Giustizia: prove di dialogo con i magistrati. Orlando: non siamo avversari di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 25 ottobre 2015 Il ministro al congresso Anm. Sabelli: qui non è la fossa dei leoni. Il giorno dopo sembra che tutti siano un po’ spaventati dalle polemiche. Dunque si torna a toni più distesi, e al tentativo di rientrare in una "normale dialettica". Ma le ragioni del dissidio (o conflitto, contrasto, scontro: chiunque può scegliere il termine che ritiene più adeguato) restano intatte. Lo ribadisce di prima mattina il segretario dell’Associazione nazionale magistrati, Maurizio Carbone: "Se dopo meno di due anni stanno modificando la legge Severino vuol dire che avevamo ragione a sottolinearne i punti deboli". Il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, poco dopo, da Milano ribatte: "Penso che certi toni e qualche accento acuto siano un tentativo, da parte dell’Anm, di tenere insieme la magistratura in un momento in cui ci sono scontri significativi al suo interno". Dichiarazioni che sembrano preludere alla prosecuzione del duello, nonostante i tentativi del "pontiere" Giovanni Legnini, vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura. Quando sale sulla tribuna del congresso, comincia dicendo che "nella relazione di Sabelli e nel clima complessivo non ho riscontrato la volontà di alimentare una nuova stagione di scontro", e riscuote il primo, convinto applauso. É il segnale del cambio di registro. E lo stesso Legnini insiste: "Il conflitto rischia di indebolire tutti, mentre c’è bisogno di una politica più forte e di un ordine giudiziario più forte". Il messaggio è chiaro, e tutti finiscono per adeguarsi in attesa dell’arrivo del ministro. Quando il Guardasigilli entra nella sala del congresso, a metà pomeriggio, il presidente dell’Anm Sabelli lo rassicura: "Non c’è clima da attacchi frontali e pregiudiziali, e questa non è una fossa dei leoni". Il ministro apprezza, va al microfono e non si tira indietro; parte dicendo che non condivide le critiche di Sabelli, soprattutto il paragone tra intercettazioni e lotta alla mafia: "É sbagliato continuare ad analizzare i provvedimenti legislativi alla stregua dei rapporti tra politica e magistratura, perché non è più questa la contraddizione principale; il tenore del confronto dev’essere diverso dal passato, perché non c’è più chi vuole mettere in discussione i valori fondamentali, dall’inamovibilità del giudice all’obbligatorietà dell’azione penale". Anche nel mondo della giustizia però bisogna cambiare, non si può rimanere fermi. Orlando fa un occhiolino a pm e giudici sostenendo che sarebbe sbagliato "piegare le ragioni della giurisdizione alle pretese dell’economia", ma poi ribadisce che certe riforme vanno fatte. E quelle varate finora, come la nuova responsabilità civile delle toghe, non avevano alcun intento punitivo: "Non fate l’errore di pensare che tutto venga fatto per avversione alla magistratura". L’unico battimani intermedio lo guadagna quando suggerisce di ripensare insieme alla condizione delle carceri, ma verso la fine prova a trascinare l’assemblea: "La delegittimazione non riguarda voi e non viene dalla politica, riguarda le istituzioni in generale. Noi vogliamo trasformare il Paese, ma la trasformazione sarebbe più povera senza il vostro ruolo attivo, il vostro impegno e la vostra passione civile". Scatta un applauso che dura quasi un minuto. Pace fatta, dunque, "anche se non c’è mai stata guerra, solo una normale dialettica nel rispetto dei ruoli", precisa il Guardasigilli. Sabelli concorda. Fino al prossimo dissidio, o conflitto, contrasto, scontro. Giustizia: Orlando-magistrati, il giorno della pace, ma Alfano li sfida di Liana Milella La Repubblica, 25 ottobre 2015 Le toghe contro il governo? In 24 ore la lite evapora e scoppia la pace. Entra in azione Andrea Orlando, il ministro Guardasigilli, note doti di mediatore, che riesce nell’impresa di aprire e chiudere il suo intervento in una sala gremitissima, con volti famosi come quelli di Edmondo Bruti Liberati, Francesco Greco, Pier Camillo Davigo, con un duplice applauso. "Io non solo predico, ma pratico il confronto" dice Orlando che poco prima ha già avuto un breve colloquio con il presidente dell’Anm Rodolfo Maria Sabelli. Sì, proprio lui che, appena un giorno prima, ha parlato di "strategia di delegittimazione". Ma adesso Sabelli è uno zuccherino. Ha sgombrato ufficialmente il campo dalla delegittimazione con un netto "non mi riferivo al governo ". Poi, quando presenta Orlando alla platea, lancia un segnale molto chiaro a lui e ai suoi: "Rassicuro il ministro che non è arrivato nella fossa dei leoni". Escluso, dall’aria che tira, che qualcuno si permetta dei fischi o anche solo di rumoreggiare, ma visto che non si sa mai, Sabelli avverte i colleghi. Fa di più per mettere a suo agio Orlando. Cita il messaggio che ha indirizzato al congresso Anna Canepa, la segretaria di Md trattenuta lontano da un’indisposizione, genovese, da sempre amica del Guardasigilli. Dice Anna ai colleghi: "La magistratura s’impegna per costruire tutti insieme un Paese migliore". Applauso. Il ghiaccio è rotto. Proprio da lì parte Orlando. Avrebbe potuto, già la sera prima, bacchettare i magistrati italiani per difendere le sue riforme. Non lo ha fatto. Solo la mattina, a Milano, mentre con il procuratore di Torino Armando Spataro parlava a Expo, si è permesso una frecciatina: "Penso che i toni di Sabelli siano un tentativo di tenere insieme la magistratura in un momento in cui ci sono significativi scontri al suo interno". Allude ai magistrati ribelli anti-correnti e anti-Anm. Ma Maurizio Carbone, il segretario dell’Anm che è pm a Taranto, dice che non è affatto così. Tant’è. Sabelli e Carbone potrebbero rispondere per le rime al ministro dell’Interno Angelino Alfano che invece, in stile Renzi, ci va giù pesante: "Ci vuole coraggio e una certa faccia ad attaccare questo governo. Servirebbero profonda autocritica e parole forti della magistratura per quello che è successo a Palermo". Si riferisce al caso Saguto. Ma Sabelli spegne il tentativo di incendio con un "no a polemiche distruttive". Orlando farà ancora di più dicendo che nella magistratura c’è il caso Saguto, ma ci sono le toghe che hanno dato la vita per l’Italia. Una per tutti? Giovanni Falcone. Orlando non ha chiamato Sabelli sulla delegittimazione, ma da 24 ore è a Bari Giovanni Melillo, il suo capo di gabinetto, ex procuratore aggiunto a Napoli, che qualche messaggio distensivo evidentemente deve averlo lanciato. Il ministro arriva da Milano con due ore di ritardo, i giudici però pazientano. Il ciuffo ribelle. L’aria stazzonata. Parla da politico consumato. Sparge miele. "L’Anm è un interlocutore rappresentativo e significativo". Ancora: "È impossibile cambiare il Paese senza il vostro impegno e senza la vostra passione civile. Non è una condizione per far stare meglio voi, ma per far star meglio il Paese". In sala mormorii di approvazione. Lui alterna la difesa della sua politica ai segnali di apertura. Perché, come ha detto qualche ore prima il vice presidente del Csm Giovanni Legnini "il Paese e la giustizia italiana non hanno bisogno di una nuova stagione di scontro tra magistratura e politica". Da qui parte il ministro. Innanzitutto sgombra il campo da chi vorrebbe trattare lui e il suo governo come fosse quello di Berlusconi: "Da me non è mai arrivata una parola di demolizione". Ancora: "La nostra riforma poggia sui capisaldi dell’autonomia e dell’indipendenza, per questo scontro o dialogo che sia è del tutto diverso dal passato. Ci sono questioni, come l’obbligatorietà dell’azione penale, di cui non vogliamo discutere". Sorrisi in sala. Poi un’altra affermazione che piace: "Non possiamo piegare le ragioni della giurisdizione alle pretese dell’economia". Sgombra il campo da chi vorrebbe pm molli di fronte a un’impresa che magari inquina ma potrebbe chiudere se colpita da una misura giudiziaria. Certo, Orlando difende la legge sulla corruzione ("Promossa dall’Onu"), minimizza sulle intercettazioni ("È l’ultimo di 21 provvedimenti, faremo una commissione con magistrati e stampa"), ricorda la legge sugli eco-reati, l’assunzione di mille cancellieri, il nuovo processo civile. Lancia la sfida di leggi a misura europea. Torna sullo scontro, lo derubrica a "fisiologica dialettica". Strappa un applauso sul carcere. Cita Pietro Ingrao. Giustizia: il governo mette in riga le toghe di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 25 ottobre 2015 Giustizia. Orlando duro dopo le critiche dell’Anm. Il presidente Sabelli giura: non ce l’avevo con l’esecutivo. Il "complesso rapporto" dell’era Renzi. Legnini: autonomia e indipendenza vanno interpretate in modo nuovo. Il governo reagisce, la magistratura associata chiarisce. La cronaca del giorno dopo racconta di un arretramento delle toghe rispetto alle accuse rivolte all’esecutivo Renzi. L’Anm si è vista descrivere come un’associazione che alza i toni per nascondere i propri guai - nello specifico l’inchiesta di Palermo sui magistrati che si occupano dei beni confiscati alla mafia - persino da uno come il ministro Alfano. Però lo stile del ministro della giustizia Orlando non è quello del prepotente, né d’altra parte il presidente dell’Anm Sabelli è un incendiario. Il guardasigilli al mattino picchia duro: "I toni dell’Anm sono il tentativo di tenere insieme la magistratura in un momento di scontri significativi al proprio interno". Al pomeriggio si presenta al congresso di Bari dei magistrati e omaggia l’Anm come "interlocutore essenziale" (il 90% dei magistrati è iscritto, compreso il capocorrente Ferri che di Orlando è sottosegretario). Sabelli si fa incontro mite - "Ministro, non è venuto nella fossa dei leoni, gli attacchi frontali non ci appartengono" - e poi offre l’interpretazione autentica delle parole dello scandalo: "Quando ho parlato di strategia della delegittimazione in realtà non mi riferivo al governo". Si riferiva al presidente del Consiglio, questo è chiaro a tutti. È Renzi che ha inventato la campagna di ostilità sulle ferie dei magistrati, è Renzi che quando Sabelli che minacciava agitazioni rispose in tv con il famoso "brrr… che paura". Il presidente del Consiglio non aveva poi tutti i torti, visto che contro l’avversatissima stretta sulla responsabilità civile, le toghe hanno scatenato qualche assemblea, un manifesto e nessuno sciopero. Il merito allora fu di Orlando. Renzi lo considera un "doroteo" ma il ministro gli ha portato in dote passi avanti sulla riforme meno gradite dalle toghe (responsabilità civile, ma anche Csm) e una delega sostanzialmente in bianco sulle intercettazioni. Nella sfida, Sabelli ha perso sul piano della comunicazione. Aveva cercato di modulare la relazione di venerdì introno a una garbata e collaborativa critica all’esecutivo, su singoli punti. Aveva portato argomenti inoppugnabili - come il fatto che il governo ha lasciato cadere la delega sulle pene non detentive mentre pagava dazio all’alleato Alfano proponendo timidissime misure contro la corruzione. Si è ritrovato descritto come un polemico qualunquista: "Come si fa a dire che siamo come Berlusconi", gli hanno risposto dal Pd, "Non è ipotizzabile il parallelo con gli anni precedenti", ha detto Orlando. Sabelli non era stato così ingenuo. Aveva parlato di una tensione con l’esecutivo "meno accesa" rispetto agli anni del Cavaliere "ma più complessa". Ieri l’Anm ha sperimentato fino in fondo questa complessità. Orlando ha risposto con retorica renziana: non bisogna opporsi al nuovo. "Non fate l’errore di pensare che chiunque chieda un cambiamento sia un nemico, assumetevi una parte di responsabilità nel cambiamento del paese". E ha avvertito: "La magistratura rischia di essere distante dai cittadini". La campagna sulle ferie non avrà aiutato. Il vicepresidente del Csm Legnini è l’uomo chiave di questa strategia di normalizzazione. Si autodefinisce "ponte" tra governo e magistrati, lui che per mandato guida l’autogoverno delle toghe. Del resto è approdato al Csm direttamente dal governo Renzi, dove si occupava di economia. Non volendolo, ha suggerito il titolo al congresso di Bari dell’Anm, - "Giustizia, economia, tutela dei diritti"- quando a luglio ha spiegato che i giudici nelle loro sentenze dovrebbero "cogliere e prevedere l’impatto delle decisioni giudiziarie sull’economia". "A volte abbiamo la sensazione che la tutela dei diritti interessi solo a noi magistrati", ha concluso ieri, come sconsolato, il segretario dell’Anm Maurizio Carbone. Mentre Legnini prescriveva l’armonia: "Il conflitto, anche solo latente, tra politica e magistratura, tra giustizia ed economia, rischia di indebolire il futuro del paese". L’aggettivo "nuovo" è squillato sedici volte nell’intervento del vicepresidente del Csm a Bari. Anche a proposito dei temi tabu: "Autonomia e indipendenza dei magistrati vanno considerati in un’ottica in parte nuova". Non si è capito benissimo in che senso. Ma di certo in un senso "complesso". Giustizia: Orlando "sistema esecuzioni penali troppo costoso, ancora molto da lavorare" Askanews, 25 ottobre 2015 Da Bari, a cui ha partecipato al congresso nazionale dell’Anm, il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, ha spiegato perché ha chiesto la collaborazione ai magistrati sugli Stati generali delle esecuzioni penali e sulla riforma del sistema sanzionatorio. "Ho chiesto questo perché fino a pochi anni fa il carcere era al centro dell’attenzione della discussione dell’Anm, superato il sovraffollamento questa priorità si è un po’ accantonata ma non è stato risolto il problema delle carceri e lo dico io che penso di aver dato un contributo significativo a riportare la situazione a un certo ordine". Inoltre, il guardasigilli ne ha spiegato i motivi: "Perché noi abbiamo un sistema delle esecuzioni penali tra le più costosi d’Europa che però produce tra i tassi più alti di recidiva d’Europa". "Credo - ha concluso - che sia un problema per il Paese e anche una mortificazione per i magistrati che mettono delle persone in carcere che spesso escono molto peggio di come ci sono entrate. Credo che anche questo sia un tema che dobbiamo affrontare tutti insieme". Giustizia: quegli applausi dei magistrati a chi ancora critica Cantone di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 25 ottobre 2015 Parla della "degenerazione del correntismo", tra favoritismi nelle carriere dei giudici e spartizione delle poltrone. Il segretario dell’Associazione magistrati, Maurizio Carbone, è contrario, ovviamente, però mette in guardia dal pericolo opposto: "l’individualismo che svilisce il nostro ruolo e del Csm, aumentando i condizionamenti esterni, ancor più pericolosi di quelli interni". In molti capiscono che il riferimento è al collega Raffaele Cantone, e in molti applaudono. La polemica di fine estate del magistrato prestato all’Anticorruzione, contro le correnti e il Csm, ha lasciato il segno. L’affondo del segretario dell’Associazione magistrati, Maurizio Carbone, arriva quando parla della "degenerazione del correntismo", tra favoritismi nelle carriere dei giudici e spartizione delle poltrone. Ovviamente lui è contrario, però mette in guardia dal pericolo opposto: "l’individualismo che svilisce la funzione del nostro ruolo e del Csm, aumentando i condizionamenti esterni ancora più pericolosi di quelli interni". Sarebbe come liberarsi delle correnti per mettersi nelle mani dei partiti, che immaginano strani progetti di riforma dell’autogoverno. "Non è casuale - aggiunge - che oggi le maggiori critiche verso le correnti e il Consiglio superiore provengano da ambienti politici o da parte di chi ha intrapreso altri percorsi professionali che lo portano lontano dalla giurisdizione!". In molti capiscono che il riferimento è al collega Raffaele Cantone, e in molti applaudono; la polemica di fine estate del magistrato prestato all’Anticorruzione, contro le correnti e il Csm, ha lasciato il segno. Non solo ai vertici dell’Anm. E una certa insofferenza che si registra nei corridoi del congresso verso l’uomo scelto da Renzi come simbolo della lotta governativa al malaffare, è pure un portato dell’insofferenza verso i modi considerati poco rispettosi del presidente del Consiglio; come se si manifestasse per interposta persona. Da parte di molti, non di tutti. Perché divisioni e differenze emergono anche all’interno della magistratura, del suo sindacato e dell’organo di autogoverno, sul tema del rapporto con la politica. Luca Palamara, già presidente dell’Anm e oggi rappresentante al Csm per la corrente centrista di Unicost lo dice chiaro: "Non si possono affrontare tutte le fasi allo stesso modo, non tutti i governi solo uguali; non possiamo non prendere atto, ad esempio, dei passi avanti fatti nell’ultimo anni in materia di lotta alla corruzione". Sembra una presa di distanza dal suo successore alla guida del sindacato, Rodolfo Sabelli (compagno di corrente) e alla polemica innescata dalla frase "si pensa più alle intercettazione che alla lotta alla mafia". Un’analisi che, spiega Palamara, "non mi trova d’accordo; anche perché dobbiamo fare attenzione al pericolo dell’isolamento rispetto alla politica". Come dire che, finito l’anti-berlusconismo che accomunava magistrati e Pd, ora si rischia di restare soli, e subire le iniziative della politica senza riuscire a contare. In tempi di renzismo, sembra che tra i magistrati - come in Parlamento - il premier conquisti più consensi al centro che a sinistra. E così la corrente di Unicost, al Csm, si trova spesso al fianco dei "laici" di centrosinistra; anche per contrastare l’anomala convergenza che, da ultimo, s’è registrata su alcune nomine tra la sinistra giudiziaria di Area e il blocco (sempre compatto) che lega Magistratura indipendente e i "laici" di centro-destra. Adesso però c’è la "questione morale" esplosa con il "caso Palermo" (dove la maggior parte dei giudici coinvolti nelle indagini per corruzione aderisce a Mi) che potrebbe aiutare a scompaginare le alleanze. Non a caso Palamara batte sul tasto: "Serve una risposta forte e immediata". Ma prima di lui è stato proprio Carbone, di Area, a brandire l’argomento. Anche in risposta al ministro dell’Interno Alfano, che aveva invitato l’Anm a guardare al proprio interno prima di criticare il governo: "Si impone sempre maggiore attenzione e rigore per le condotte che ledono gravemente l’etica del magistrato, con l’esigenza di combattere ogni opacità". Applausi. Giustizia: con la carta o digitale? sui tempi dei processi è scontro tra generazioni di Francesco Grignetti La Stampa, 25 ottobre 2015 Ci sono tante spine, nel difficile rapporto tra governo Renzi e magistratura. Quelle stranote sono il taglio delle ferie, la responsabilità civile, il pensionamento a 70 anni (differito al 2016), e anche la prossima modifica del Consiglio superiore della magistratura. Ce ne sono poi altre, meno conosciute, ma ugualmente dolorose. La questione dell’informatica, ad esempio, è l’ultima ammaccatura. Qualche giorno fa, l’associazione nazionale magistrati ha diramato un comunicato infuocato. "Lo svilimento della funzione del magistrato è assolutamente evidente", gridano. Ce l’hanno con il processo civile telematico, conosciuto tra gli addetti ai lavori come Pct, che avrebbe l’effetto indebito di "ricadute sul magistrato di compiti e funzioni della cancelleria". Per questo motivo, onde evitare lo "svilimento", i magistrati chiedono di frenare il salto nel digitale e di conservare le copie cartacee. Occorre qui un piccolo salto all’indietro. Con il passaggio dal processo cartaceo tradizionale al civile telematico - dal giugno 2014 nei tribunali per il primo grado, dal giugno 2015 anche per le corti d’appello, prossimamente in Cassazione - magistrati e avvocati si confrontano via Internet, accedono al fascicolo attraverso Consolle, un software speciale, si accreditano con una card, depositano i propri atti e leggono quelli avversi in tempo reale e a qualunque ora del giorno e della notte. È una rivoluzione che permette procedure più veloci, taglio delle file agli sportelli di cancelleria, e meno spreco di carta. Si sono risparmiati 48 milioni di euro soltanto in notifiche. Sono stati 13 milioni gli atti digitali postati in un anno. Non tutto fila liscio, è evidente. E perciò quest’anno il ministero spenderà 147 milioni per la rete digitale. Ebbene, è evidente che questa rivoluzione ha spiazzato i "vecchi" del mestiere. Si racconta di anziani avvocati che scrivono ancora a penna gli atti e poi li fanno battere al computer dalla segretaria, figurarsi con le complicate procedure di Consolle. Di contro, ci sono canuti magistrati che trovano improprio l’obbligo di acquisire da sé gli atti digitali e inserirli nel fascicolo virtuale. "Aggravio di responsabilità del giudice, cui è demandata un’attività prima attribuita al personale di cancelleria", protesta l’Anm. Si è così accesa una sorda battaglia per la cosiddetta "copia di cortesia", cioè la copia cartacea degli atti che sono appena postati attraverso la Rete, che gli avvocati dovranno stampare a loro spese e consegnare a mano al giudice. Battaglia che ha visto sgomenti i giovani avvocati che invece nella telematica vedono una grande opportunità. "Si rischia - lamenta Nicoletta Giorgi, presidente dell’associazione Aiga - di creare un inutile doppio binario telematico e cartaceo. La "copia di cortesia" ci farà fare passi indietro". Anche il ministro Orlando, nel suo discorso, ha tenuto il punto. "Mi sono quasi commosso, parlando con alcuni cancellieri in Calabria, entusiasti del Pct. Qui è la grandezza dell’informatica, che permette la scommessa della modernità anche ai territori periferici". La spaccatura però appare innanzitutto generazionale. Sul sito di Magistratura democratica, Salvatore Carboni, giudice del lavoro a Oristano, scrive: "Il Pct richiede, per la sua piena operatività, e per usufruire dei suoi benefici, allo stato in buona parte solamente potenziali, la totale scomparsa della carta". Oppure Gianmarco Marinai, giudice a Livorno: "Obbligare alla copia cartacea degli atti è una battaglia di retroguardia che ci dipinge dinanzi all’opinione pubblica come dei reazionari contrari a qualunque evoluzione. Tra pochi anni, le "valigiate" di fascicoli che ci portiamo dietro per le sentenze del fine settimana saranno un lontano ricordo". Giustizia: strage del Bardo, lunedì il verdetto sull’estradizione di Abdel di Luigi Manconi (senatore del Partito Democratico) La Repubblica, 25 ottobre 2015 Il senatore del Pd ha visitato in cella il giovane marocchino accusato dell’attentato. "È precipitato in uno scenario immensamente più grande di lui". Tra quarantotto ore, lunedì 26 ottobre, la V Corte d’Appello di Milano, probabilmente e auspicabilmente, dichiarerà la non estradabilità di Abdel Touil in Tunisia confermando quanto deciso dalla Procura generale venti giorni fa: i reati di cui Touil è accusato sono puniti in Tunisia con la pena di morte e poiché l’accordo bilaterale Italia-Tunisia non prevede che la pena capitale venga commutata, Touil non può essere estradato. Inoltre, sempre come sostenuto dal sostituto procuratore generale De Petris, sono numerosi i dubbi su alcune delle prove d’accusa prodotte dalle autorità tunisine per dimostrare il coinvolgimento del ventiduenne di origine marocchina nell’attentato al museo del Bardo di Tunisi dello scorso 18 marzo dove morirono ventuno persone. Questa mattina ho incontrato Abdel Touil. Si trova in una cella singola, proprio davanti all’ufficio della polizia penitenziaria nel primo tratto di un braccio del carcere di Opera, poco distante da Milano: "Così è possibile vigilare su di lui con più assiduità e maggiore attenzione" dice la giovane vicecomandante. La cella di Abdel è l’ordinaria cella di un carcere, in questo caso non troppo angusta e sufficientemente pulita, dove l’arredamento è spoglio e ridotto all’essenziale. Abdel è alto circa un metro e ottanta e di bell’aspetto. Indossa una felpa scura e i pantaloni di una tuta. Ai piedi un paio di infradito azzurre, la calzatura più diffusa in tutte le carceri italiane. Rispetto alle foto pubblicate la scorsa primavera, appare smagrito e scavato. E, soprattutto, come rannicchiato in se stesso, le spalle strette e lo sguardo smarrito. È nato in una cittadina del Marocco e parla un dialetto arabo, che un medico libanese che lavora in quel carcere da decenni ci traduce. Abdel sa che nei prossimi giorni un tribunale italiano dovrà decidere della sua estradizione in Tunisia. Abdel è terrorizzato perché, come ci dice il direttore del carcere, "per la sua cultura un’accusa così grave già equivale a una condanna a morte": come accade in paesi dove una imputazione comporta pressoché automaticamente una pena. Passa le sue giornate in completa inattività, "a pensare", e si dedica con grande fatica a un qualche apprendimento della lingua italiana: sul tavolo, un vocabolario arabo-francese, alcuni fascicoli di un corso di italiano per stranieri, una busta di tabacco, filtri, cartine e accendino. Ci racconta della sua famiglia, di suo padre e di una sua sorella rimasti in Marocco e di sua madre, alla quale è molto legato che vive "da nove, dieci anni" a Gaggiano insieme ad altri due figli. Abdel, che proviene da una situazione di penuria estrema sotto il profilo sociale e culturale, vive ora come precipitato in un universo totalmente sconosciuto. Una cella di una istituzione di un paese del quale sembra ignorare tutto: legge e consuetudini, lingua e valori, e che ha rappresentato per lui una occasione di emancipazione, sollecitata dalla presenza dei suoi familiari in un piccolo centro a sud-est di Milano. È questo che presumibilmente accentua la sua incertezza e il suo panico per una scadenza, quella di lunedì 26, che sarà decisiva per la sua vita. Per il resto, dice di trovarsi bene, di essere trattato con grande premura (e la nostra sensazione è proprio questa), di mangiare regolarmente e di apprezzare - del cibo italiano - la pasta e il pollo, ma di avere grande difficoltà a dormire perché prova "un intollerabile peso sullo stomaco". Abdel, che si dichiara "un bravo musulmano", prega cinque volte al giorno e, alla nostra richiesta, ci indica la direzione della Mecca, verso la quale rivolge, in ginocchio, le sue preghiere. Insistentemente ci chiede aiuto e appare estremamente incerto sulle procedure che lo attendono. Insomma, appare esattamente quello che è: un giovane marocchino arrivato in Italia dalla Libia su un barcone e precipitato, scosso e inconsapevole, in uno scenario immensamente più grande di lui e del quale sembra proprio incapace di decifrare la trama. Lettere: riforma della giustizia, il nuovo Csm dimenticato di Oscar Giannino Il Mattino, 25 ottobre 2015 Ieri il ministro della Giustizia Orlando ha risposto alle cannonate dei magistrati con un ramoscello d’ulivo, riconoscendo all’Anni un molo insostituibile di interlocuzione istituzionale. In altri tempi, si sarebbe detto che il suo è stato un discorso da perfetto democristiano. Mentre quello straordinario galantuomo che è Sabino Cassese, prima ancora che grande giurista ed ex giudice costituzionale, ha colto il punto centrale dello scontro tra magistratura e governo, riproposto in questi giorni al congresso dell’Anni con tanti saluti alle centinaia di magistrati che non sono iscritti a correnti e che non si riconoscono in polemiche di parte. Al centro di tutto c’è uno dei punti nodali ancora non attuati dei Spunti di riforma della giustizia che il governo Renzi annunciò appena entrato in carica, nella primavera 2014. Ed è la riforma del Csm, l’organo di autogoverno dei magistrati da anni piegato agli accordi di ferro tra correnti della magistratura, che determinano come nei vecchi governi di pentapartito le nomine ai vertici degli uffici giudiziari, e salvano dalle azioni disciplinari gli amici di questo e di quello. Il Csm tenta di autoriformarsi prima che arrivi a farlo il governo, che tale riforma ha promesso, ma le sue proposte sono "timide e corporative", scrive Cassese. Ha mille volte ragione. Ma prima di arrivare al punto, ricordiamo per sommi capi quel che il governo ha fatto sulla giustizia. Su molti punti, scontando un’opposizione aperta dell’Anni. In effetti, su diversi temi questo governo non ha fatto poco. Dal 29 agosto 2014, quando fu varato il testo della riforma, ha ottenuto l’obbligatorietà del processo civile telematico (ma ancor oggi in molti tribunali si procede per arà cartacei), la riforma sempre nel civile delle procedure concorsuali delle imprese, il decreto sull’arretrato civile e su nuove forme di degiurisdizionalizzazione, l’approvazione del ddl sull’antiterrorismo e i foreign fighters, di quello sull’anticorruzione con l’istituzione dell’Anac, la riorganizzazione del ministero col dimezzamento delle direzioni generali, l’avvio delle notifiche penali informatizzate, il bando per reclutare altre duemila persone per l’ordinamento giudiziario e 340 magistrati. Nel civile il contenzioso è sceso sotto i 5 milioni di cause, è raddoppiata la definizione entro l’anno delle cause alle sezioni specializzate del tribunale d elle imprese. Su corruzione e criminalità, il governo ha visto approvate dal parlamento le sue proposte sull’introduzione del reato di auto riciclaggio, e sugli eco-reati. Le nuove norme sull’esecuzione della pena hanno ottenuto di far abbassare il sovraffollamento delle carceri dal 37% al 10% dei posti in organico. Gli scontri più incandescenti con l’Anm sono avvenuti sulla riforma della responsabilità civile dei magistrati, che ha abolito il filtro del giudizio di ammissibilità da parte dei tribunali, e che comunque la magistratura associata ha considerato come un attentato alla propria libertà di giudizio. Un altro scontro al calor bianco sulla nuova disciplina del falso in bilancio, anch’essa approvata abolendo precedenti tetti che la de-penalizzavano, ma di cui comunque i magistrati hanno lamentato l’eccessiva rilassatezza. E infine scontro all’arma bianca sull’intervento ordinamentale in materia di ferie dei magistrati, per portarle da 30 a45 giorni: una misura approvata ma che comunque i magistrati hanno trovato nella prassi il modo di aggirare, come abbiamo documentato su queste colonne. È ancora pendente l’esame del ddl di riforma del processo penale, e i magistrati sparano sulla revisione della disciplina delle intercettazioni, di cui discute il parlamento. Altra trincea di scontro sulla riforma delle prescrizioni, all’esame del Senato dopo 11 mesi impiegati dalla Camera per approvarne il testo. Anche in questo caso, malgrado l’aumento della metà dei termini per i reati di corruzione - il cui processo potrà durare fino a 12 anni, dodici! - e malgrado nuove ipotesi di sospensione dei termini per condanna non definitiva di primo o di secondo grado, la magistratura grida comunque che la riforma è fatta per non punire i delinquenti. E infine la riforma del Csm, con le proposte avanzate dall’organo stesso e bocciate giustamente ieri da Cassese. A difesa del fatto che oggi un magistrato possa essere sindaco o presidente di Regione ed esercitare la funzione giurisdizionale in altra circoscrizione, o sia libero di farlo in aspettativa, per poi tornare magistrato. È ovvio che, per un liberale, per chi crede per esempio che la prescrizione serva a difendere il cittadino e il suo diritto a un celere processo e non lo Stato con le sue lentezze bizantine, in Italia viviamo oggi una doppia maledizione. Prima Berlusconi, con le sue leggi ad personam, ha dato man forte alla magistratura. Poi, con la sinistra al governo, la riforma della giustizia finisce per occuparsi di tutto, ma - per non incorrere in scomuniche - non della sostanza vera dell’anomalia italiana. Che è fatta di tre cose. Primo: i magistrati che fanno politica non dovrebbero poter tornare magistrati, ma esser sospesi dai ruoli per poi, al massimo, finita la carri era politica, esercitare al massimo il ruolo dell’avvocatura dello Stato (personalmente, sarei perché la scelta della politica inibisca qualunque rientro). Secondo: le intercettazioni, di tutti i tipi, come sostiene il procuratore Carlo Nordio non dovrebbero aver valore di prova ma solo e costituire elemento essenziale per elementi da provare fattualmente e circostanzialmente con indagini successive. Terzo: il Csm non dovrebbe poter procedere a nomine e carriere e sanzioni disciplinari con maggioranze costituite dai togati per correnti, e dunque andrebbe riformato per sezioni competenti per materia in modo da evitare maggioranze come quelle che da decenni confondono l’autonomia della magistratura con l’attuazione ferrea degli accordi tra correnti. Queste tre cose non ci sono, all’orizzonte. Non è neanche possibile parlarne. Mentre gli Emiliano e i De Magistris e i Sabella dominano le cronache politiche, e i Sabelli - il presidente dell’Anm - agli occhi di molti - finiscono per impersonare tutte le virtù di una giustizia che in realtà piegano a istanze corporative. Abruzzo: Legnini (Csm); quella di Bernardini a Garante dei detenuti è bella candidatura Il Velino, 25 ottobre 2015 "Nel pieno rispetto delle prerogative della libertà di scelta, che spetta al Consiglio regionale dell’Abruzzo, che lo ricordo è la mia regione e alla quale voglio molto bene, penso che la candidatura di Rita Bernardini sia una bella candidatura e mi auguro che ciascuno dei consiglieri rifletta sulla necessità di affidare a una persona capace, competente e appassionata su questi importanti temi, perché si possa fare in modo che quella aspirazione venga soddisfatta. Sarebbe un bel segnale per la condizione carceraria in Italia e anche per l’Abruzzo". Lo ha detto il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini, intervistato a Bari da Radio Radicale, a margine dei lavori del congresso dell’Anm, sulla candidatura di Rita Bernardini, segretaria di Radicali Italiani, alla carica di garante dei detenuti della Regione Abruzzo. Legnini si è poi soffermato sullo sciopero della fame che la tessa Bernardini ha avviato dalla mezzanotte scorsa per la drammatica situazione degli organici nei tribunali di sorveglianza e degli uffici per la esecuzione esterna della pena. "Condivido le preoccupazioni, le forti sollecitazioni di Radicali Italiani - ha detto Legnini - all’indirizzo di un necessario rafforzamento dei ruoli della magistratura di Sorveglianza e per consentire per tale via un più effettivo esercizio dei diritti dei detenuti italiani e una maggiore attenzione per le condizioni del sistema carcerario italiano, che pure in questi anni e in questi mesi ha registrato un netto miglioramento, per esempio con un drastico abbassamento del sovraffollamento. Mi auguro che le risposte possano arrivare subito, so che il ministro della Giustizia si sente molto impegnato a conseguire questo obiettivo, ugualmente lo è il Csm, e mi auguro che Rita Bernardini voglia desistere dallo sciopero della fame". Orlando: ottima candidatura Bernardini garante in Abruzzo "Quella di Rita Bernardini è un’ottima candidatura". Risponde così il ministro della giustizia Andrea Orlando, interpellato da Radio Radicale sulla candidatura di Rita Bernardini a garante dei detenuti Abruzzo, a margine del congresso dell’Anm a Bari. "Non so quali siano le altre - aggiunge Orlando- e quindi mi rimane difficile fare una valutazione di merito". Napoli: la maledizione di Poggioreale "qui dentro si picchia ancora" di Errico Novi Il Garantista, 25 ottobre 2015 Certo non lo si può consigliare nelle guide turistiche. Eppure un giro nei pressi del carcere di Poggioreale può aiutare a conoscere Napoli almeno quanto una passeggiata in via Caracciolo. Bisogna fermarsi lì, davanti al bar "L’angolo della libertà", un nome che dice tutto. Ci sono i familiari dei reclusi, una comunità solidale come poche. Non noterai i segni del dolore, la rabbia della privazione, ma una consuetudine che è fatalismo e spirito di adattamento. Possibile che ci si rassegni anche ai pestaggi? Forse sì. Poggioreale è stata al centro di vicende gravissime negli anni scorsi, che nel 2014 hanno portato alla sostituzione di tutti i vertici: via la direttrice, il comandante della polizia penitenziaria, il direttore sanitario e il responsabile del Pedagogico. Ci si aspetterebbe anche un rinnovamento nella gestione dei reclusi. Ma le testimonianze raccolte lì, davanti all’ingresso di via Nuova Poggioreale riservato ai familiari, fanno temere che qualche scoria sia difficile da espellere. Nella rassegnazione devi metterci anche la sentenza frettolosa di un signore sulla cinquantina, padre di un detenuto e a sua volta con un passato da recluso a Poggioreale. "Se hanno ricominciato a malmenarli? E perché ricominciato? Sono vent’anni che va avanti così". S’infila nel cancello, non dice altro, rende l’idea di una terribile normalità. Informazioni più chiare le fornisce un uomo appena uscito dal penitenziario: "Sì, le guardie picchiano. Dipende anche dai padiglioni, ma certo ce ne sono alcuni dove le mani addosso alla gente le ho viste mettere". Cosa succede esattamente? "Sono i sistemi che si usano soprattutto con i nuovi arrivati. Che vi devo dire, se si fa una fila e uno non sta perfettamente allineato, come sotto le armi, come minimo ti arriva uno scazzettone". Uno schiaffo sulla nuca. "A chi è appena entrato in carcere danno una specie di benvenuto. Tu non sai che dentro devi rispettare regole di ferro come al militare: diciamo che te le fanno capire loro". Naturalmente non ci viene chiesto di sollevare un caso: fa tutto parte di una prassi ormai radicata. Continua l’ex recluso: "I padiglioni dove questo accade più spesso sono il Napoli e il Milano. Altri sono più tranquilli". Altri come il Firenze, sostiene un signore sulla cinquantina che ha un fratello dentro e ha appena accompagnato la cognata: "Finora non ci ha raccontato niente di strano". In effetti i padiglioni Firenze e Italia rappresentano un’eccezione positiva: sono gli unici in cui le celle restano aperte 8 ore al giorno. Sul resto i numeri parlano chiaro. In giro ci sarà pure una tendenza alla decompressione, qui a Napoli est non sanno che significa: secondo i dati del Dap al 31 agosto si contavano 1.931 detenuti, 287 in più rispetto ai 1.644 posti della capienza "teorica". Ma in pratica le cose vanno ancora peggio: c’è un’intera ala in ristrutturazione, il padiglione Genova. Fanno 111 posti in meno, come ricorda l’ultimo rapporto di Antigone. Vuol dire che i reclusi in sovrannumero raggiungono l’astronomica quota 400. E che Poggioreale è un carcere sovraffollato per oltre il 25 per cento. In queste condizioni lavorare è difficilissimo anche per le guardie carcerarie. Una di loro descrive così la situazione: "I nuovi simil-camorristi sono ragazzetti di 18-20 anni. Gli ultimi morti a Napoli lo dimostrano. Il più delle volte hanno il cervello bruciato dalle droghe sintetiche, li guardi e ti chiedi com’è possibile definirli boss. Io non ho mai alzato le mani, non mi risulta alcun episodio, ma se a qualche collega fosse scappato uno schiaffo deve essere stato perché quando parli non ti capiscono nemmeno". Davanti all’ingresso dei familiari molti negano. Niente botte, dicono, mai arrivato un lamento, almeno su questo. Un padre si affanna verso l’entrata: "Mio figlio sta dall’altro ieri, ancora non ci ho parlato, non posso rispondere. Ma ‘e guagliune tenene ‘e cape ‘e merd". Napoli è anche rassegnazione a una devianza giovanile più disperata che criminale. Eppure il dubbio resta: i tempi della "cella zero" - la gabbia liscia dove, come raccontò il pentito Fiore D’Avino, "ti picchiavano con le mazze coperte dagli asciugamani per non lasciarti i segni" - sono definitivamente andati o è rimasta una traccia? Su Poggioreale pesa una lontana maledizione: l’assassinio di Giuseppe Salvia, il vicedirettore che Raffaele Cutolo fece trucidare in Tangenziale nell’81. Due anni fa il penitenziario è stato intitolato proprio a Salvia. Con quell’atto ci si illuse di aver fermato la scia di repressione e rivolte seguita proprio alla bestiale vendetta di ‘o prufessore. Fu un’illusione appunto. E i fatti che nel 2014 hanno portato al trasferimento dell’ex direttrice Teresa Abate lo dimostrano. Ora qualcosa sembra cambiato davvero. Ma a Poggioreale c’è un virus sottile che nemmeno la gestione più rigorosa potrà mai allontanare del tutto. Viterbo: detenuto ritrovato con una scopa nel retto, necessario il trasporto a Belcolle viterbonews24.it, 25 ottobre 2015 Trovato con un manico nel retto, detenuto del carcere di Mammagialla portato d’urgenza all’ospedale di Belcolle. Si tratta di un italiano, che nella notte di mercoledì è stato soccorso perché trovato con un manico di scopa nel retto. Ad accorgersi sono stato gli agenti della polizia penitenziaria. Ancora da capire la cause. All’interno della struttura sono subito scattate le indagine, per capire se sia stato un gesto volontario o una situazione scaturita per problemi con altri detenuti all’interno della struttura. Cause e dinamiche che per il momento devono ancora essere capite e soltanto nelle prossimi giorni si potrà avere un quadro più chiaro sulla faccenda. Bergamo: droga in carcere nascosta nelle mortadelle, condannato un detenuto di Michele Andreucci Il Giorno, 25 ottobre 2015 Con l’aiuto della sua fidanzata, il 24 gennaio scorso si era fatto portare nella casa circondariale di via Gleno, dove stava scontando una condanna per furto, un pacco contenente due mortadelle intere, con lo stemma delle macellerie islamiche, destinate ad un compagno di detenzione, un immigrato marocchino di 30 anni. Durante i controlli, però, una guardia carceraria aveva scoperto che i salumi contenevano nell’impasto 3 panetti di hashish, per un peso totale di circa 50 grammi, e un telefonino cellulare, con tanto di batteria e scheda telefonica. Per questo episodio il gup Alberto Viti, al termine del processo celebrato con il rito abbreviato (sconto di un terzo sulla pena finale), ha condannato a 3 anni di reclusione un bergamasco di 35 anni, con precedenti per rapina e furto, per introduzione di sostanze stupefacenti in carcere. Il giudice ha invece assolto la sua ragazza, 25 anni, residente in un comune dell’hinterland, credendo alla sua versione dei fatti: "È vero, ho portato il pacco in prigione, ma l’ho ricevuto da un uomo all’esterno della casa circondariale e non sapevo cosa contenesse. Ho fatto un favore al mio compagno". L’immigrato marocchino, che nel frattempo è stato espulso dall’Italia su ordine del questore, è stato assolto, come indicato dalle disposizioni sulle norme dell’immigrazione: l’articolo 13, infatti, prevede il "non luogo a procedere" per l’imputato, se non è stato ancora emesso il decreto di rinvio a giudizio. Davanti al giudice dell’udienza preliminare, il 35enne si è difeso sostenendo che non sapeva che le mortadelle contenessero la droga. "Il marocchino - ha detto - mi ha chiesto se, attraverso la mia fidanzata, potevo fargli recapitare un pacco. Come faccio?, gli ho domandato. Per tutta risposta ha preso un cellulare che teneva in una tasca dei pantaloni, me lo ha dato e mi ha chiesto di contattarla e di riferirle che poco prima di entrare a farmi visita si sarebbe incontrato, fuori dal carcere di via Gleno, con un uomo che le avrebbe consegnato il pacco. E così ho fatto". Circostanza che è stata confermata dalla giovane. Il giudice, però, non ha ritenuto plausibile la versione dell’uomo, in quanto conosceva l’immigrato ed era a conoscenza dei suoi precedenti per droga. Quindi poteva prevedere che dietro quella richiesta ci fosse qualcosa di poco chiaro. Con il suo comportamento, in sostanza, si è reso complice dell’immigrato, aiutandolo a introdurre la droga nella casa circondariale. Successive perquisizioni effettuate dalle guardie carcerarie aveva permesso di scoprire nella cella del magrebino altre due mortadelle, questa volta senza droga all’interno, ma con lo stesso marchio delle macellerie islamiche. Modena: sala teatro del carcere ristrutturata e i detenuti servono cena ai Lions Gazzetta di Modena, 25 ottobre 2015 Giovedì tutti i Lions Club di Modena, Host, Wiligelmo, Romanica, Avia Pervia, Estense e Leo Club, soci ed amici, si sono ritrovati nel carcere di S. Anna in occasione del "Service" lionistico per la risistemazione della sala teatro del carcere. Per l’occasione la cena di gala è stata preparata nella cucina della casa circondariale dallo chef stellato Marta Pulini e servita da un gruppo di detenuti, con la direzione organizzativa del Bibendum Group. Nel menù offerte anche verdure biologiche prodotte nel campo del reclusorio. Prima della cena si è proceduto all’inaugurazione della Sala Teatro con un breve spettacolo, messo in scena da un gruppo di detenuti che frequentano il laboratorio teatrale sotto la direzione artistica di Stefano Tè dell’associazione Teatro dei Venti. La collaborazione tra la direzione della Casa Circondariale e i Lions modenesi è iniziata nel 2012 con il progetto "Service Insieme" in cui erano stati risistemati gli spazi dedicati ai colloqui dei detenuti con i familiari, in particolare con i minori. Quest’anno è stata la volta del teatro. L’iniziativa di quest’anno è stata finalizzata a far conoscere da dentro la realtà penitenziaria e il lavoro degli operatori, oltre che dare un’opportunità lavorativa e formativa ai detenuti coinvolti. I lavori sono stati in parte eseguiti dai detenuti che lavorano per l’amministrazione penitenziaria con i materiali messi a disposizione dai Lions. L’evento è stato reso possibile grazie alla professionalità del personale di Polizia Penitenziaria, che ha garantito che tutte le attività si svolgessero in sicurezza, senza intervenire sulle attività quotidiane. È la prima volta che un’iniziativa di questo genere viene realizzata all’interno della Casa Circondariale, e rientra tra quelle finalizzate ad avvicinare la società esterna al mondo penitenziario, spesso invisibile o ignoto ai più. Si è trattato di una grande sfida, che i Lions Club hanno reso possibile, dimostrando che il muro del pregiudizio e dell’indifferenza può essere abbattuto e che anche dal carcere può venire qualcosa di buono. "Cani e agenti armati contro i profughi" di Andrea Oskari Rossini Il Manifesto, 25 ottobre 2015 Il racconto dei migranti che attraversano la Bulgaria. E c’è chi parla di un altro morto dopo l’afghano ucciso una settimana fa. Un gruppo di ragazzi afghani esce dalla foresta e si dirige verso il centro di Dimitrovgrad, nella Serbia meridionale. Sono laceri, sporchi, non portano nulla tranne un occasionale sacchetto di plastica. Le storie che raccontano sulla Bulgaria, che hanno appena attraversato, assomigliano a un film dell’orrore. "I cani delle guardie di frontiera ci inseguivano", racconta Zabiullah, di Nangahar. "Sparavano, quindici di noi sono stati catturati, uno è morto. Siamo rimasti nella foresta per quattro giorni senza cibo". Gli altri annuiscono gravemente. L’interprete dal farsi incalza: "Sei sicuro che sia proprio morto?". "Sì, sicuro. È successo domenica". Mancano un nome, e un luogo, per validare le testimonianze sulla nuova uccisione di un migrante in Bulgaria. Ma tutti i racconti, anche quelli forniti da altri gruppi che incontriamo, concordano nel descrivere un quadro di sistematica violenza perpetrata dalla polizia di quel paese nei confronti dei profughi, in particolare nella regione al confine con la Turchia. Salar, 25 anni, che lavora come volontario a Dimitrovgrad, dice che sono giorni che ascolta storie di questo tipo. "Raccontano che quando la polizia li cattura, in Bulgaria, toglie loro tutto, soldi, telefonino, tutto. Poi lo vedi, in che condizioni arrivano". Alcuni mostrano i segni delle percosse, o dei morsi dei cani. Un curdo siriano, Ibrahim, di Kamishlié, uscito nel frattempo dal centro di identificazione con la moglie e i figli, si unisce per spiegare che in Bulgaria è stato detenuto per giorni "per nessun motivo". 25 euro fino a Belgrado. Dragana Golubovi, del Commissariato serbo per i Rifugiati, ci spiega che a Dimitrovgrad arrivano di media tra le 1.500 e le 2.000 persone alla settimana, quasi tutti giovani, molti minorenni. Non permette di entrare nel centro di identificazione dove, come spiegano i volontari all’esterno, le condizioni sono "molto spartane". La permanenza dura solitamente poche ore. Dopo l’identificazione, ai profughi viene fornito un permesso di 72 ore per attraversare il territorio serbo. Fuori dal centro ci sono un autobus, e alcuni taxi. Andare a Belgrado costa 25 euro con il bus, 200 con il taxi. Intorno ai migranti della rotta balcanica fiorisce una discreta economia, anche in questo centro sperduto del meridione serbo. Molti afgani però non hanno più nulla, tranne i vestiti sporchi di fango, e alcuni si guardano intorno smarriti. I volontari presenti cercano di aiutare, ma non sembrano bene accolti dalla gente del posto, che forse li considera come concorrenza. Arriva anche la polizia, che fa smontare una tenda "no border" preparata accanto al furgoncino con i vestiti e i generi di conforto. Nella serata, la situazione sembra risolversi. Da luglio 200mila rifugiati. Preševo, 200 chilometri da qui, al confine tra Serbia e Macedonia, la situazione è diversa. I flussi, anzitutto, sono molto più consistenti. "Nella giornata di lunedì sono entrate 8.000 persone, ma la media è di 5/6.000 al giorno", spiega Slobodan Savovi, responsabile del centro di identificazione "One stop centre" per il Commissariato serbo per i rifugiati. "Dall’8 luglio, quando abbiamo aperto", dice Savovi, entrando all’interno della struttura, "sono passate 200.000 persone". I profughi si incolonnano in lunghe file fuori dalla ex manifattura di tabacchi. Dopo i controlli con il metal detector, e il sacchettino di cibo fornito dalla Croce rossa, le persone vengono registrate e ricevono il permesso di tre giorni. "Possono anche fare domanda di asilo, spiega Savovi, ma in pratica non lo fa nessuno". Diversamente da Dimitrovgrad, qui la stragrande maggioranza delle persone in fila viene dalla Siria. Sono famiglie, e ci sono tantissimi bambini. Per i siriani, l’incubo non è stata la Bulgaria, ma il breve tratto di mare tra Turchia e Grecia. La cifra da pagare ai trafficanti, per salire sui gommoni, varia tra i 1.000 e i 1.500 dollari a testa. I mafiosi però non salgono. Spiegano come funziona il motore, e indicano la riva da raggiungere. "Ci ha salvati la marina greca", spiega un uomo che aspetta con i suoi bambini. "Il canotto stava affondando, ci hanno portato loro a Mitilene". Anche a Preševo le condizioni sono molto spartane. L’intero sistema dell’accoglienza si basa sulla previsione che i profughi resteranno solo poche ore. Fuori dal centro di identificazione, i venditori dei biglietti per il confine con la Croazia attendono impazienti. Il viaggio costa 35 euro. Gli autobus, alcune decine, partono in continuazione. Le informazioni, e il conforto, vengono forniti anche qui prevalentemente dai volontari. Tra gli altri ci sono anche Vjoleta e Goran, del gruppo delle Donne in nero di Belgrado, ("Siamo stati solidali con i rifugiati delle guerre nei Balcani, siamo solidali con i migranti"), e Vanja, una ragazza bosniaca rifugiatasi in Svizzera durante le guerre nei Balcani, che da mesi aiuta qui i migranti insieme alla sua associazione, Borderfree. Fango e sporcizia tra le tende. Preševo, una cittadina di poco più di 10.000 abitanti, a maggioranza albanese, è la principale porta di ingresso in Serbia nella rotta balcanica. I diversi flussi, quello proveniente dalla Macedonia e quello proveniente dalla Bulgaria, confluiscono poi a Berkasovo, poco a nord di Šid, da dove i profughi entrano in Croazia. Se a monte, in Austria, in Slovenia, o nella stessa Croazia, i confini vengono chiusi, anche temporaneamente, o i flussi vengono rallentati, è a Berkasovo che succede il putiferio. Qui i migranti devono percorrere alcuni chilometri a piedi per arrivare al valico di frontiera che, giovedì scorso, assomigliava a un girone dantesco. Fango, sporcizia e detriti circondano dei tendoni che portano verso i recinti e i cordoni della polizia croata che delimitano il confine. La gente si ammassa, spinge, i poliziotti urlano cercando di far passare le persone in piccoli gruppi. Inevitabilmente, le famiglie vengono separate, mentre i volontari da entrambi i lati delle barricate cercano di riunire i bambini con il proprio gruppo. Proprio i bambini, insieme alle donne e agli anziani, sono quelli che più soffrono in questa situazione. Inspiegabilmente, non c’è alcun accesso prioritario per loro, o in generale per le categorie più vulnerabili. Restano per ore sotto i tendoni, al freddo e nella sporcizia, aspettando di poter continuare il viaggio. Se dovessero attendere più di poche ore, nessuno sa esattamente cosa potrebbe succedere. Il flusso di rifugiati e migranti che attraversa la penisola balcanica si sta lentamente trasformando in una crisi umanitaria, di grandi proporzioni. Le condizioni lungo il cammino non stanno migliorando, ma peggiorano, insieme alle condizioni del tempo. L’unica cosa che non sembra cambiare è la determinazione di questi popoli in fuga. Le donne siriane in cammino, fuori di sé dalla stanchezza, con i figli in braccio, hanno lo sguardo deciso, come fossero in una missione. È lo stesso sguardo dei ragazzi afghani. È stata data loro una speranza, non li fermano né il mare, né le botte dei poliziotti bulgari, né i muri di Orbán. Afghanistan: ospedale di Msf bombardato a Kunduz, inchiesta ferma di Emanuele Giordana Il Manifesto, 25 ottobre 2015 Mentre il bilancio del raid del 3 ottobre che ha devastato l’ospedale di Medici senza Frontiere a Kunduz in Afghanistan è salito a 25 vittime, il Pentagono ha fatto sapere che il rapporto interno della Difesa americana (un’altra inchiesta viene condotta dalla Nato e un’altra ancora dal governo di Kabul) non è ancora pronto. Nel giustificare il ritardo, il segretario alla Difesa Ashton Carter ha detto che il Pentagono vuole un lavoro "fatto bene", in linea con l’assunzione di responsabilità e trasparenza nei confronti delle vittime. Il rapporto, o quantomeno le prime risultanze dell’indagine, erano attese entro questa settimana, a quasi un mese ormai da quello che Washington e la Nato hanno definito un "tragico incidente" e Msf una patente "violazione del diritto internazionale umanitario". In altre parole un crimine di guerra. I parenti delle vittime (staff e pazienti) intanto aumentano e molto probabilmente aumenteranno ancora perché Medici senza frontiere sta lavorando al riconoscimento di altri sette cadaveri tuttora irriconoscibili, trovati tra le macerie dell’ospedale bombardato dall’aereo da combattimento americano AC-130 che, all’alba del 3 ottobre, ha ripetutamente colpito il centro medico (il Lockheed AC-130 è quadrimotore a turboelica impiegato come cannoniera volante per attacchi sul terreno). Mentre Msf continua a chiedere un’inchiesta indipendente, il ritardo nell’indagine interna non fa che aumentare l’irritazione dopo che, alcuni giorni fa - col compito di raccogliere prove sui fatti - veicoli blindati con a bordo militari americani e afgani sono penetrati nell’ospedale (dove tra l’altro si trovavano alcuni responsabili di Msf), forzandone il portone e distruggendo presumibilmente parte delle evidenze che i soldati avrebbero dovuto indagare. La petizione lanciata da Medici senza frontiere a metà ottobre sul web per ottenere un’inchiesta indipendente (attraverso la piattaforma Change?.org) ha già superato le 300mila firme ma l’organizzazione medica vuole arrivare a 500mila: chiede al presidente statunitense Barack Obama di consentire un’indagine autonoma e neutrale da parte della Commissione d’inchiesta umanitaria internazionale (Ihffc), l’unico organo permanente specificamente istituito per indagare le violazioni del diritto internazionale umanitario. Ihffc si è detta disponibile ma sta aspettando luce verde sia dagli Stati Uniti sia dal governo afgano. Biram Abeid, il Madiba di Mauritania che sta morendo in carcere di Gilberto Mastromatteo Il Manifesto, 25 ottobre 2015 Antischiavismo. Il leader dell’Initiative de résurgence du mouvement abolitionniste (Ira) sta scontando nella famigerata "Guantanamo dell’Africa occidentale" una condanna a due anni di carcere. Per aver preso parte a una manifestazione non autorizzata, recita la sentenza. Per aver sfidato il presidente Mohamed Ould Abdel Aziz alle scorse presidenziali, dicono invece i suoi seguaci. Rischia di morire in carcere Biram Dah Abeid, il Madiba di Mauritania. Il leader antischiavista dell’Initiative de résurgence du mouvement abolitionniste (Ira) è rinchiuso da quasi un anno nel penitenziario di Aleg, la famigerata "Guantanamo dell’Africa occidentale". E le sue condizioni di salute stanno peggiorando rapidamente. "Biram Abeid soffre di diabete, ernia del disco e ipertensione - la denuncia, lanciata dall’Osservatorio per la protezione dei difensori dei diritti umani - lamenta forti dolori addominali, vertigini, difficoltà di movimento e gravi disturbi del sonno". "Siamo davvero preoccupati per la situazione - ci spiega Ivana Dama, portavoce di Ira in Italia - da qualche mese le autorità mauritane stanno negando a Biram l’accesso alle cure mediche e hanno inspiegabilmente limitato le visite in carcere. L’unica a venire ammessa, per sole due volte la settimana, è sua moglie. Che è anche l’unica a portargli del cibo decente". Nel 2012 Abeid era finito in cella per aver dato fuoco in pubblico ad alcune presunte pagine del Corano, mediante le quali venivano indottrinati gli schiavi ad essere fieri della loro condizione. Oggi sta scontando una condanna a due anni di carcere. Per aver preso parte a una manifestazione non autorizzata, recita la sentenza. Per aver sfidato il presidente Mohamed Ould Abdel Aziz alle scorse presidenziali, dicono invece i suoi seguaci. Il popolo degli ex schiavi haratine che alle elezioni del 21 giugno 2014 lo ha premiato con il 9% dei consensi. Una sorta di piccola rivoluzione in un paese dove si calcola che siano ancora 700 mila gli abd che vivono alle dipendenze di un padrone arabo-berbero (bidane, bianco), malgrado la schiavitù sia stata formalmente abolita per legge nel 1981. Lo hanno arrestato pochi mesi dopo il voto, l’11 novembre, a seguito di una carovana di protesta organizzata a Rosso, al confine con il Senegal. A dicembre è giunta la prevedibile sentenza nei confronti suoi, del suo braccio destro Ould Brahim Bilal Ramdane e di Djiby Sow, leader di un’altra ong abolizionista, la Kawtal ngam Yellitaare. Resistenza alla forza pubblica, manifestazione non autorizzata e appartenenza a un’organizzazione non riconosciuta, i capi d’accusa per Abeid e Ramdane cui, lo scorso 20 agosto, è stata negato un ricorso in appello. Poi nuovi arresti e nuove intimidazioni. Lo scorso 18 luglio l’attivista Yacoub Diarra, marito di Ivana Dama e anch’egli rappresentante di Ira Italia, è stato prelevato dalle forze dell’ordine, in piena notte, trascinato al commissariato di Dar-Naïm, poi rilasciato. Era tornato in Mauritania per celebrare la fine del Ramadan e far visita a Biram. "Oggi Biram ha bisogno di cure urgenti - aggiunge Ivana Dama -. Lanciamo un appello a politica e istituzioni perché intervengano. Non facciamo di lui l’ennesimo eroe postumo". Storia di Reyhaneh giustiziata in Iran "Lascio le mie lettere al vento della libertà" di Reyhaneh Jabbari Corriere della Sera, 25 ottobre 2015 A un anno dalla morte di Reyhaneh Jabbari, impiccata in Iran per l’omicidio di un uomo che accusava di tentato stupro, pubblichiamo uno stralcio tratto dalle lettere scritte in prigione dalla ragazza e diffuse online (lette anche a scuola su iniziativa dell’associazione di Verona "Isolina e..."). Reyhaneh è stata giustiziata per aver ucciso un ex funzionario dell’intelligence. I giudici l’hanno condannata per omicidio premeditato "sulla base di prove certe". Amnesty International e altre organizzazioni per i diritti umani hanno definito il processo "viziato". Un anno dopo, la madre Shole Pakravan difende ancora l’innocenza di Reyhaneh. "Mia figlia mi ha chiesto tre cose: di non vestirmi di nero, di donare i suoi organi e di perdonare tutti coloro che le hanno fatto del male - dice nella video-intervista che potete guardare su La27esima ora, blog del Corriere -. Sono riuscita a esaudire solo la sua prima richiesta". Tre uomini mostruosi mi aspettavano in una piccola stanza. Mi hanno ammanettata allo schienale della seggiola e obbligata a sedere per terra. Ho appoggiato la testa al sedile, non riuscivo a distinguere le voci, uno dopo l’altro urlavano: "Pensi di essere furba? Quelli più furbi di te sono diventati "topi". Ora tu, pulcino, chi vuoi imitare?". Nella schiena ho sentito un colpo. Ho sentito la mia pelle gonfiarsi e ad un altro colpo si è strappata. Il fuoco nel mio corpo è divampato. Gridavo, ma dentro, sommessamente. Le loro urla erano assordanti: "Dio ti maledice". E ancora mi percuotevano. Io, a terra, umiliata, affogata nella mia stessa saliva, nel mio muco e nelle lacrime. Io, Reyhaneh, ora ho ventisei anni e porto ancora sulla mia schiena le cicatrici, ora sono più pallide ma si vedono negli stessi punti di quando al rientro dagli interrogatori le donne drogate e prostitute pregavano per alleviare il mio dolore. In queste donne, per la prima volta nella mia vita ho visto tracce d’affetto, ed erano le stesse donne che, se le avessi viste per strada, le avrei guardate con disprezzo. Questi giorni, scuri e amari sono finiti con la mia confessione. Ho scritto tutto quello che i tre uomini mostruosi volevano. Io, Reyhaneh, ho ventisei anni e, nonostante le tracce di dolore lasciate sul mio corpo e nella mia anima, non ho nei confronti dei miei torturatori alcun desiderio di vendetta. Non ho sentimenti di vendetta neppure per quell’uomo grasso che con gli scarponi mi ha schiacciato le dita dei piedi, mi ha rotto le unghie e queste ancora crescono storte e circondate da una carne più scura. In questo mondo non mi lamento, ma nell’altro li denuncio davanti a Dio. Io, Reyhaneh, ho ventisei anni e porto un carico di dolore e sofferenza: per liberarmi di questo peso scrivo. Vorrei finire al più presto possibile, perché ho paura di non aver tempo sufficiente per scrivere. Darò queste lettere a una signora gentile che in questi giorni sarà liberata. Dicevo sempre a mia madre che volevo lasciarle in eredità tanti fogli. In questi anni le ho mandato tante lettere, tranne quelle scoperte e sequestrate. La mia amica ha l’incarico di dare queste lettere al vento della libertà, perché possano volare dappertutto. Un giorno ho deciso di organizzare un compleanno per una prigioniera il cui nome non è importante, era una qualsiasi, potevo essere io. Ho fatto girare la voce: alcune preparavano cartoline di auguri, altre pensierini, alcune cercavano pentole da usare come strumenti musicali. Con tante piccole torte confezionate e farcite, pezzi di frutta sciroppata e noci e - colpo finale - uno strato di mascarpone, abbiamo preparato quella che sembrava una torta di pasticceria. Altre volte abbiamo ripetuto la festa, ma poi tornava la tristezza. In questo periodo hanno giustiziato una donna di nome Zahra. Aveva ucciso il marito e aveva tre figlie che avrebbero potuto perdonarla evitandole l’impiccagione ma, per le calunnie sulla madre dette loro dal giudice, non l’hanno salvata. Zahra stava lavorando a maglia per una delle sue ragazze quando è stata impiccata e la maglia è rimasta incompiuta. Stati Uniti: il killer del cinema di Aurora aggredito in carcere da un altro detenuto Ansa, 25 ottobre 2015 James Holmes, il killer del cinema di Aurora condannato all’ergastolo per aver ucciso 12 persone, è stato aggredito da un altro detenuto del carcere di massima sicurezza del Colorado dove sta scontando la pena. Lo ha confermato la portavoce del Colorado Department of Corrections che ha precisato che Holmes non è rimasto ferito nell’aggressione, in cui è rimasto coinvolto anche un agente di sicurezza. Il 27enne killer di Aurora in effetti è detenuto in completo isolamento in un’ala del carcere dove non ci sono altri detenuti, ma l’aggressione è avvenuta quando i due detenuti si sono incrociati durante un passaggio in corridoio. La notizia dell’aggressione, avvenuta l’ottobre scorso, è stata per primo rivelata dal Denver Post e poi confermata dalle autorità. Il quotidiano scrive di aver ricevuto una lettera a firma di Mark C. Daniels, il detenuto responsabile dell’aggressione, che sta scontando diverse condanne per furto, aggressione e contrabbando. Lo scorso agosto Holmes, per il quale la giuria non aveva accolto la richiesta di condanna a morte presentata dall’accusa, è stato condannato a 12 ergastoli, uno per ciascuna delle vittime del massacro compiuto nel 2012, durante la quale rimasero ferite 70 persone. I procuratori avevano chiesto la pena di morte ma i giurati non avevano trovato l’accordo sulla condanna.