Giustizia: 600 ergastolani italiani scrivono al Papa "il carcere a vita è disumano" Ansa, 23 ottobre 2015 Seicento ergastolani italiani scrivono al Papa in vista del giubileo straordinario della misericordia, denunciando che il carcere a vita "è disumano". L’iniziativa è stata presa dall’ergastolano Giovanni Lentini, 41 anni, un calabrese di Crotone, che sta scontando la pena per omicidio a Fossombrone. Insieme a Lentini, hanno apposto la firma centinaia di persone, detenute in diversi carceri della Penisola, sul cui certificato appare il "12/12/9999" come fine pena". Praticamente "mai". La lettera, con le adesioni raccolte con l’aiuto di un altro ergastolano, Carmelo Musumeci, è stata recapitata a papa Francesco, che ha risposto tramite l’ispettore generale dei cappellani del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, don Virgilio Balducchi. Il sacerdote, rivolgendosi al cappellano di Fossombrone, don Guido Spadoni, ha così scritto: "Testimonia a Giovanni Lentini che Papa Francesco prega per lui, perché la giustizia migliori, anche per lui sarà possibile gustare la misericordia del Padre". Giustizia: presunzione di colpevolezza, proprietà privata e… ragioni dell’aggressore di Claudio Cerasa Il Foglio, 23 ottobre 2015 I tic del tribunale del popolo di fronte ai casi di legittima difesa Ci sono due grandi temi che si nascondono tra le righe del dibattito finora molto da saloon generato da una notizia che tutti ormai conoscete: il caso di Francesco Sicignano, pensionato di Vaprio D’Adda, che tre giorni fa ha ucciso a colpi di pistola un uomo sorpreso a rubare nella sua casa. Le argomentazioni utilizzate da molti osservatori per valutare le conseguenze emotive del caso si sono articolate all’interno di uno spazio compreso tra due concetti: il diritto di ciascuno di noi di respingere, anche a colpi di pistola, un’aggressione ingiusta alla persona o ai beni e il divieto di farsi giustizia da sé e di confondere il concetto di difesa con quello di vendetta. Carlo Nordio, in un magnifico editoriale pubblicato ieri sul Messaggero, ha fatto un passo in avanti aggiungendo un ulteriore elemento di riflessione: in un caso di legittima difesa, il punto non è fin dove l’aggredito può reagire ma è fin dove lo stato può sanzionare. Detto in altri termini: lo stato può processare un cittadino vittima dell’incapacità collettiva a prevenire il crimine, e dunque, di fatto, vittima di un’inadempienza contrattuale dello stato stesso? La questione è centrale ma non sufficiente per capire quali sono una serie di meccanismi che scattano quasi automaticamente nelle teste di chi osserva e commenta casi come quelli di Vaprio D’Adda. E qui torniamo ai due temi che anticipavamo. Il primo riguarda il diritto, il secondo riguarda l’empatia. In molti, in queste ore, hanno ricordato che i requisiti che rendono possibile la legittima difesa sono tre - la difesa deve essere necessaria, il pericolo dell’offesa deve essere attuale, la difesa deve essere proporzionata alla offesa. Ma accanto al rispetto delle regole esiste anche un problema legato all’interpretazione: la legittima difesa può essere estesa anche alla difesa della proprietà privata? La nostra giurisprudenza, pur avendo cambiato la normativa nel 2006, è ancora pasticciata e contraddittoria e l’interpretazione che viene spessa data dai giudici è diversa anni luce dalla prassi adottata in altri paesi europei. In Germania, il diritto di difesa (anche armata) è riconosciuto persino nel caso del ladro che fugge con la refurtiva. In Olanda, è prevista la non punibilità dell’eccesso di difesa qualora questa sia la conseguenza immediata di una violenta emozione provocata dall’aggressione. In Portogallo, la legittima difesa si applica nei confronti dell’aggressione a qualunque interesse giuridicamente protetto. In Svizzera, l’eccesso colposo è punito con una pena attenuata; ma se l’eccesso è dovuto a uno stato emotivo scusabile la colpevolezza risulta esclusa. L’Italia, dunque, non solo è uno dei paesi in Europa in cui la difesa della proprietà privata non è una ragione sufficiente a giustificare la legittima difesa ma è anche uno dei paesi in cui capita con maggiore regolarità che il circo mediatico giudiziario di fronte a una notizia come quella di Vaprio D’Adda si muova con il classico tic della presunzione di colpevolezza verso chi si è difeso da una possibile aggressione. Il secondo tema, legato all’empatia, è delicato ma spesso è quasi automatico: il tribunale del popolo condanna colui che si è difeso contro un aggressore valutando non il contesto dell’aggressione quanto la vicinanza a ciò che la vittima rappresenta. Fino al punto da arrivare a smuovere nella propria coscienza un dilemma inconfessabile: l’aggredito avrà avuto le sue ragioni, ma una vera società progressista non può non chiedersi cosa abbia spinto l’autore del crimine ad arrivare fino a quel punto. Le polemiche surreali sulla sacrosanta legittima difesa del signor Sicignano, in fondo, si spiegano anche così. Giustizia: impedire abusi con le armi e interpretazioni troppo soggettive dei magistrati di Carlo Valentini Italia Oggi, 23 ottobre 2015 Ampliare la possibilità di legittima difesa oppure lasciare le cose così come sono? Quanto è successo a Vaprio D’Adda (Milano), col pensionato Francesco Sicignano che ha sparato a un ladro, è la punta di un iceberg. La procura di Milano ha aperto un’indagine ipotizzando per l’aggredito inizialmente il reato di eccesso colposo di legittima difesa e poi quello di omicidio volontario. Si sta disquisendo se il malvivente fosse lungo le scale, sul terrazzo o già in casa. Ma è davvero importante? Se una persona anziana si trova a tu per tu con un ladro deve urlare o può pure dargli una bastonata o premere il grilletto? Si può cercare di trovare un’equa soluzione legislativa: senza arrivare alla proliferazione delle armi e al grilletto facile ma pure senza dovere risarcire un ladro che è stato sorpreso a rubare. A Vicenza nei giorni scorsi il tribunale ha condannato un ex robivecchi, Ermes Mattielli, a cinque anni e quattro mesi di carcere per tentato duplice omicidio volontario e al risarcimento ai due ladri (già condannati) di 135mila euro. Nove anni fa egli corse nel deposito vicino a casa perché era scattato l’allarme. Sorprese i due ladri, che avevano in mano delle spranghe, fece fuoco colpendo entrambi e ferendoli. Da allora ha dovuto sostenere processi e spese, fi no alla condanna. Racconta: "L’ho fatto perché era 20 anni che subivo furti. Mi avevano portato via anche il pane dalla cassettina. Dopo questa vicenda ho chiuso l’attività e oggi vivo di espedienti e lavoretti, visto che non ho ancora maturato la pensione. Quella era casa mia, e sono venuti a rubare. Ho sparato perché ero esasperato". Altro caso? A Riccione. Tre malviventi hanno rapinato il mese scorso a colpi di machete un bar, il proprietario li ha affrontati sparando in aria con una scacciacani e ne è riuscito ad agguantare uno che è caduto a terra e si è ferito al volto. I tre sono stati arrestati ma a finire sotto processo (in corso) è anche la vittima, denunciato per porto abusivo di arma, esplosioni pericolose e lesioni sul tentato ladro. A Vaprio D’Adda s’è svolto un corteo di solidarietà al pensionato. Non è il primo caso di mobilitazione dei cittadini (per lo più esasperati a causa dell’incontenibile piccola criminalità). L’altro ieri, per esempio, una manifestazione di solidarietà è avvenuta a Cerignola (Foggia), dove un ex-primario dell’ospedale, Vincenzo Scarano, è stato scaraventato a terra in pieno centro e rapinato dei 500 euro che aveva appena prelevato dal bancomat. Gravi le conseguenze: una emorragia interna, la rottura di alcune costole e danni alla milza. Si è reso necessario l’intervento chirurgico. Almeno dalla stanza d’ospedale avrà sentito gli applausi della folla. Lo stato di insicurezza si allarga. C’è chi lo cavalca. Ma è indubbio che la proliferazione di furti e rapine crea un disagio generalizzato. Si tratta di un tema delicato e la politica si accapiglia. All’attacco va Matteo Salvini: "L’eccesso di legittima difesa è un non reato". Il leader della Lega annuncia che a novembre inizierà una raccolta di firme per abolirlo: "Non è concepibile che uno che si difende in casa propria rischi più di chi lo aggredisce". Gli fa eco Roberto Calderoli, vicepresidente del senato: "È una vergogna che mentre il governo e il parlamento perdono tempo con le adozioni gay e la cittadinanza agli immigrati, non sia ancora stata discussa e approvata la proposta di legge della Lega sulla legittima difesa, presentata alla Camera lo scorso febbraio, così le vittime dei furti continuano a venire indagate e processate, se solo osano difendersi". Sul fronte opposto è Sel: "Il prossimo passo, rispetto alla legge che c’è già - dice Daniele Farina, capogruppo Sel in commissione Giustizia- sarebbe il Far West". A metà strada stanno le altre forze politiche, che sembrano convergere sulla necessità di una nuova, equilibrata legge. Spiega il responsabile sicurezza Pd, David Ermini: "Un ragionamento vero va fatto perché la realtà è cambiata. Un tempo un ladro entrava in un appartamento quando era sicuro che non c’era nessuno dentro, adesso lo fa di notte mentre le persone dormono. È importante che si lavori per elaborare un concetto nuovo di legittima difesa". L’alleato di governo, Ncd, ammicca per bocca di Enrico Costa, sottosegretario alla Giustizia: "Se la criminalità cambia, il legislatore ha il dovere di cambiare le pene, ma senza venire meno ai principi. Dev’essere chiaro che non c’è il diritto alla vendetta. Per essere espliciti, se uno insegue il ladro in strada e gli spara, non potrà mai essere considerata una legittima difesa. Se si spara in casa perché si teme per la propria incolumità o libertà, ci si può pensare. Ahimè non è più il tempo in cui bastava accendere la luce per far scappare il ladro". Anche Forza Italia si associa, con toni un po’ hard: "La tragedia di Vaprio d’Adda - dice il senatore Lucio Malan - rischia di diventare l’ennesima ingiustizia, per cui la legittima difesa arriva a configurare un reato. La morte di un giovane è sempre drammatica, ma non si può accusare chi ha avuto come unica colpa quella di difendersi, perché il diritto a proteggere la propria vita e la propria famiglia non è e non deve essere in discussione. Bisogna cambiare la legge". E i 5stelle? Beppe Grillo, per ora, è rimasto (insolitamente) in silenzio. Però sul blog ha pubblicato l’intervento di un adepto: "Non è tollerabile che in questo Paese chi muore è vittima soltanto se non reagisce, ma è carnefice se ha un’arma per cacciare gli intrusi, ricordiamoci quanti anziani sono morti per mano di questa gentaglia. Cambiamo questa legge monnezza". Poi c’è addirittura il presidente della Regione Lombardia, il leghista Roberto Maroni, che preannuncia una legge regionale di tutela a chi viene aggredito (stanziamento di 50 mila euro per il patrocinio legale) e per incominciare la Regione sosterrà le spese legali del pensionato di Vaprio D’Adda. Dice: "Pazzesco: giù le mani da chi si difende! Se si tratta di un ladro morto "sul lavoro", non mi dispiace più di tanto: se l’è andata a cercare". Lo critica il capogruppo Pd in Regione, Enrico Brambilla: "La legittima difesa è un tema da maneggiare con estrema attenzione, non certo alla Salvini. La legge regionale non deve diventare un modo per giustificare comportamenti illegali e, dall’altro lato, occorre essere certi che la Regione non patrocini anche chi alla fi ne risulta davvero colpevole". La normativa sulla legittima difesa è stata modificata nel 2006 dal governo Berlusconi, in pratica è stata aggiunta la legittimità dell’uso di un’arma da fuoco legalmente detenuta se al fi ne di difendere "la propria o altrui incolumità" oppure "i beni propri o altrui, quando non vi è desistenza e vi è pericolo d’aggressione". Dice uno dei firmatari di quella legge, il senatore "Prima della legge 59/2006 era frequente che un magistrato argomentasse che difendersi con un’arma era sproporzionato rispetto a un ladro che non ha sparato, come se, oltre al vantaggio della sorpresa e dell’età, al delinquente si dovesse anche dare il vantaggio del primo colpo. Dal 2006 la legge è chiara, ma purtroppo ci sono magistrati che si ritengono superiori alla legge". E negli altri Paesi europei? C’è un po’ di confusione: si va dalla Germania dove chi reagisce, anche solo in preda "a turbamento, paura o panico" non è punibile all’Olanda dove occorre un reale pericolo di incolumità personale per essere legittimati a reagire. Giustizia: Orlando "gli scandali emergono perché ora c’è un’azione decisa di contrasto" di Maria Zegarelli L’Unità, 23 ottobre 2015 Il Ministro: "Dall’auto-riciclaggio alle pene più severe per i reati contro la pubblica amministrazione, il governo schierato contro l’illegalità". Il ministro della Giustizia Andrea Orlando, alle 19.30 di sera, dopo una sfilza di riunioni andate avanti per tutto il giorno, entra nel suo ufficio in via Arenula e scorre le agenzie di stampa. Non nasconde l’amarezza per l’ennesimo fatto di corruzione e mala gestione della cosa pubblica, della connessione - presunta fino all’ultimo grado di giudizio - della politica con il malaffare. Ma ci tiene a sottolineare che in via Arenula e a Palazzo Chigi non fanno annunci sulla lotta alla criminalità, "noi facciamo cose concrete, anche se fanno meno notizia". Ministro, oggi (ieri per chi legge), un Tg nazionale apriva dicendo, "e veniamo alla notizia di corruzione quotidiana". Un male inestirpabile? "Che il fenomeno fosse diffuso purtroppo è ben noto, ma la novità a cui stiamo assistendo è che cominciano ad emergere spaccati di realtà radicate nel tempo e rispetto alle quali l’azione di contrasto sta dando i suoi frutti. Mafia Capitale non è nata il giorno in cui l’abbiamo scoperta, stessa cosa per la vicenda Anas o, pur con le dovute cautele del caso, per le misure di prevenzione a Palermo. Emergono perché c’è un’azione di contrasto decisa che dispone di adeguati strumenti". Il presidente della Repubblica ha detto che la lotta alla corruzione e la legalità sono condizioni irrinunciabili per la crescita italiana. "Condividiamo totalmente la valutazione del Capo dello Stato. Il governo da quando si è insediato ha messo in atto interventi concreti per combattere la corruzione e l’illegalità diffuse. Siamo reintervenuti sulla legge Severino, varata appena tre anni prima, prevedendo strumenti di grande importanza su contrasto e prevenzione. Abbiamo varato l’auto-riclaggio che ci consente di colpire anche le condotte criminose risalenti indietro nel tempo, inasprito le pene per i reati contro la pubblica amministrazione allungando i tempi della prescrizione e abbiamo previsto, anche se nessuno ne parla, nel la delega sulle intercettazioni, la semplificazione delle procedure di autorizzazione nel corso di indagini che riguardano reati contro la pubblica amministrazione. Anche l’intervento sul falso in bilancio colpisce la corruzione perché le imprese falsificando i bilanci occultano il denaro destinato ai comportamenti corruttivi". L’evasione è l’altro grande nodo, la direttrice del l’Agenzia del le entrate, Orlandi, ricorda che è uno dei veicoli che permette criminalità e corruzione. Sicuro che si stia facendo il possibile? "Noi stiamo lavorando per costruire un sistema di incrocio dei dati che è uno degli strumenti più efficaci contro l’evasione. Cosi come l’enorme lavoro di semplificazione sul fronte della verifica fiscale darà i suoi frutti perché più complesso e farraginoso è il sistema più facili sono i raggiri. Un altro passo fondamentale è rappresentato dagli accordi che abbiamo siglato con i Paesi storicamente mete del riciclaggio. Se la lotta all’evasione significa anche lotta alla corruzione allora possiamo annoverare anche questi tra i risultati". Lei dice che oggi finalmente iniziano ad emergere i reati. Proviamo a mettere la questione in altro modo: malgrado tutto il fenomeno resta diffuso e piuttosto radicato, come dimostra l’inchiesta Alias. "Noi stiamo cercando di intervenire in maniera sinergica, sia sul fronte penale sia su quello della prevenzione. Penso all’Anac, diretta da Cantone, e all’obbligo che oggi è previsto da una legge, per tutte le pubbliche amministrazioni di dotarsi dei piani anti-corruzione. Abbiamo invertito la logica: la responsabilità non è più soltanto di chi compie un reato ma anche di chi non ha disposto strumenti necessari a prevenire il comportamento illegale". Non spetta alla politica farsi carico soprattutto di una trasformazione culturale nel Paese? "Uno dei grandi limiti del dibattito a cui abbiamo assistito negli ultimi anni sull’illegalità e la corruzione è stato quello di individuare solo nella politica la permeabilità al malaffare. Oggi davanti alle inchieste ci si rende conto che sono stati molti i segmenti toccati dalla corruzione, compresi magistratura e burocrazia. Noi dobbiamo costruire una coscienza collettiva che si rivolga alle nuove generazioni per riaffermare la centralità della cosa pubblica, troppo spesso e con troppa facilità denigrata. Denigrazione che si è saldata a una tradizione culturale di lontananza dei cittadini dallo Stato. Questo è un Paese dove il corporativismo, l’individualismo e il familismo hanno impedito il formarsi una consapevolezza civica del bene pubblico, un senso comune che le classi dirigenti non hanno contrastato ma anzi hanno utilizzato per la ricerca del consenso". Dopo Mani pulite ci si affidò alla società civile. Oggi che bilancio tracciamo? "Non ho condiviso all’epoca di Mani pulite l’analisi di chi vedeva tutto il male nella politica e non sono d’accordo a semplificazioni sul bilancio della società civile alla prova del governo della cosa pubblica. Credo che la vera fatica sia quella di continuare a distinguere, a non dire che tutti sono corrotti così che nessuno lo è, o che il marciosi annida tutto in un segmento della società. Noi dobbiamo pensare a dei meccanismi di selezione della classe dirigente, dobbiamo esigere trasparenza e chiarezza su costi e finanziamenti della politica e immaginare nuovi meccanismi di selezione e formazione. Uno studioso francese, Pierre Rosanvallon, si è occupato dei cosiddetti fenomeni di contro democrazia: cioè di tutti quei soggetti sociali che sono in grado di controllare dall’esterno le dinamiche istituzionali. Bene, iniziamo a riflettere sul loro stato di salute e adottiamo rimedi perché quando una società si ammala, la dinamica patologica rischia di contaminarne tutti i settori". Giustizia: Pignatone "la politica faccia la sua parte, le risposte non spettano solo a noi" di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 23 ottobre 2015 Il procuratore di Roma: compia le scelte autonomamente da quelle dei magistrati. Ancora un’inchiesta per corruzione, stavolta all’Anas, dopo la truffa all’ospedale israelitico, le tangenti sui lavori per il Giubileo e il "sistema" di Mafia capitale. Procuratore Pignatone, Roma è una città così malata? "Noi da questo ufficio vediamo le patologie, Roma è tante altre cose buone che qui non arrivano ma per fortuna esistono. Gli episodi accertati confermano una grande pervasività della corruzione e della cattiva gestione del denaro pubblico, a volte offrendo un quadro perfino deprimente come sulla vicenda Anas. Però la loro scoperta è anche il segno dell’attenzione di magistratura e forze di polizie nel contrasto a questo fenomeno". Qual è la sua diagnosi? "Quella di una città complessa dove convivono la corruzione, forme di mafia vecchie e nuove, la violenza politica, l’economia inquinata: fenomeni diversi che a volte si mischiano tra loro, dando vita a situazioni particolarmente gravi. Qui più che altrove". Dopo il suo arrivo, con il bagaglio di indagini su Cosa nostra e ‘ndrangheta che si porta dietro, le associazioni mafiose sembrano spuntare come i funghi. C’è chi sospetta qualche forzatura... "Io mi attengo ai risultati giudiziari, che hanno portato alle condanne in primo grado per il clan Fasciani a Ostia, alle conferme di gip, tribunale del Riesame e Cassazione per Mafia capitale, agli arresti confermati per un gruppo di stampo camorristico insediatosi nella zona sud della città. Non sto a ripetere che si tratta di associazioni ovviamente diverse da Cosa nostra e ‘ndrangheta, ma che ugualmente ricorrono al metodo mafioso per raggiungere i propri obiettivi. Poi ci sono singoli esponenti delle mafie tradizionali che portano qui capitali di origini illecite dei quali in una metropoli così grande si perdono le tracce. Ma in tre anni e mezzo abbiamo sequestrato beni di presunta provenienza illecita per circa 3 miliardi, accumulati sia da mafiosi che dai cosiddetti "colletti bianchi". Qui più che altrove la corruzione è divenuta il principale strumento d’azione delle organizzazioni criminali". La presenza dei palazzi della politica alimenta la corruzione? "Le indagini hanno mostrato il proliferare del malaffare a tutti i livelli, da piccoli funzionari comprati a piccole cifre fino ad amministratori a libro paga per l’asservimento della loro funzione". E la politica ha reagito nel modo giusto, secondo lei? "Non è mio compito dare giudizi di questo tipo. Però facciamo indagini da cui emergono fenomeni e dati di fatto sui quali sarebbe auspicabile che non solo i giudici dessero le loro risposte sul piano penale, ma anche le altre istituzioni, ciascuna per la parte che gli compete. Comprese le istituzioni politiche, naturalmente". Ma la politica sembra sempre muoversi a rimorchio della magistratura per prendere decisioni. Anche col sindaco di Roma Ignazio Marino hanno atteso l’indagine sulle spese al ristorante. "Questo non è un problema nostro. Noi siamo chiamati a compiere accertamenti laddove emergono notizie di reato, con esigenze e tempi indipendenti da quelli della politica. Penso che anche la politica debba avere la stessa indipendenza, compiendo le sue scelte autonomamente da quelle della magistratura". Senza attendere un avviso di garanzia, per esempio? "I procedimenti giudiziari hanno bisogno di passaggi tecnici che vanno compiuti nei tempi dettati dai codici e dagli sviluppi del procedimento stesso, non dalla politica o dai partiti. Dai quali, peraltro, non si può desumere la responsabilità certa della persona sottoposta a indagini". Sta per aprirsi il processo a Mafia capitale, gli avvocati lamentano violazioni ai diritti di difesa. Come risponde il procuratore di Roma? "Che è nostra intenzione portare avanti un dibattimento nel pieno rispetto di regole e garanzie in modo da mettere il tribunale nelle condizioni migliori per amministrare giustizia. Noi non abbiamo altri disegni, in questo come in tutti gli altri processi". Vi accusano di aver messo in piedi un’indagine e un processo "spettacolari" per condizionare i giudici. "Al mio ufficio interessano solo le decisioni dei giudici. Dopodiché le regole processuali e quelle dell’informazione fanno sì che al momento della discovery ognuno possa utilizzare come crede gli atti non più segreti, secondo le proprie esigenze e scelte. Diverse da quelle della Procura. Credo comunque di avere sufficiente esperienza per ritenere che articoli di giornale e servizi televisivi non condizionano i giudici". Come si guarisce dalla corruzione? "Ricordo un pentito di mafia, Angelo Siino, che alla domanda come si sconfigge la mafia rispose semplicemente "facendo funzionare la pubblica amministrazione". Fatte le debite proporzioni, potrei rispondere alla stessa maniera. Fermo restando che non esistono ricette miracolose, non credo sia mio compito indicare alla politica le scelte da compiere per realizzare questo obiettivo. Conferma l’appello ai cittadini per denunciare gli episodi sospetti? "Certamente, le segnalazioni di fatti specifici sono di grande aiuto. Bisogna però essere consapevoli che non tutte le violazioni amministrative sono reato, così come di per sé non lo è ogni decisione discutibile, o politicamente inopportuna". Giustizia: appalti dell’Anas, dieci arresti per le tangenti della "Dama nera" di Ilaria Sacchettoni Corriere della Sera, 23 ottobre 2015 La dirigente Accroglianò a capo del gruppo. Fermato Meduri, ex sottosegretario. Il Pd lo sospende. In testa alle aziende pubbliche per numero di appalti e budget a disposizione, da poco rilanciata con nuovi vertici e finanziamenti, l’Anas aveva al suo interno "un vero e proprio sistema corruttivo", "una cellula criminale" che lucrava su appalti, espropri e contenziosi, anche su "sollecitazione" di costruttori e proprietari terrieri. Un gruppo di funzionari e dirigenti, fra cui Antonella Accroglianò la "Dama nera", si sarebbero ritagliati profitti sulla realizzazione di un valico, speculando su espropriazioni e lucrando sui contenziosi accumulati. Quasi un manuale "della corruzione per asservimento della propria funzione" scrive la gip Giulia Proto che ha firmato l’ordinanza cautelare nei confronti di 9 persone oltre alla dirigente. All’occorrenza ci si scambiava favori assieme ad altre "utilità": in un caso, ad esempio, la Accroglianò avrebbe agevolato il pagamento di alcune imprese sponsorizzate dall’ex sottosegretario del governo Prodi Luigi Meduri - arrestato - in cambio del sostegno politico alla candidatura del fratello in Calabria sulla scia dello zio "Peppino" Accroglianò. L’inchiesta dei magistrati Francesca Loy e Nello Rossi ricostruisce fatti recenti, le intercettazioni captano accordi fra maggio e giugno, tangenti recapitate fra luglio e agosto e messe al riparo di mura domestiche negli ultimi giorni. Settantamila euro in contanti sono stati trovati durante la perquisizione dei finanzieri del Gico della polizia Tributaria nell’appartamento della madre della dirigente. La percezione di esser controllati, intercettati e monitorati, non era un deterrente ma li spingeva a qualche supplemento di cautela. Così, al telefono, la mazzetta prende nomi più innocui: "ciliege", "antiinfiammatori", "libri". E la Accroglianò raccomanda a un sodale: "Vai muto che nella stanza non deve parlare più al telefono". La trama di "quotidiana corruzione" (definizione del procuratore capo Giuseppe Pignatone) è ben descritta nel provvedimento di arresto fra richieste quotidiane e strumenti normativi stravolti a propria misura. L’accordo bonario ad esempio, finalizzato a risolvere imprevisti (come il ritrovamento archeologico che blocca un cantiere) veniva reinterpretato a beneficio sia del funzionario pubblico per guadagnare "una cresta" che dell’imprenditore per "recuperare parte del ribasso praticato". Per espropriare un terreno necessario al completamento di una tratta, la Accroglianò avrebbe accordato più del dovuto ai proprietari, in cambio di una "provvigione" per sé di 50 mila euro. Provvigione recapitata in contanti dai proprietari dell’appezzamento Giuseppe e Saverio Silvagni (arrestati per corruzione). Ovviamente in danno all’Anas che ieri ha annunciato la costituzione di parte civile al processo ma anche qualche misura in più sul fronte della massa di contenziosi: "Ne abbiamo per 9 miliardi, non potremo approvare il bilancio senza aggredire questo problema" ha detto Gianni Armani, presidente Anas. Sulla "cellula criminale" è intervenuto anche Matteo Renzi, dopo la decisione di sospendere Meduri dalla commissione di garanzia Pd: "Chi ruba all’interno delle aziende pubbliche va cacciato senza alcun perdono". Giustizia: Mario Rossetti "così la malagiustizia può sconvolgere la nostra vita" di Sergio Luciano Panorama, 23 ottobre 2015 L’ex manager, assolto dopo aver trascorso 100 giorni in carcere, si racconta a Panorama. "Nel nostro Paese a fianco del codice penale scritto dal legislatore, esista un codice penale "materiale", dove spesso i diritti primari della persona umana vengono ignorati e calpestati: lo dimostra la storia, raccontata pacatamente ma crudamente dal suo stesso protagonista Mario Rossetti, di un gruppo di manager arrestati dalla Procura di Roma nel 2010 per l’inchiesta sulla frode fiscale ai danni di Fastweb e Telecom Sparkle, e poi scarcerati e assolti con formula piena dal Tribunale. Rossetti, che ha scritto la sua vicenda in un libro - Io non avevo l’avvocato, Mondadori - si racconta a Maurizio Tortorella, vicedirettore di Panorama, nel corso della tappa modenese di Panorama d’Italia. "Il titolo? Spiega una delle prime evidenze paradossali della mia vicenda", spiega l’ex direttore finanziario di Fastweb: "Quando quella mattina alle cinque bussò alla mia porta il drappello della Guardia di finanza venuto ad arrestarmi, io ero talmente lontano dalla possibilità di subire tutto questo che non avevo alcun avvocato che stesse seguendo l’inchiesta. Ero stato interrogato una volta sola, tre anni prima, e avevamo poi saputo che l’inchiesta era stata archiviata". Invece era stata riaperta e, senza supplementi istruttori, erano stati ordinati oltre 50 arresti. Nelle 1600 pagine dell’ordinanza, non c’era alcun passaggio che documentasse, con dati di fatto o testimonianza, una responsabilità attiva di Rossetti nell’operazione criminale che aveva condotto a una maxi-evasione Iva attorno a un traffico di fatture tra i malavitosi e le due società. Eppure "lui non poteva non sapere", e le manette sono scattate. Con esse, un calvario durato cento giorni di carcere e otto mesi di domiciliari che ha coinvolto in pieno la famiglia dell’arrestato - moglie e tre figli - non solo per lo sgomento e il dolore ma anche sul piano pratico: "Mi vengono sequestrati tutti i beni e bloccati i conti correnti e le carte di credito appartenenti a me e a mia moglie. Lo Stato, per difendere i suoi potenziali diritti futuri, si prende i tuoi beni oggi, anche se non provenienti dai reati contestati". Da qui si pongono una serie di questioni brucianti: come si può pensare di mettere una famiglia sul lastrico per ragioni di "giustizia"? La risposta non può che essere empirica: i familiari di Mario per quasi tre anni, fino ai dissequestri, hanno vissuto della generosità dei familiari e degli amici, insomma hanno vissuto di prestiti. "In carcere percepisci subito di non essere più una persona ma un numero. Un numero in una cella", racconta l’autore. Certamente il problema non è far diventare i penitenziari degli hotel a 5 stelle, ma dei luoghi maggiormente a misura d’uomo, in cui anche le relazioni interpersonali siano più umane. Rossetti individua nella possibilità di lavorare e di imparare un mestiere una soluzione che consentirebbe ai detenuti da una parte di impiegare in maniera utile il proprio tempo, e dall’altra di ottenere qualcosa da offrire al mercato del lavoro, una volta conclusa la pena, per reinserirsi nella società. Ma la burocrazia, anche dietro le sbarre, complica tutto al limite dell’insormontabile. E poi c’è il disfunzionamento della giustizia. Indagini su reati finanziari o societari condotte da pm che non padroneggiano nemmeno il lessico di questa materia. Che, letteralmente, non sanno come si legge un bilancio. E non solo: "Non si tratta di abolire la carcerazione preventiva, ma ripensare il suo utilizzo: oggi può essere una bieca tortura, finalizzata ad estorcere confessioni infondate". "Eppure io continuo ad aver fiducia nella magistratura", dice ancora il manager, "perché a fronte di un’istruttoria assurda e un arresto ingiusto c’è poi stata un’assoluzione convinta, sono figlio di un generale dei Carabinieri e credo nello Stato, ma non posso non dare evidenza al fatto che talvolta il comportamento di singoli magistrati sembra seguire tesi precostituite, alimentate poi dall’incrocio con la risonanza mediatica che certe vicende assumono, com’è accaduto a me". Così, sullo sfondo della vita sconvolta di un uomo che si vede privare ingiustamente della propria libertà, che si mette alla ricerca di un nuovo rapporto con se stesso, con la propria famiglia, che affronta il dolore straziante per la perdita di un figlio, ci sono le contraddizioni della giustizia e dell’informazione, una gogna mediatico-giudiziaria che talvolta distrugge, senza appello, la vita delle persone. Giustizia: perché la custodia cautelare di Mario Mantovani è incomprensibile di Giovanni Alvaro L’Opinione, 23 ottobre 2015 A scanso di equivoci dico subito che non ho elementi per affermare che il Vice Presidente della regione Lombardia, Mario Mantovani, sia innocente o al contrario possa essere colpevole. Sinceramente non è questo che mi spinge a soffermarmi sul caso, o meglio che mi spinge a ragionare sul suo arresto, dato che il Mantovani è stato privato della libertà personale e gli è stata respinta anche la richiesta di revoca del provvedimento di custodia preventiva e, addirittura, la concessione degli arresti domiciliari. La cosa è sorprendente. Tutti, infatti, sanno che per l’arresto di una persona, se non indagata per motivi di criminalità organizzata (mafia, ‘ndrangheta e camorra), presumendo la sua innocenza come recita la Carta Costituzionale (almeno finora), c’è bisogno che ricorra almeno uno dei motivi che le legge prevede espressamente. E cioè: pericolo di fuga per sottrarsi alla detenzione (e la cosa non esiste dato che la richiesta era nei cassetti del Gip da ben 13 mesi e l’attuale detenuto non è certamente scappato); reiterazione del reato (e solo un fesso può continuare a farlo sapendo dei riflettori accesi su di lui, e Mantovani non è certamente tale); inquinamento delle prove (e certamente il "reo", se fosse stato necessario, non avrebbe fatto trascorrere inutilmente oltre un anno per farlo solo ora). Errare umanum est, ma non è tale il perseverare. Si è potuto sbagliare con gli arresti ma non è salutare continuare a farlo quando c’è una richiesta di rivalutazione che è stata, però, nettamente respinta dal Gip con il parere conforme dello stesso PM. Perché allora questo accanimento che, certamente, non potrà essere convalidato dai successivi gradi decisori (Tribunale della Libertà e Cassazione) a meno che non ci siano cose che sono state tenute segrete all’opinione pubblica alla quale apparteniamo anche noi? Si ha l’impressione che si siano voluti mostrare i muscoli e far bere l’amaro calice fino alla fine al Mantovani. Un "abuso di potere" in piena regola, quindi, che dimostra quanto poco hanno determinato, nel "modus operandi" dei Magistrati, le cosiddette riforme sulla giustizia del governo Renzi che portano la firma del Ministro Andrea Orlando, come quella sulla custodia preventiva con la precisazione che il pericolo di inquinamento delle prove debba essere non un espediente ma "un pericolo concreto e attuale", mentre la tanto contestata riforma sulla responsabilità civile non ha limitato per nulla l’azione dei Magistrati dimostrando che era falso l’assunto che quella riforma potesse diventare ostativa per la loro attività. Ma l’atteggiamento dei magistrati nel caso di Mantovani non si discosta da quanto si faceva prima quando la carcerazione preventiva non serviva per evitare fughe, reiterazione e inquinamento, ma era un mezzo di pressione per far crollare l’inquisito. Quindi nemmeno un’anticipazione della pena ma un semplice mezzo di tortura inconcepibile in uno stato di diritto e in un paese che ha vissuto per decenni sul luogo comune d’essere la culla del diritto. Il Ministro Orlando che, come gli altri ministri e il proprio premier, canta sempre vittoria ad ogni piè sospinto, parta dalla vicenda in questione per capire quali "buchi" ha lasciato aperti la legge attraverso i quali si perpetua la sostanza della vecchia normativa in materia di custodia preventiva, e abbia maggior coraggio a ricostruire un codice di procedura penale di livello europeo. Solo in questo modo e indipendentemente dall’innocenza o dalla colpevolezza dei "Mantovani" di turno si potrà ben dire che la loro vicenda sia realmente servita a qualcosa. Nelle gare d’appalto promossi i protocolli di legalità di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 23 ottobre 2015 Corte di giustizia dell’Unione europea - Sezione Decima - Sentenza 22 ottobre 2016 - Causa C-425/14. Va promosso, ma con cautela, l’uso dei protocolli di legalità negli appalti. La Corte di giustizia Ue con la sentenza depositata ieri nella causa C-425/14 da una parte riconosce la correttezza dell’introduzione dell’obbligo di accettazione come condizione di ammissione alla procedura di aggiudicazione dell’appalto; dall’altra però invita a calibrarne con attenzione i contenuti, andando oltre la necessità prevenire condotte collusive. I fatti al centro della causa sottoposta alla Corte risalgono al 2013, quando la Soprintendenza ai beni culturali di Trapani ha affidato a due società un appalto pubblico di lavori del valore di oltre due milioni di euro per il restauro degli antichi templi greci in Sicilia. A causa dell’impugnazione presentata dalla società arrivata al secondo posto al termine della gara (aperta anche a società straniere), l’Amministrazione ha annullato l’aggiudicazione e ha affidato l’appalto alla società ricorrente. L’Amministrazione ha motivato l’annullamento (e quindi l’esclusione delle due società inizialmente aggiudicatarie) con il mancato deposito, assieme all’offerta, dell’accettazione del protocollo di legalità, accettazione prevista come propedeutica alla partecipazione alla gara. Secondo il protocollo, il partecipante alla gara si doveva impegnare espressamente a tenere una serie di comportamenti in caso di aggiudicazione dell’appalto: egli avrebbe dovuto, ad esempio, impegnarsi a informare l’amministrazione sullo stato di avanzamento dei lavori e sulle modalità di selezione dei subappaltatori; comunicare alle Autorità eventuali irregolarità; cooperare con la polizia; denunciare tutti i tentativi di influenza di natura illecita. Il candidato, inoltre, doveva dichiarare espressamente: di non trovarsi in un rapporto di controllo o associazione (di diritto o di fatto) con altri concorrenti; di non avere stipulato né di stipulare in futuro alcun accordo con altri partecipanti alla procedura di gara; di non subappaltare in futuro qualsiasi tipo di opera o servizio ad altre imprese partecipanti alla gara; di impegnarsi a rispettare i principi di lealtà, integrità e trasparenza; di non avere concluso né di concludere in futuro, con gli altri partecipanti alla gara, accordi volti a limitare o impedire la concorrenza. La vicenda giudiziaria si è trascinata sino al Consiglio di Giustizia amministrativa per la Regione Siciliana, che ha sollevato una questione pregiudiziale davanti alla Corte Ue. La Corte ha chiarito che la disciplina italiana non contrasta con i principi comunitari e che è legittima l’esclusione delle imprese che non depositano, insieme all’offerta, l’accettazione di un protocollo indirizzato a evitare le infiltrazioni della criminalità organizzata e le conseguenti distorsioni della concorrenza. Quanto ai tempi, l’obbligo di accettazione preventiva non fa che anticipare la tutela della legalità e scoraggiare fenomeni criminali. Tuttavia, la giustificazione viene meno se il protocollo contiene dichiarazioni secondo cui il candidato o l’offerente non è in rapporto di controllo o associazione con altri candidati od offerenti; non ha concluso né concluderà accordi con altri partecipanti alla gara; non subappalterà prestazioni di qualunque tipo ad altre società partecipanti alla procedura. In questi casi i mezzi utilizzati dal legislatore vanno al di là di quanto necessario a prevenire comportamenti collusivi. Facebook, il post offensivo è diffamatorio di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 23 ottobre 2015 Tribunale di Ivrea - Sezione penale - Sentenza 13 aprile 2015 n. 139. Dare della "ninfomane" alla ex scrivendo un post sulla bacheca Facebook di lei integra gli estremi del reato di diffamazione aggravata dall’utilizzo del mezzo della pubblicità. I social network, così come blog, forum e siti web, sono infatti da considerare "mezzi di pubblicità" poiché consentono la diffusione di testi, immagini e video ad una serie indeterminata di persone. A ribadirlo è il Tribunale di Ivrea con la sentenza 139/2015. Il caso - Destinataria dell’offesa era una ragazza che lavorava alle dipendenze di un uomo con il quale era nata una relazione sentimentale. Il datore-fidanzato non aveva mai retribuito la donna, né regolarizzato la sua posizione lavorativa costringendo così la ragazza a lasciare il lavoro e ad interrompere la relazione. Come reazione, l’uomo scriveva una frase molto offensiva sulla bacheca Facebook della donna che si concludeva con l’epiteto di "ninfomane". La vicenda, dopo la querela e l’opposizione a decreto penale di condanna, giunge in Tribunale dove il giudice afferma la responsabilità penale dell’imputato e chiarisce la portata della pubblicità del mezzo utilizzato per l’offesa. Le motivazioni - Il giudice riconosce in primo luogo il contenuto diffamatorio della frase pubblicata sulla bacheca Facebook della donna in quanto offensiva dell’onore, da intendersi come "il complesso delle qualità morali della persona", e del decoro, da intendersi come "il complesso delle qualità e condizioni che ne determinano il valore sociale". Ciò posto, la diffamazione nella specie si è consumata per mezzo di un social network che, al pari di tutti gli strumenti utilizzabili tramite internet, è "destinato ad essere normalmente visitato in tempi assai ravvicinati da un numero indeterminato di soggetti", integrando così il requisito della presenza di almeno due persone previsto dall’articolo 595 c.p.. Inoltre, l’utilizzo di Facebook comporta la qualificazione del reato in delitto di diffamazione aggravato dall’avere arrecato l’offesa con un mezzo di pubblicità, perché "per volontà del legislatore, la diffamazione su internet rientra nella previsione del comma 3 dell’art. 595 c.p. atteso che un sito web, un blog, un forum, un social network e quindi anche Facebook, sono considerati "mezzi di pubblicità", in quanto consentono la diffusione di testi, immagini e video a una moltitudine di soggetti". Ammonimento illegittimo senza l’audizione del presunto stalker di Vittorio Italia Il Sole 24 Ore, 23 ottobre 2015 È illegittimo l’ammonimento nel caso di stalking, se è stato adottato soltanto in base alle dichiarazioni della parte offesa (Tar Toscana, Firenze, sezione 2, sentenza 12 ottobre 2015, n. 1366). Il caso. Il Tribunale toscano interviene sul ricorso proposto da un marito denunciato dalla moglie, assistente della Polizia di stato (con il quale era in corso la separazione legale) per atti di vessazione, che avevano determinato un perdurante stato di ansia e di paura e un fondato timore per l’incolumità propria e di persone vicine, tali da costringerla ad alterare le proprie abitudini di vita e a richiedere un intervento dell’Autorità affinché cessino tali condotte. Il marito impugnava il provvedimento di ammonizione, affermando che era illegittimo per violazione di legge ed eccesso di potere, e chiedeva anche un risarcimento per danni alla sua salute, quantificato in euro 50.000. Il Tar ha rigettato la domanda risarcitoria, perché non supportata da alcun elemento di prova e ha accolto il ricorso. La decisione. I giudici del Tar Toscano hanno ritenuto che il provvedimento di ammonimento era stato determinato dalle sole dichiarazioni della moglie e non era stato effettuato alcun approfondimento istruttorio. Posto dunque che risulta scarsamente credibile che le minacce possano avere avuto tali effetti su persona che era assistente della polizia di Stato, e che si presumeva addestrata e in grado di fronteggiare adeguatamente questi comportamenti, un approfondimento di istruttoria, era necessario per acquisire riscontri obiettivi, anche in riferimento alle persone che erano presenti a questi comportamenti vessatori, e che non sono state sentite. Neanche l’urgenza del procedimento escludeva l’obbligo di acquisire questi riscontri obiettivi, anche perché le amministrazioni non sono state in grado di esibire la documentazione idonea a evidenziare la pericolosità del ricorrente e gli atti di vessazione. Le valutazioni. La sentenza è bene argomentata e degna di approvazione. Anche la considerazione dell’influenza che deriva dal ruolo e dell’esperienza professionale della moglie, che - isolatamente considerata potrebbe sollevare qualche dubbio - è corretta in riferimento all’argomento di base, e cioè la necessità di sentire anche il presunto stalker e gli eventuali testimoni. La regola della necessità del contraddittorio, che vale per ogni processo e anche nei procedimenti amministrativi, è antica. Si affermava, infatti, nelle leggi romane: audietur et altera pars, cioè "sia ascoltata anche l’altra parte", e questa regola corrisponde a ragioni di buon senso e di giustizia. Infatti, è soltanto in base a questo contraddittorio e agli approfondimenti istruttori, che l’Autorità amministrativa poteva disporre degli elementi completi per emanare (o non emanare) il provvedimento di ammonizione. Le conseguenze per le altre autorità. Questa sentenza ha fissato alcuni importanti principi in materia di stalking, e le altre Autorità - che dovranno emanare provvedimenti simili - potranno derivare da essa utili indicazioni. In particolare, è necessario che un provvedimento di ammonimento per stalking sia emanato dopo che sono stati acquisiti tutti gli elementi, e specialmente che sia stata sentita anche l’altra parte. Impiego di denaro illecito anche se manca la condotta dissimulatoria di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 23 ottobre 2015 Corte di cassazione - Sezione V penale - Sentenza 22 ottobre 2015 n. 42579. Per la configurabilità del reato di "impiego di denaro di provenienza illecita", previsto dall’articolo 648-ter del codice penale, non è necessario che la condotta abbia anche connotazioni dissimulatorie, necessarie invece per contestare il reato di riciclaggio. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza 22 ottobre 2015 n. 42579, rigettando il ricorso di due imputati che, fra l’altro, si erano difesi sostenendo proprio l’assenza di qualsivoglia condotta mirante "a far perdere le tracce dell’origine illecita del reato". Il caso - La vicenda parte da alcune anomalie individuate dal curatore di un fallimento che aveva scoperto grossi accrediti di somme sul conto personale del procuratore speciale della società (condannato per bancarotta per distrazione) aggiudicataria di un contributo comunitario di 740mila euro per investimenti produttivi mai realizzati. Il denaro ero poi stato girato sui conti del fratello e della compagna, fra gli attuali ricorrenti, che lo avevano impiegato in operazioni bancarie. Gli imputati, dunque, avevano lamentato il fatto che la Corte di appello "non avrebbe motivato riguardo all’ulteriore presupposto della volontà specifica di realizzare l’effetto dissimulatorio al fine di ostacolare l’accertamento sull’origine delittuosa del denaro". Per i giudici di secondo grado, infatti, tale ulteriore requisito non sarebbe necessario, come affermato dalla Cassazione nella sentenza n. 9062 del 2013. Al contrario, secondo la difesa tale pronunzia si pone in contrasto con l’orientamento tradizionale che ricostruisce il rapporto tra le tre fattispecie penali previste dagli articoli 648, 648bis e648ter del Cp, "in termini di specialità". La motivazione - Per la Suprema corte la censura è infondata in quanto per la configurabilità del reato "non occorre che il reimpiego del danaro o degli altri beni provenienti da delitto avvenga in attività lecite, né che tali attività siano svolte professionalmente". E neppure che la condotta di reimpiego "presenti connotazioni dissimulatorie, volte ad ostacolare l’individuazione o l’accertamento della provenienza illecita dei beni". Al contrario, come chiarito dalla S.U. (sentenza n. 25191/2015), "la necessità che la condotta ostacoli l’identificazione della provenienza delittuosa è richiesta per il solo delitto di riciclaggio", mentre la collocazione in sequenza degli articoli "evidenzia la necessità di elementi costitutivi diversi nelle tre fattispecie". Infine, lo spazio operativo specifico della norma è quello inerente una "fase successiva a quella del riciclaggio". Del resto, neppure può invocarsi la "clausola di riserva" contenuta nell’articolo 648 ter del codice penale che non consente la contestazione del reato "nei confronti di coloro che abbiano preso parte, in qualità di concorrente, al reato dal quale provengono il denaro e le altre utilità". Per la Corte d’Appello, infatti, gli imputati erano consapevoli della provenienza illecita delle somme, ma non avevano concorso al reato di bancarotta per distrazione. Induzione indebita e non concussione per il finanziere infedele di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 23 ottobre 2015 Corte di cassazione - Sezione VI - Sentenza 22 ottobre 2015 n. 42607. Induzione indebita a dare e promettere utilità e non concussione per l’ufficiale della guardia di finanza che ottiene dei soldi dai soggetti sottoposti a verifiche fiscali per operazioni irregolari. La Corte di Cassazione, con la sentenza 42607 depositata ieri, conferma la responsabilità dell’ufficiale, in servizio presso il nucleo provinciale di polizia tributaria che, con la complicità di alcuni intermediari fiscali, intimidiva gli imprenditori finiti nel mirino del fisco inducendoli a dare del denaro, anche attraverso il pagamento del modello F24 intestato a un prestanome, per evitare le gravi conseguenze derivanti dagli accertamenti. Inutile per l’ufficiale tentare di scaricare ogni responsabilità sugli intermediari infedeli, i quali avevano già patteggiato, che, a suo dire, intendevano truffare i loro clienti millantando conoscenze nella polizia tributaria in grado di aiutarli. La Cassazione però, pur riconoscendo la prescrizione del reato, ritiene provato il coinvolgimento del militare, che abusava della sua qualità e dei suoi poteri per "convincere" le persone sottoposte a verifica a seguire i consigli degli intermediari complici. I giudici chiariscono però che il reato commesso dall’ufficiale è l’induzione, prevista dall’articolo 319-quater del codice penale e non la concussione, disegnata dall’articolo 317. L’induzione indebita a dare o promettere utilità, introdotta dalla legge 190 del 2102 si differenzia dalla concussione perché chi aderisce alla richiesta non dovuta e messa in atto con un più tenue valore condizionante, lo fa perché spera di ottenere un indebito vantaggio. Mentre nella concussione non c’è alcun vantaggio per la vittima che cede solo alla prospettazione di un male ingiusto. Nel caso esaminato è evidente che i clienti degli intermediari fiscali, oggetto delle condotte prevaricatrici del pubblico ufficiale miravano a conseguire un interesse personale. L’obiettivo era quello di arrivare a una definizione che fosse favorevole in maniera del tutto ingiustificata. Le società sottoposte a verifica avevano, infatti, abbattuto i loro utili imponibili attraverso operazioni fraudolente, esponendo spese relative a prestazioni inesistenti. Il sodalizio aveva portato nella cassa dell’ufficiale qualche centinaio di milioni di lire, oltre a un set di valige gentile "omaggio" di una pelletteria messa sotto osservazione. Lettere: cautela con la custodia cautelare… l’arresto di Meduri e le forzature manettare di Claudio Cerasa Il Foglio, 23 ottobre 2015 Nel corso della retata disposta dalla magistratura nell’ambito dell’inchiesta sugli appalti dell’Anas, tra gli altri è stato arrestato Giuseppe Meduri, ex sottosegretario nel governo Prodi. Meduri ha 73 anni, non ricopre alcuna carica politica, quindi non si capisce in base a quale norma sia stato messo agli arresti domiciliari. La custodia cautelare dovrebbe essere comminata solo in presenza di pericolo di fuga, reiterazione del reato o manomissione delle prove. Nessuna di queste circostanze può essere ragionevolmente considerata valida nel caso specifico, senza contare che la sua età dovrebbe almeno indurre a una prudenza nell’impiego di misure di limitazione della libertà personale. D’altra parte la sua presunta "funzione di supporto non indifferente" nella trama corruttiva, come scritto nell’ordine di cattura, appare ancillare. Sorge il dubbio che, ancora una volta, si abusi delle misure cautelari non per evitare i pericoli specifici indicati nella normativa, ma per indurre l’indagato a fornire informazioni, in modo da dare solidità a un impianto accusatorio ancora rachitico. Non si capisce, infatti, se ci sono prove e riscontri sufficienti, perché mai si usi in modo così esteso la custodia cautelare. Privare una persona della libertà personale prima di una condanna definitiva è una forzatura, che può essere giustificata solo da reali esigenze. Naturalmente sulla stampa si leggeranno tutte le gravissime imputazioni, corredate di particolari scandalistici, e nessuno si occuperà di esaminare gli abusi o le esagerazioni messe in atto per piegare la resistenza degli inquisiti, che dovrebbero essere considerati innocenti fino a condanna definitiva. Lettere: dietro lo stalking c’è l’ultimo disastro della flemmatica giustizia italiana di Piero Tony (ex procuratore capo di Prato) Il Foglio, 23 ottobre 2015 Esclama incredulo il vecchio amico Steve che da più di un’ora mi tartassa interrogandomi sulle prassi della giustizia italiana, della quale in passato mi sono occupato a lungo: "Non è possibile, è un vero e proprio calvario!". "Non è possibile!", ripete bofonchiando mentre gli sorrido un po’ vergognoso. "Vuoi dire che se un ex partner fa stalking sulla donna indifesa terrorizzandola in continuazione, che se al riparo dai muri domestici un padre padrone fa abituale violenza su consorte e prole, che se tutto ciò accade non scatta alcuna concreta, severa e immediata difesa da parte del sistema giustizia? Vuoi dire che non succede niente se un cliente deluso da una condanna si diletta in continui atti persecutori contro l’avvocato e la sua famiglia o se un altro imbecille, deluso dal recidivarsi della malattia, prende a tormentare incessantemente il chirurgo con minacce e molestie tali da indurlo a pensare all’espatrio, o se uno tormenta senza sosta il giornalista per un articolo sgradito?". "Non è proprio così". "Guarda, mi sto innervosendo per un tono che trovo antipatico e irrispettoso nei confronti miei e della patria, se la storia non appare ictu oculi assurda si interviene attivando indagini preliminari per capire se è il caso di fare un processo o…". "Con le fiabe dello stento? Le solite procedure previste per un ladro o un rapinatore?". "È chiaro, pretenderesti tribunali speciali?! Ci mancherebbe altro, in uno stato di diritto impera l’unicità della giurisdizione, da noi regolata addirittura dalla Costituzione, l’art. 102 se ti interessa". "Ma non hai detto mezz’ora fa che il primo problema della giustizia italiana è una lentezza che si sgrana in lungaggini di anni?". "Si, è vero, ma le garanzie per l’indagato non sono un optional, caro il mio Steve!". "Vuoi dire che se una donna finalmente trova il coraggio di denunciare che il marito la massacra di botte a ogni discussione e che la sera la violenta tra i fumi dell’alcol e qualche volta alla presenza della prole terrorizzata, o che i figli vengono educati a suon di calci e sganassoni voi lasciate correre?". "Reazione superficiale ed emotiva la tua, dovresti riflettere sulla terzietà di…". "Vuoi dire che se una donna decide di interrompere una relazione ma viene maltrattata dall’incazzatissimo omaccione, offesissimo per lo smacco subìto, non viene subito difesa dallo stato ma resta in balìa del suo aguzzino? Che il feroce bruto può impunemente continuare a perseguitarla, insultarla, picchiarla, intimidirla, minacciarla finanche di morte? Per intervenire aspettate che l’ammazzi?". "Come al solito esageri! Sicuramente prima o dopo iscriviamo la Cnr cioè la notizia di reato e poi…". "E poi?". "E poi la donna va interrogata al fine di approfondire, è dato di comune esperienza - ed è l’ordine naturale delle cose - che potrebbe essere solo una calunnia dettata da rabbia o vendetta e…". "Ma quando arriva a casa il vostro atto di citazione il marito convivente s’incazza ancora di più e…". "Non necessariamente, credi che siamo così sprovveduti? Tentiamo sempre di contattarla a sua insaputa, quando lui è al lavoro, qualche volta ci riesce"; "Ma non vi viene in mente che si possa trattare di malattia da curare, malattia della persona o del rapporto? Che andrebbe pensata e organizzata una tutela immediata che rompa l’isolamento di chi è vittima inerme di ferocia incontrollata? Qualcosa come - con buona pace per l’alleanza terapeutica - una terapia obbligatoria, un tentativo di mediazione o almeno un ammonimento scandito ad alta voce e ultimativo, una presa in carico da parte di qualche centro sociosanitario e non invece un semplice processo da ladri?". "Non esageriamo con le critiche! Se le accuse sono gravi può essere disposta una misura cautelare: il divieto di avvicinarsi al domicilio di lei, oppure gli arresti domiciliari o addirittura il carcere". "Misure cautelari a vita, carcere cautelare per tutta la vita? Solo così avrebbe un senso perché altrimenti quando esce…". "Caro Steve, non si scherza sulle cose serie! le misure cautelari hanno dei termini di durata massima, lo sanno anche i sassi ed è giusto che sia così!". "E allora è facile immaginare cosa possa succedere quando l’oltraggiato energumeno, l’offesissimo omaccione torni libero nello stesso contesto di vita, tale e quale come era prima ma ancora più incazzato, visto che quella svergognata lì si è permessa di denunciarlo! È facile immaginarlo anche per una lunga esperienza di cui avreste dovuto far tesoro se non foste quelli che siete, per quello che - a quanto si legge - da voi accade troppo spesso, che una povera vittima faccia una fine ancora più tragica dopo aver trovato il coraggio di denunciare affidandosi alla giustizia". "Ancora ritornelli, come al solito con i tuoi discorsi cadi sempre nella politica, sarebbe ora di finirla!". "E allora io torno al mio paese e chi s’è visto s’è visto!". Ecco, questo è un dialogo immaginario ma non campato sulle nuvole. Perché in effetti la generica e tradizionale risposta penale nei casi di stalking (articolo 612 bis codice penale) e di maltrattamenti (articolo 572) - l’usuale flemma della giurisdizione italiana, per intenderci - non solo non risolve ma spesso attizza, come chiaramente emerge non da rarefatte intuizioni sociologiche ma dai "mattinali" che quotidianamente grandinano su ogni ufficio giudiziario italiano. E non è incoraggiante che ancora oggi ci si concentri sulla riforma delle ferie dei magistrati anziché su di una risposta razionale da opporre a simili comportamenti criminali, sempre più diffusi non solo per una perdurante subcultura di possesso e lo scadimento di alcuni valori - li vuoi chiamare tabù? - ma soprattutto per l’aumentata mobilità relazionale anche famigliare, per i minori controlli sociali, per la solitudine di nuclei metropolitani ogni giorno più complessi e multietnici. Mi pare terribile e inaccettabile. Oggi le cosiddette fasce deboli vivono troppo spesso disperatamente anzi disperatissimamente senza alcuna concreta tutela e le ragioni sono semplici ed evidenti: notoria lentezza e conseguente ineffettività della reazione giudiziaria nonché diffusa inefficienza dei presìdi sociosanitari quanto a reali attività di controllo, sostegno, orientamento e cura. Diamoci una scossa, signori governanti. Come ormai dappertutto nei paesi meno arretrati il procedimento penale dovrebbe invece svilupparsi, quantomeno per i reati di maltrattamenti e di stalking, con andamento non solo assolutamente prioritario (vi ricordate la remota raccomandazione 1987 del Comitato dei ministri dell’Unione europea?) ma anche interdisciplinare, dovrebbe cioè progredire in concomitanza di un parallelo trattamento delle criticità mediante terapie socio-sanitarie, le più opportune. Effettuando un riallineamento delle dinamiche conflittuali, una presa di coscienza contrattata tra le parti e la responsabilizzazione dell’autore. Pena e cura insomma. In modo che il bruto, dopo un’immediata ed esemplare punizione, torni alla vita davvero diverso e soprattutto consapevole che è tutto il sistema sociale a non consentirgli vergognose prepotenze e a difendere la vittima dalle conseguenze della sua condotta delinquenziale. È anche un modo perché almeno per reati così gravi trovi finalmente attuazione l’imperativo rieducativo dell’articolo 27 della nostra Costituzione, solitamente disatteso. Altrimenti resta il pesante rischio del sasso in piccionaia, notoriamente pernicioso, e tanta ingiustizia. Cagliari: Caligaris (Sdr); a rischio turni degli infermieri nella Casa circondariale di Uta Ristretti Orizzonti, 23 ottobre 2015 "Una pesante tegola si sta abbattendo sulla sanità penitenziaria della Casa Circondariale di Cagliari-Uta. Gli Infermieri in servizio nella struttura ubicata nell’area industriale di Macchiareddu non intendono più protrarre i turni, seppure ciò risulti indispensabile, per la mancata corresponsione da parte della Asl 8 delle competenze relative ai mesi di luglio e agosto". Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme", facendosi interprete del disagio dei familiari dei detenuti "preoccupati delle conseguenze della mancata estensione dei turni". "Nei mesi estivi, in particolare ad agosto, gli infermieri, circa una sessantina attualmente impegnati nella Casa Circondariale, hanno garantito - sottolinea Caligaris - prestazioni aggiuntive confidando nella successiva corresponsione del dovuto. L’Azienda Sanitaria tuttavia fino ad ora non solo non ha provveduto al pagamento delle spettanze ma ha anche manifestato perplessità in merito alla obbligatorietà dell’integrazione. Una condizione considerata inaccettabile dal personale infermieristico che ha assunto una posizione intransigente". "Ciò significa - precisa la presidente di Sdr - che gli Infermieri si atterranno scrupolosamente al mansionario e non presteranno più alcun servizio aggiuntivo determinando in qualche caso il blocco della distribuzione dei farmaci o dei prelievi o del supporto ai Medici in turno e agli specialisti con conseguenze gravissime per i detenuti-pazienti". La delicata e preoccupante questione è stata rappresentata dall’associazione al Direttore dell’Istituto dott. Gianfranco Pala. "Non mi è pervenuto nulla di ufficiale - ha detto a Sdr - ma se ciò dovesse verificarsi e non saranno garantiti i turni investirò della problematica la Procura della Repubblica, il Magistrato di Sorveglianza nonché il Prefetto". "È evidente che occorre trovare al più presto una soluzione. L’auspicio è che, verificato l’effettivo svolgimento delle prestazioni aggiuntive pregresse, si provveda al pagamento delle spettanze e si riconsideri la specificità della vita dentro il carcere. Non è possibile lasciare senza l’indispensabile supporto infermieristico una realtà dove sono ristrette oltre 560 persone private della libertà molte delle quali con problemi di salute o che necessitano di particolari cure. L’esercizio di un diritto costituzionale - conclude Caligaris - non può essere compromesso da mere esigenze ragionieristiche di risparmio". Roma: una Casa-famiglia protetta per le madri detenute, sarà intitolata a Leda Colombini di Francesca Cusumano (Associazione "A Roma Insieme") Ristretti Orizzonti, 23 ottobre 2015 "Avevo detto che ce l’avremmo fatta per il mese di dicembre e sarò di parola, nonostante le difficoltà politiche che sta vivendo il Comune. Roma sarà la prima città italiana a realizzare in pochissimo tempo una casa famiglia protetta per le madri detenute che sarà intitolata a Leda Colombini, la fondatrice dell’associazione A Roma Insieme che per tanti anni si è battuta per questo obbiettivo: nessun bambino varchi più la soglia di un carcere". Lo ha detto l’assessore ai servizi sociali, Francesca Danese questa mattina all’inaugurazione del nuovo spazio sociale dedicato da A Roma Insieme alle donne detenute del carcere di Rebibbia femminile (circa 300) finanziato dalla Fondazione Prosolidar presente con il presidente Giancarlo Durante e il segretario generale Ferdinando Giglio. La prossima settimana tre detenute in semilibertà - ha annunciato la Danese - insieme alla direttrice del carcere, Ida Dal Grosso - andranno a pulire la villa dell’Eur sottratta alla mafia, destinata a ospitare la nuova struttura, dove troveranno posto le madri detenute con i loro figli. Sarà questa l’occasione per queste donne (per la maggioranza di etnia rom) di affrontare insieme agli operatori un vero percorso di riabilitazione evitando ai loro figli di stare dietro alle sbarre. Ho già inviato le lettere di invito - ha proseguito la Danese - a tutte le associazioni e cooperative di settore che dovranno partecipare all’ avviso pubblico per l’affidamento. Dopo che avremo ricevuto le loro candidature, valuteremo la più idonea a cui affidare la gestione. Partiamo con 120 mila euro messi a disposizione dalla Fondazione Poste Insieme Onlus che si è già impegnata per implementare, dopo la fase di avvio questa cifra". Coro unanime di approvazione da parte delle istituzioni presenti all’inaugurazione della nuova tensostruttura al gran completo: dalla vicepresidente del Senato, Valeria Fedeli, alla provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria del Lazio, Maria Claudia Di Paolo, al sottosegretario Cosimo Ferri. "Mi piacerebbe che di Roma - ha detto per tutti la Fedeli - si parlasse anche per la sua grande capacità di attenzione verso un’umanità differente che deve essere aiutata a uscire da una fase buia della propria vita, soprattutto in tempo di Giubileo della misericordia". Como: viaggio tra i detenuti del Bassone, non c’è più sovraffollamento, struttura vivibile di Paola Pioppi Il Giorno, 23 ottobre 2015 Nel carcere di Como gli ospiti sono 407 di cui 44 donne e 363 uomini. Dopo anni di sovraffollamento, la casa circondariale Bassone è approdata a un regime di vivibilità allineato a parametri accettabili. Sembra andare in questa direzione la radiografia del carcere comasco emersa ieri, durante la visita dei rappresentanti dell’Osservatorio Carcere dell’Unione Camere Penali, organizzata dal presidente della Camera Penale di Como, Paolo Camporini. I detenuti presenti sono 407, di cui 44 donne e 363 uomini. Nella sezione femminile, nell’area del nido - una delle poche in Lombardia - sono presenti tre madri con quattro bambini: sono due gemelline di 3 anni, un bimbo di 17 mesi e un neonato di 10 giorni, la cui madre è entrata in carcere cinque giorni fa. Gli stranieri sono 226, di cui 47 provenienti da Paesi europei - Bulgaria, Francia, Romania, Germania - a fronte di 179 extracomunitari. Provengono da Maghreb, Africa Centrale, Medio Oriente e Sud America. Un’altra presenza importante è quella dei tossicodipendenti dichiarati, e in quanto tali inseriti in specifici programmi: sono 160, ma non ristretti in uno specifico reparto. Annualmente il Sert interno segue una media di 250 persone, con dipendenze che vanno dagli stupefacenti, all’alcol fino al gioco. Tuttavia, a migliorare decisamente la qualità della vita in carcere, è intervenuta un anno e mezzo fa la legge Torreggiani, che ha imposto l’apertura delle celle all’interno delle sezioni per dodici ore al giorno, dalle 8 alle 20. Un beneficio di cui attualmente usufruiscono quattro sezioni su sei al maschile, oltre al reparto femminile. "Dopo un iniziale periodo di ambientamento, sia da parte dei detenuti che della polizia penitenziaria - spiega il direttore del Bassone, Carla Santandrea - i risultati sono stati sempre più positivi. Sono diminuite le tensioni, il detenuto soffre meno ed è meno ostile. Inizialmente si è anche dovuto fare un lavoro di convincimento nei confronti della popolazione carceraria, perché non volevano lasciare le loro cose incustodite, o entrare costantemente in contatto con gli altri. Ma poi tutto ha preso una piega molto favorevole". I problemi non sono stati completamente azzerati, e sopravvivono attriti generati soprattutto dalle difficoltà di convivenza tra diverse etnie, ma a livelli molto più gestibili rispetto al passato. La normativa prevede uno spazio di tre metri quadrati a testa in ogni cella, più il bagno, dove vivono mediamente due detenuti. Le docce sono comuni per ogni sezione. Nelle due sezioni non "aperte", oltre all’infermeria e al reparto protetti, sono comunque garantite otto ore al giorno al di fuori delle celle. Laureana (Rc): il Consigliere Longo scrive al ministro "no alla chiusura del carcere" strill.it, 23 ottobre 2015 Di seguito la lettera inviata al ministro della Giustizia in merito alla paventata chiusura del carcere di Laureana a firma del Consigliere provinciale reggino, Giuseppe Longo: "Egregio Ministro, sono sempre più insistenti le voci in merito ad una nuova chiusura dell’Istituto a custodia attenuata "L. Daga" di Laureana di Borrello (RC) inaugurato nel 2004. Il L Daga ha dato lustro al Ministero della Giustizia essendo stato il primo Istituto a custodia attenuata per giovani adulti non tossicodipendenti. I molteplici progetti portati avanti durante gli undici anni di attività, spezzati da un anno di chiusura, e i brillanti risultati conseguiti in termini di reinserimento dei detenuti all’uscita e di abbassamento della recidiva rispetto alla media nazionale, hanno certamente favorito l’aumento di altre realtà penitenziarie omologhe a questa sparse più o meno in tutta Italia. L’accesso è stato precluso sia prima della chiusura avvenuta nel settembre 2012, sia al momento della riapertura avutasi nel settembre 2013, ai detenuti che hanno collegamenti con la criminalità organizzata… è rimasto come elemento della custodia attenuata la firma da parte dei detenuti del "patto trattamentale. Il lavoro come strumento primario per il recupero.. tanto che l’Istituto può considerarsi la perfetta attuazione dell’art.27 Cost.. cosa evidenziata dallo stesso Ministro Castelli nel discorso da lui tenuto il giorno dell’inaugurazione in data 4 maggio quando sottolineò come probabilmente l’assemblea Costituente quando aveva elaborato l’art. 27 della Costituzione aveva in mente proprio l’Istituto L. Daga. I laboratori di falegnameria e di ceramica hanno realizzato prodotti che erano utilizzabili assieme alle piante grasse prodotte dalle serre. Tra i manufatti realizzati ricordiamo diversi tavoli, grigliati in legno e fioriere abbellite da composizioni floreali che sono state destinate ad abbellire le aree verdi dei diversi Istituti della Calabria e della Prefettura di Reggio Calabria. Sempre in questo primo periodo grazie all’aiuto delle direzioni scolastiche territoriali si è dato avvio anche al progetto finanziato dalla Provincia con la collaborazione dell’Istituto alberghiero di Polistena e dell’Istituto commerciale di Rosarno che ha consentito a 20 detenuti di terminare i percorsi d’istruzione già avviati negli Istituti carcerari di provenienza e di conseguire per gli altri attestati di qualifica professionale. Sono stati realizzati con l’ausilio della Regione Calabria: corsi di computer, corsi di ceramica e corsi di serri-coltura. Mentre con la sinergia del Ministero della Giustizia e dell’Ambiente, per ciò che concerne il finanziamento, e della Regione perciò che concerne l’esame finale, è stato realizzato il corso per operatore e manutentore di pannelli solari titolo professionale spendibile sul mercato del lavoro. Tutto questo in sintesi quello che si è realizzato antecedentemente alla chiusura. Dalla riapertura del 30 settembre 2013 ad oggi si è continuato a lavorare sulla stessa lunghezza d’onda, nonostante le titubanze dell’Amministrazione Penitenziaria che non ha provato a risolvere la problematica relativa alla mancanza di detenuti per questa struttura, non volendo individuare un target di detenuti che consentisse una popolazione stabile con la quale potere continuare il lavoro trattamentale caratteristica di tale Istituto. Nonostante tali difficoltà (la popolazione detenuta ha sempre oscillato tra i 15 ed i trenta contro i 68 che potrebbero essere tranquillamente accolti) si è realizzato: Un corso di operatore per il legno con tanto di qualifica che ha conseguito un solo giovane extracomunitario a fronte dei 18 ammessi in prima istanza (e ciò è dipeso dall’esiguo fine pena prescelto in fase iniziale per la custodia attenuata tre anni che ha agevolato un continuo turn over con gli effetti dannosi per la buona riuscita del corso interamente finanziato dalla provincia di Reggio Calabria). Si è affidato ad una nuova cooperativa la sperimentazione di manufatti in vetroresina (sono stati realizzati sgabelli e tavoli per sale colloqui e docce per celle) e i risultati sono stati soddisfacenti sia in termini di produzione e di commesse che in termini di assunzione dei detenuti (la cooperativa ha sempre assicurato una media di 4 detenuti assunti mensilmente). Essendosi registrate molte difficoltà a riaprire tanto il laboratorio di falegnameria quanto quello di ceramica per mancanza di commesse e di maestri d’arte idonei, si sta cercando di riattivare tali laboratori con l’aiuto di Cassa Ammende. Anche le serre stanno per essere riattivate al più presto. Chiudere una tale struttura con tali potenzialità rappresenterebbe un danno per la collettività anche in considerazione di quanto si è già speso. Corretto sarebbe invece studiare il modo per utilizzarla in tutte le sue potenzialità, come per esempio potrebbe essere un valido ponte tra il mondo minorile e quello degli adulti. Sarebbe quindi auspicabile un gruppo di lavoro che si occupi delle custodie attenuate in genere, in linea con gli orientamenti della comunità europea, definendo dei criteri comuni e con margini più ampi, anziché pensare di risolvere i problemi in termini di spending rewiew nell’ambito dell’arida logica dei soli numeri". Ancona: lavori socialmente utili, il Comune di Senigallia dà una mano ai detenuti di Giulia Mancinelli viverepesaro.it, 23 ottobre 2015 Il Consiglio Comunale dà il via libera all’impiego dei detenuti delle carceri nei lavori socialmente utili. Dopo il protocollo per l’impiego dei profughi, il Comune di Senigallia tende una mano anche ai detenuti che chiedono aiuto per il reinserimento sociale. Un apposito ordine del giorno presentato dal consigliere di minoranza Maurizio Perini è stato approvato mercoledì sera in Consiglio Comunale con 23 voti favorevoli e due astenuti. Di seguito il testo approvato in Consiglio. "Il Consiglio Comunale di Senigallia, premesso che 11 20 Giugno 2012 Anci e Ministero della Giustizia - Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria hanno siglato un Protocollo d’Intesa al fine di promuovere l’avvio di un Programma Sperimentale di Attività in favore della comunità locale attraverso la realizzazione di Progetti Integrati che prevedano l’inserimento lavorativo di detenuti e internati e lo svolgimento del lavoro di pubblica utilità, secondo quanto previsto dall’ Art.27 della Costituzione Italiana ("Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato"). In particolare si prevede: la promozione sul territorio di Accordi tra il Comune e le strutture periferiche dell’Amministrazione penitenziaria per l’inserimento lavorativo dei detenuti e degli internati necessari per la presentazione dei progetti; progetti integrati quali occasioni di sviluppo del territorio attraverso nuovi servizi in favore dei cittadini o attività straordinarie. Una ricognizione dei fabbisogni del territorio in riferimento a: settori ed attività straordinarie di manutenzione del verde pubblico, di particolari porzioni cittadine, di edifici e luoghi di attrazione culturale, ecc.. ; tipologie di lavori utili per la collettività lavori di pubblica utilità; attività formative idonee al recupero di fasce di lavoro artigianale ormai in disuso e destinato all’estinzione; attività di protezione civile (prevenzione e interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria del territorio) L’Anci ha attivato, nell’ambito della pagina web sicurezzaurbana.anci.it, un help point informativo con i testi del Protocollo d’intesa, lo schema delle convenzioni, le slides informative e la modulistica di riferimento. L’Anci ha avviato, in collaborazione con il Dap. cicli di incontri per illustrare ai Comuni sedi di istituti penitenziari e alle strutture territoriali del Dap le potenzialità dell’Accordo. Senigallia come molte altre realtà locali ha la necessità di integrare il proprio personale per attività a beneficio del territorio, esercitando al contempo quella funzione di promozione sociale a cui è ispirata la Carta Costituzionale. Tanto premesso impegna il Sindaco e la Giunta a concludere un accordo specifico con il Provveditorato regionale e l’istituto penitenziario idoneo allo scopo per l’inserimento lavorativo dei detenuti e degli internati. Torino: educatrice licenziata per t-shirt No Tav, il ministro Orlando vuole chiarimenti di Jacopo Ricca La Repubblica, 23 ottobre 2015 Finisce sul tavolo del ministro di Giustizia, Andrea Orlando, il caso di Angela Giordano, l’educatrice No Tav estromessa dal carcere di Torino. Dopo le polemiche di questi giorni, con le accuse di discriminazione al direttore Domenico Minervini, il ministro ha fatto acquisire dal responsabile del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Santi Consolo, il provvedimento motivato. Al ministero vogliono infatti vederci chiaro sulla decisione del carcere, ma precisano che quella di Orlando non è un’iniziativa insolita: solo il desiderio di fare piena luce, confermando però la massima fiducia in Minervini e nel suo operato. Sel invece vuole portare la questione in Parlamento con il senatore piemontese Giorgio Airaudo, che ha presentato un’interrogazione parlamentare allo stesso Orlando e al ministro del Lavoro, Giuliano Poletti: "A Torino c’è un eccesso di reazione quando si sente la parola No Tav - dice il responsabile nazionale Lavoro di Sel - Con questo provvedimento sono stati violati i diritti costituzionali. Non si può sospendere una lavoratrice per le sue opinioni, spero che i ministri competenti facciano revocare il divieto". Ieri mattina Angela Giordano ha partecipato al presidio dei militanti No Tav davanti alle Vallette, lo stesso luogo dove è avvenuto uno dei due episodi che le sono stati contestati, i baci e gli abbracci con una militante all’uscita dal lavoro: "Non voglio fare la vittima. Non ho mai messo a rischio la sicurezza del carcere" ha ribadito lei. Solidarietà dal leader valsusino Alberto Perino, presente al sit-in: "Siamo al fascismo se una persona non ha più il diritto di salutare un persona". È stata anche annunciata una raccolta fondi: "I No Tav non sono mai soli, faremo tutto il possibile per aiutare Angela" ha aggiunto Lele Rizzo di Askatasuna. Durante il presidio nessuna tensione: c’erano anche alcuni funzionari della Digos, mentre i parenti dei detenuti ascoltavano il comizio in attesa di entrare. All’ingresso c’era anche la consigliera regionale dei 5 Stelle Francesca Frediani che, assieme ai suoi colleghi, si è poi presentata in aula, a Palazzo Lascaris, con una maglietta No Tav. Un gesto di protesta contro la decisione del direttore: "Se non si può più andare al lavoro con una t-shirt contro l’alta velocità lo faremo tutti per far sentire la nostra vicinanza ad Angela - ha spiegato - "Licenziate anche noi" è lo slogan con cui vogliamo denunciare la gravità di quello che sta succedendo". Solidarietà anche dalla Cub Piemonte. Monza: rissa in carcere fra due bande rivali, una di albanesi, l’altra di magrebini di Marco Galvani Il Giorno, 23 ottobre 2015 Si sono affrontati a colpi di bastoni, lamette e bombolette del gas. Una rissa in carcere fra due bande rivali, una di albanesi, l’altra di magrebini. Quindici detenuti coinvolti, due feriti in modo lieve, gli altri contusi. Per riportare la calma sono dovuti intervenire una settantina di agenti di polizia penitenziaria. Una mattinata di tensione in via Sanquirico. Tutto è successo pochi minuti dopo le 9 nel corridoio che porta al cortile dove i detenuti passano l’ora d’aria. Ancora poco chiari i motivi che hanno scatenato l’aggressione ma i due gruppi che si sono scontrati già negli ultimi giorni avevano avuto alcuni attriti. Fino alla rissa di ieri mattina. A cui i detenuti coinvolti si erano evidentemente preparati. Perché quando il gruppo è arrivato nel corridoio esterno, diretto verso il cortile, dopo aver passato la perquisizione personale, dalle grate delle celle gli altri reclusi hanno lanciato giù le armi rudimentali costruite: lamette, manici di scopa e anche bombolette del gas in alluminio tagliate a metà e usate come lame. A quel punto è scoppiata una violenta rissa. Immediatamente il corridoio si è riempito di poliziotti che sotto la guida del comandante del reparto, il commissario Marco Casella, sono riusciti a dividere i detenuti e a riportare la situazione alla calma. Per tutti i 15 reclusi è scattata la denuncia per rissa e violenza a pubblico ufficiale. "Una situazione esplosiva che ha rischiato di avere conseguenze gravi - la denuncia di Giuseppe Bolena, vice segretario regionale del sindacato autonomo di polizia penitenziaria Osapp. Questo è anche il risultato dell’inefficacia del regime di sorveglianza dinamica, che mette insieme, a celle aperte, i detenuti per tutto il giorno. In questo modo si vengono a creare fazioni fra detenuti della stessa etnia". E questo "mette quotidianamente a rischio la civile convivenza all’interno del carcere, con gli agenti costretti a fare turni pesanti a discapito della sicurezza visto che in servizio siamo 334 quando invece dovremmo essere 419", continua Bolena. E poi c’è il problema che "tenere i detenuti a non far nulla è pericoloso - aggiunge Donato Capece, segretario generale del sindacato degli agenti Sappe. In carcere quello che manca è il lavoro, la stragrande maggioranza dei ristretti sta in cella venti ore al giorno, nell’ozio assoluto". Teramo, certificati medici in carcere senza visite, condanna per il medico, detenuto assolto cityrumors.it, 23 ottobre 2015 Erano finiti a processo nell’ambito di un’inchiesta su un agente di polizia penitenziaria accusato di aver fatto tutta una serie di favori a detenuti ed ex detenuti del carcere di Castrogno. Processo che oggi ha visto l’assoluzione di Vincenzo Varriale, all’epoca detenuto a Castrogno, dalle accuse di corruzione e detenzione ai fini di spaccio di sostanze stupefacenti, e la condanna ad 8 mesi per falso in atto pubblico, con sospensione della pena e non menzione nel casellario giudiziale di una dottoressa, Alessandra Pilotti. Condanna arrivata per un solo capo di imputazione relativo ad un certificato medico rilasciato all’agente di polizia penitenziaria (che aveva già definito la sua posizione con un patteggiamento) e di cui è stata dichiarata la falsità ideologica. Sempre la dottoressa è stata invece assolta da altri capi di imputazione sempre di falso relativi ad altri certificati e dall’accusa di truffa (connessa al rilascio dei certificati, che l’agente avrebbe utilizzato per assentarsi dal lavoro). La vicenda che aveva visto i due finire a processo è quella scoppiata nel 2014, quando sul tavolo del pm Luca Sciarretta era arrivato uno stralcio di un’indagine della Dda di Napoli. Quest’ultima, indagando su alcune persone legate al clan dei Casalesi, aveva acceso i riflettori su strani rapporti tra l’agente di polizia penitenziaria Giancarlo Arononi e alcuni detenuti ed ex detenuti del carcere di Castrogno. Da qui l’apertura di un fascicolo da parte della Procura di Teramo, che lo scorso anno aveva portato alla sospensione dal servizio dell’agente, accusato di corruzione, rivelazione di segreti d’ufficio, falso in atto pubblico e truffa. Accuse per le quali a luglio 2014 Arnoni aveva patteggiato una pena di due anni ed otto mesi, con il fascicolo a carico dell’uomo che aveva portato anche al rinvio a giudizio di altre due imputati: l’ex detenuto Varriale, accusato di aver corrotto l’agente, dietro il pagamento con formaggi, salumi e vino, per far entrare la droga in carcere, e la dottoressa, accusata di aver rilasciato all’agente dei certificati medici senza visitarlo. Certificati che l’agente avrebbe utilizzato per assentarsi dal lavoro percependo indebitamente stipendio ed indennità di malattia. La Procura aveva chiesto la condanna a 4 anni per Varriale e ad un 1 anno e 6 mesi per la dottoressa. Brescia: detenuta tenta il suicidio nel carcere di Verziano, salvata dall’agente in servizio Il Giorno, 23 ottobre 2015 Angela Toni, 36enne che sta scontando 16 anni per avere ucciso a colpi di pistola la compagna, Angela Ciofalo, nella loro abitazione di Gussago. Era il 10 marzo 2013. Salvata in extremis da una poliziotta, che si è accorta appena in tempo del sangue gocciolato sul pavimento. Un tentato suicidio. È successo stamani all’alba nel carcere di Verziano di Brescia. A provare a togliersi la vita è stata Angela Toni, 36enne che sta scontando 16 anni per avere ucciso a colpi di pistola la compagna, Angela Ciofalo, nella loro abitazione di Gussago. Era il 10 marzo 2013. La donna confessò che non sopportava che la compagna avesse una nuova relazione. Alle 5,30 del mattino l’agente della Polizia penitenziaria ha notato la detenuta adagiata a letto, come se fosse immersa nel sonno. A terra i realtà c’era del sangue. Angela Toni infatti si era tagliata i polsi e la gola con una lametta e la poliziotta si è accorta che qualcosa non andava. "Situazioni come queste mettono in luce la delicatezza del compito della polizia penitenziaria - dice il coordinatore nazionale del sindacato Sinappe, Antonio Fellone - un corpo al quale è affidata la custodia di vite umane che vanno rieducate ma anche salvaguardate. Dal canto nostro nel complimentarci con la collega per la grande prova di professionalità e umanità dimostrate ci attiveremo per sensibilizzare la direzione perché si adoperi per l’ottenimento dei riconoscimenti formali ai protagonisti della vicenda". Ventimiglia (Im): il pane prodotto dai detenuti donato al Centro per immigrati di Mario Guglielmi rivierapress.it, 23 ottobre 2015 Dallo scorso luglio la cooperativa "Pausa Cafè" rifornisce gratuitamente con dell’ottimo pane (prodotto presso alcune carceri piemontesi e distribuito negli stand dell’Expo di Milano) il centro di prima assistenza della città di Ventimiglia, mettendo in opera un bellissimo gesto di generosità e solidarietà verso le persone migranti che transitano sul nostro territorio. Nella giornata di oggi presso l’Expo di Milano si è tenuto un incontro di ringraziamento e conoscenza di questa splendida realtà. L’Amministrazione di Ventimiglia pur non potendo essere presente direttamente ha voluto, per il tramite del Vice Sindaco Silvia Sciandra, ringraziare sia la cooperativa produttrice sia la rete Coop del Nord Est che si è assunta l’onere della consegna. "La vostra generosità verso la nostra Città in un periodo di grave emergenza seguito all’improvvisa chiusura delle frontiere verso la Francia è stato il segno tangibile e concreto di quanto la generosità e l’altruismo delle persone sia lontano - e ben più in alto - delle scelte politiche e dell’agire degli Stati. Grazie a nome dei cittadini di Ventimiglia e grazie a nome di tutte quelle persone in cammino che hanno dovuto sostare presso la nostra città". Il fine della cooperativa è creare un centro di produzioni agro-alimentari che rispondano a requisiti d’eccellenza qualitativa organolettica, sociale ed ambientale, l’opportunità di crescita professionale alle persone recluse, dando vita a percorsi finalizzati al reinserimento sociale, (riducendo in tal modo la possibilità di recidive) e sensibilizzare verso le problematiche delle relazioni economiche internazionali e delle condizioni di vita delle popolazioni più colpite dagli squilibri economici mondiali. L’attività produttiva della cooperativa sociale si svolge all’interno di vari istituti penitenziari piemontesi. I detenuti, regolarmente assunti dalla cooperativa, sono impegnati in tutte le fasi della lavorazione e sono affiancati da personale qualificato in grado di offrire loro un percorso formativo e di avviamento al lavoro. Venezia: garza come legame tra madre e figlio, in Biennale l’arte delle detenute di Benedetta Pintus La Repubblica, 23 ottobre 2015 All’Arsenale prenderà vita il progetto multimediale realizzato dagli studenti del College of Design della Iowa State University attraverso laboratori nei carceri di Rebibbia a Roma e della Giudecca a Venezia: video, foto, un’installazione e una sfilata in cui si esplora attraverso un materiale antico e simbolico il tema della maternità in un luogo di costrizione. Ruvida, avvolgente, elastica. La garza è un materiale duttile e antico, carico di significato: ci ricorda il dolore delle ferite, ma anche il legame profondo tra madre e neonato. Per questo è stato scelto come mezzo d’espressione da un gruppo di studenti americani della Iowa State University per comunicare con le madri detenute dei carceri di Rebibbia a Roma e della Giudecca a Venezia. Dal loro incontro sono nate una performance, una serie di installazioni e una sfilata, un progetto artistico multimediale intitolato "Legame - Bond", che prenderà vita alla Biennale di Venezia dal 22 al 24 ottobre. All’Arsenale, dove saranno presenti anche alcune detenute, gli studenti di arte, grafica e architettura di interni mostreranno il video e le foto del laboratorio tenuto a Rebibbia, realizzeranno delle statue con le garze e sfileranno con gli abiti di garza realizzati dalle donne della Giudecca. Un’esperienza unica, che ha coinvolto dieci professori e 50 studenti, resa possibile grazie alla collaborazione dell’associazione "A Roma, Insieme - Leda Colombini" e la Cooperativa Sociale Onlus "Il cerchio" di Venezia. "Ogni anno - spiega Pia Katharina Schneider, direttrice dell’Iowa State University Rome Program e coordinatrice del progetto - gli studenti del College of Design trascorrono un quadrimestre in Italia. Già l’anno scorso avevano partecipato alla Biennale con un progetto di architettura, ma questa volta volevamo dare un carattere sociale alla loro esperienza". Il tema dell’edizione 2015 dell’esposizione internazionale d’arte, "All the world’s futures" (Tutti i futuri del mondo), è stato interpretato focalizzando l’attenzione sull’inizio della vita e in particolare sul legame tra le madri e i loro bambini in una situazione difficile come quella del carcere. "È stata un’esperienza molto forte, ma anche gioiosa, che ha coinvolto teatro, danza, movimento, dimostrando che anche il gesto può essere un’opera d’arte", afferma Jole Falco, 60 anni, scultrice e insegnante d’arte, volontaria da oltre dieci anni dell’associazione "A Roma, Insieme - Leda Colombini", fondata nel 1994 per far conoscere il mondo oltre le sbarre ai figli delle detenute che crescono con le madri in carcere fino a quando compiono 3 anni. "Le prigioniere coinvolte nel progetto - racconta Falco - hanno potuto giocare e sperimentare". All’inizio erano colpite, stranite da questo esperimento originale. Gli studenti erano intimiditi. "Ma poi sono riusciti a comunicare tra loro, anche attraverso l’inglese, che una delle detenute sapeva parlare. L’atmosfera è diventata allegra". C’è chi attraverso le garze ha simulato un parto, chi si è fatta avvolgere, chi ha ballato. "Gli è stato regalato un senso di libertà, la possibilità di uscire per un po’ dalla realtà carceraria, rompere l’agonia del tempo scandito solo dalla detenzione". "Per i nostri studenti - commenta Schneider - è stata una sfida e un insegnamento importante affrontare un tema così complesso e controverso". Un tema di cui si discuterà anche alla Biennale attraverso il dibattito - che si terrà il 24 ottobre dalle 10.30 alle 12.30 - al quale interverranno Gabriella Straffi, direttrice dell’istituto penitenziario femminile della Giudecca; Alessia Davi dell’Università Cà Foscari di Venezia, ricercatrice sulla detenzione femminile negli Usa e Julie Stevens, architetta del paesaggio, esperta in giardini terapeutici e ambienti carcerari. "Il nostre obiettivo - conclude la direttrice dell’Isu Rome Program - è sensibilizzare questi futuri artisti ai temi sociali, alle culture diverse. Lavoreranno in contesti internazionali e devono imparare a confrontarsi, ad essere esposti a idee e concezioni differenti dalle proprie: solo così l’arte può diventare uno strumento di sensibilizzazione. Anche questo è un modo per costruire un futuro migliore". Parma: "Liberarsi dalla necessità del carcere", incontro con Pannella e Bernardini parmatoday.it, 23 ottobre 2015 "Il carcere, non solo tradisce il dettato costituzionale, i diritti fondamentali della persona, il diritto e lo stato di diritto ma non ha neppure alcuna funzione di utilità nei confronti della sicurezza del cittadino. Ne discuteremo Sabato 24 Ottobre alle ore 9:30, presso la Sala dell’Assistenza Pubblica in Viale Gorizia 2/a". "Per quanto si voglia trasformare e perfezionare il carcere non lo si può modificare in senso sostanziale. Più penso al problema del carcere e più mi convinco che non c’è che una riforma carceraria da effettuare: l’abolizione del carcere penale". Altiero Spinelli, dalla rivista "Il Ponte", numero speciale, 1949". "Queste le parole di Altiero Spinelli, uno dei Padri della Patria e del sogno Europeo - scrivono gli organizzatori - che il carcere ha conosciuto durante il periodo fascista, dichiarano l’inutilità del carcere al fine di attuare l’articolo ventisette della Costituzione. Relatori: Marco Pannella: Presidente del Senato del Prntt, Rita Bernardini: Segretario di Radicali Italiani, Sergio D’Elia: Segretario di Nessuno Tocchi Caino, Desy Bruno: Garante dei detenuti Regione Emilia-Romagna, Don Umberto Cocconi: Presidente della Associazione San Cristoforo e Responsabile Pastorale, Universitaria della Diocesi di Parma, Paolo Moretti: Presidente Camera Penale di Parma, Carlo Berdini: Direttore degli Istituti Penitenziari di Parma, Paolo Volta: Direttore attività socio-sanitarie Azienda Ausl di Parma. Coordinatori della tavola rotonda: Marco Maria Freddi: Segretario LiberaMenteRadicale - Radicali Parma, Sandro Capatti: Fotoreporter. Milano: questa mattina Radio1 Rai è dietro le sbarre di Bollate, con detenuti e volontari Italpress, 23 ottobre 2015 Radio1 Rai dietro le sbarre del carcere di Bollate. Con detenuti e volontari, diretta del programma "La radio ne parla", condotto da Ilaria Sotis, oggi, venerdì 23 ottobre, dalle 10.30, all’interno della Seconda Casa di reclusione di Milano. In quali condizioni si vive negli istituti di pena italiani? Come è cambiata la popolazione carceraria? Le politiche di recupero sono realmente efficaci? Sono alcuni degli interrogativi, ai quali risponderanno detenuti, volontari, il direttore Massimo Parisi, personale del carcere e studenti, che dall’esterno entrano a Bollate a cadenza regolare. Così "La Radio Ne Parla" torna ad affrontare il tema delle detenzione, di chi ha commesso un reato e dei compiti dello Stato nel favorire il recupero della persona. Dopo le puntate dall’Opg di Castiglione delle Stiviere (Mantova) e da Rebibbia (Roma), la trasmissione di attualità sociale di Radio1 Rai, torna in un istituto di pena, una struttura dove i detenuti che accedono a servizi e progetti sono numerosi e, non casualmente, il tasso di recidiva è al 17%. Detenuti che parleranno in diretta, mentre le porte del carcere si apriranno ad una visita didattica di cittadine e cittadini. Quegli stessi detenuti che, nel pomeriggio, parteciperanno a uno degli eventi di Book city. Tra gli ospiti della trasmissione anche il direttore del Dap, il Dipartimento per l’Amministrazione penitenziaria Santi Consolo e il Presidente della Commissione diritti umani Luigi Manconi. Troppa fiducia nell’Onu di Angelo Panebianco Corriere della Sera, 23 ottobre 2015 Abbiamo bisogno di adottare un più alto profilo nel Mediterraneo rispetto al passato. Se vogliamo provvedere alla nostra sicurezza nelle nuove condizioni abbiamo bisogno di svolgervi un ruolo sempre più attivo. È stato un successo italiano, la settimana scorsa, l’accoglimento da parte dell’Unesco della nostra proposta di istituire un corpo di "caschi blu della cultura" a protezione dei patrimoni culturali messi a rischio dalla furia umana e dalle catastrofi naturali. L’Italia avrà inoltre un ruolo centrale nella creazione di questa task force specializzata. C’è da rallegrarsene. Arte e cultura sono, per il mondo, ciò che meglio definisce l’identità italiana ed è giusto che al nostro Paese sia riconosciuto un ruolo di leadership. Nulla da eccepire. Tranne forse il nostro solito eccesso di fiducia nelle capacità operative dell’Onu e delle sue affiliate. I caschi blu (anche quelli più tradizionali, con compiti militari) godono di grande popolarità dalle parti del governo Renzi. È solo di qualche settimana fa la decisione del premier di aumentare il nostro contributo in uomini ai contingenti delle Nazioni Unite. Ma vale la pena di sfoggiare tanto ossequio? Da un bel film del 2001, "No Man’s Land" (del regista bosniaco Danis Tanovic), il grande pubblico apprese quale nomignolo i miliziani (serbi, croati, musulmani) delle guerre jugoslave avessero appiccicato ai caschi blu delle Nazioni Unite. Li chiamavano "i puffi" (per via del blu che li accomunava ai celebri personaggi dei cartoni) considerandoli al tempo stesso costosi e del tutto inutili. È urgente che l’Italia assuma un atteggiamento più disincantato, meno genuflesso, nei confronti delle Nazioni Unite. La destabilizzazione in atto del Mediterraneo ci obbliga, al fine di tutelare la nostra sicurezza, ad adottare un approccio non ideologico, realista, di fronte alle crisi attuali. Quando in gioco c’è la tua pelle, non puoi stare lì ad aspettare che la tua azione difensiva venga preventivamente approvata dall’Onu. Continuando così a indulgere nella finzione secondo cui solo il marchio delle Nazioni Unite sia in grado di conferire a qualunque azione internazionale "legalità" e "legittimità" (due parole che molti, erroneamente, considerano sinonimi). Può anche essere giusta, può anche rispondere ad ineccepibili valutazioni tecnico-operative, la decisione italiana di non partecipare ai bombardamenti dello Stato islamico in Siria. Basta che non si tirino fuori le cosiddette "ragioni giuridiche" (l’assenza del marchio delle Nazioni Unite). Poiché di fronte a una minaccia come lo Stato islamico tali ragioni giuridiche contano zero. A rovescio, il ragionamento vale anche, almeno in parte, per la Libia. Che si debba andare oppure no in Libia per combattere quella particolare guerra detta di peace enforcing, di imposizione della pace mediante le armi, può essere una decisione saggia oppure no. Ma pur riconoscendo l’indubbia utilità del fatto che una simile spedizione goda della copertura Onu e quindi, implicitamente, dell’assenso di governi arabi (per renderla accettabile agli occhi di una parte dei libici), non è l’Onu che può stabilirne il grado di saggezza. Questo possono farlo solo i governi degli Stati, Italia in testa, la cui sicurezza è oggi a rischio a causa del caos libico. Senza contare che gli sforzi dell’Onu di trovare una soluzione politica nel caso libico sono fin qui tutti falliti. Da ultimo è già fallito il tentativo di piegare a un accordo i governi nemici di Tobruk e di Tripoli. Bisognerebbe sbarazzarsi di quell’ideologia onusiana qui da noi diffusa in ambiti piuttosto ristretti (volontariato cattolico, militanti di sinistra) e tuttavia influenti sugli atteggiamenti del governo. L’Onu non è l’embrione di un "governo mondiale" come si tende a pensare in quegli ambienti. Non vi somiglia neanche un po’. Ed è pure una fortuna, tenuto conto della natura dei regimi di alcune grandi potenze che siedono nel Consiglio di Sicurezza (Cina, Russia), nonché di tanti Paesi rappresentati nell’Assemblea Generale. Dio ci scampi da un governo mondiale (ancorché embrionale) così impestato di autoritarismo. L’Onu è soltanto un utile luogo di discussione che consente all’opinione pubblica mondiale di comprendere quale sia il clima, soprattutto nei rapporti fra le grandi potenze. E a questo c’è ben poco da aggiungere. Prima assumiamo un atteggiamento disincantato verso le Nazioni Unite e meglio è. Soprattutto oggi che abbiamo bisogno di adottare un più alto profilo nel Mediterraneo rispetto al passato. Se vogliamo provvedere alla nostra sicurezza nelle nuove condizioni abbiamo bisogno di svolgervi un ruolo sempre più attivo. Occorre investire non solo tempo ma anche risorse per potenziare la nostra capacità di intervento militare e di influenza diplomatica. Senza farsi inutili illusioni sull’Onu. Muovendoci piuttosto, se è possibile, in accordo con la Nato (l’esercitazione Nato in corso nel Mediterraneo segnala, se non la fine di una inerzia durata a lungo, per lo meno una volontà di risveglio). Sapendo però anche che dire Nato significa dire Stati Uniti e che, senza un nuovo attivismo dell’amministrazione americana nell’area, dovremo arrangiarci, diventare punto di raccordo fra i Paesi della regione con interessi di sicurezza simili ai nostri. Un atteggiamento più "laico" nei confronti delle Nazioni Unite appare tuttavia di difficile adozione da parte del governo Renzi. Per il quale, evidentemente, una politica economica che dà così tanti dispiaceri alla sinistra tradizionale deve essere bilanciata da concessioni su altri versanti, si tratti di unioni civili o di omaggi all’ideologia onusiana. Solo che quando è in ballo la sicurezza diventa rischioso continuare a giocare con l’ideologia. Netanyahu non ha capito il significato di Auschwitz di Donatella Di Cesare Corriere della Sera, 23 ottobre 2015 In un momento così grave per il proprio Paese un leader politico dovrebbe anzitutto pesare le parole. E dovrebbe guardarsi dal fare un uso strumentale della storia a fini politici. Non solo Israele, ma tutto il mondo ebraico della diaspora, è oggi costernato e non potrà facilmente dimenticare l’intervento di Netanyahu che parlando al XXXVI Congresso sionista di Gerusalemme ha di fatto ridotto e sminuito le responsabilità di Adolf Hitler, fin quasi alla negazione. Non si tratta solo di un falso storico. Al-Husseini, il Gran Muftì, è stato un seguace, non certo l’ispiratore del Führer - come emerge con chiarezza dall’intervista sul Corriere della Sera di Dino Messina allo storico Mauro Canali. Agghiaccianti sono le parole di Netanyahu per almeno due motivi. Il primo riguarda il crimine della Shoah. Le ricerche condotte negli ultimi anni mostrano che sin dall’inizio i nazisti non pensavano a una espulsione miravano invece allo sterminio degli ebrei d’Europa. Temevano la "nazione ebraica". Basterebbe leggere Mein Kampf. Ma c’è di più: ormai è sempre più chiaro che il nazismo hitleriano è stato il primo rimodellamento bio-politico del pianeta. Sta qui la sua peculiarità - anche rispetto ad altri genocidi. In questo progetto politico non era previsto più nessun luogo per gli ebrei. Con le sue parole Netanyahu mostra di non aver compreso, o di non voler comprendere, che cosa ha significato Auschwitz. E non basterà chiedere scusa ai sopravvissuti, ai parenti delle vittime, e a tutti gli ebrei costernati oggi dopo questa patetica, importuna e deplorevole boutade del premier. Il secondo motivo riguarda l’abuso della Shoah in un discorso pubblico per acquisire consensi. È forse proprio questo che offende e irrita di più. Perché ci si poteva attendere da altri un disinvolto e bieco cinismo, che pure ogni giorno si tenta di contrastare. Non certo dal primo ministro dello Stato di Israele. "Migranti detenuti in condizioni disumane", l’Onu striglia la Repubblica Ceca di Andrea Barolini lifegate.it, 23 ottobre 2015 Secondo l’Alto Commissariato dell’Onu per i Rifugiati, i migranti sono detenuti nel Paese europeo in condizioni simili a quelle di prigionieri. La Repubblica Ceca ha detenuto "sistematicamente, in condizioni degradanti" i migranti e i profughi arrivati sul proprio territorio. La denuncia arriva dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr), che in un comunicato pubblicato il 22 ottobre ha spiegato come la situazione risulti particolarmente preoccupante soprattutto per quanto riguarda i bambini. "Le violazioni dei diritti umani sui migranti - ha dichiarato l’Alto commissario, Zeid Ràad Al Hussein - non sono isolate né frutto del caso, bensì sistematiche. Sembrano essere parte integrante delle politiche attuate dal governo ceco al fine di scoraggiare l’ingresso e il soggiorno nel Paese". Secondo il responsabile dell’organismo delle Nazioni Unite, infatti, lo Stato europeo è il solo tra quelli considerati "di transito" a sottomettere "in modo regolare i migranti ad un periodo di detenzione di quaranta giorni, che a volte può diventare di novanta". Benché non si tratti della prima volta che l’Onu interviene sulla questione dei migranti, quello di Zeid rappresenta il primo attacco diretto ad un singolo governo. Effettuato, tra l’altro, con particolare veemenza: "La legge internazionale - prosegue il dirigente - è molto chiara in materia di restrizione della libertà personale per i migranti: essa deve rappresentare un’extrema ratio, in particolare per i minorenni. Non a caso, il Comitato Onu per i Diritti dei bambini ha sottolineato che la loro detenzione, basata unicamente sul loro status, non è giustificabile". A preoccupare sono soprattutto le condizioni del centro di Bila-Jevoza, circa ottanta chilometri a Nord di Praga, descritto dallo stesso ministro della Giustizia ceco come "peggiore di una prigione". Al suo interno - secondo quanto riportato dall’agenzia Afp - la mediatrice ufficiale del governo, Anna Sabatova, ha constatato la presenza di un centinaio di bambini (le cifre sono state indicate in un rapporto pubblicato lo scorso 13 ottobre). Nello stesso documento, si parla anche di migranti privati dei loro telefoni cellulari e posti nelle condizioni di non poter comunicare con i loro familiari. Zeid denuncia addirittura perquisizioni sistematiche finalizzate alla confisca dell’equivalente di circa 10 euro, al giorno, a testa: una somma che costituirebbe il "pagamento" per il loro soggiorno (involontario) a Bila-Jevoza. "Si tratta - ha concluso l’Alto commissario - di informazioni credibili, e di fatti particolarmente deprecabili". Droghe potentissime pronte sul web, l’eroina e la cocaina ormai rappresentano il passato di Goffredo Pistelli Italia Oggi, 23 ottobre 2015 Per acquistarle bastano pochi clic e 100 euro. Lo denuncia il tossicologo Carlo Locatelli "Vede? Sembrano aziende chimiche vere". Carlo Locatelli, milanese, classe 1956, anestesista e tossicologo, ci mostra, sul pc del suo studio, un bel sito internet di una società inglese: colorato in bianco e verde, dall’aspetto molto trendy. Offre Mexedrone in stock, specificando poco dopo, "che è l’unico catinone legale nel Regno Unito". Dieci grammi in cristalli, costano solo ottanta sterline, un po’ meno di 100 euro. "Con pochi clic lei compra e le arriva tutto a domicilio", dice. Solo che il Mexedrone non serve per produrre farmaci artigianali o a giocare al Piccolo chimico: è una droga sintetica potentissima, assimilabile alla cocaina. Locatelli dirige il Centro Antiveleni e Centro Nazionale di Informazione Tossicologia della Fondazione Maugeri di Pavia, struttura di riferimento per i pronto soccorso e i reparti di tossicologia d’Italia. Qui, ogni giorno, 24 ore su 24, si offre assistenza per diagnosticare e curare le intossicazioni e gli avvelenamenti più complessi. Domanda. Comprano i cristalli tagliarli, lavorarli e quindi rivenderli? Risposta. No, quei cristalli sono pronti all’uso. Li fumano, li sciolgono nell’acqua e li assumono. Semplicissimo, no? D. Che cosa fate qui alla Maugeri, Locatelli? R. Ci occupiamo del coordinamento nazionale a livello clinico del Sistema nazionale di allerta precoce. Quando identifichiamo un’intossicazione, Pavia o a Palermo, o a Bolzano, la gestiamo per gli aspetti di diagnosi e trattamento e poi la "reclutiamo". D. Ossia? R. Ci facciamo inviare campioni di sangue, attraverso i quali, con l’aiuto del Policlinico San Matteo, identifichiamo la molecola, escludendone altre. Quindi la refertiamo e inviamo il nostro rapporto al dipartimento Politiche antidroga della presidenza del Consiglio, che la trasmette al Consiglio Superiore di Sanità, per la validazione. D. E che fa il Css? R. Analizza la nostra documentazione, insieme a quella dell’Istituto superiore di sanità, e dà il via libera all’inserimento di quella sostanza nella Tabella delle sostanze stupefacenti e psicotrope, che avviene tramite un’ordinanza del ministero della Salute e quindi in Gazzetta Ufficiale. Sa quante nuove molecole sono state individuate negli ultimi cinque anni? D. Non ne ho idea. R. Cinquecentosettanta, più di 100 solo nel 2014. Una marcia inarrestabile. E finché le sostanze non sono definite come illegali, il commercio non è neppure perseguibile. Su Internet le troverà in vendita camuffate anche da sali da bagno, da incensi, profumanti ambientali o anche da fertilizzanti. D. Fertilizzanti? R. Sì, e nella scheda-prodotto potrà leggere il dosaggio per "un bonsai di 70 chili". D. Un po’ cresciuto, in effetti, per essere un albero nano. Che cosa significa essere bombardati ogni anno di queste nuove droghe? R. Significa avere a che fare con un fenomeno nuovo e sfuggente, profondamente diverso dalla tossicodipendenza degli anni 70 e 80 a cui eravamo abituati, quella da eroina, ma anche da quella degli anni 90 e 2000, tipicamente centrata sulla cocaina. D. Vale a dire? R. Non siamo in presenza di abusatori cronici, che dipendono dalla solita sostanza e che trattavamo presso i Servizi per le tossicodipendenze - SeR.T. delle Asl o presso le comunità terapeutiche. Oggi ci troviamo ad avere a che fare con soggetti che cambiano sostanza ogni due settimane o ogni mese, e che, forse per questo, erroneamente, non si sentono affatto tossicomani. D. Eppure queste sostanze fanno male e danno dipendenza. R. Certamente, ma hanno un impatto sociale più basso, in apparenza. D. Che significa? R. Significa che, avendo costi accessibili, chi ne abusa non è costretto a delinquere per procurarsi i soldi necessari. E c’è un altro aspetto. D. Quale? R. Chi le assuma, spesso non lo fa solo per sballare, per stordirsi, anche se ci sono sostanze che servono a questo. No, queste droghe vengono usate anche per essere più performanti, per guidare un camion tutta una notte, per lavorare 15 ore di fila, per viaggiare tanto, per affrontare una presentazione o una riunione importanti. D. E quindi, indovino, non c’è neppure uno scrupolo di coscienza: è tutto fatto per qualche scopo nobile. R. Esatto. Ciò comporta che però, fra 10-15 anni, al posto degli attuali SeR.T., dove troviamo gli ultimi ex-eroinomani che vengono trattati col metadone nella terapia sostitutiva, avremo un sacco di psicotici, perché i danni cerebrali dell’uso continuativo delle droghe sintetiche sono documentati. D. Intanto queste persone sono pericolose a sé e agli altri. R. Certo, a sé perché i danni sulla salute sono all’ordine del giorno, infarti e psicosi soprattutto. E perché l’alterazione dei sensi, quindi la sottovalutazione dei pericoli, possono essere devastanti alla guida. D. Come ci si accorge di questi nuovi tossicodipendenti, dottore? R. È molto difficile, ci vogliono esami approfonditi, spesso anche dopo un incidente stradale, l’abuso di queste sostanze può sfuggire. D. Ma come? E i test? R. I test attuali cercano nelle urine gli oppioidi, come l’eroina e la cocaina, le anfetamine, marjuana, e solo in alcuni casi l’ecstasy. D. E le 570 sostanze di abuso? R. No, quelle no. Ora il Codice della strada dice che vanno cercate le sostanze d’abuso appunto. Non quali. Quindi uno che vada in discoteca, sballi tutta la notte coi catinoni, come il Mdpv, il 4mec o il methyolone, e provochi un incidente mortale, la farà franca. Se capiterà a uno che abbia assunto cocaina, fumato un spinello o bevuto più del solito, finirà a processo e verrà condannato. D. Con tutto le polemiche che si fanno per introdurre il reato di omicidio stradale, quello che lei racconta è paradossale. R. Eppure è così: ritireremo la patente e condanneremo una persona che avesse un’alcolemia di 0,51 grammi o tracce di tetraidrocannabinolo, uno dei principi attivi della cannabis, che, essendo resistente potrebbe essere assunto tempo addietro, e non essere stato attivo al momento dell’incidente, mentre... D. Mentre? R. Mentre uno che avesse assunto sostanze molto più pesanti e in prossimità del fatto, riuscirà indenne. D. Un bel problema, a partire dal fatto che, così, la legge non è uguale per tutti. Che si può fare? R. Adeguare il più rapidamente possibile le nostre ricerche cliniche e di laboratorio. E come se curassimo le fratture al femore come lo facevamo 30 anni fa, quando immobilizzavamo i pazienti con gessi "da mummia" e li ricoveravamo per giorni e giorni: ora li operiamo in endoscopia, non li ingessiamo, li teniamo in ospedale il minimo. D. C’è qualcuno che fa qualcosa? R. Come Società italiana di Tossicologia, di cui sono past president, abbiamo fatto un convegno a settembre all’Università di Pavia. D. E che cosa avete detto? R. Abbiamo messo assieme medici legali, d’urgenza, laboratoristi, tossicologi e anche un magistrato, cominciando ad analizzare lo stato dell’arte: che cosa si fa nei nostri ospedali. D. Che cosa è emerso? R. Un’immagine a macchia di leopardo: nella stessa regione, cambiano comportamenti procedure. Porteremo i dati alle istituzioni, perché si possa agire. Brasile: sì a estradizione Scotti, ex camorrista; la denuncia: "Pizzolato merce di scambio" di Michela Scacchioli La Repubblica, 23 ottobre 2015 L’ex luogotenente di Cutolo arrestato a Recife dopo 31 anni di latitanza sarà consegnato all’Italia con riduzione di pena. Ma i senatori Manconi e Guerra sottolineano la concomitanza e parlano di "esito scritto": l’ex manager del Banco do Brasil detenuto nel carcere di Modena "pronto a essere trasferito nel degrado della prigione di Papuda". "Bastava saperlo, che Henrique Pizzolato rappresentava la merce di scambio per ottenere l’estradizione in Italia di Pasquale Scotti, già esponente della Nuova camorra organizzata di Raffaele Cutolo". La denuncia arriva dai senatori del Pd, Luigi Manconi e Maria Cecilia Guerra - che a questo punto parlano di "esito scritto" - all’indomani della decisione presa dal Supremo tribunale federale brasiliano. Proprio ieri, infatti, l’Stf (l’equivalente della Corte costituzionale italiana) ha autorizzato l’estradizione dell’ex camorrista Scotti, sposato e padre di due bambini, arrestato lo scorso maggio a Recife, nel nordest del Paese sudamericano, dopo una latitanza durata quasi 31 anni. Relatore del caso, il giudice della Corte suprema, Luiz Fux, il quale dopo aver affermato che l’estradizione si inquadra nel trattato firmato tra Brasile e Italia, ha sottolineato che gli omicidi di cui Scotti è accusato, e per i quali è stato condannato a diversi ergastoli, rientrano tra i reati comuni. Il giudice ha quindi condizionato l’estradizione alla riduzione della pena a 30 anni. Tuttavia, nelle stesse ore in cui si decideva la consegna all’Italia dell’ex luogotenente di Cutolo (una volta rientrato, Scotti potrebbe anche decidere di collaborare e rinegoziare la propria condanna, svelando scenari sugli anni della trattativa tra Stato e camorra), secondo alcuni media brasiliani il nostro Paese stabiliva che il banchiere italo-brasiliano Henrique Pizzolato sarebbe stato estradato in Brasile dal carcere di Modena, dove è recluso dal febbrario 2014. I tempi? A partire da oggi ogni giorno è buono. In base alle informazioni della stampa locale, infatti, agenti della polizia federale brasiliana sono già a Roma in attesa della consegna dell’uomo. Pizzolato è stato condannato in Brasile a 12 anni e 7 mesi di detenzione per corruzione e riciclaggio nel processo sul cosiddetto "scandalo Mensalao", la Tangentopoli scoppiata nel Paese sudamericano nel 2005. La concomitanza tra le due decisioni non è sfuggita a Manconi e Guerra che insistono: "Il 21 ottobre la pronuncia a favore dell’estradizione in Italia di Scotti. A partire dal giorno successivo, Pizzolato può essere inviato in Brasile. Potremmo definirlo uno scambio ineguale e siamo costretti a ribadire che la sorte dell’italiano Pizzolato nel circuito penitenziario brasiliano, uno dei peggiori al mondo, è sottoposta a gravissimi rischi. Bastava dirlo - proseguono i parlamentari - e si sarebbe risparmiata la mobilitazione, drammaticamente rivelatasi vana, di tante brave persone e di tanti uomini e donne di buona volontà. E si sarebbero risparmiate le petizioni, le interrogazioni, le interlocuzioni con autorità grandi e piccole. Ci saremmo messi l’animo in pace. - aggiungono - senza dare immeritato credito alle parole provenienti da alte autorità italiane sulle incrollabili garanzie a tutela di Pizzolato e dei suoi diritti e sul fatto che si sarebbe deciso senza alcuna fretta. Lo si è visto". Pizzolato è titolare di una doppia cittadinanza, italiana e brasiliana. Secondo Manconi "proprio questa circostanza - lungi dall’assicurargli una garanzia - rischia di trasformarsi in un pesante svantaggio. Infatti, tra i due Paesi è in discussione, da tempo, un trattato che mira proprio a consentire una simile soluzione, in base alla scelta del diretto interessato (cioè il condannato). L’Italia ha già sottoscritto quell’accordo da molti mesi, il Brasile tarda a farlo proprio perché non vuole che Pizzolato possa godere di quel diritto. E, tuttavia, si tratta di una tutela irrinunciabile, considerato che le carceri brasiliane vengono ritenute - nella classifica internazionale dell’orrore e dell’iniquità - tra le peggiori". Una volta in Brasile, l’ex direttore marketing del Banco do Brasil sarà rinchiuso con tutta probabilità nell’ala dei vulnerabili della prigione di Papuda. Vale a dire, una condizione detentiva - dice ancora Manconi - maggiormente tutelata ma provvisoria: dal giugno 2016 Pizzolato dovrà essere trasferito, fino al termine della pena, nell’ordinario ambiente carcerario, dove domina "il degrado umano" e "uomini e donne sono trattati come rifiuti, senza dignità, senza diritto alle regole igienico-sanitarie di base, senza difesa, senza le visite dei magistrati" (secondo la testimonianza di un parlamentare brasiliano). Soltanto ieri è stata la moglie di Pizzolato, Andrea Haas, a rivolgere un appello - pubblicato dal Manifesto - al ministro della Giustizia, Andrea Orlando. Nella lettera, la donna ricorda che lo scorso anno soltanto la Corte d’Appello di Bologna si è espressa negando l’estradizione e dice: "Non posso trattenermi dall’affermare che l’Italia, accettando le "prove" del governo del Brasile, sta supportando le autorità brasiliane nella loro connivente cecità di fronte al caos in cui versa il sistema penitenziario brasiliano". Poi, dopo aver ricordato le "perquisizioni intime" a cui sono sottoposte anche le visitatrici nel carcere di Papuda, chiosa: "Dal momento che, in ultimo, la decisione dell’estradizione è una decisione politica, ovvero una sua decisione, spero che anche alla luce di queste mie ‘angoscè lei possa riflettere bene sulle conseguenze che l’estradizione di mio marito avrà sulle nostre vite". Norvegia: detenuti e diritti, prendiamo esempio dal carcere di Halden di Tania Rizzo* L’Opinione, 23 ottobre 2015 Si è tenuto nell’Aula Magna della Corte di Appello di Palermo, lunedì scorso, un importante incontro sul tema carcere, organizzato dai Colleghi palermitani dell’Associazione Italiana Giovani Avvocati (Aiga). È stato un momento di confronto e dibattito tecnico e culturale con giornalisti, avvocati, magistrati e dirigenti di P.A. sulla realtà che vivono i detenuti nelle carceri italiane e, al netto della buona volontà che difficilmente difetta tra coloro che operano nel "mondo carcere", non è stato possibile ravvisare aspetti positivi. La situazione carceraria italiana com’è oggi, purtroppo, si sviluppa a causa di un’incessante attività politica basata, però, sulle urgenze legislative e sui mal di pancia dei cittadini; passa, poi, da una burocratizzazione per l’applicazione dei diritti civili essenziali, di solito violati; si determina, infine, sull’attività di volontariato che non sempre, come fisiologico che sia, è improntata alla preparazione psicologica e/o giuridica necessaria per affrontare e risolvere tutte le questioni che possono scaturire da coloro che si trovano ristretti. Eppure, il carcere è una realtà di esseri umani, con volti, nomi, una storia e un futuro, detenuti o in attesa di giudizio, ed anche operatori di polizia penitenziaria, educatori (oggi c.d. funzionari area psico-pedagogica), funzionari dell’area amministrativa, sacerdoti, medici, infermieri. Un mondo vivo del quale, tuttavia, si vuole parlare pubblicamente solo per invocare maggiore sicurezza e ferrea risposta sanzionatoria contro i responsabili di quello o di quell’altro reato. Appena l’altro ieri, proprio su questa testata, l’ottima Barbara Alessandrini denunciava pubblicamente per ciascun detenuto suicida o morto per cause ancora da accertare i nomi, gli anni, i paesi di provenienza. Questo incancrenirsi d’insofferenza annosa e mista a problemi strutturali e nomativi crea, inevitabilmente, il peggioramento di tutto il sistema che non riguarda, però, a guardare bene, solo i detenuti e le loro famiglie ma riguarda i diritti civili di ciascuno di noi. Lasciare che si vìolino i diritti fondamentali, come, per esempio, il diritto alla salute di una persona ristretta all’interno di uno spazio gestito dallo Stato e che, proprio per tale motivo, dovrebbe essere ancor più sottoposta a controlli, visite, cure ed assistenza, non peggiora, forse, la prestazione sanitaria pubblica che interessa tutti noi? Dimenticare che anche chi è in carcere possa, ed anzi, essere correttamente istruito, non rende meno efficace e capillare la bontà dell’istruzione pubblica? E cosa dire, poi, del potenziale lavorativo e reddituale onesto, lecito, al servizio della società che questi soggetti potrebbero esprimere, solo che si favorisse la loro capacità, la loro volontà di apprendere un lavoro e di diventare, o ritornare ad essere, soggetti capaci di far camminare onestamente la nostra società? Il carcere com’è oggi, quindi, risulta essere principalmente un gravissimo problema di carenza di cultura sociale, di diritti civili e della loro irrinunciabilità; problema che è sfuggito di mano a politici, medici, legislatori, insegnanti, magistrati, avvocati, giornalisti, scrittori, ecc. ecc., tutti parimenti responsabili dell’abdicazione del diritto sacrosanto di conoscere ed insegnare i nostri diritti civili, che tutti possediamo dalla nascita ma che non si possono perdere, se non nella forma e nei limiti che la legge può imporre. La legge, in effetti, può imporre la privazione della libertà di movimento (sanzione detentiva o misura cautelare custodiale) ma non anche la privazione dei diritti alla salute, all’istruzione, al lavoro, alla famiglia, alla sessualità, alla religione, all’informazione, se non quando espressamente limitati per particolari tipologie di reati e per un lasso di tempo specifico. Allora, forse, si dovrebbe riprendere l’insegnamento sin dalle scuole elementari dell’educazione civica, falcidiata con una delle mille pessime riforme scolastiche. E, auspicando che questo nuovo passo culturale sull’insegnamento die diritti civili diventi il nostro futuro più prossimo, potrebbe aiutarci verso la civilizzazione della Giustizia penale e del carcere italiano, anche il seguire modelli virtuosi come, per esempio, quello del carcere di Halden, in Norvegia, dove si applica, dal 2010, la cosiddetta sicurezza dinamica che è una differente impostazione del rapporto fra operatori di sicurezza (polizia penitenziaria) e persone detenute. In questo istituto penitenziario, infatti, gli agenti, di polizia vengono debitamente formati per svolgere attività in relazione costante e diretta con le persone sottoposte a pena detentiva, sollecitandole giornalmente a "sfruttare" in modo positivo la permanenza in carcere, studiando, lavorando, producendo anche reddito onesto, con un’incidenza finale di recidivanza pari quasi a zero ed una qualità della vita degli stessi poliziotti, delle loro famiglie e dell’intera società decisamente ottimale. D’altronde, anche in Italia si tratterebbe solo di dare reale applicazione al concetto costituzionale di rieducazione e risocializzazione che pure è impartito alla polizia penitenziaria italiana, ai dirigenti amministrativi, ai magistrati, ai giornalisti ed agli avvocati durante la loro formazione professionale; il tutto, con spesa per i cittadini pari a zero ma con un ritorno di elevazione culturale e sociale senza limiti. (*) Coordinatore regionale Puglia dei Giovani Avvocati di A.I.G.A. Stati Uniti: Homan Square, il centro segreto di detenzione della polizia di Chicago Il Post, 23 ottobre 2015 Si chiama Homan Square, racconta un’inchiesta del Guardian, e a chi ci finisce - per lo più neri accusati di reati minori - non viene permesso di vedere un avvocato o avvisare qualcuno. Il Guardian ha pubblicato una lunga inchiesta su Homan Square, una zona di Chicago dove si trova un grande edificio usato dalla polizia della città come centro per la detenzione e gli interrogatori di persone accusate di vari reati. Secondo il Guardian - che si occupa della storia dall’inizio del 2015 - negli Stati Uniti il centro di Homan Square è l’equivalente interno agli Stati Uniti dei centri di detenzione illegali della Cia nel mondo: l’inchiesta ha scoperto che la stragrande maggioranza delle persone che sono state detenute a Homan Square non hanno mai avuto la possibilità di contattare i propri famigliari e i propri avvocati, e che la struttura è gestita segretamente da unità speciali della polizia cittadina. Al suo interno, sostiene il Guardian, sono state commesse negli ultimi 11 anni ripetute violazioni dei diritti costituzionali, soprattutto sui cittadini neri. Il Guardian ha iniziato l’inchiesta prima di riuscire a ottenere dal dipartimento di polizia di Chicago i documenti su Homan Square. La sua richiesta di visionarli sulla base del Freedom of Information Act - la legge sulla libertà di informazione del 1966 che autorizza l’accesso agli archivi di stato e ad altri documenti riservati da parte dei giornalisti - era stata rifiutata e il Guardian aveva deciso di iniziare un’azione legale grazie alla quale ha infine ottenuto la documentazione. Il Guardian ha però specificato di non avere ottenuto tutti i documenti, e molte informazioni e dati rimangono ancora oggi riservati. I detenuti che non esistono. Nella sua ultima inchiesta, il Guardian ha scritto che più di 7mila persone fermate dalla polizia sono "scomparse" nell’edificio di Homan Square dall’agosto del 2004 al giugno 2015: nel periodo di detenzione il loro nome non risultava in alcun registro pubblico della polizia di Chicago e la loro condizione non veniva notificata né alla famiglia né al loro avvocato. Secondo i documenti interni della polizia, dei 7mila detenuti nella struttura solo a 68 è stato permesso di contattare un avvocato o di comunicare la loro condizione a famigliari o amici. Alcuni avvocati contattati dal Guardian e assunti da persone detenute nella struttura hanno descritto Homan Square come un "find-your-client game", ovvero un posto dove è molto difficile trovare e mettersi in contatto con un cliente. David Gaeger, un avvocato il cui cliente è stato detenuto a Homan Square nel 2011, ha detto: "Quel posto era ed è spaventoso. È un posto spaventoso. Non c’è niente che lo faccia assomigliare a una centrale di polizia. È come se uscisse fuori da un film di James Bond, o qualcosa di simile". Gaeger ha detto anche al Guardian: "Prova a trovare un numero di telefono di Homan per vedere se c’è qualcuno lì dentro. Non ci riesci, mai". Demografia e reati di chi è stato detenuto a Homan Square. Il Guardian ha scritto che i dati sulle persone detenute a Homan Square mostrano una sproporzione molto forte tra i bianchi e i neri. L’82,2 per cento dei detenuti negli ultimi 11 anni sono stati neri: una percentuale molto alta se si considera che la popolazione nera di Chicago è il 32,9 per cento di quella totale. L’11,8 per cento sono stati ispanici (gli ispanici a Chicago sono il 28,9 per cento della popolazione), mentre solo il 5,5 sono stati bianchi (i bianchi a Chicago sono il 31,7 per cento della popolazione). Un altro dato sorprendente è che la struttura di Homan Square non ospita e interroga i più violenti criminali di Chicago, come si potrebbe pensare: il 74,9 per cento dei detenuti è stato accusato di possesso di droga. I dati raccolti dal Guardian non sono però completi: la polizia di Chicago non ha diffuso quelli precedenti al settembre del 2004 - sostenendo che quelle informazioni sarebbero state troppo difficili da produrre, vista la mancanza di un archivio digitale precedente a quell’anno - e nemmeno quelli relativi a coloro che sono stati detenuti e poi mai incriminati formalmente. Storie di detenuti a Homan Square. Nel maggio 2007 una donna identificata dal Guardian con il nome di Chevoughn fu detenuta a Homan Square con l’accusa di essere coinvolta in un furto. Secondo i documenti dati al Guardian dalla polizia di Chicago, gli agenti permisero a Chevoughn di vedere un avvocato. Chevoughn ha sempre negato che fosse successo: "Rimasi lì per molto tempo, forse otto o dieci ore", ha raccontato Chevoughn dicendo di essere rimasta "pietrificata" in particolare quando la polizia la interrogò in quella che lei chiama una "gabbia". A maggio il Guardian ha raccontato la storia di Angel Perez, che il 21 ottobre 2012 fu fermato per strada dalla polizia e poi portato a Homan Square. Spencer Ackerman, il giornalista del Guardian che si è occupato delle inchieste su Homan Square, ha scritto che la polizia voleva che Perez collaborasse nel contattare un trafficante di droga che gli agenti pensavano che lui conoscesse. Perez si rifiutò di collaborare: il suo polso destro fu ammanettato a una sbarra metallica in una stanza degli interrogatori al secondo piano di Homan Square. Prima gli fu detto che se non avesse collaborato sarebbe stato mandato alla prigione della contea di Cook - la contea dell’Illinois a cui appartiene anche Chicago - conosciuta per le sue violenze. Poi due agenti lo fecero piegare in avanti e inserirono un oggetto metallico nel suo retto. Cosa dice la polizia di Chicago su Homan Square. La polizia di Chicago ha descritto la struttura a Homan Square come un centro che si occupa di crimini non particolarmente gravi legati alla droga. Secondo il Guardian, circa il 65 per cento degli arresti documentati a Homan Square dal 2004 ad oggi sono avvenuti negli ultimi anni, da quando il democratico Rahm Emanuel - ex capo di gabinetto della Casa Bianca sotto l’amministrazione di Barack Obama - fu eletto sindaco di Chicago, nel maggio del 2011. Emanuel ha detto che a Homan Square la polizia "segue tutte le regole", un’affermazione che però contraddice diverse testimonianze di ex detenuti e avvocati raccolte nell’ultimo anno dal Guardian. In particolare la polizia è tenuta a registrare l’arresto di una persona accusata di un crimine e "deve permettere all’arrestato di poter telefonare a un avvocato, un famigliare o un amico", normalmente nel giro di un’ora dalla sua detenzione. Dalla pubblicazione della prima inchiesta del Guardian, sono state avviate tre azioni legali contro alcuni agenti della polizia di Chicago per violazioni commesse all’interno di Homan Square. L’ultima è stata avviata il 19 ottobre contro sei agenti accusati di "usare tattiche coercitive e di tortura anticostituzionali". Il portavoce della polizia di Chicago non ha ancora risposto alla richiesta di commento fatta dal Guardian, ma il dipartimento ha diffuso una scheda informativa in cui dice: "L’accusa che la violenza fisica sia parte degli interrogatori ai sospettati è inequivocabilmente falsa, è offensiva e non è sostenuta da alcun tipo di prove". Svizzera: ufficio federale giustizia "detenuti svizzeri non possono scontare pena all’estero" gdp.ch, 23 ottobre 2015 I cantoni non possono inviare i loro carcerati all’estero a scontare la pena, come chiesto da più parti in Romandia. È la conclusione alla quale giunge un rapporto dell’Ufficio federale di giustizia (Ufg). I contenuti del documento saranno resi pubblici questa sera dalla trasmissione "10 vor 10", della televisione svizzero-tedesca Srf. La Conferenza dei direttori cantonali di giustizia e polizia (Cddgp) aveva chiesto in gennaio alla Confederazione di chiarire il quadro giuridico della questione. Secondo il rapporto dell’Ufg in caso di esecuzione della pena all’estero non verrebbero garantiti i diritti fondamentali dei detenuti. Interrogato dall’ats, Blaise Péquignot, segretario generale della Conferenza latina dei capi dei dipartimenti di giustizia e polizia (Cldjp), conferma questo aspetto del rapporto, ma afferma di non essere convinto dalle argomentazioni dell’Ufg. La Norvegia e il Belgio "esportano" attualmente prigionieri in Olanda in base a convenzioni che garantiscono i diritti dei prigionieri, fa notare, "ma il rapporto non studia queste due convenzioni dal punto di vista svizzero". La Conferenza latina si riunirà a fine ottobre per decidere se proseguire le sue valutazioni in questo ambito o abbandonare l’idea. Fra i Paesi che sono stati presi in considerazione figurano la Francia e la Germania, ma non è ancora stata presentata una domanda formale. In Svizzera tedesca il progetto è stato abbandonato in seguito a questo rapporto, precisa la Cddgp.