenta la sconcertante somministrazione di alimenti a menù ministeriale, vale a dire uguale in tutte le prigioni del Paese. La differenza sta nella forma, nel modo di distribuire una delle principali fonti per la sopravvivenza... non si pretende di certo il piatto di porcellana, posate d’argento e via dicendo, ma almeno un minimo di decenza che non faccia diventare il momento dei pasti come il più degradante della giornata". Intanto, prosegue Marina nella sua descrizione "è necessario precisare che all’ingresso in carcere si viene corredati di piatti di acciaio (o di plastica) a forma di ciotola simili a quelle che si vendono per i cani. Il suddetto utensile, multifunzionale (lo si usa pure per la battitura durante le proteste) viene riempito di pietanza fino all’orlo dal porta vitto, questa quantità smodata di cibo, che il detenuto prende, o addirittura esige, viene puntualmente catapultata nel cesso, spesso a prescindere dalla qualità: è una sorta di simbolica bulimia alimentare, che porta a riempirsi la ciotola di cibo per il solo scopo di gettarla via, una forma di rifiuto di alimenti, avvertiti come privi di proprietà benefiche e a cui si fa fatica a dare un valore nutritivo". "Non è un caso che una delle principali forme di protesta nelle carceri - prosegue la detenuta su Carte Bollate - consiste proprio nello sciopero della fame e nel rifiuto del cibo. Se considerassimo lo spreco quotidiano sia in termini economici sia di materie prime alimentari i costi della sicurezza crescerebbero esponenzialmente nei bilanci dello Stato, ormai, anch’esso parte di un’economia globalizzata che comprende le molte aree della terra in cui si muore ancora per denutrizione". Un altro aspetto da considerare, analizza ancora il problema Marina "è la difficoltà di scelta dello stile alimentare. La preferenza per diete particolari per le più svariate ragioni, religiose, etiche, igieniche non è una libera scelta e non basta comunicarla ai responsabili della cucina. Per ottenerla occorre farsela prescrivere dal medico anche se non attinente a particolari motivazioni di salute. Una forma di bio-controllo sottile ma al tempo stesso invasivo, attraverso la quale si certifica ciò che si mette nel piatto. Detto questo, l’alimentazione dei detenuti è regolata da una sorta di spreco coatto: tutti prendono il cibo che passa col carrello ma sono pochi quelli che lo mangiano". Succede così che "la maggior parte provvede a cucinarsi per conto proprio il pasto con prodotti che acquista con il sopravvitto, servizio che in ogni penitenziario viene gestito con la collaborazione di ditte esterne e fornisce settimanalmente i detenuti di generi alimentari, per l’igiene personale e per l’igiene degli spazi abitativi. In conclusione, il carcere è tenuto a erogare pasti perché deve farsi carico del sostentamento del detenuto. Questi alimenti però diventano quasi subito spazzatura, perché nel rifiuto e nello spregio di quel cibo si compie un piccolo rituale di rifiuto della carcerazione e dell’istituzione". Luigi Pagano: cibo "fai da te"?, intento condivisibile ma impraticabile Intento condivisibile, ma soluzione impraticabile. La proposta lanciata da una detenuta del carcere di Bollate, alle porte di Milano, di eliminare gli sprechi legati al consumo del cibo nei penitenziari italiani consentendo ai detenuti di cucinarsi da sé, con una formula che punta anche alla riabilitazione, trova scettico Luigi Pagano. Il dirigente ha passato una vita nell’amministrazione penitenziaria italiana: punto di riferimento in Lombardia e a Milano, come direttore di San Vittore, Pagano ha trascorso anni nell’amministrazione penitenziaria fino ad ottenere il ruolo di vice-capo. Ora è tornato al lavoro in carcere. É diventato il provveditore regionale del Piemonte e della valle d’Aosta dal 15 giugno scorso. "L’intento (descritto dalla detenuta di Bollate, ndr) è assolutamente condivisibile. Ma la soluzione, nell’immediato, su territorio nazionale non è praticabile", almeno al momento, dice all’Adnkronos. "Forse una volta - spiega Pagano - sarebbe stato più ipotizzabile, ma oggi il target della popolazione carceraria è tale che semmai il problema dell’alimentazione durante la detenzione è più legata alla quantità di cibo che alla qualità. Il fabbisogno, alla fine, a livello nazionale, viene consumato". La problematica, comunque, esiste. Ma "3,80 euro al giorno sono veramente pochi perché ciascuno provveda alle necessità nutritive da sé. E poi, nell’immediato, avremmo altri effetti negativi legati soprattutto ai posti di lavoro. In molte carceri -aggiunge ancora Pagano- sono gli stessi detenuti che, pagati dall’amministrazione, svolgono lavori legati ad attività domestiche come i pasti. Si perderebbero posti di lavoro preziosi". "Piuttosto - dice Luigi Pagano - soprattutto con più risorse, si spera di realizzare cucine di reparto come già esistono in varie carceri come Bollate e di promuovere corsi di formazione, con l’ausilio delle Regioni, per qualificare i detenuti che svolgono questi lavori. L’intenzione è di dotare i nuovi istituti di cucine e di legarle alla formazione professionale. E di utilizzare magari alimenti coltivati nelle stesse carceri o di utilizzare prodotti tramite protocolli, ad esempio, con Confagricoltura". L’obiettivo, conclude Pagano "è migliorare progressivamente tutti gli istituti soprattutto laddove si può lavorare a medio e lungo termine. L’intento descritto da questa detenuta è condivisibile ma l’idea in sé potrebbe essere avventata. Migliorando le condizioni delle carceri si arriverà a risparmiare e a migliorare la qualità generale della detenzione di cui sicuramente le condizioni legate al vitto sono importanti". Giustizia: disgelo tra toghe e governo di Sara Menafra Il Messaggero, 26 ottobre 2015 Spesso dura nei toni che sceglie, specie con chi si contrappone alla linea del governo, nell’ultima giornata di congresso dell’Anm è il ministro per le Riforme Maria Elena Boschi a porgere alle toghe il calumet della pace. Prende la parola con un intervento conciliante, dribblando tutti i temi di polemica dei giorni scorsi e in particolare quelli lanciati dal presidente delle toghe associate, Rodolfo Sabelli. Evidenzia la presenza del presidente Mattarella all’apertura del congresso barese. Quindi, piazza una citazione di uno dei Discorsi di Niccolò Machiavelli che le regala un sentito applauso: "Non ci può essere una città libera dove anche un solo cittadino è temuto da un magistrato", cita. E aggiunge: "Quel presidio di indipendenza che garantisce la Libertà delle nostre città e la sicurezza dei nostri cittadini fa parte dei nostri valori riconosciuti". Il resto dell’intervento del ministro Boschi è soprattutto un richiamo ai valori condivisi. Ad esempio quando sottolinea che il lavoro dei magistrati viene fatto "per il bene supremo del Paese" e ai magistrati che sono "in prima linea va tutta la nostra gratitudine". O quando conclude ricordando che "al di là delle differenze" gli incaricati di funzioni pubbliche sono tutti chiamati a rispettare l’articolo 54 della Costituzione: "Credo che le sfide che ci aspettano siano tante e alte, ma sarà più bello vincerle se lo faremo con disciplina e onore". C’è anche una piccola apertura di merito: nella legge di Stabilità, dice, ci sono i finanziamenti per l’assunzione di 300 toghe. Il confronto toghe governo si chiude così, se non con un vero e proprio trattato di pace, almeno con un armistizio, siglato dalle parole dello stesso Sabelli: "C’è rispetto reciproco", dice rivolto alla Boschi. Due giorni fa era toccato al Guardasigilli Andrea Orlando il compito di smorzare la polemica, sottolineando che il governo, e lui personalmente, considerano l’Anm "un interlocutore essenziale". Alle porte, del resto, c’è il difficile passaggio della delega sulla riforma del processo penale, compreso lo spinossissimo punto dell’intervento che metterà limiti alle intercettazioni e alla pubblicazione degli ascolti. Renzi e Orlando vogliono che passi attraverso un confronto aperto con magistrati, giornalisti, avvocati e professori per definire quei paletti che, al momento, la delega al governo non ha, tanto che c’è chi pensa che in questa forma rischi l’incostituzionalità. Perigliosi sono anche la riforma del Csm e quella della prescrizione, dove langue il testo firmato da Donatella Ferranti, osteggiato da Ncd. Dunque, meglio evitare lo scontro in campo aperto, finché è possibile. Anche se il documento conclusivo del congresso torna sul "clima di delegittimazione e sfiducia nel sistema giudiziario". E ribadisce che le toghe non hanno alcuna intenzione di veder ridimensionato il proprio peso, come dice a chiare lettere il passaggio centrale del testo approvato a Bari: "L’Associazione nazionale magistrati continuerà a svolgere il suo ruolo di interlocutore essenziale per sostenere una giustizia in grave affanno e si oppone, nell’interesse dei cittadini, ad ogni tentativo di ridimensionamento del suo ruolo istituzionale e di rappresentanza della Magistratura". Giustizia: mozione conclusiva del congresso dei magistrati, le accuse al governo restano di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 26 ottobre 2015 Dalla delegittimazione alle intercettazioni, ribadite le tesi di Sabelli. Passati tre giorni di dibattito, tra "guerre" vere e presunte, "scontri" aperti e chiusi, un confronto diretto col ministro che è servito almeno a mitigare i toni della polemica, i magistrati tirano le somme. E concludono il loro XXXII congresso con una mozione nella quale vengono ribadite tutte le critiche e le criticità segnalate nella relazione d’apertura del presidente Rodolfo Sabelli. Quella che aveva acceso i toni con la sfida al governo, almeno sul piano mediatico. Ma al di là delle intenzioni e degli accenti più o meno tesi - ieri la ministra per le Riforme Maria Elena Boschi ha avuto un’accoglienza garbata e istituzionale - le denunce restano tutte. Marcate e nitide. "I magistrati italiani, preoccupati dal clima di delegittimazione e sfiducia nel sistema giudiziario, respingono il tentativo di scaricare sulla responsabilità del magistrato le carenze dell’organizzazione e l’inadeguatezza delle regole". Con altre parole, è ciò che aveva detto Sabelli. E così sull’immagine distorta dell’Anm: "Siamo consapevoli dei pericoli che potrebbero venire dall’immagine, facile e falsa, di un’associazione trasformata in soggetto esponenziale di una corporazione rivendicativa, tutta volta alla difesa dei propri privilegi". Nella relazione del presidente c’era l’aggiunta sulla "strategia" di delegittimazione, che nel documento finale è stata ridotta a "clima". Alimentato dal governo o da qualcun altro poco importa, se il governo non fa nulla per contrastarlo. Quanto al giudizio sulle riforme avviate e quelle da fare, i magistrati ripetono non vanno bene, nonostante le rassicurazioni del Guardasigilli Andrea Orlando. Denunciata "la disorganicità e la timidezza dei disegni di riforma", si contestano "i nuovi termini dell’esercizio dell’azione penale, incompatibili con la realtà delle indagini e l’organizzazione degli uffici". Sulle intercettazioni resta la preoccupazione per la carta bianca lasciata dal Parlamento al governo: "Non si sottragga al legislatore ordinario la riflessione preventiva sugli aspetti più delicati attuando una delega che, per la sua genericità, si presta ad un ampio ventaglio di soluzioni". E chissà che cosa ne potrebbe venir fuori. Stavolta non c’è il paragone con il contrasto alla mafia, che aveva acceso la zuffa, ma si parla di criminalità comune: i magistrati mettono in guardia dal cedimento "a generiche istanze securitarie e a superficiali appetiti giustizialisti", mentre emerge una "incoerente cautela nella materia dei reati di corruzione". Poi si richiama il problema annoso della prescrizione, auspicando un intervento "strutturale che ponga definitivo rimedio ai guasti prodotti dalla riforma del 2005, accogliendo i richiami che da tempo giungono dall’Europa". Ma questo è un tema sul quale il governo è in difficoltà. L’accordo tra Pd e Ncd non c’è, essendo su questo e altri argomenti il partito di Alfano rimasto vicino a Fi. Inoltre tra Pd e Ncd è già aperto il dibattito sui diritti civili, ed è improbabile che Renzi metta altra carne al fuoco del confronto, rischiando di far saltare tutto. Proprio ad Alfano, che ha voluto sfidare l’Anm citando il caso della presunta corruzione dei giudici che si occupavano dei sequestri antimafia, i magistrati hanno risposto indirettamente ripetendo quello che in molti avevano sottolineato in tre giorni di congresso. Il documento finale richiama i "gravi comportamenti oggetto di indagini" e chiede che, "indipendentemente dalla loro rilevanza penale, i competenti organi statutari e istituzionali (cioè Guardasigilli, procuratore generale della Cassazione e Csm, ndr) esercitino tempestivamente i loro poteri di vigilanza e intervengano per adottare i conseguenti provvedimenti". Giustizia: Ferri "basta polemiche, serve un confronto serio per far funzionare i tribunali" di Massimiliano Lenzi Il Tempo, 26 ottobre 2015 "Credo che il rapporto tra il governo e l’Anm dovrebbe basarsi su un confronto costruttivo con l’obiettivo di garantire ai cittadini una giustizia certa, giusta, rapida e di qualità. Le contrapposizioni non aiutano, la collaborazione leale tra i poteri dello Stato sì". A parlare è Cosimo Maria Ferri, sottosegretario alla Giustizia del governo Renzi e magistrato. Ferri, si è rotto il dialogo tra governo Renzi e magistratura o no? "Le reciproche posizioni possono apparire speculari anche senza esserlo nella sostanza e questo possiamo scoprirlo se ci si concentra bene sugli obiettivi, che sono d’interesse di tutti. Per una giustizia efficiente, sia nel civile che nel penale, si deve lavorare tutti insieme: politica, magistratura e avvocatura. Occorre lavorare assieme sull’organizzazione degli uffici giudiziari: l’efficienza passa pure dalla migliore organizzazione e da maggiori investimenti in risorse e nel personale amministrativo. Anche se i magistrati italiani sono quelli più produttivi in Europa, la risposta di giustizia è lenta: occorre lanciare un piano per smaltire l’arretrato e pensare a come modulare l’accesso alla domanda di giustizia. In alcuni tribunali i carichi di lavoro sono ingestibili. I cittadini e le imprese non possono aspettare anni per vedere tutelato un proprio diritto". Da cosa far ripartire il dialogo? "Rispetto dell’indipendenza reciproca, intesa sulle priorità della giustizia, collaborazione su legalità, garanzie per il cittadino, recupero dell’efficienza del sistema. In altre parole, i compiti li fa ognuno a casa propria, ma davanti alla maestra - che in questo caso è rappresentata dagli italiani - occorre presentarsi con un unico tema". Il segretario Anm Maurizio Carbone ha detto: "Chiediamo risposte concrete e forti: non sempre è accaduto". "L’attenzione del governo sul tema della legalità è massima. Dopo il ddl anticorruzione, l’introduzione del reato di auto-riciclaggio, la riforma dei reati ambientali, il reato di voto di scambio politica-mafia, si sta discutendo in commissione giustizia il ddl sull’emersione dell’illegalità che affronta le mafie sul terreno economico per reinserire le aziende risanate nel circuito produttivo, proprio a dimostrazione che c’è una continuità nella nostra azione di tutela della legalità". Intercettazioni: Anm ha parlato di "politica attenta più alla pubblicazione che allo strumento investigativo". "Ero e resto convinto dell’irrinunciabilità di questo strumento di indagine per combattere le forme più gravi di criminalità. Come dimostrano le ultime indagini Mafia Capitale, corruzione per appalti Anas, le intercettazioni sono uno strumento indispensabile nella ricerca della prova. Nella delega sulle intercettazioni non è prevista alcuna restrizione per il loro utilizzo: al contrario si ha ora la possibilità di ampliare il ricorso a questo strumento per contrastare con più efficacia i reati contro la Pa. È evidente che, nell’ambito del procedimento, occorre trovare un punto di equilibrio tra la tutela delle indagini, il diritto all’informazione e la protezione dei diritti di quei soggetti estranei al processo penale. Non è possibile che vadano in pasto all’opinione pubblica persone estranee alle indagini, o questioni private che non c’entrano niente con i fatti contestati". Giustizia: Violante "la politica attacca i pm ma li usa come riserva. Renzi? toni poco seri" di Liana Milella La Repubblica, 26 ottobre 2015 Orlando media, ma è ancora scontro tra politica e magistratura. Il Pd al governo fa leggi che le toghe mal vedono. Come se ne esce? Lo abbiamo chiesto a Luciano Violante. "Le proposte sulla giustizia, dove c’è un fisiologico conflitto tra avvocatura e magistratura, non sono destinate a piacere agli uni o agli altri; devono essere chiare, efficaci, difendibili davanti all’opinione pubblica e devono attuare i valori costituzionali. Quelle citate sono solo proposte di legge e c’è ancora la possibilità di correggere". Delegittimazione dei giudici. Lei la vede? "C’è una situazione contraddittoria. In alcune vicende, si pensi all’arresto del vicepresidente della Regione Lombardia, si accusano i magistrati di condizionare intenzionalmente la vita politica. In altri c’è una sorta di iper-legittimazione, che tende a strumentalizzare i magistrati per ragioni opposte, come avviene da parte di quei settori del mondo politico e della comunicazione che hanno trasformato il codice penale nella carta morale della politica e presentano una comunicazione giudiziaria come una sorta di verità rivelata. In altri casi la magistratura funziona come una sorta di esercito di riserva della politica. Serve un’autorità anticorruzione e si incarica un magistrato; serve a Roma un assessore alla trasparenza e si nomina un magistrato; così via per decine di casi, grandi e piccoli". Lei è stato magistrato. Poi ha attraversato un trentennio coprendo responsabilità politiche importanti. I giudici hanno ragione di lamentarsi o c’è del vittimismo? "Molti uffici giudiziari, in palese violazione della legge, hanno ammesso cittadini che non ne avevano il diritto alle cosiddette cure Stamina, con spese a carico del Servizio sanitario nazionale. Altre decisioni, poi cancellate dal Gup o dai collegi giudicanti, anche con arresti, hanno arrecato danni enormi alla reputazione di personalità del mondo imprenditoriale e finanziario con gravi danni economici per le imprese e per l’Italia. Sono questioni difficili da spiegare a un investitore straniero. E i cittadini comuni come possono difendersi? Occorrono le virtù della competenza e della prudenza, in misura crescente". Quando Renzi taglia le ferie delle toghe e parla di "fannulloni", quando accredita l’idea che guadagnano troppo, quando reagisce con un "brrrr... che paura" alle critiche dell’Anm non suona delegittimante? "Non mi pare questo il modo di affrontare problemi seri. Ne va di mezzo l’autorevolezza del presidente del Consiglio, che non è un bene personale, ma un valore dell’intero paese". La magistratura ha bisogno di essere "legittimata" dal consenso politico e popolare per fare il suo lavoro? "Le leggi, per la confusa formulazione, non sono più idonee, da sole, a fondare la credibilità della magistratura. Il consenso popolare non deve interessare ai magistrati. Si tratta della stima, della fiducia e del rispetto che devono meritarsi con ì comportamenti quotidiani (e molti lo fanno) e che tutti, a partire dal mondo politico, devono mettere in campo con sobrietà, guardando alla credibilità della magistratura come a un bene dell’intero Paese". Orlando dice che l’attuale politica delegittimata non può delegittimare le toghe. "Ha ragione. Non ci deve essere una competizione per chi ha meno credibilità tra magistratura e politici. Così un Paese va a rotoli". Intercettazioni. La politica ha paura di quello che rivelano? "Esiste un confine invalicabile tra giudizio morale e giudizio penale. Quelle irrilevanti vanno cestinate. I tempi dei processi staliniani, dove si cercava qualsiasi dato anche penalmente irrilevante, per infangare l’accusato, non devono tornare neppure con mascheramenti moderni". Giustizia: la magistratura controlli il suo operato di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 26 ottobre 2015 Già quattro anni orsono l’arresto di un magistrato di un ufficio calabrese, accusato di corruzione per i suoi legami con ambienti di ‘ndrangheta, aveva dato occasione a un commento su questo giornale sulla portata dell’inquinamento della magistratura. Segnalavo che non solo il problema esiste, ma che la sua marginalità rispetto alla generale correttezza del corpo giudiziario non doveva portare a sottovalutarne l’estrema gravità. Da allora qualche altro episodio è emerso ed è stato trattato dal giudice penale. Casi sporadici. Quelli che emergono. Ora sull’onda di quel che si sa - benedette intercettazioni, si dovrebbe dire, e benvenuta la fuga di notizie - a Palermo sembra che sia successo di tutto, attorno ad uno degli uffici giudiziari più delicati d’Italia. Si tratta di affari che trovano nel codice penale la loro sanzione e affari che descrivono un mondo di magistrati, consulenti, professionisti vari, il cui stile di vita e concezione dei doveri di ufficio sono anni luce lontano da quel che dovrebbe. Compatti, compartecipi, conniventi e qualche volta pure parenti o parenti di parenti. Una bella società civile in piena sintonia con magistrati. Una volta si diceva che i magistrati non devono vivere in una torre di avorio, ma essere nella società. Era questa una reazione mossa da un certo carattere chiuso della magistratura di allora. Ma non si sarebbe dovuto far cadere ogni filtro, ogni separazione, ogni cautela. E anche ogni consapevolezza della speciale posizione del magistrato. Naturalmente quando si tratta di corruzione, non si è più sul terreno della mancanza di sensibilità nel rapporto con la società circostante, ma su quello della delinquenza. Tuttavia un nesso c’è e riguarda un aspetto molto serio del problema: quello della mancanza di controllo preventivo, severo ed efficace da parte dei capi degli uffici, dei colleghi ed anche degli avvocati, che sanno dei giudici qualche volta più di quanto non sappiano i colleghi. Questi controlli non funzionano; manca quello che, negli ambienti professionali è più efficace, il controllo sociale. Il controllo che allo spirito di colleganza unisce la consapevolezza che la scorrettezza di uno colpisce la reputazione di tutti. Rapporti impropri di magistrati, che formano il terreno fertile per episodi di vera corruzione, sono tollerati, come fossero fatti della vita privata, che non consentono interventi. E ciascuno fa i fatti suoi. È possibile che quanto emerge dalla vicenda di Palermo, con il numero delle persone coinvolte e la durata nel tempo, fosse ignoto a tutti? E che l’unica reazione sia quella della magistratura penale, che arriva naturalmente sempre troppo tardi. Prima di essa avrebbe dovuto operare la vigilanza ordinaria. Invece, anche dopo una segnalazione di malfunzionamento dell’ufficio fatta alla Commissione parlamentare antimafia dal prefetto direttore dell’Agenzia nazionale per i beni confiscati alla mafia, le notizie riportate al Consiglio superiore della magistratura restarono generiche e vennero archiviate. Si dirà anche questa volta che il problema sono i capi degli uffici e che occorre selezionarli meglio. Vero, ma non solo. Nel controllo sulla condotta dei magistrati - come e più che in tutto il pubblico impiego - la vigilanza disciplinare e la valutazione di professionalità si sono caricate di formalità e garanzie procedurali che mettono in grave difficoltà, fino all’impotenza, il capo dell’ufficio. È difficile qui descriverle tutte, fino al Consiglio superiore della magistratura. E poi ci sono i ricorsi al giudice amministrativo. Il tutto riguarda una materia in cui i criteri giudiziari nella valutazione delle prove confliggono con l’esigenza preventiva che le iniziative di vigilanza devono avere. Qui si tratta infatti di preservare l’interesse pubblico. Regole di garanzia, tra cui l’enfatizzata presunzione di innocenza che riguarda il processo penale, dovrebbero essere pensate in funzione della tutela del servizio pubblico che rendono i magistrati, in modo da consentire e non disincentivare l’attiva vigilanza sulla loro correttezza. La difficoltà di svolgerla utilmente impedisce tra l’altro di contestare l’omissione al dirigente (e facilita l’opera di copertura spesso svolta dai colleghi della corrente cui l’interessato fa riferimento). Ora, sull’onda di un intervento del suo presidente al congresso della Associazione nazionale magistrati e della reazione risentita del ministro degli Interni, siamo invitati a un esercizio surreale: dovremmo impegnarci a decidere chi deve maggiormente fare autocritica, cioè, semplificando, chi è maggiormente corrotto o corrivo con i corrotti. Io credo che il ministro abbia torto, anche se la vicenda palermitana gli dà ragione. Ma la magistratura, garanzia ultima per i cittadini, non può permettersi di pareggiare o anche solo di offrire materia perché si apra una simile gara. Giustizia: gli ex manicomi criminali e quella chiusura mai arrivata di Matteo Luca Andriola lettera43.it, 26 ottobre 2015 Ritardi. Maltrattamenti. Polemiche. Una legge chiude gli Ospedali psichiatrici, ma nel 2015 in Italia ci sono ancora internati. Colpe e numeri di una impasse. Fu una rivoluzione. Avvenne con l’entrata in vigore alla fine degli anni 70 della Legge Basaglia, nota come legge 180/1978, in onore a Franco Basaglia, medico promotore dell’iniziativa. Si cercò, grazie agli studi del dottor Thomas Szasz, di superare non solo la logica manicomiale, ma di imporre la chiusura dei manicomi, regolamentando invece il trattamento sanitario obbligatorio. Lo scopo era istituire i servizi di igiene mentale pubblici con l’intento non di rinchiudere chi era afflitto da gravi patologie psichiatriche, ma puntando al bisogno di risocializzare i pazienti. Se la situazione in quell’ambito sembra notevolmente migliorata (i 76 istituti psichiatrici sparsi nel territorio nazionale sono stati sostituiti da numerose strutture residenziali, servizi psichiatrici diagnostici e cura, centri di salute mentale e altre strutture riabilitative) diverso era lo scenario nei casi in cui i malati si macchiavano di delitti e crimini, venendo giudicati pericolosi per sé e per la comunità. Se prima furono create le case di reclusione, che sostituivano i manicomi criminali, con la riforma dell’ordinamento penitenziario del 1975 entrarono a far parte del sistema penale italiano gli Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg). Le cose, però, non erano molto cambiate. Si registravano dei casi in cui prevaleva la logica detentiva, non quella sanitaria. L’iter iniziò nel 2008 col decreto ministeriale di riordino della sanità penitenziaria, e proseguì nel 2010 con l’istituzione di una Commissione d’inchiesta istituita dal Senato presieduta da Ignazio Marino per superare gli Opg. La Commissione poi, in un’indagine condotta sugli ospedali di Barcellona Pozzo di Gotto (Me), Aversa (Ce), Napoli, Montelupo Fiorentino (Fi), Reggio Emilia e Castiglione delle Stiviere, accompagnata da un video girato dalla troupe di RaiTre, trasmessa durante Presa Diretta, documentò che fra diversi Opg e i vecchi manicomi criminali non c’erano molte differenze. Strutture fatiscenti, lenzuola sporche, muri scrostati dall’umidità, muffa, materassi accatastati, immondizia in giro, persone lasciate senza cure e costrette a subire condizioni disumane, totalmente antigeniche, con i ratti che uscivano dai gabinetti, come visto nell’Opg di Aversa. Con una forte scarsità di personale (medici che nelle singole strutture erano presenti solo quattro ore a settimana, e che dovevano curare 300 pazienti) e spazi ristretti, con tre metri quadrati a malato, in violazione delle norme istituite dalla Commissione europea per la prevenzione della tortura. L’inchiesta aveva poi documentato il caso di una persona finita dentro 25 anni prima "per essersi travestito da donna e aver spaventato i bambini di una scuola". Chiusura definitiva sempre rimandata. Una situazione insostenibile. Si valutava quindi il possibile intervento governativo e il relativo commissariamento, come suggerito dal comitato Stop Opg - costituito da sigle come il Forum salute mentale, Cgil, Ristretti Orizzonti, Fondazione Basaglia, Arci, A buon diritto eccetera. La chiusura è stata rimandata tre volte in due anni (non va dimenticato che si sarebbero dovute superare queste strutture già nel 2013: una prima proposta di legge fu fatta nel febbraio 2012, che ne fissava l’addio al marzo successivo, prorogata al marzo 2015 dalla legge 81/2014). La chiusura definitiva degli Opg, si diceva, dovrebbe risultare come una data storica, simile al 1978, ma è veramente così? Com’è la situazione odierna? La legge presenta degli elementi di discontinuità: la gestione di questi soggetti (i "rei folli") sarebbero a carico dei Dipartimenti di salute mentale del Sistema sanitario nazionale, legati al territorio, ma rilegati in strutture alternative che sostituiscono così gli Opg, le Rems - Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, strutture molto più piccole, massimo con 20 posti, dove dovrebbero essere mandati quei soggetti ritenuti non dimissibili dagli Opg (una ristretta minoranza degli attuali internati che, spiega Cesare Bondioli, responsabile carceri di Psichiatria democratica, erano circa 700 nell’ultima rilevazione ministeriale, dei quali oltre la metà dimissibili) o anche nuovi, per i quali il giudice abbia disposto una misura di sicurezza detentiva. Le Rems dovrebbero solo attuare la gestione sanitaria degli ospitati, visto che "l’attività perimetrale di sicurezza e di vigilanza esterna, ove necessario in relazione alle condizioni dei soggetti interessati" sarebbe stata svolta "nel limite delle risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente". La legge ha poi previsto, una volte per tutte, l’applicazione della misura di sicurezza del ricovero in Opg o in una Casa di cura e custodia solo in via sussidiaria e residuale, qualora risulti inidonea qualsiasi altra misura, nonché una serie di corsi di formazione per gli operatori del settore, ponendo fine al cosiddetto "ergastolo bianco", dato che le misure di sicurezza non devono superare la pena detentiva massima per il reato commesso. Ciò dovrebbe permettere una gestione più sostenibile dei pazienti. Legge ancora oggi di difficile attuazione. Questo era quanto si sapeva a marzo 2015. Perché in data 22 giugno 2015, a tre mesi dalla chiusura ufficiale degli Opg, c’erano 341 persone internate in tutta Italia, come riferiva il sottosegretario Vito De Filippo alla Commissione igiene e sanità del Senato. Si contavano 708 pazienti nei vari Opg nel mese di marzo, quando è stata predisposta la chiusura di queste strutture. La legge "non sembra ancora oggi di facile attuazione" perché necessita di "una maturazione delle diverse istituzioni coinvolte", mentre l’organismo di coordinamento, che doveva cessare di agire il primo di aprile, continuava a riunirsi ogni 15 giorni per controllare l’attività degli Opg. Ci sono stati dei trasferimenti, tutti individuali, per "evitare traumi e contenere al massimo i possibili disagi per persone dal fragile equilibrio psicofisico, accompagnati dalla massima attenzione al monitoraggio delle condizioni cliniche", mentre le Rems attivate non erano sufficientemente adeguate per sostituire le precedenti strutture. Secondo quanto detto dal Dap le Rems di Pisticci (Basilicata), di Pontecorvo (Lazio), di Bologna e Parma (Emilia Romagna) hanno già raggiunto la capienza massima, mentre quella provvisorie di Castiglione delle Stiviere, per i pazienti residenti in Lombardia e della Liguria, accoglieva a giugno 230 pazienti pur avendo solo 160 posti letto, dei quali 140 residenti in Lombardia e Liguria e 19 senza fissa dimora. I restanti 71 pazienti venivano dalla Calabria, Campania, Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Lazio, Marche, Molise, Piemonte (43 uomini e 2 donne), Puglia, Sicilia, Toscana, Trentino Alto Adige, Umbria e Veneto. La Regione Lombardia ha comunicato che la struttura non accetterà pazienti, mentre sarà prevista una Rems a Limbiate (Monza e Brianza), con 40 posti letto. Questo fino a giugno. In base al sito Regioni.it, in data 18 settembre i numeri emersi durante l’audizione svolta in Senato in Commissione sanità, di Santi Consolo, presidente del Dap, indicano un calo di 226 i pazienti ospitati nei cinque Opg di Aversa, Napoli, Barcellona Pozzo di Gotto, Reggio Emilia e Montelupo Fiorentino). Sono emersi però ancora dei ritardi: si vedano le strutture regionali di Toscana e Umbria, dove la data di attivazione della residenza Padiglione Morel, 22 posti letto, ha sforato il termine previsto del primo agosto e, presumibilmente, è destinata a essere aperta tra la fine di ottobre e gli inizi di novembre. Veniva già segnalato ad aprile dal responsabile di Psichiatria democratica Bondioli come un caso palese di "inadempienza", dato che la chiusura dell’Opg di Montelupo è stata rallentata per i molti tentennamenti dalla Regione, portando a una soluzione inusitata: la delibera di trasferimento in blocco della maggioranza degli internati nell’Istituto "Mario Gozzini" (noto come Solliccianino), all’interno di un carcere che non cesserà, anche con la presenza dei nuovi arrivati, di mantenere le sue funzioni penitenziarie. Aperture e attivazioni posticipate a fine 2015. Ritardano le Rems definitive di San Nicola Baronia e Calvi Risolta in Campania, entrambe con 20 posti, termine di capienza per legge, che dovevano aprire nell’estate del 2015, ma l’apertura è stata posticipata in autunno. Incerto il caso dell’Abruzzo e Molise, dove è in corso un ricorso del Tar sulla realizzazione della struttura, e della Rems a Spinazzola, in Puglia, la cui data di attivazione era il primo ottobre. Idem per quella Grugliasco, in Piemonte, nel Torinese, che dovrebbe aprire entro dicembre. La Regione Lombardia, invece, ha presentato un sistema che comprende anche la Val d’Aosta: è il più vasto d’Italia, con 160 posti letto ed è stato avviato in tempo, il primo aprile, stipulando convenzioni pure con la Liguria e il Veneto per 10 posti letto. Le vecchie inadempienze, frutto anche di un superamento di sistema gestito in maniera eccessivamente celere, erano quindi sia colpa dell’operato delle Regioni, sia della magistratura, dato che continua a inviare sollecitazioni anche dopo l’entrata in vigore della legge 81/2014 che dice che l’ingresso in una Rems debba essere sempre e comunque considerato come l’ultima ratio. Infatti, il sottosegretario De Filippo ha spiegato che è "urgente, a tale riguardo, prendere delle iniziative di concerto con la magistratura inquirente: la magistratura di sorveglianza si è detta disponibile a favorire una tale interlocuzione finalizzata all’adozione delle misure alternative prescritte dalla legge n. 81 del 2014". Gli effetti di questa legge avranno ripercussioni pure sulle carceri, dato che i detenuti un tempo inviati negli Opg per il periodo canonico di osservazione di 30 giorni, adesso andranno nelle sezioni psichiatriche nei penitenziari, non migliorando senz’altro neppure la situazione di tali strutture, dove secondo dati del 2013, i disturbi mentali riguarderebbero circa il 40% dei detenuti, cosa del resto condannata dalla Corte europea dei diritti umani. Giustizia: reato di omicidio stradale, la pena massima sarà di 18 anni di Claudio Marincola Il Messaggero, 26 ottobre 2015 Era un genere considerato fino a ieri di serie B, derubricato nel codice penale come una sottospecie dell’omicidio, un delitto per così dire minore. D’ora in poi non sarà più così: la Camera già in settimana potrebbe approvare infatti l’introduzione del reato di omicidio stradale. Entro dicembre c’è già un accordo per esaminare in terza lettura il provvedimento e approvarlo entro l’anno. Era una promessa presa tempo fa dal premier Matteo Renzi ("questo scempio deve finire") con le associazioni promotrici del provvedimento. Chi alla guida di un veicolo a motore causerà un evento mortale e non presterà soccorso alle vittime verrà considerato a tutti gli effetti un "assassino". La pena nei casi in cui per il pirata scatterà l’aggravante potrà arrivare anche a 18 anni di reclusione con la revoca a vita della patente. Non siamo molto lontani dunque da quanto previsto per l’omicidio volontario. Guidare sotto l’effetto dell’alcool o in condizione di alterazione per l’uso di sostanze stupefacenti e causare un incidente potrebbe voler dire finire dritti in galera. Un cambiamento epocale per il nostro Paese che a differenza del resto d’Europa si è mostrato fin qui più tollerante. Almeno a giudicare dal numero delle multe e dei controlli. L’omicidio stradale (art.589 bis) è pronto insomma a fare il suo ingresso nei tribunali. E verrà introdotto anche il reato di lesioni stradali con tre livelli di pena che corrispondono ad altrettanti livelli di gravità. Pena da 8 a 12 anni per l’omicidio stradale con ubriachezza e tasso alcolemico superiore al 1,5 g e per stupefacenti; da 4 a 10 anni per ubriachezza tra 0,8 e 1,5mg. Pro-memoria: 0,8 mg equivalgono a 3,5 bicchieri di vino o due boccali di birra o 3 bicchierini di liquore. Possono causare la perdita di riflessi e reazioni. Troppe volte purtroppo sono bastati a spezzare vite umane. In Senato il governo era stato battuto su un emendamento più clemente, a firma di Marco Filippi - esponente manco a dirlo della minoranza dem - che aveva modificato il testo escludendo le cosiddette "fattispecie", ovvero chi causava eventi mortali per attraversamento con il semaforo rosso; circolando contromano; invertendo la marcia in prossimità di incroci curve o dossi o sorpassando con linea continua. La commissione Giustizia della Camera li ha reintrodotti. Ogni anno 4 mila morti. Alessia Morani, deputata Pd, è la relatrice che ha seguito passo passo l’iter del provvedimento. Spiega: "Le ragioni della necessità di una nuova legge sta scritta nelle cifre: ogni anno circa 4 mila persone muoiono a seguito di incidenti stradali. Un terzo di loro per mano di persone che guidano sotto l’effetto di droghe o alcool (il 20% dei casi ndr) o che commettono infrazioni o semplicemente e stupidamente sono distratti". "Ma è più facile - continua la relatrice - uccidere al volante che brandendo un’arma da fuoco o da taglio". Lo scorso anno le vittime della strada con meno di 14 anni sono state 63, "un numero intollerabile". La parlamentare dem cita l’esempio dell’Inghilterra dove da quando è entrata in vigore una norma più restrittiva il numero delle vittime si è dimezzato. "Un inglese che commette omicidio stradale - ricorda la Morani - resta in carcere per 8 anni. Vogliamo che mai più un ragazzo di 20 anni sia travolto da un’auto pirata e ritrovato in un fosso. Dobbiamo a questi ragazzi e alle loro famiglie la garanzia che questa legge sarà un punto di svolta". Il Senato aveva previsto un aumento della pena da 1/3 alla metà mentre ora è stata riportata da 1/3 a 2/3 e inserita una norma per cui la pena non potrà essere inferiore a 4 anni. Viene aumentata in caso di guida con patente revocata o sospesa e senza assicurazione. Anche per le lesioni l’aggravante per la fuga è stata aumentata da 1/3 a 2/3 e inserita una norma per cui la pena non potrà comunque essere inferiore a 3 anni. Sia per l’omicidio che per le lesioni in caso in cui l’evento sia conseguenza anche di un comportamento colposo della vittima il giudice può diminuire la pena e anche dimezzarla. Il testo potrebbe uscire dall’Aula con alcune modifiche. La più probabile è l’alzamento del minimo della pena da 4 a 5 anni per la seconda fascia di omicidio stradale. Una richiesta che parte dai parenti delle vittime della strada che invocano pene più severe e non ammettono passi indietro. Oggi le loro associazioni manifesteranno con un Sit-in in piazza Montecitorio. Giustizia: imprese e legalità, pregi e difetti della cultura antimafia di Lionello Mancini Il Sole 24 Ore, 26 ottobre 2015 I fatti e le parole sconvolgenti attribuiti alla presidente della sezione misure di prevenzione di Palermo, Silvana Saguto, rimandano ancora una volta ai limiti con cui ciclicamente deve confrontarsi la cultura della legalità, nei diversi ambiti - istituzionali, imprenditoriali, professionali e associativi - in cui si esplica. Saguto, per anni nota e stimata esponente delle toghe antimafia, a suo tempo oggetto di minacce direttamente per bocca di Salvatore Riina, dirigeva fino a pochi giorni fa la sezione di Tribunale preposta al sequestro di beni ai mafiosi. Un incarico delicato, specie sull’isola di Cosa nostra e, per molti aspetti, pionieristico. Quantità, casistica e tipologia dei sequestri si sono ampliate e complicate giorno dopo giorno. I beni vanno gestiti e valorizzati fino alla confisca definitiva. Per questo i giudici delle misure di prevenzione di tutta Italia si consultano in continuazione, propongono modifiche alle leggi, creano una loro associazione per condividere le esperienze. Un lavoro meritorio e quasi sconosciuto. Nei mesi scorsi nascono a Palermo voci sui criteri e sull’accentramento delle deleghe su pochi nomi, seguono inchieste giornalistiche, la Procura di Caltanissetta apre un fascicolo. Emerge così una storia di favoritismi sfacciati, di gestione familistica della sezione, di ingenti debiti personali della presidente, di favori e regali scambiati o promessi, fino all’accusa di corruzione e alle dimissioni dalla funzione (non dalla magistratura). Fino alle intercettazioni ambientali che raccolgono insulti feroci alla famiglia Borsellino. Meglio non rifugiarsi nella tesi della "mela marcia". Solo per restare in tema e agli ultimi anni, è già accaduto con Vincenzo Giglio, il presidente dell’omologa sezione di Reggio Calabria, appena condannato in via definitiva per corruzione e rapporti con i clan; e con Maria Rosaria Grosso, giudice della sezione fallimentare di Milano, indagata per tentata concussione e abuso d’ufficio. Certo, esiste un problema di qualità dei singoli cui viene conferito l’enorme potere decisionale ed economico della giurisdizione. Ma accade che i vertici palermitani debbano ammettere di non essere in grado di fornire una mappa degli incarichi agli amministratori giudiziari; accade che nessun collega della stessa sezione, o del Tribunale, abbia notato o segnalato alcuna anomalia in certe scelte, amicizie, parentele; che un magistrato ottimamente retribuito si indebiti fino alla disperazione senza che nessuno se ne accorga e anche per questo - sostiene Saguto - sfrutti il proprio ruolo per restare a galla. Al di là degli individui, tutto ciò significa che in ampie zone della magistratura, perno istituzionale dell’azione antimafia e ordine autogovernato come solo il Parlamento, non vige alcun tipo di verifica e di controllo. Solo malasorte? No. Esistono uffici giudiziari - anche molto meno esposti di Palermo - che ormai controllano i flussi di lavoro, gli incarichi, popolando banche dati dalle quali estraggono informazioni in tempo reale; ci sono Tribunali, Procure e Corti d’appello che redigono il bilancio sociale per avere "una struttura organizzativa più efficiente, per migliorare la capacità di comunicazione con i cittadini, aumentando la trasparenza dell’azione svolta" (testuale dal sito del ministero) ed è certo che in questi uffici il livello di controllo è di ben altra efficacia. Non è impossibile, a volerlo fare. Ma bisognerebbe sentirsi meno casta intoccabile e un pò più reparto pregiato dello schieramento che comprende commercianti iscritti alla Federazione antiracket, imprenditori con il rating di legalità, giovani delle associazioni, sacerdoti e sindaci coraggiosi, pubblici dipendenti che non prendono mazzette. Ognuno di questi protagonisti mostra pregi da emulare e difetti da correggere, ma premessa per avanzare è prendere onestamente atto dei propri limiti. Altrimenti si arretra a forza di indicare le responsabilità altrui, lasciando che la bufera mediatica e giudiziaria si plachi, per riprendere a sbagliare dal punto in cui si era stati interrotti. Guida in stato di ebbrezza, la competenza sulla sospensione della patente è del prefetto di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 26 ottobre 2015 Corte di cassazione - Sezione IV penale -Sentenza 5 ottobre 2015 n. 40069. Nel caso di sanzione amministrativa della sospensione della patente, la competenza all’irrogazione della stessa all’esito della positiva messa alla prova e dell’estinzione del reato, va individuata, ai sensi dell’articolo 224, comma 3, del codice della strada, in capo al prefetto. Lo ha detto la Cassazione con la sentenza n. 40069 depositata dai giudici della IV sezione penale il 5 ottobre scorso. Il percorso seguito dalla Suprema corte - La Cassazione ha posto in evidenza la diversa disciplina contemplata negli articoli 186, comma 9-bis, e 187, comma 8-bis, del codice della strada, relativa all’applicazione del lavoro di pubblica utilità da svolgersi quale sanzione sostitutiva di una pena irrogata conseguente a un’affermazione di penale responsabilità, laddove compete invece al giudice, in deroga alla previsione generale di cui all’articolo 224, comma 3, del codice della strada, la determinazione della sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida (sia pure ridotta della metà). Tale disciplina, ha osservato la Corte, non è applicabile all’ipotesi della sospensione del procedimento con messa alla prova, che configura un’ipotesi di estinzione del reato e, a tal fine, non prevede un preventivo accertamento della responsabilità penale. La sanzione amministrativa - Quindi, coerentemente, nell’ipotesi dell’esito positivo della messa alla prova e della conseguente estinzione del reato deve trovare applicazione la disposizione generale dell’articolo 224, comma 3, del codice della strada, secondo cui, appunto, nel caso di estinzione del reato, è il prefetto a dover procedere all’accertamento della sussistenza o meno delle condizioni di legge per l’applicazione della sanzione amministrativa accessoria della patente di guida. In questa prospettiva, ha concluso il giudice di legittimità, si spiega, proprio per consentire l’applicazione della sanzione amministrativa, il disposto dell’articolo 223, comma 4, del codice della strada, laddove si dispone - strumentalmente a tale finalità - che la sentenza, una volta irrevocabile, venga trasmessa al prefetto entro i successivi quindici giorni a cura del cancelliere competente. Parole sincere per dire ai giudici che devono essere parte integrante del cambiamento di Andrea Orlando (Ministro della Giustizia) huffingtonpost.it, 26 ottobre 2015 Questo il discorso che ho pronunciato l’altro ieri al congresso dell’Anm. Parole franche e sincere per dire alla magistratura che deve essere parte integrante del cambiamento. "Con la lealtà e la sincerità che il presidente mi sollecitava e che io credo debba caratterizzare il confronto, vorrei dire ciò che non mi persuade nell’impostazione che il presidente Sabelli ha dato nella sua relazione. Eppure vi sorprenderò: condivido molti punti. Alcune cose possono essere messe in discussione, chiedere tagliandi, pensare la riconsiderazione di alcuni provvedimenti. Ne abbiamo fatti molti di provvedimenti, tanti contemporaneamente: una revisione, una verifica sicuramente è giusta. Vi sorprenderò perché non è quello che chiede Sabelli ciò che meno mi persuade. Il punto che meno mi persuade è la chiave di lettura, cioè un’analisi ancora alla stregua della dialettica magistratura-politica. E non perché questo tema non sia inevitabilmente lo sfondo di qualunque processo legislativo. Ma ritengo che non sia questa, per dirla con le parole di un tempo, la contraddizione principale. Io ritengo che oggi, voi, il punto vero lo avete centrato con il titolo del vostro congresso. Cioè ponendo il tema del rapporto tra democrazia ed economia. Il rapporto che si viene a creare tra poteri non sottoposti ad alcun tipo di controllo democratico e l’affannoso tentativo delle democrazie, con i loro limiti e le loro difficoltà, di governare questi cambiamenti. Questo a me pare il tema, nel quale si inserisce anche il tema della legittimazione e della delegittimazione delle istituzioni, di tutte le istituzioni. Con questa impostazione non reclamo una particolare benevolenza nei confronti dei provvedimenti, né cerco di parlare d’altro, perché i provvedimenti possono essere misurati anche da questo punto di vista, che non è un punto di vista banale: la capacità, cioè, di resistere alla forza bruta del potere e della pressione economica. Ma questo rimette in gioco tutti i soggetti delle istituzioni e chiede, appunto, non tanto un’autocritica di questo o quel pezzo, ma un’autocritica complessiva, per comprendere se siamo all’altezza della sfida che questi cambiamenti globali ci pongono. Io ho letto la bella relazione che Rosario Livatino tenne nell’84 e ho apprezzato non solo la pacatezza del tono e il sorprendente equilibrio di quel giovane magistrato, ma anche e soprattutto l’intuizione rispetto a ciò che doveva ancora avvenire. La capacità di comprendere il rischio che la pressione del potere economico (non ancora globalizzato) poteva esercitare sull’attività della giurisdizione. Qualche anno dopo, Giovanni Falcone, nella famosa intervista di Marcelle Padovani, parlava della potenziale globalizzazione dei fenomeni di carattere criminale. Entrambi i casi ci parlano di due intellettuali, e non semplicemente di due magistrati, che anche in ragione del lavoro che svolgono mostrano di avere uno sguardo più lungo di quello che spesso è esercitato da un funzionario pubblico. Io dico che voi avete questo privilegio: la possibilità di intuire, anche attraverso le patologie della società, quello che sta per avvenire. Mettetelo a disposizione della Repubblica, perché questo credo sia il punto fondamentale. Non tanto per improprie solidarietà o peggio improprie condiscendenze, quanto perché c’è da riprogettare la Repubblica, rispetto alla sfida che voi avete messo nel titolo di questo congresso. La sua capacità, appunto di affermare il primato della legge rispetto a quella che va definita per ciò che è, e cioè la "cruda forza selvatica" dell’utile che preme alle porte del giusto. A questa pressione va dunque data risposta. Anche in termini di efficienza del funzionamento della giustizia. È, anzi, il fine stesso della giustizia a richiedere una misura di efficienza nell’erogazione dei servizi. Ma una democrazia deve poter mirare autonomamente ai propri obiettivi di valore, di libertà, di eguaglianza. Per questo, occorre che tanto la politica quanto la magistratura si pongano la domanda circa il significato e la forza che l’ossequio alla legge mantiene, in rapporto ai mutamenti economici e sociali che sono sempre più imponenti. Noi non abbiamo mai nella storia dell’umanità registrato concentrazioni di potere e ricchezza come quella che attualmente vive il nostro pianeta. Far valere le ragioni della politica e del diritto diviene quindi sempre più difficile, senza costruire risposte di pari dimensione, di analoga portata. Qui sta la vera sfida che va vinta, che può piacere o meno ma è comune, e a noi si è offerta una strada soltanto: quella della possibilità dell’integrazione europea. Non ce ne è un’altra, in questa fase storica e in questo luogo. Non ce n’è un’altra: l’unico strumento attraverso il quale possiamo provare a contrastare o limitare poteri che passano sopra le teste dei cittadini, e della democrazia, è quello di provare a costruire una giurisdizione sovranazionale e in particolare una giurisdizione di dimensione europea. Non è facile. Noi abbiamo incontrato nel semestre di presidenza europea continue resistenze. Le stiamo toccando con mano, in particolare in queste settimane, sulla costituzione della Procura europea. Molti paesi dell’Unione si mostrano assai tiepidi, alcuni addirittura esplicitamente contrari. Ma come possiamo pensare di contrastare il terrorismo, la criminalità organizzata, che vanta robusti collegamenti internazionali, come possiamo pensare di disciplinare e di contrastare il traffico di esseri umani, la minaccia alla privacy che parte da soggetti che agiscono su scala globale, senza appunto questi strumenti che prescindono dalla dimensione nazionale? Abbiamo naturalmente bisogno anche di rafforzare gli strumenti della giurisdizione interna, non vorrei dare l’impressione di parlare d’altro, ma noi spesso ci affanniamo e ci danniamo rispetto a un singolo punto di un singolo articolo di una legge, quando il prototipo che si costruirà a livello europeo inevitabilmente finirà per condizionare l’assetto del nostro ordinamento interno. Pensiamo a quale modello di procura uscirà e come questo inciderà inevitabilmente sull’assetto della giurisdizione nel nostro Paese. Pensiamo, per i civilisti, al fatto che alcune forme di risoluzione delle liti sono già disposte all’interno di direttive per questioni che riguardano la dimensione transfrontaliera: come possiamo pensare allora che nel nostro ordinamento terremmo istituti giuridici diversi da quelli che siamo chiamati ad applicare quando si parla di questioni che hanno una dimensione sovrannazionale? È là, io credo, che dobbiamo provare a rivolgere di più lo sguardo. A me ha colpito molto che nel semestre italiano e anche nei seguenti, nella cronaca di quella vicenda si è scritto su tutto tranne che su questioni come queste che io ritengo incidano e incideranno direttamente nel nostro ordinamento assai più e con più forza del singolo comma e del singolo rigo del provvedimento. Abbiamo bisogno anche di proseguire un dialogo, che come auspicava il presidente Sabelli, non sia tarato da semplificazioni o da contrapposizioni, su tutti i punti dell’azione di riforma dell’Esecutivo. Vorrei dire allora che ho sempre considerato e considero l’Anm un interlocutore rappresentativo e essenziale per il governo. Lo penso parlando a nome del Governo e lo penso anche per mia cultura e formazione personale. Io non è che non veda oggi i limiti dei corpi intermedi, ma avverto il fatto che se si superano questi senza costruire altri modelli noi ci ritroviamo semplicemente una società frammentata, incapace di esprimere le proprie domande. E quindi non troverete mai da me una parola che punta alla demolizione del ruolo che chi è chiamato dalla magistratura esercita non senza difficoltà, perché oggi chi rappresenta la magistratura sconta gli stessi problemi che la rappresentanza sconta in generale nel nostro paese. La riforma avviata non può prescindere dalla trama dei principi costituzionali sui quali poggia saldamente l’autonomia e l’indipendenza della magistratura. Ho avuto più volte modo di ribadire, ad ogni nuova sollecitazione e da qualunque parte provenisse, che questa trama non è in questione. Forse anche per questo, presidente Sabelli, il tenore dello scontro o del confronto, del conflitto o del dialogo, si pone su un terreno profondamente diverso rispetto al passato. Perché ci sono cose che noi non intendiamo discutere e che non devono essere discusse. La soggezione del giudice soltanto alla legge, la sua amovibilità, l’accesso tramite concorso, l’obbligatorietà dell’azione penale. Questo non può che implicare oggettivamente una qualità diversa del confronto. Sono consapevole che autonomia e indipendenza hanno però anche una base materiale, e che dunque possono almeno in linea di principio essere compromessi anche lasciando inalterati quei principi, ma toccando semplicemente questa base. Per questo io penso che il rinnovamento dell’assetto organizzativo della giustizia risponde anzitutto a questo tipo di consapevolezza. In questo senso però io credo che dobbiamo tutti essere consapevoli che questo sforzo lo facciamo in una situazione di scarsità di risorse. Questo, a mio avviso, aumenta ancor di più la responsabilità di chi, pur avendo avuto la possibilità, in tempi passati, di fare gli investimenti non li ha fatti. Noi siamo chiamati oggi a rimediare una situazione che si è determinata in più decenni, rispetto alla quale pensare di risalire la china nell’arco di pochi mesi è un’ingenuità, addirittura un’assurdità. Il più grave tallone d’Achille del sistema giudiziario italiano, almeno dal punto di vista dell’efficienza, rimane a tutt’oggi - io credo - la giustizia civile. Vorrei manifestare però anche una certa soddisfazione. Perché l’altro giorno un magistrato ha rilasciato un’intervista accusando il ministero di destinare eccessiva attenzione alla giustizia civile. Per me questa è la miglior patente del riconoscimento di un obiettivo politico che avevo dal momento in cui mi sono insediato. Lo diciamo infatti fin dal giorno dell’insediamento di questo governo: dove la giustizia civile non funziona si strappa il perimetro della legge e si rafforza inevitabilmente l’intermediazione criminale. Le misure adottate in questi mesi hanno dato un sensibile calo dell’arretrato, grazie soprattutto all’avvio di un percorso deflattivo che ha portato ad una riduzione di nuove iscrizioni. Certo, nessun trionfalismo è autorizzato. In questo dato può infatti esserci anche quello preoccupante della fuga dalla giurisdizione. Abbiamo però numeri che possono essere sostenibili rispetto all’impalcatura del sistema. In questi giorni, ho avviato un viaggio nei tribunali italiani con l’obiettivo di conoscere e individuare difficoltà e criticità. Non è un caso che questo viaggio sia cominciato dal Sud. I dati drammatici sulla realtà economica e sociale del Mezzogiorno si riflettono anche nelle performance dei tribunali, soprattutto nel civile, in termini di un più alto tempo medio di risoluzione delle liti e di un più elevato tasso di pendenze ultratriennale. Questo non vuol dire che non esistano esempi virtuosi, come quello del Tribunale di Marsala, che è riuscito a scalare moltissime posizioni. È un tema che va affrontato con cognizione di causa, senza sbrigative generalizzazioni. Se noi ci fossimo limitati a guardare la classifica, avremmo detto semplicemente che nei tribunali di cui stiamo parlando c’erano cattivi capi degli uffici. Siamo andati là e abbiamo visto che ci sono dei problemi strutturali: non, per esempio, quello dell’organico, perché si tratta spesso di tribunali a pieno organico. Abbiamo verificato ad esempio che c’è un problema molto grave che riguarda la possibilità di utilizzare i Mot per alcuni tipi di funzione e che la scarsa permanenza dei magistrati in alcune realtà non consente una programmazione di aggressione dell’arretrato. I dati che tuttavia non possono non preoccuparci sono quelli della legge Pinto, che comportano un carico economico assai gravoso per lo Stato italiano. Con i programmi adottati col progetto Strasburgo (se qualcuno, viste le critiche, ha consigli o soluzioni più efficaci e intelligenti, li fornisca) proponiamo questo: piuttosto che buttare via 700 milioni di europer via delle multe, facciamo una norma per la quale i soldi risparmiati possano essere impiegati nella giustizia. Poniamoci però l’obiettivo di evitare questo sperpero di risorse. Discutiamo insieme sul come, ma non rimuoviamo questo dato perché davvero non possiamo permettercelo. Ridurre la spesa per indennizzi dovuti in base alla legge Pinto determina forti economie per lo Stato, ma comporta insomma la possibilità di aumentare significativamente gli investimenti. La maggiore disponibilità di mezzi e risorse migliora ovviamente l’erogazione del servizio: di qualunque servizio. Per quanto ci riguarda, abbiamo deciso anzitutto di mettere risorse a sostegno dell’innovazione e della digitalizzazione: sono stati assegnati a Dgsia 147 milioni per il solo 2015, il doppio di quanto avevamo assegnato nel 2014. Altre ingenti risorse - già 100 milioni di euro - verranno dai fondi europei (è la prima volta che il ministero della giustizia accede ai fondi strutturali). Del resto, noi siamo obbligati a raccogliere un’altra sfida importante, rappresentata dal passaggio alla gestione diretta degli uffici giudiziari. Abbiamo bisogno a tale scopo di personale tecnico, di procedere con celerità ad una ricognizione attenta di tutte le situazioni critiche, ivi compresa quella di Bari, per intervenire dove le carenze o la non inidoneità degli spazi rendono difficile l’ordinato esercizio delle attività giurisdizionali. Noi abbiamo smontato un meccanismo perverso dove la scissione fra chi spendeva e chi pagava ha comportato un’irrazionalità dell’utilizzo delle risorse. Più in generale, vorrei si fosse consapevoli del fatto che le maggiori risorse per il prossimo triennio ammontano, nell’ambito di una progressiva riduzione della spesa pubblica, a 900 milioni di euro. Grazie all’assegnazione del Fondo Unico Giustizia, agli stanziamenti per la copertura delle spese derivanti dalla legge Pinto, alle poste della legge di stabilità e all’attuazione del Pon Governance. Credo sia la prima volta dopo anni che si stanziano risorse così significative. Certo occorrerà del tempo perché si vedano i risultati. Parliamo però di una revisione organizzativa già in corso di realizzazione, non "irrealizzata". L’introduzione del Processo Civile Telematico, d’altronde, è stata salutata con favore dalla magistratura associata e si sta rivelando una scelta giusta, come ci confermano ancora una volta i dati: sia avvocati che magistrati utilizzano il Pct ben oltre l’ambito della sua obbligatorietà. Se esigenze specifiche potranno richiedere ancora l’uso del cartaceo, rimane però stabilita la direzione di fondo verso una progressiva dematerializzazione degli atti. Occorre insomma che si prenda atto che la rivoluzione tecnologica in corso va colta come un’opportunità. Tra i pochi che recalcitrano non ci sono i cancellieri che ho incontrato questa settimana in Calabria, visitando gli uffici giudiziari, i quali anzi hanno mostrato entusiasmo di fronte alle innovazioni: mi è parso un bel segnale, che voglio trasmettervi. Anche il tema della specializzazione, sia sul piano della formazione che su quello dell’organizzazione - con il nuovo impulso dato al Tribunale delle imprese e l’ipotesi di un Tribunale della famiglia e dei diritti delle persone, che abbia competenza su tutti gli affari relativi alla famiglia - rappresenta una risposta non superficiale ai cambiamenti della società. E per quanto mi riguarda l’unica rispetto al tema tra economia e giurisdizione. Nel senso che noi non possiamo piegare le ragioni della giurisdizione alle pretese dell’economia. L’unica risposta che dobbiamo dare è che nel momento in cui si costruiscono strumenti sempre più in grado di incidere ed entrare nei processi reali di produzione e di accumulazione è necessario che vi sia a monte una magistratura specializzata. Per questo io ritengo che la più importante riforma di questo tempo, quella che a mio avviso va ulteriormente realizzata, sia una riforma che voi avete voluto, e che insieme abbiamo sostenuto: quella della geografia giudiziaria. Perché senza economia di scala, senza la costruzione di uffici dalle giuste dimensioni, è impossibile produrre alcun tipo di specializzazione. Di famiglia e di unioni civili si sta discutendo ancora, in queste settimane. Colgo l’occasione per ribadire che vedo con favore la nuova normativa in via di approvazione in Parlamento: mi sembra una risposta che amplia la base di diritti della nostra società, senza togliere diritti ad alcuno. Ed è una risposta che la politica deve dare presto, evitando ancora una volta di rincorrere le decisioni di questo o quel tribunale. Voglio dirlo perché nella discussione pubblica si tirano spesso in ballo i massimi sistemi, ma si trascura di dire che il nostro Paese è messo in mora dalla giurisdizione internazionale su questo punto. Quindi non si tratta solo di dare una legge per dare dei diritti, ma di adempiere ad una indicazione. Torno però ai temi del funzionamento della giustizia, per ricordare un altro dato, e qui consentitemi uno sfogo. Io ho messo al primo punto del mio impegno il tema del personale amministrativo. Vi voglio raccontare molto brevemente quello che è successo, perché la vostra insoddisfazione su questo punto è sempre maggiore di ciò che io potrò mai realizzare. Noi lo scorso anno abbiamo dato la possibilità di assumere 1000 persone con concorso, poi si è aperta la questione del personale delle Province. Abbiamo verificato che era più opportuno, anziché fare un nuovo concorso, avviare la mobilità per non favorire esuberi di personale in uscita dalle altre amministrazioni. Cosa molto complicata: bisogna fare graduatorie, ecc.. Tutto però ci saremmo aspettati tranne il fatto che chi non ci dava il nulla osta per il trasferimento erano proprio le province. Nonostante questo, supereremo l’ostacolo e già nelle prossime settimane 500 persone prenderanno posto negli uffici. Entro i prossimi 2 mesi saranno 1.031 persone. Ci sono risorse entro la fine dell’anno per altre 2.000 persone e nella legge di stabilità sono previste le risorse per altre 1.000 persone in mobilità. Stiamo parlando complessivamente di 4.000 persone, circa la metà dei vuoti di organico che attualmente interessano le cancellerie. Ora, io non mi aspettavo una standing ovation, ma neanche che su di me ricadesse la responsabilità del fatto che si sono accumulati vuoti di organico per 9.000 persone nel corso di questi anni. E lo dico perché talvolta è più semplice gestire un rassegnato declino che non provare a rimettere in piedi il malato. Finché si perdevano 1.000 posti all’anno tutti si lamentavano in modo equamente distribuito e democratico, nel momento in cui abbiamo cominciato ad avere qualche risorsa, allora ecco che ci sono i dipendenti che non hanno avuto la riqualificazione, quelli che hanno vinto il concorso e aspettano lo scorrimento delle graduatorie in altre amministrazioni, quelli che nelle province rischiano di restare a spasso, i tirocinanti che sono stati negli uffici a cui hanno dedicato molti anni, e così via. Abbiamo dovuto mettere insieme tutti questi fattori: lo abbiamo fatto. C’è un bando che selezionerà 1.500 tirocinanti per avviare l’ufficio del processo, c’è la mobilità di cui vi ho parlato e inizierà anche un percorso di riqualificazione del personale amministrativo del comparto giustizia. È a mio avviso il più imponente intervento sul tema dell’organizzazione dagli ultimi 20 anni. Non voglio fare della gratuita propaganda ma se qualcuno è in grado di mostrare il contrario me lo dica. Certo, tutto va gestito con grande pazienza e con grande capacità di affrontare passaggi complessi. Perché si tratta di riqualificare persone, di cambiare abitudini: per questo chiedo collaborazione non solo ai capi degli uffici, ma a tutti i magistrati che in qualche modo sono e possono essere parte attiva di questo cambiamento. Veniamo, comunque, da anni in cui le sole parole d’ordine erano razionalizzazione, contenimento e riqualificazione della spesa, spending review. Il processo di efficientamento del sistema deve proseguire, ma cominciamo anche a liberare qualche risorsa in più. Non mi pare un fatto trascurabile. L’attenzione che abbiamo posto ai temi dell’organizzazione della giustizia continua, dunque, in uno spirito che deve essere di piena collaborazione sia con il mondo accademico, che con la magistratura e con l’avvocatura. Ed è questo spirito che anima i lavori delle due commissioni di studio istituite lo scorso 12 agosto, per predisporre l’una progetti di riforma dell’ordinamento giudiziario, l’altra di riforma del Csm, tenendo conto delle linee indicate dallo stesso Consiglio. Il dibattito si incentra sul sistema elettorale, per evitare le degenerazioni correntizie ma per preservare il pluralismo, su un sistema disciplinare rigoroso ma senza formalismi, sulle modalità di un efficiente funzionamento dell’organo di autogoverno. Vorrei ringraziare, a questo proposito, per la collaborazione che mi ha assicurato, il vicepresidente Legnini e tutti coloro che sono stati chiamati a condurre questa riflessione. Non vorrei però che l’attenzione ai temi organizzativi oscuri un punto fondamentale: che cioè l’esercizio della giurisdizione rimane materia fondamentale, che tocca i diritti e le libertà. Lo stesso valore della legalità e della certezza del diritto, che riconosciamo come decisivo per porre rimedio al deficit competitivo del nostro Paese, rimane un valore etico-giuridico-politico, ancor prima che economico. Capisco anche e sono perfettamente consapevole del rischio di una burocratizzazione del ruolo del magistrato, magari proprio in nome dell’efficienza, o della standardizzazione e delle informatizzazione delle procedure. Ma questo rischio si evita soltanto progettando insieme il sistema, non si evita semplicemente in un rapporto antinomico tra ministero e uffici. Consentitemi però di dire, a questo riguardo, che questa consapevolezza non è mai mancata, neanche quando abbiamo approvato la legge sulla responsabilità civile, che costituisce un necessario ma anche indispensabile strumento per la tutela dei cittadini, in linea con le raccomandazioni europee. La legge, io credo, è sufficientemente equilibrata perché non venga vissuta come espressione di un intento punitivo, neppure però come una vuota grida manzoniana. Dopodiché abbiamo sempre detto che è una buona regola sottoporre le misure normative ad un tagliando, cosa che faremo anche con questa legge, per capire effettivamente come va. Ma si è detto nei mesi scorsi che questa legge dimostrerebbe che la magistratura è sotto attacco. Che la politica reagisce alle inchieste che la mettono sotto tiro mettendo sotto tiro i magistrati. Ora, io penso che non vi è nulla di più lontano dal vero di questa rappresentazione, particolarmente nella fase attuale. E lo voglio dire perché non credo che ci sia nessuna inchiesta tra tutte quelle che abbiamo visto, anche le più discutibili, che sia stata segnata dalla cifra della negligenza inescusabile, che è il parametro secondo il quale viene valutata eventualmente la responsabilità dei magistrati. E lo voglio dire perché vorrei fare riferimento al ragionamento che facevo all’inizio. Interrogandomi e interrogandoci se questa esigenza di regolamentare sempre di più sia solo il frutto di una volontà di vendetta della politica, o corrisponda a una domanda che oggi è presente nella società e che pone il tema di una diffidenza nei confronti delle Istituzioni. Una domanda alla quale non possiamo rispondere solo con una scrollata di spalle, ma dando regole che rendano più trasparente e controllabile l’esercizio di tutti i poteri. Io l’ho detto oggi in una dichiarazione: non fate l’errore che a suo tempo fece la politica, non pensate che sia in corso un tentativo di delegittimazione, magari orchestrato da qualche complottista, perché quell’errore è costato tantissimo alla politica. Ecco: non pensate che tutti quelli che pongono una questione sul funzionamento, che fanno critiche al funzionamento della magistratura lo facciano perché sono avversari della magistratura. E reagite, come io credo si debba in questa fase, provando a fare la riflessione che avete iniziato a fare, cioè discutere su come si accettano le sfide che stanno di fronte a noi. Lo dico perché la vedo come l’unica possibilità di partecipare a quel processo di rifondazione della Repubblica, che senza la magistratura non si può realizzare. Né il potere politico né l’ordine giudiziario né la società italiana nel suo complesso hanno bisogno oggi di esasperare i motivi di conflittualità. Abbiamo tutti motivo di ritenere che si può fare di più e meglio, ma sono convinto che convenga soprattutto individuare il punto dal quale occorre ricominciare a cimentarsi. A mio modo di vedere, cioè, è anzitutto essenziale il ristabilirsi di un clima di fiducia nelle classi dirigenti del Paese. E questo occorre farlo insieme; occorre recuperare insieme, tutti insieme, credibilità ed efficienza. Sulla bella rivista della vostra Associazione, ho letto il più recente contributo dedicato al tema della corruzione. Vi viene presentata l’esperienza degli anni Novanta e quella di questi anni. Vi si dice che vi è una questione corruzione legata tanto al finanziamento della politica, sul versante istituzionale, quanto al tema della trasparenza contabile e finanziaria. Mi pare però che vi viene anche indicata un’inversione di tendenza e cioè la legge Severino, e gli strumenti di prevenzione da questa introdotti. Abbiamo quindi ulteriormente rafforzato tale inversione di tendenza con la legge 114/2014 e con l’ampliamento dei poteri dell’Autorità Nazionale Anticorruzione. Questa stessa valutazione corrisponde a quella dell’Ufficio contro il crimine dell’Onu che qualche settimana fa si è espresso in questo senso rispetto agli sforzi normativi che sono stati fatti nel nostro Paese. Anche sul versante sanzionatorio, con l’introduzione del reato di autoriciclaggio e del falso in bilancio, con la rafforzata disciplina dei delitti contro la pubblica amministrazione, credo abbiamo fatto un passo in avanti. Se c’è una cosa - l’ho già detto al presidente Sabelli - che lamento nella sua relazione è il fatto che si sia dimenticata una questione che io credo cruciale, anche per misurare quel tema che avete messo al centro della vostra discussione: il rapporto tra diritto ed economia, tra giurisdizione ed economia. Mi riferisco all’approvazione dei reati ambientali. Voi non sapete, o forse lo sapete, quante e quali sono state le resistenze che abbiamo incontrato. Io credo che quella sia stata una bella prova di autonomia della politica e un modo attraverso il quale rafforzare la giurisdizione. Il fatto che quel tema non entri nella nostra discussione io credo sia il segno del fatto che ancora non è centrale sino in fondo il tema del rapporto fra democrazia ed economia. Certo, altri segnali ancora vanno dati. È vero per esempio che manca una disciplina organica di regolamentazione dell’attività delle lobbies. Questa è una materia che va ripresa e disciplinata, ed è un intervento che si può fare, sul quale non è giustificata un’ulteriore inerzia da parte del Parlamento. Sono certo, peraltro, che anche la magistratura saprà dare segnali chiari e inequivocabili, anche rispetto a recenti gravi fatti finora emersi nella realtà siciliana. Per parte nostra, siamo intervenuti prima che avvenisse questa vicenda, introducendo criteri di trasparenza e rotazione nell’affidamento degli incarichi, introducendo criteri di proporzione nella liquidazione dei relativi compensi. Sono davvero rammaricato del fatto che le uniche critiche, oltre che dagli amministratori che chiaramente non erano contenti del fatto che gli riducevamo i compensi, siano venute proprio da alcuni magistrati che ci hanno accusato di voler indebolire la lotta alla criminalità organizzata. Come se invece la vicenda di Palermo la rafforzasse. Trovo altrettanto incomprensibile e ingeneroso che su talune questioni si alimenti un dibattito mediatico che non aiuta a migliorare il profilo complessivo del sistema della giustizia, e forse anzi gli reca danno. È, infatti, non solo falso, ma anche privo di senso chiedersi se siano dedicate più energie al tema delle intercettazioni o alla lotta alla criminalità organizzata: non solo perché l’azione di contrasto alle mafie è condotta e continua ad esserlo senza risparmio dallo Stato, ma perché essa non viene minimamente indebolita dalla delega sulle intercettazioni. Io ho voluto ricordare in queste ore un punto mai ricordato di quella delega (di cui si potrà discutere finché si vuole e ne discuteremo: dentro quella commissione ci saranno magistrati e non sarà una scelta unilaterale della politica): la semplificazione delle modalità di autorizzazione delle intercettazioni per i reati contro la pubblica amministrazione. Ho più volte ribadito, inoltre, che uno dei punti di partenza e di riflessione saranno anche le proposte che sono venute nel corso degli anni scorsi dalla Federazione nazionale della stampa, anche a fugare qualunque ipotesi di interpretazione di questo intervento come la volontà di restringere il diritto all’informazione. Piuttosto - visto che siamo in una discussione franca - mi aspetto anche da parte della magistratura associata un pò più di attenzione e sostegno nel percorso che abbiamo avviato con gli Stati generali dell’esecuzione penale, in vista della riforma dell’ordinamento penitenziario. Mi spiace che di carceri non si ragioni più dal momento in cui si è superata la triste situazione del sovraffollamento. E non lo dico dal punto di vista di chi ha dato qualche contributo ad andare in questa direzione, ma dal punto di vista vostro. Noi abbiamo un sistema dell’esecuzione penale che è tra i più cari in Europa e che ha il più alto tasso di recidiva. Voi lavorate per mandare della gente in galera che quando esce è peggio di quando vi è entrata: credo che questo sia un elemento di frustrazione che dovremmo affrontare tutti insieme, anche in questo caso insieme. Perché una volta superata la situazione di sovraffollamento non abbiamo risolto il tema del modello attraverso il quale avviene la detenzione, che nel nostro Paese è un modello passivizzante, carcero-centrico, che finisce per perpetuare le gerarchie criminali che si realizzano all’esterno del carcere stesso. In questo io credo che una discussione seria, ampia - anche dei costi/benefici, senza approcci ideologici, e nel confronto fra questo e altri sistemi a livello europeo - io credo che debba essere fatta. Anche per fronteggiare quel populismo penale contro il quale il presidente Sabelli ha speso parole importanti nei mesi scorsi. Ma che va sconfitto non semplicemente con una discussione fra addetti ai lavori, ma parlando alla società italiana. Cercando di confinare in un angolo gli imprenditori della paura. Cercando di mettere in un angolo quelli che "bisogna buttare via la chiave". Senza considerare il fatto che la nostra Costituzione dice, non per caso, una cosa abbastanza diversa. Abbiamo peraltro abbastanza esperienza per domandarci se sia davvero utile tenere sempre alta l’asticella dello scontro o se non sia invece necessaria una certa duttilità, non certo sui principi, ma sulle soluzioni che possano essere trovate e che ci stiamo sforzando di trovare. Noi abbiamo avuto in verità anche stagioni in cui l’ordine giudiziario era fin troppo piegato agli interessi del potere politico. Negli anni cinquanta e sessanta c’è stata qualche acquiescenza di troppo, o forse anche solo troppo conformismo culturale. Perciò dico: è stata dolorosamente essenziale la stagione successiva, in cui i magistrati hanno anche pagato gravissimi tributi di sangue per difendere l’autorità dello Stato e il rispetto della legge. E anche quando, in un mutato clima politico, sia nazionale che internazionale, la magistratura è stata indubbiamente protagonista di una fase profonda di rinnovamento delle istituzioni di questo Paese, considero il suo contributo largamente positivo e meritorio. Ho voluto ricordare in qualche modo questo ruolo affiggendo nell’atrio del Ministero della Giustizia di via Arenula i nomi dei magistrati caduti nella lotta di liberazione, a segno del fatto che nella costruzione della nostra Repubblica, nel sangue versato, c’è quel contributo. Ci deve essere oggi nella fase in cui siamo chiamati a cambiare. Questa che stiamo cercando di attuare non è dunque una contro-riforma e neppure una "affrettata normalizzazione": questi giudizi sono largamente ingenerosi, e, se mi è consentito, anche un pò datati. Appartengono, credo, ad un’altra stagione. Parlando di riforma della giustizia, Livatino diceva che non può farla una minoranza, anche se qualificata o competente. Lo penso anche io: bisogna provare a farla tutti insieme, con il più ampio consenso, non solo tra le forze politiche. Io ho cercato di dialogare con tutte le forze politiche presenti in Parlamento. Ma noi dobbiamo ributtare questa discussione nel cuore della società italiana. Non stiamo discutendo di principi incardinati per garantire uno status quo fine a se stesso: l’indipendenza della magistratura è il presupposto per un sistema di garanzie fondamentali. Difendere l’indipendenza della magistratura non è difendere un privilegio o una prerogativa: è difendere quel sistema di garanzie. E questo deve diventare patrimonio più largo del Paese, in un Paese nel quale il tema delle garanzie è scomparso e la rappresentazione appunto di questa conflittualità tra interessi diversi rischia di disorientare l’opinione pubblica. Noi dobbiamo tornare a far parlare della riforma della giustizia anche molto oltre la cerchia degli addetti ai lavori. Se in questo processo è richiesto un certo sforzo, se la magistratura prova una certa fatica, non credo solo che dipenda da attacchi o ingerenze, ma dai cambiamenti che sono necessari. Ma voi pensate veramente, con il minimo storico di credibilità che ha raggiunto la politica del nostro Paese, che l’eventuale vostra delegittimazione dipenda soltanto dalla dichiarazione di qualche esponente politico? Semmai a volte potrebbe sortire l’effetto esattamente contrario. Anzi, negli anni scorsi questo è avvenuto frequentemente. Il punto fondamentale è capire quali sono le ragioni strutturali di questa crisi e di questa difficoltà, che non state vivendo voi, ma che stanno vivendo le istituzioni. E in questo cambiamento, se è vero che siamo nella società che cambia, è la tensione che corpi intermedi e istituzioni provano, è la vostra fatica insomma, è la fatica di una società che è chiamata a cambiare. Troppo spesso, nelle fasi di cambiamento, si guarda solo a ciò che finisce, e non anche a ciò che si inizia a intravedere. Ma il cambiamento riguarda tutti. Consentitemi una citazione che può sembrare irrituale, ma leggendo in questi giorni mi è capitata tra le mani. Pietro Ingrao - che con una parte della magistratura dialogò fortemente, che è scomparso quest’anno e che voglio ricordare con grande affetto - a chi gli chiedeva perché si occupasse di poesia rispose una volta con queste parole: "Non chiedo ai politici di cambiare mestiere. Penso però che tutti debbano accorgersi che il linguaggio politico non ha più la capacità di definire le cose che sono in movimento". Ecco, mi sembra una critica importante, che ci spinge a cercare parole nuove, non però a respingere il cambiamento. Se le nostre parole non bastano più, troviamo delle nuove parole con tutta la fatica che comporta costruire queste parole. Questo spirito critico e autocritico mi auguro allora sia patrimonio di tutti, com’è giusto che sia, in uno stato democratico di diritto, fondato sull’essenziale divisione dei poteri. Ma su questo sono sicuro che la pensiamo allo stesso modo. Voglio rivolgere un appello conclusivo sull’ultimo punto. Io non lo dico per ossequio a questa sede, io credo davvero che sia impossibile una trasformazione del Paese senza un vostro ruolo attivo, senza la vostra passione civile, senza il vostro impegno. Non vi chiamo in un campo che non è il vostro: il vostro impegno e la vostra passione civile voi la mettete esercitando la giurisdizione. Ma vi chiedo di riconquistare una visione d’insieme, una visione nazionale e una visione sovranazionale, di guardare ai cambiamenti in atto non soltanto nell’ottica del punto di vista dell’ufficio che voi attualmente svolgete, ma di come il vostro ufficio interagisce con una dimensione più ampia che sta cambiando. Guardate, non è la condizione perché voi possiate stare meglio: è la condizione perché possa star meglio questo Paese. Perché se non c’è questa attitudine non pagherete voi il prezzo, forse non lo pagherò neanche io: rischiamo però di costruire una trasformazione più povera, perché priva - per le ragioni che ho detto, per il ruolo che avete svolto e per il ruolo che state svolgendo anche in questo momento nel nostro Paese - di un punto di vista fondamentale per il cambiamento. Friuli Venezia Giulia: accordo Regione-Tribunali per cura detenuti con disagio psichico Ansa, 26 ottobre 2015 Migliorare la cura delle persone detenute con sofferenza psichica è l’obiettivo del Protocollo di collaborazione sottoscritto dalla Regione con gli Uffici Giudiziari del Distretto della Corte d’Appello di Trieste. L’accordo ha l’obiettivo di facilitare il compito delle istituzioni coinvolte nella valutazione giudiziaria e nella cura e riabilitazione di autori di reato con sofferenza psichica, e di scongiurare percorsi in contrasto con le prassi terapeutiche e assistenziali dei servizi regionali per la salute mentale. Tra i primi siglati in Italia, il Protocollo si inscrive nel percorso nazionale di superamento degli Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg), che ha fortemente responsabilizzato le Regioni privilegiando tra l’altro le misure alternative anche alla detenzione nelle Rems, le strutture sanitarie che dal primo aprile 2015 stanno sostituendo gli Opg. "La collaborazione tra i servizi della salute mentale e l’Autorità giudiziaria - afferma l’assessore regionale alla Salute, Maria Sandra Telesca - è un passo fondamentale nell’attuazione della norma nazionale che chiude gli Opg e che individua nuovi scenari di cura e riabilitazione per le persone con problemi di salute mentale autrici di reato. Si inserisce in un quadro regionale evoluto nella materia, dove è già presente un sistema di buone pratiche consolidate e condivise nei rapporti tra i diversi uffici giudiziari e i servizi per la salute mentale. Il Friuli Venezia Giulia - conclude - è stata fra l’altro la prima Regione a dimettere tutte le persone accolte negli Opg". Abruzzo: Garante dei detenuti, la politica tutta, tranne il M4S, vuole Rita Bernardini abruzzoindependent.it, 26 ottobre 2015 Consensi trasversali per il presidente dei Radicali Italiani che è in sciopero della fame. Martedì il Consiglio regionale decide sul Garante dei Detenuti. Martedì 27 ottobre il Consiglio regionale d’Abruzzo eleggerà il Garante dei Detenuti della Regione Abruzzo, una figura che dovrà occuparsi dei diritti delle persone private della libertà personale. Tra i 16 candidati, come è noto, c’è anche il segretario dei Radicali italiani Rita Bernardini, che sta facendo lo sciopero della fame per protestare contro la carenza di organici carenza degli organici della magistratura di sorveglianza. In favore della candidatura lanciata da Teramo dalla lista Amnistia, Giustizia e Libertà, praticamente tutta la politica italiana, manca soltanto il premier Matteo Renzi ed il presidente della Repubblica Sergio Mattarella dopo gli endorse ricevuti dal vice-presidente del Csm Giovanni Legnini e quello di Andrea Orlando, Ministro della Giustizia. "Anche se le battaglie portate avanti dal segretario dei radicali sono condivisibili, Rita Bernardini è, e resta, ineleggibile come Garante dei detenuti. Le condanne riportate dalla Bernardini la rendono ineleggibile in un’ottica di legalità a cui questo Paese dovrebbe costantemente ambire. Le sentenze, anche se relative ad atti di disobbedienza civile finalizzati ad affermare valori di principio condivisibili, sono un fattore determinante da cui non si può prescindere". Lo affermano i Consiglieri regionali del M5S Abruzzo. "Non si tratta di un giudizio legato alla persona - affermano - la quale è stata sostenuta in alcune battaglie anche dal M5S, ma mera tutela del ruolo che la Bernardini andrebbe a ricoprire. Questo ruolo è anche finalizzato e ispirato alla rieducazione dei detenuti e ciò ci sembra inconciliabile con il presupposto di aver ignorato una legge vigente. Questo ci pare un controsenso insuperabile. Non possono ammettersi deroghe al rispetto della legge. Speriamo che Rita Bernardini comprenda la nostra posizione che non è certo contro di lei ma solo in favore del rispetto della legalità". Anche Luigi Di Maio aveva espresso un giudizio molto positivo sulla Bernardini ma le regole valgono per tutti, anche quando sono ingiuste come le condanne ricevute per le sue battaglie sull’utilizzo della cannabis a scopo terapeutico e contro la Legge Fini-Giovanardi. San Gimignano (Si): Cgil "nel carcere poco personale e manca l’allaccio con l’acquedotto" di Massimo Mugnaini La Repubblica, 26 ottobre 2015 La Cgil denuncia che nel carcere di San Gimignano il personale è insufficiente e manca l’allaccio con l’acquedotto. "IL carcere di San Gimignano è l’unico in Italia a non essere allacciato a un acquedotto pubblico e a usare l’acqua presa dai pozzi, c’è una carenza cronica di personale che si attesta al 40% e persino soddisfare i propri bisogni fisiologici risulta difficile: i bagni di 3 piani su 4 sono infatti inutilizzabili". A denunciare le pessime condizioni generali in cui versa la casa di reclusione della provincia senese è la delegazione della Cgil-Polizia Penitenziaria che a inizio settimana ha visitato l’istituto penitenziario (400 detenuti per 140 agenti) e ieri ha messo tutto nero su bianco in una lettera inviata al provveditore dell’amministrazione penitenziaria Carmelo Cantone, al direttore del carcere Giuseppe Altomare e al sindaco di San Gimignano Giacomo Bassi. Nel carcere, scrivono inoltre i coordinatori Polizia Penitenziaria Cgil Massimiliano Prestini, Donato Nolè e Piero Boi, "non ci sono impianti di aerazione condizionata e non c’è neppure un servizio di trasporto pubblico o bus navetta adeguato". La casa di reclusione è classificata di media sicurezza ma, sottolinea la Cgil, vi si trovano ben 300 detenuti di alta sicurezza. Savona: celle fatiscenti, carcere di Sant’Agostino verso la chiusura di Claudio Vimercati La Stampa, 26 ottobre 2015 L’informativa indirizzata al presidente del Tribunale e al Procuratore della Repubblica, firmata dal Capo dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Santi Consolo, è del 7 ottobre scorso, e non lascia spazio a diverse interpretazioni. Il carcere di Sant’Agostino chiude. E forse molto presto. Si attende solo la firma del ministro della Giustizia. Le condizioni fatiscenti, di degrado dell’edificio, le celle sovraffollate che non "consentono - si legge nel documento - ai detenuti di espiare la pena in modo dignitoso" hanno determinato l’inserimento del carcere di Savona nel piano di dismissioni che interessa complessivamente in tutta Italia una ventina di istituti di pena. In attesa dunque della costruzione di un nuovo penitenziario (come è specificato nell’informativa), i detenuti saranno trasferiti in altre strutture, a Marassi ad esempio, ma non solo lì. Stando a indiscrezioni, infatti, i primi dodici ospiti dovrebbe essere spostati già questa settimana a Sanremo. Le indiscrezioni di quella che pare un’imminente chiusura hanno scatenato la protesta del Sappe, il sindacato autonomo di polizia penitenziaria, il cui segretario regionale Michele Lorenzo, dice senza mezzi termini "no alla chiusura del Sant’Agostino, prima di costruire il nuovo carcere". E attacca la politica: "che non è stata capace nemmeno di trovare un sito dove costruirlo". Comunicato Sappe: no alla chiusura del carcere prima di aver costruito quello nuovo "Il carcere di Savona è il fallimento della politica che non è stata capace nemmeno di trovare un sito dove costruirlo. Ben venga in Valbormida allora". È data per certa le indiscrezioni che ormai da mesi circolavano sulla chiusura della C.C. di Savona alle quali mai nessuna risposta è mai pervenuta alle nostre richieste di conoscere quali determinazioni volessero adottare i vertici del nostro dipartimento. Alla fine la chiusura è stata ufficializzata dal capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Santi Consolo, prima con i Provveditori in una riunione del 1° ottobre scorso ed in seguito mediante l’emanazione di alcuni atti ufficiali diretti a varie autorità connessi con sistema carcere. Nessuna comunicazione è però stata indirizzata alle OO.SS. di categoria. Spiegare cosa significa la chiusura di un istituto penitenziario in una città quale può essere Savona, potrebbe sembrare per certi versi assurdo, come a significare offendere la capacità organizzativa del proponente. Ma se siamo arrivati a ciò allora sicuramente chi ha proposto all’On. Ministro della Giustizia la chiusura di Savona, non ha ben chiaro la ricaduta sul territorio. Vorrei lasciare in ultima analisi la questione del personale di Polizia Penitenziaria che per questa O.S. è l’aspetto più importante. Una città sede di procura, tribunale, prefettura, questura, comandi provinciali di tutte le forze di Polizia dello Stato e non, come può fare a meno di un carcere? L’assenza del carcere connette una serie di problematiche: 1. la forza di polizia che effettua un arresto deve accompagnare il soggetto o a Genova marassi o a Imperia, quindi maggiore impegno in termini di tempo e spese connesse. 2. Questo determinerebbe un ulteriore carico su questi istituti che sono già penalizzati per l’elevata presenza di detenuti e movimenti connessi. 3. L’avvocato che deve effettuare un incontro per attività, dovrà recarsi in altro istituto e questo è un disagio sotto tutti gli aspetti. 4. L’attività giudiziaria verrebbe rallentata, in quanto per le convalide o interrogatori bisogna recarsi fuori comune con aggravio di tempi e costi. 5. Ripercussione sui detenuti e famigliari allorquando questi devono effettuare i colloqui o quanto altro connesso alla vita sociale del detenuto. 6. Sulla Polizia Penitenziaria ricadrà il maggiore disagio. Premesso che nessuna richiesta di incontro sull’argomento chiusura carcere è mai pervenuta a questa O.S. quindi non si conoscono tempi e modalità attuative la chiusura, questa O.S. in attesa dell’incontro sulla mobilità del personale di polizia evidenziando e ponendo come condizione che tale mobilità non dipende dalla loro volontà sarà interesse dell’amministrazione non determinare ulteriori disagi al personale del Corpo, questa o.s. propone. a) che una parte di essi, in attesa della totale dismissione dell’istituto, resti a presidio dell’istituto b) che un’aliquota venga inviata presso la scuola di Polizia Penitenziaria di Cairo Montenotte quale sede più vicina e territorialmente della stessa provincia. c) prevedere un’aliquota presso il Tribunale di Savona utile sia come supporto logistico alle varie scorte provenienti da altri istituti ma anche come forza di Polizia disponibile per esigenze di giustizia. d) In ultima ipotesi quella di un utilizzo sul territorio cittadino considerato che la Polizia Penitenziaria, sino a smentita, è una Forza di Polizia prevista dall’art.16 l.121\81. e) Rispettare la volontà di coloro che, per loro scelta, optino per altre sedi. f) Garantire la costruzione del nuovo istituto con la procedura d’urgenza. Quindi se l’intenzione del Ministro è quella di chiudere l’istituto prima della costruzione del nuovo, lo faccia pure ma rispetti la Polizia Penitenziaria che sino ad oggi ha fatto bene il loro lavoro in quel luogo che oggi è dichiarato ufficialmente vetusto ossia inadeguato, riconoscendo a tutto il personale che ha costantemente operato in quell’ambiente, le ripercussioni specialmente sul proprio stato di salute. Su tale argomento questa O.S. non transige. Aspettiamo fiduciosi una risposta ovvero la decisione che il carcere di Savona chiuderà solo dopo l’apertura di quello nuovo. Milano: "stasera mangiamo InGalera", il ristorante nel carcere di Bollate di Elvira Serra Corriere della Sera, 26 ottobre 2015 I detenuti cucinano e servono ai tavoli. Giuseppe, 23 anni: "Sono emozionato". Nel menu non ci sono gli spaghetti alle vongole fujute (scappate) o le pennette al 41 bis, come sarebbe piaciuto all’ispettore Vincenzo Ormella, responsabile del settore esterno. I piatti vanno dalle pappardelle di castagne con ragout di cervo con grappa e ribes alla faraona farcita con belga e nocciole. Dodici euro piatto unico del pranzo, trenta-quaranta euro una cena completa, con la carta dei vini che non fa torto a nessuna regione. Un nuovo ristorante a Milano. Anzi a Bollate. Anzi, dentro il carcere di Bollate. Il primo in Italia. Si entra dalla guardiola, ma non si lascia il documento, basta aver prenotato: una stagista dell’Istituto alberghiero Paolo Frisi accoglie gli ospiti e li accompagna "InGalera", tavolo d’angolo con vista cortile, le sbarre alle finestre, tovaglie di stoffa immacolate la sera e tovagliette di carta a mezzogiorno con le foto delle prigioni d’Italia e del mondo: Regina Coeli, Dorchester, San Vittore. Massimo Sestito, 46 anni, è il maître, food & beverage manager: praticamente in sala comanda lui. È un uomo libero, come lo chef, Ivan Manzo, una roccia di 140 chili per 185 centimetri. I due camerieri, i due aiuto cuoco e il lavapiatti che li assistono no, loro sono detenuti. Uomini che hanno sbagliato, e molto, ma che in prigione si stanno conquistando una seconda possibilità. Hanno scontato un terzo della pena quindi hanno diritto all’articolo 21 dell’Ordinamento penitenziario, cioè a uscire dal carcere per lavorare. Le loro condanne sono lunghe, proporzionate al reato commesso: fine pena nel 2027, 2023, 2025, dipende. Racconta Giuseppe, 23 anni, in prigione da sette. "Se sono contento? Cavolo, sì! È il mio terzo giorno, sono emozionato. Questa è una soddisfazione anche per la mia famiglia, finalmente. Non mi sento giudicato e i clienti mi trattano da persona sociale". Silvia Polleri è la responsabile della cooperativa Abc che ha assunto il personale, sette in tutto, al quale si aggiungono le hostess e quattro tirocinanti-detenuti del Frisi. "Era necessario che avessero tutti ancora molti anni da scontare, per garantire continuità al loro lavoro e un senso al nostro investimento. Al bando, all’inizio, avevano risposto in 90 per due posti. Un ufficio specifico della polizia penitenziaria ha fatto la prima scrematura: i candidati non dovevano avere dipendenze da alcol o da droga e non dovevano assumere psicofarmaci. Il salario di ingresso è pari al 65 per cento dello stipendio base. A seconda dei ruoli parliamo di 600-700-1.200 euro al mese". Un ristorante così non si improvvisa. È l’evoluzione di un progetto formativo avviato quando la cooperativa Abc ha cominciato a far lavorare i detenuti per servizi di catering, nel 2004. Si è rafforzato con l’arrivo della succursale dell’alberghiero, nel 2012. E, infine, ha potuto contare sul supporto indispensabile di PwC (network di servizi di revisione e consulenza legale e fiscale), di Fondazione Cariplo e Fondazione Peppino Vismara. Ognuno ha fatto la sua parte, compreso il direttore Massimo Parisi, che ha concesso in comodato d’uso i locali della sala convegni della polizia penitenziaria. Dice: "Dobbiamo riflettere sul senso comune della pena e chiederci che cosa ci aspettiamo davvero da un carcere. Io mi aspetto che i detenuti, una volta usciti, non commettano altri reati". Missione, per adesso, compiuta: il tasso di recidiva, a Bollate, è del 17 per cento. "InGalera" sarà inaugurato oggi, anche se ha aperto in sordina un paio di settimane fa (e ha già ricevuto la visita della polizia annonaria: tutto ok). Passate parola. Milano: Expo, dieci detenuti del carcere di Opera in visita al Padiglione della Santa Sede Adnkronos, 26 ottobre 2015 Dieci detenuti del carcere di Opera sono stati in visita al Padiglione della Santa Sede e all’Edicola Caritas ad Expo. Oltre ai detenuti la delegazione era composta dalla responsabile del corso di scrittura e lettura "Leggere libera-mente", Barbara Rossi, dal direttore del giornale ‘In corso d’Operà, Renzo Magosso, dalla giornalista Daniela Bianchini, dalla psicologa Paola Maffeis e dagli agenti della scorta. "È come se si fosse avverato un sogno, mai avrei immaginato di vedere l’Expo", ha commentato Giuseppe Carnovale, che nei trent’anni passati in carcere (uscirà il prossimo anno), non solo ha imparato a leggere, ma è diventato scrittore: le sue poesie sono state pubblicate e premiate. "Sono rimasto colpito dal vociare delle persone. È un suono che dietro le sbarre si dimentica", ha detto Giuseppe di Matteo, che in cella scrive fiabe per bambini. "Sono stato impressionato dal sorriso dei visitatori", ha sottolineato Erjugen Meta, che nel laboratorio di falegnameria della casa di reclusione ha raffinato una tecnica tramandatagli dalla famiglia in Albania: quella di costruire liuti. A guidarli nei due padiglioni espressione della Chiesa in Expo è stato il vicecommissario del Padiglione della Santa Sede e vicedirettore di Caritas Ambrosiana, Luciano Gualzetti. "Come ci ha esortato a fare il Papa, abbiamo cercato in questi sei mesi di portare dentro Expo la voce degli esclusi. I loro volti e le loro ragioni sono state rappresentate nel Padiglione della Santa Sede, nell’Edicola Caritas, nel programma di eventi e incontri che abbiamo organizzato lungo il semestre. Per questo siamo ben lieti di offrirvi questa visita oggi", ha detto Gualzetti. "Questo appuntamento è una grande opportunità di incontro e confronto sul potere della lettura e della scrittura - ha dichiarato Barbara Rossi - La nostra esperienza con le persone detenute dimostra che il gesto di scrivere e leggere è prezioso cibo per la mente, fondamentale per scoprire e riscoprire se stessi e gli altri. Tutto ciò consente alle persone detenute di attraversare un contesto difficile come il carcere ed uscirne migliori". Padova: la prima messa del nuovo vescovo è in carcere "qui una periferia esistenziale" Il Mattino di Padova, 26 ottobre 2015 Con i detenuti del Due Palazzi, i catechisti, i volontari, il cappellano don Marco Pozza, i diaconi che prestano servizio in carcere, il neodirettore Ottavio Casarano: con loro mons. Claudio Cipolla ha celebrato la messa della sua prima domenica da vescovo di Padova. Circa 130 le persone detenute che hanno partecipato alla celebrazione. Tra loro quanti hanno completato il percorso di iniziazione cristiana negli ultimi anni e Francesco, pugliese di 52 anni, che oggi ha ricevuto dal vescovo la prima comunione e la cresima. Detenuto da 23 anni (gli ultimi undici a Padova), Francesco racconta "questo istituto mi ha cambiato moltissimo: ho potuto studiare e diventare ragioniere, mi sono diplomato, ho imparato dei lavori, ho fatto il gelatiere, lavorato al call center. Ma mi mancava qualcosa e il percorso di catechesi mi ha aiutato. Ora sono sereno e sono contento e onoratissimo di essere cresimato dal vescovo di Padova". Una mattina di festa per la ?parrocchia del carcere?, una "parrocchia scassatissima e di periferia" come l’ha definita don Marco Pozza, il cappellano del Due Palazzi, che ha presentato al vescovo "uno dei pochi posti dove il cristianesimo non è una circostanza; un ospedale da campo", dove ci sono "uomini feriti, ferite che parlano di guerre, rapine, notti insonni, affetti disperati..." ma dove ci sono anche tanti fratelli e sorelle che entrano ogni giorno per portare il loro incontro e la loro vicinanza: il gruppo dei catechisti, i seminaristi; le suore elisabettine, i volontari del Cammino Neocatecumenale e del Rinnovamento nello Spirito, le educatrici, l’associazione Piccoli Passi, la Cooperativa Giotto, Ristretti Orizzonti, la cooperativa AltraCittà. Una "periferia esistenziale" da dove il vescovo Claudio Cipolla ha voluto partire anche perché "ho un debito", ha detto. Il debito del vescovo è verso tutte le persone che ha incontrato quando era direttore della Caritas di Mantova e che l’hanno aiutato a ritrovare fiducia e stima dopo un’esperienza molto difficile che "mi ha distrutto, anche spiritualmente": la morte improvvisa di un ragazzo durante un campo estivo. Come direttore Caritas don Claudio viveva in un centro di prima accoglienza e lì ha incontrato i molti volti dell’umanità provata dalla vita, dai senza dimora agli ex carcerati: "A tutte le persone che ho incontrato lì sono debitore. La differenza tra me e loro sono state le circostanze. Ma la bontà, la fiducia, le cose belle che ci sono nel cuore umano, c’erano in me e c’erano in loro. Grazie a questi incontri ho ritrovato stima e fiducia. Per questo mi ritengo debitore ed è mio dovere ringraziare quelle persone. E sono molto contento di celebrare qui, in questa ?parrocchia? la prima messa domenicale e la prima cresima". Particolarmente intensa e sentita la celebrazione eucaristica durante la quale sono risuonate, nel vangelo, le parole del motto scelto dal vescovo Claudio: "Coraggio, alzati, ti chiama!", parole rivolte al cieco Bartimeo. "Bartimeo era cieco ? sottolinea il vescovo ? e non solo con gli occhi; era seduto lungo la strada, non aveva speranza di andare avanti, era bloccato; probabilmente era sporco, probabilmente puzzava anche; era scoraggiato e i discepoli e la gente lo rimproveravano perché tacesse, lo allontanavano da Gesù". E invece Gesù lo chiama. La stessa chiamata risuona per ciascuno ha ricordato il vescovo, risuona "per me vescovo" e "per voi che siete in prigione", per chi fa volontariato, per chi sta lavorando: "Ti chiama!. Il Signore ti chiama. E io sono venuto qui per chiamarvi; per chiamarti a nome di Gesù. Gesù ti chiama a essere libero, a essere libero di amare. Gesù si affaccia tante volte nella vita delle persone; è una strada per essere liberi; Gesù guarisce". Parole accolte con profonda attenzione, silenzio e commozione. Al termine della messa il vescovo Claudio ha salutato calorosamente e abbracciato le persone detenute, molte delle quali ritroverà in occasione di una visita più approfondita alla Casa di reclusione che farà nei primi giorni di novembre, dove incontrerà il quotidiano della realtà carceraria e ne visiterà gli ambienti. Roma: attori-detenuti di Rebibbia al Teatro Boni, si inizia con "La verità nell’ombra" orvietonews.it, 26 ottobre 2015 Si apre domenica 25 ottobre alle ore 17.30 con "La verità nell’ombra" di Patrizio Pacioni, autore di origine viterbese, per la regia di Francesco Cinquemani, la nuova stagione teatrale del Boni di Acquapendente. A rappresentarlo la Compagnia Stabile Assai del penitenziario romano di Rebibbia, composta da detenuti, alcuni dei quali in semilibertà. L’adattamento teatrale è di Antonio Turco e Patrizia Spagnoli. Il celebre processo di Viterbo, con l’assassino di Salvatore Giuliano, il suo luogotenente Gaspare Pisciotta, è il contenitore nel quale si dipana una storia non solo processuale. Il ritratto dell’Italia nella ricostruzione post bellica corrisponde a definire personaggi appartenenti a un’epoca molto confusa e contradditoria in cui si è andata consolidando il rapporto di potere tra Stato e mafia. Gli attori-detenuti come Salvo Buccafusca, appartenente alla famiglia mafiosa di Pippo Calò, poi laureatosi in sociologia in carcere e oggi imprenditore edile; Francesco Rallo, detenuto ergastolano appartenente al clan mafioso di Partanna; Aniello Falanga, detenuto ergastolano appartenente al clan camorristico della famiglia Alfieri; Cosimo Rega, detenuto ergastolano noto per aver vinto con la regia dei Fratelli Taviani l’Orso d’oro al festival Ber lino nel 2012 con "Cesare deve morire"; Giovanni Arcuri, noto narcotrafficante e oggi affidato ai servizi sociali; Daniele Arzenta, ex terrorista e oggi apprezzato pittore, allievo prediletto del maestro Baruchello; Renzo Danesi tra i veri fondatori della Banda della Magliana ed oggi operaio, sono i protagonisti dell’opera. La scrittura drammaturgica è affidata ad Antonio Turco, il fondatore (nel lontano 1982) della Compagnia, funzionario pedagogico della casa circondariale di Rebibbia. La colonna sonora è eseguita da Lucio Turco, uno dei più grandi batteristi di jazz italiani, Roberto Turco, bassista di Rino Gaetano, Barbara Santoni, nota voce soul di Roma, Paolo Tomasini, sax tenore dei Bianca Blues & i 7 Soul, Paolo Petrilli, bandoneon e fisarmonica, coautore delle musiche di alcuni film di Pupi Avati e Gian Franco Cantucci, voce della musica popolare del Sud. Libri: "Per la libertà - il rugby oltre le sbarre", di Antonio Falda di Maurizio Toso La Nuova Venezia, 26 ottobre 2015 Lo scrittore sardo ha presentato la sua opera l’altro ieri a Mirano: valori e riflessioni non solo di sport. Il rugby come occasione per raccontare la libertà, partendo dal luogo per eccellenza di negazione della libertà: il carcere. Ecco il messaggio, forte e costante, che arriva dal libro dello scrittore cagliaritano Antonio Falda "Per la libertà - il rugby oltre le sbarre", opera presentata ieri nella sede del Mirano. Classe 1962, Falda ha costruito nel corso degli anni una passione speciale per la palla ovale, pur non avendo mai giocato. Dopo aver raccontato questo sport in altri libri, stavolta Falda ha voluto affrontare il legame e le peculiarità dell’attività svolta all’interno degli istituti di pena, sia quelli minorili che quelli di massima sicurezza. Una sorta di viaggio lungo l’Italia, scoprendo un mondo separato non solo fisicamente dal resto della società. "Il titolo non è casuale" ha sottolineato ieri Falda, "considerato anche due delle squadre che nascono all’interno di un carcere usano "Per la libertà" come urlo da lanciare quando sono strette in circolo. Il rugby è rispetto delle regole, ho voluto capire come si concilia tutto questo con chi ha perso il rispetto delle regole stesso". Figlia dell’amicizia tra l’autore e Guy Pardiès, la presentazione di venerdì sera allo stadio di Mirano è stata l’unica in Veneto del libro di Falda, che durante l’incontro ha messo in rilievo anche aspetti non strettamente sportivi. "Attraverso questo libro" ha infatti raccontato lo scrittore, "ho voluto anche fare una domanda semplice eppure molto spesso ignorata: cos’è la libertà? Questa domanda l’ho fatta non solo ai ragazzi, è questo il nome che uso per i detenuti, ma anche agli altri, ai direttori di carcere, agli allenatori, a quanti portano la palla ovale nelle carceri. È un quesito importante" conclude Falda anche in sede di presentazione, "che spesso ci si fa solo quando la libertà ti viene a mancare". Migranti, vertice "per fermare i nazionalisti", ma nell’Ue non c’è intesa di Andrea Bonanni la Repubblica, 26 ottobre 2015 Mentre la Polonia andava alle urne, Jean-Claude Juncker ha convocato un vertice straordinario dei capi di governo dei Paesi che si trovano sulla rotta balcanica seguita dai profughi. Dopo essere stata messa in amministrazione controllata per la gestione dell’economia e dei conti pubblici, la Grecia rischia di finire sotto tutela europea anche per la manifesta incapacità di far fronte all’onda anomala dei rifugiati che arrivano sulle sue coste dalla Turchia. Mentre la Polonia andava alle urne per sancire una vittoria delle destre, il presidente della Commissione Jean-Claude Juncker ha convocato ieri a Bruxelles un mini-vertice straordinario dei capi di governo dei Paesi che si trovano sulla rotta balcanica seguita dai profughi. Obiettivo: cercare di arginare un fenomeno che minaccia di consegnare ai partiti populisti e xenofobi i governi di mezza Europa. "Se falliamo in questo compito, le forze nazionaliste e di destra avranno gioco facile nel dire che l’Europa ha fallito", ha avvertito il cancelliere austriaco Werner Faymann. La Commissione europea ha messo sedici proposte concrete sul tavolo del vertice, cui hanno partecipato dieci premier di Paesi Ue (Germania, Olanda, Lussemburgo, Austria, Slovenia, Croazia, Ungheria, Romania, Bulgaria e Grecia), e tre dei Paesi di transito extra Ue (Serbia, Macedonia e Albania). Lo scopo è duplice: da una parte fare pressione sulla Grecia, punto di ingresso della rotta balcanica, perché eserciti un serio controllo alle proprie frontiere e non si limiti a traghettare i profughi in arrivo verso i Paesi europei confinanti; dall’altra convincere i governi dei Balcani a non erigere muri per deviare il flusso a danno dei vicini e a offrire condizioni vivibili ai rifugiati durante il lungo inverno che è ormai alle porte. "Nei Balcani non si può ragionare solo in una prospettiva nazionale. Occorre mettere in opera soluzioni europee", ha spiegato il premier lussemburghese Asselborn, presidente di turno della Ue. Ma l’accordo non è facile. Immediatamente, tra i partecipanti, è emersa una contrapposizione tra i Paesi che puntano il dito contro la Grecia, accusata di non esercitare nessun controllo sulle proprie frontiere e anzi di facilitare il passaggio dei profughi senza registrali e controllarli, e il premier Tsipras che denuncia l’egoismo nazionalista dei suoi vicini settentrionali. "Se la Grecia non è in grado di difendere le sue frontiere, suggerisco di andare là a difenderle noi. L’ho già detto molte volte, ma nessuno ci ha ascoltato", ha denunciato il premier ungherese di ultra-destra Viktor Orban. E lo stesso presidente di turno lussemburghese ha riconosciuto che "il Paese che più ha bisogno dell’aiuto Ue è la Grecia. Non possono farcela da soli, devono anche accettare il nostro aiuto". La Ue ha offerto di mandare 400 guardie di frontiera per aiutare Atene. Ma è chiaro che questo implicherebbe l’impegno dei greci a registrare i profughi in arrivo e a bloccare almeno quelli che non hanno manifestamente diritto all’asilo. "Per ora non c’è accordo sul documento", ha detto il premier bulgaro Boyko Borissov in una pausa del negoziato, aggiungendo di essere "preoccupato" per la trattativa in corso. Tsipras, da parte sua, ha avuto gioco facile nel rimpallare la responsabilità sulla Turchia. "La Turchia non è stata invitata, quindi oggi la discussione sarà solo tra i Paesi che fanno parte del corridoio balcanico. Ma tutti sappiamo che questo ha un ingresso e l’ingresso è la Turchia. Sfortunatamente fino ad oggi è stato difficile trovare una soluzione perché una serie di paesi hanno adottato l’approccio "non nel mio giardino". Fra Storia e finzione le ossessioni di Netanyahu tengono in trappola il popolo israeliano di David Grossman (traduzione di Alessandra Shomroni) La Repubblica, 26 ottobre 2015 Lo scrittore David Grossman racconta le ultime prese di posizione del premier: un uomo che "guarda il mondo con occhi apparentemente aperti ma di fatto chiusi". All’improvviso, tutto si è cristallizzato in qualcosa di nuovo e minaccioso: la combinazione dei due fallimenti in cui Netanyahu è incorso nell’ultima settimana. Il primo, un fallimento quasi mostruoso - la questione del mufti e di Hitler - ed il secondo, minore e quasi comico - la storia del binocolo con le lenti tappate, usato nel corso di un sopralluogo alla divisione schierata sul confine di Gaza. Di colpo, tutto è diventato palpabile: chiunque, in Israele e nel mondo, ha potuto vedere come il modo di osservare di Netanyahu sia rivolto, in fin dei conti, solo e unicamente verso se stesso, dentro di sé. Chiunque abbia ascoltato il suo discorso su Hitler ed il mufti (in cui di fatto ha "assolto" Hitler dalla colpa di avere "inventato" l’idea della "soluzione finale", attribuendone l’ispirazione al leader arabo Hadj Amin al-Husseini), ha potuto vedere, con chiarezza, le cose che Netanyahu vede dentro di sé: il meccanismo - quasi automatico - che gli permette di cancellare i fatti, consentendogli di trasformare, con una specie di capovolgimento della coscienza, una situazione di occupazione e repressione in una di persecuzione e vittimizzazione. Parallelamente, viene rivelato anche il modo in cui sovrappone alla realtà la sua visione vittimistica del mondo: come se lanciasse una rete fitta, ermetica, da cui non c’è via d’uscita né di scampo, nemmeno per se stesso. Ma questa volta, più delle precedenti, risulta anche chiaro fino a che punto noi, cittadini di Israele, siamo intrappolati e annaspiamo in questa rete. Già da molti anni, dall’inizio del suo percorso verso la carica di primo ministro, Netanyahu eccelle nel mescolare e rimestare i pericoli veri che Israele si trova ad affrontare con gli echi del trauma della Shoah. Grazie al suo talento, ad una brillante capacità retorica ed una grande forza di convinzione, riesce a intrappolare la maggioranza della società israeliana in un labirinto di echi e di fatti reali. Un labirinto entro cui, apparentemente, egli stesso vive e che questa settimana è stato svelato agli occhi di un mondo sbalordito. Israele è un paese di sopravvissuti a un’enorme catastrofe, una società che soffre di traumi: quello della storia ebraica, della Shoah e anche delle guerre frequenti. In un certo senso, la maggioranza di noi è impotente di fronte alle sofisticate manipolazioni, del nostro primo ministro. Anche per noi è molto difficile fare una distinzione razionale fra i pericoli concreti e gli echi del passato che ci rimbombano nelle orecchie. Ci arrendiamo a tali paure con facilità, alle volte persino con entusiasmo. Non c’è da meravigliarsi: sono incise nel nostro DNA collettivo e personale e in maniera del tutto naturale emergono rapidamente in superficie ad ogni minaccia o pericolo. In un batter d’occhio, gli echi del passato ingigantiscono le minacce del presente, e noi ci ritroviamo "laggiù" - anche se i fatti della nostra vita indicano una realtà molto più complessa. Non posso addentrarmi nello studio della psicologia del nostro primo ministro. Non so se faccia tutto ciò da cinico manipolatore, o se invece ci creda e ne sia profondamente convinto. È più che probabile che ciò che è iniziato come manipolazione nel corso degli anni sia diventata una fede. Una manipolazione così ramificata può, alle volte, avvolgere ed intrappolare chi l’ha iniziata. Con questo, non intendo prendere alla leggera i pericoli che minacciano Israele. Iran, Al Qaeda e Is, Hamas e Hezbollah, i coltelli della terza Intifada, che si sta intensificando, l’odio dei Paesi arabi nei confronti di Israele e l’esplosiva fragilità del Medio Oriente sono tutti fat- ti noti e concreti, che occorre affrontare a occhi aperti. Ma chi vede solo e soltanto questo, alla fine ne resterà vittima. Chiunque abbia una visione che si sposta, in maniera automatica e ripetitiva, sull’asse che va dall’ "uso della forza" all’ "uso di ancora più forza", alla fine sarà sconfitto da una forza a sua volta più potente e determinata. Sul nostro orizzonte si profilano altre possibilità, c’è spazio di manovra e di iniziativa. Ad esempio: una collaborazione contro l’Islam estremista con Paesi che hanno interessi simili ai nostri, come l’Egitto, l’Arabia Saudita e la Giordania. Oppure un cambiamento dei nostri rapporti con i palestinesi per mezzo di una ripresa delle trattative, e questa volta con l’intenzione vera di arrivare ad un accordo (di cui quasi tutti i punti sono noti ad ogni israeliano o palestinese dotato di buon senso). Una mossa di questo genere porterebbe ad un miglioramento immediato anche sull’altro fronte, che sta crollando: quello dello status di Israele nel mondo. Ma il meccanismo psicologico e mentale svelatosi ai nostri occhi in quell’affermazione di Netanyahu sul mufti e Hitler ci dice nel modo più semplice e spaventoso che la politica del governo di Israele, il suo carattere ed il suo futuro vengono formulati e stabiliti in questo istante, più che in ogni altro luogo, nello spazio ristretto ed ermeticamente chiuso fra l’uomo Benjamin Netanyahu e le lenti coperte e sigillate del suo binocolo. Lì siamo intrappolati, lì si stabilisce il nostro futuro, e lì veniamo condotti, ad occhi apparentemente aperti, ma di fatto chiusi. Francia: oggi la sentenza d’appello per la morte in carcere di Daniele Franceschi Agi, 26 ottobre 2015 Sarà il giorno della sentenza d’appello, quello di oggi, per il caso di Daniele Franceschi, l’operaio viareggino di 33 anni morto il 25 agosto di cinque anni fa in circostanze ancora da chiarire nella cella del carcere francese di Grasse, in Costa Azzurra, dove il giovane italiano era detenuto per una storia di carte di credito rubate. Al Tribunale di Aix en Provence sarà infatti pronunciata la sentenza d’appello per l’infermiera Stephanie Colonna, condannata in primo grado ad un anno di reclusione per omicidio involontario (il corrispondente francese dell’omicidio colposo). Il Procuratore generale Ibes Granger, nel corso dell’ultima udienza, ha chiesto per l’imputata la conferma della condanna e l’interdizione perpetua dalla professione. "Aspettiamo fiduciosi questo verdetto di secondo grado, che potrebbe chiudere la vicenda processuale. Resta invece ancora aperta la questione degli organi di Daniele, che non sono mai stati restituiti", ha commentato l’avvocato Aldo Lasagna che, insieme a Maria Grazia Menozzi assiste la famiglia Franceschi. In primo grado una seconda infermiera, Francoise Boselli, è stata assolta, mentre un medico dell’ospedale di Grasse, Jean Paul Estrade, è stato condannato a un anno di reclusione senza che abbia presentasse appello. Bangladesh: 4 arresti per l’uccisione del cooperante italiano Cesare Tavella La Stampa, 26 ottobre 2015 Era stata ucciso in strada a Dacca. L’Isis aveva rivendicato. Le autorità bengalesi hanno arrestato 4 persone sospettate di aver ucciso il cooperante italiano Cesare Tavella (51 anni, cooperante) il 28 settembre scorso a Dacca. L’azione venne rivendicata da una cellula di Isis. Tavella stava facendo jogging nel quartiere diplomatico quando era stato freddato da un commando armato a bordo di una moto. Secondo la polizia investigativa di Dacca dei quattro arrestati, tre sono direttamente coinvolti nell’omicidio mentre il quarto è accusato di favoreggiamento per aver fornito la moto usata nell’agguato. Il portavoce della polizia di Dacca, Muntashirul Islam, ha reso noto che è anche stata recuperata la moto dell’agguato e che altri dettagli saranno resi noti più tardi nel corso di una conferenza stampa. L’uccisione di Tavella, che lavorava per una Ong da ferragosto in Bangladesh, venne seguita una settimana dopo da quella di un agricoltore giapponese. Azione sempre rivendicata dai jihadisti sunniti di Isis che poi piazzarono e fecero esplodere dopo pochi giorni una bomba accanto ad un tempio della minoranza sciita di Dacca uccidendo una persona. Medio Oriente: autorità israeliane hanno arrestato oltre mille palestinesi da inizio rivolta Agi, 26 ottobre 2015 Le autorità israeliane hanno arrestato più di mille palestinesi e arabi israeliani dal primo di ottobre, quando è iniziata l’ondata di violenza sfociata nella "rivolta dei coltelli". Lo ha riferito un’associazione palestinese che si occupa dei detenuti nelle carcere israeliane. Nello stesso periodo sono rimasti uccisi 53 palestinesi e un arabo israeliano. Il maggior numero di arresti, 221, si è registrato a Hebron, nel sud della Cisgiordania, altri 201 a Gerusalemme est e 138 a Ramallah. Sono 160 gli arabi israeliani arrestati in relazione ai disordini. Dei palestinesi arrestati, 87 sono stati posti in detenzione amministrativa, una misura che permette di incarcerare una persona senza processo per un periodo di sei mesi rinnovabile. In totale sono 6.000 i palestinesi attualmente agli arresti in Israele, 420 dei quali in detenzione amministrativa.