Tavolo quattro: Minorità sociale, vulnerabilità, dipendenze di Carmelo Musumeci Ristretti Orizzonti, 22 ottobre 2015 Riflessioni di un ergastolano sugli Stati Generali dell’Esecuzione Penale. Per questo Tavolo ho pensato di dare queste brevi testimonianze prese dal mio diario personale, che scrivo da tanti anni per far sapere al di là dal muro di cinta cosa accade nell’inferno delle nostre "Patrie Galere". - Oggi un compagno si è tagliato le vene. Tutto quel sangue mi ha impressionato. La limitatezza e la fragilità della natura umana in carcere è come uno specchio e ti senti emotivamente coinvolto. Insomma non è come vedere la sofferenza in televisione, è tutto molto più brutto, più vero, più crudele. Molti detenuti in carcere si fanno male perché non hanno altri modi per farsi ascoltare. - Accanto alla mia cella c’è un albanese, subito dopo un algerino ed ancora appresso un marocchino. Iniziano dalla mattina fino alla sera a bisticciarsi fra di loro con urla e schiamazzi. Sbattono i blindati, continuano a chiamare la guardia, ad ogni persona che passa domandano una sigaretta e s’imbottiscono di terapia. Fanno tanto di quel rumore che non riesco a studiare e mi fanno così partecipare ai loro problemi. Tento di tenerli calmi, ho comprato loro del tabacco, a uno ho scritto una lettera ad una presunta fidanzata italiana e a un altro ho scritto all’avvocato… ma soprattutto penso che questi detenuti hanno bisogno di attenzione e non credo che il carcere sia il posto migliore per loro. Credo che usciranno dei rottami peggio di quando sono entrati. La maggioranza delle guardie sembra come quei macellai che ormai non s’impressionano più alla vista del sangue, si arruolano soprattutto per avere un posto di lavoro, non credo abbiano preparazione ed istruzione adatte per gestire questo tipo di detenuti difficili. E così anche quelle poche guardie che hanno un po’ di umanità finiscono per perderla. Sinceramente vi sono dei momenti della giornata che non riesco a dare torto alle guardie perché capitano dei detenuti veramente difficili. Ma la colpa è del sistema sbagliato, molti di questi detenuti non dovrebbero stare in carcere ma altrove, in qualche comunità o ospedale psichiatrico con persone che si occupano di loro che hanno una laurea e gli strumenti adatti, e non in mano alla polizia penitenziaria che più di tenerli chiusi in una gabbia non può fare. Molti di questi detenuti stanno chiusi 24 ore su 24, molti di loro non vanno neppure all’aria, vengono imbottiti di psicofarmaci dalla mattina alla sera, elemosinano sigarette, si nutrono a malapena, il loro passatempo principale è urlare, chiamare la guardia, l’infermiere, spaccare la cella. Eppure la colpa maggiore non è la loro ma della politica, perché soprattutto i detenuti di questo tipo non dovrebbero stare chiuso tutto il giorno in cella, dovrebbero lavorare, svolgere attività sportiva e studiare per capire i loro problemi ed il perché sono entrati in carcere. Molti di loro, incredibilmente con l’aiuto dei mass media, sono convinti di essere persino dei delinquenti, invece a mio parere sono solo delle vittime. E chissà per ogni vecchietta che hanno scippato cosa ha fatto la nostra società prima a loro. Insomma più che guardie questi detenuti hanno bisogno di educatori, psicologi, criminologi. Se per curare dei malati fisici ci vuole un dottore in medicina, non si può pretendere di curare questo tipo di detenuti con una divisa ed una chiave in mano. - Ho di fronte a me un compagno che assume 4 volte al giorno la terapia, mi dispiace, l’ho consigliato di smettere o, al limite, di diminuire piano piano. Ha problemi psicologici ed è un isolato volontario, la cosa strana è che è iscritto alla facoltà di Scienze Giuridiche di Sassari ed è al suo primo esame, quindi appena posso gli mando tutti i miei libri e gli appunti degli esami che ho già sostenuto. Mi ha fatto sorridere perché mi ha chiesto se rimango con lui in isolamento per studiare insieme. - L’altro giorno un turco mi ha chiesto un bollo prioritario, con relativa busta e foglio, perché gli era morto il padre, cosa che ovviamente gli ho fornito. Oggi mi ha chiesto la stessa cosa, ma con una scusa differente, che stava male la madre. La cosa mi ha fatto sorridere e mi sono sentito sollevato pensando che anche la scusa dall’altra volta non era vera e che il padre probabilmente è ancora vivo e vegeto. Gli ho spiegato che non c’è bisogno che muoia qualcuno per chiedermi un bollo da lettera. - C’è un travestito in sezione che canta dalla mattina alla sera e tutti si arrabbiano e gli dicono parolacce, a me sinceramente non dà fastidio, ha una bella voce femminile e canta bene. Giustizia: il Csm stringe le maglie sui magistrati in politica di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 22 ottobre 2015 L’amministrazione finanziaria non può opporsi se i giudici penali negano il sequestro dei beni di un gruppo di imputati rinviati a giudizio per il reato di associazione a delinquere finalizzata alla commissione di reati tributari. Neppure facendo appello alla direttiva comunitaria che prevede il diritto della vittima a ottenere un risarcimento da parte dell’autore del reato. Lo stabilisce la Corte di cassazione con la sentenza n. 42230 depositata ieri. La pronuncia conferma così la sentenza del tribunale che aveva negato, bollandolo di inammissibilità, l’istanza di riesame proposta da ministero dell’Economia e Agenzia delle entrate, in quanto parti civili nel procedimento penale. Tra i motivi di ricorso fatti propri dall’amministrazione finanziaria centrale la (asserita) mancanza di tutela cautelare piena a volere seguire l’orientamento del tribunale, perché i crediti vantati dal Fisco e dipendenti dalla commissione di reati tributari non sarebbero azionabili, neppure in fase cautelare, in sede civile: resterebbe aperta solo la via della giurisdizione tributaria con tutti i limiti del caso. A corroborare le sue tesi il Fisco chiama in causa anche la direttiva Ue n. 2012/29 sui diritti delle vittime da reato. La Cassazione però non ha considerato convincenti le tesi difensive e ha fatto notare innanzitutto come l’articolo 325 del Codice di procedura penale esclude la parte civile dai soggetti che possono presentare ricorso contro le decisioni sui provvedimenti cautelari (vi rientrano invece il Pm l’imputato, chi ha subìto il sequestro e chi si presume abbia diritto alla restituzione di quanto sequestrato). È vero che la norma prende in considerazione il ricorso in Cassazione, ma logica vuole che la medesima impostazione debba valere anche per l’impugnazione del provvedimento base che ha un contenuto sfavorevole per la parte civile. Viene compresso in questo modo il diritto di agire in giudizio della parte danneggiata dal reato? No, sostiene la Cassazione perché alla parte civile è comunque permesso, revocando la propria costituzione nel giudizio penale, di rimettere in gioco la sua pretesa, anche sul fronte cautelare, davanti al giudice civile. Non poi un peso particolare il fatto che in questo caso la parte civile sia rappresentata dall’amministrazione finanziaria. Anzi, a disposizione del Fisco ci sono strumenti che rafforzano la sua posizione di vantaggio sulla conservazione dei mezzi per la soddisfazione del credito di diritto pubblico che nasce anche da forme di evasione rilevanti sul piano penale. E questo anche se l’Erario aveva ricordato l’impossibilità di azionare l’articolo 22 del decreto legislativo n. 472/97 visto che, nel caso in questione, il credito nasce dalla violazione dell’articolo 416 Codice penale sull’associazione criminale che si pone come esterno rispetto all’avviso di accertamento contestato. Anche la leva comunitaria non fa presa sulla Cassazione. Per due, una di ordine formale e l’altra invece sostanziale. La prima consiste nel fatto che la direttiva sulla protezione delle vittime da reato non è ancora stata tradotta nel nostro ordinamento: il Governo ha tempo per recepirla sino al 16 novembre del 2016. E poi, se anche la direttiva fosse trasposta anche nel nostro ordinamento, bisognerebbe tenere conto che, stando al testo stesso della direttiva, per vittima del reato deve sempre essere intesa una persona fisica e non un ente o un’amministrazione. Giustizia: se la Consulta decide con quattro assenti di Marcello Sorgi La Stampa, 22 ottobre 2015 Come tutte le volte precedenti, da un anno a questa parte, la Corte costituzionale ha emesso la delicata sentenza sulla legge Severino a ranghi ridotti. I giudici presenti erano undici su quindici, dato che tre devono essere rieletti (due per fine mandato, e uno, il Presidente Mattarella, perché, come si suole dire, è stato destinato a più alto incarico), e uno, il giudice Frigo, è da qualche tempo assente giustificato per motivi di salute. A memoria dei più anziani frequentatori del Palazzo della Consulta, non era mai accaduto che la suprema magistratura, si trovasse a operare con quasi un terzo dei membri in meno. Ma dopo oltre venticinque votazioni delle Camere riunite, le possibilità che il collegio possa essere completato sono molto ridotte. In un Parlamento a maggioranze continuamente mutanti, e con un centrodestra in preda a continue diaspore, raggiungere un’intesa che coinvolga i tre quinti di deputati e senatori è quasi impossibile. A nulla sono serviti i reiterati appelli provenienti dal Quirinale e rivolti alle Camere, prima dal presidente Napolitano e poi dal successore, che provenendo dalla Consulta ha una conoscenza diretta dei meccanismi che ne regolano il funzionamento. I giudici rimasti in servizio, per senso di responsabilità, cercano di emettere le loro sentenze all’unanimità, o a larghissima maggioranza, per rimediare all’obiettivo squilibrio determinato dai vuoti lasciati dalla mancata rielezione. Però lo squilibrio esiste, e i membri della Corte rimasti in servizio sono i primi a esserne consapevoli. La Costituzione infatti prevede che la Corte sia composta da tre diversi gruppi di giudici: cinque espressi dalle magistrature dello Stato, in genere sollecite a indicare i loro rappresentanti; cinque nominati dal Capo dello Stato, e anche in questo caso la nomina è sempre tempestiva. Il problema rimane quello degli altri cinque membri eletti dal Parlamento, in cui mai come questa volta si era determinato uno stallo. Va da se che le scelte dei giudici "parlamentari" e di quelli "quirinalizi" rispondono anche a criteri politici, e rispecchiano in genere, seppure non al millesimo, i rapporti di forza esistenti nelle Camere. Mentre la componente togata, sebbene composta da giudici provenienti dalle diverse magistrature, civile, penale e amministrativa, è per forza di cose più compatta. In una Corte che lavora con undici membri e quattro assenti fissi della componente parlamentare, è destinata a diventare determinante, perché ha un solo voto da conquistare per diventare maggioranza. Giustizia: legittima difesa, cauta apertura di Renzi sulla revisione delle norme di Francesca Schianci La Stampa, 22 ottobre 2015 La maggioranza studia i ritocchi da inserire nella riforma del processo penale. Ma la minoranza del Pd è contraria. Qual è il momento in cui si può intervenire contro un ladro che si intrufola in casa propria senza rischiare l’eccesso di legittima difesa? E come si misura la proporzionalità tra offesa e difesa: il malintenzionato deve avere una pistola, o basta per esempio una corda che faccia presagire alla vittima il rischio di essere legato e imbavagliato? Girano intorno a domande come queste, tecniche ma non troppo, le ipotesi di modifica alle norme sulla legittima difesa su cui riflettono maggioranza e governo. "Se c’è un tema di norme si può discutere con buonsenso, perché stiamo parlando di una dinamica molto complessa da non affrontare sull’onda dell’emozione", concede a "Otto e mezzo" il premier - Matteo Renzi. "Rispetto alla sicurezza - garantisce - saremo sempre in prima linea, ma senza strumentalizzare" ("fare del pensionato un eroe penso sia un errore", dice). Una riflessione per cambiare le nonne quindi si può fare, perché "chi trova in casa qualcuno ha una reazione comprensibile", ma con un’avvertenza: "Il codice dice che ci deve essere proporzionalità". Ad aprire il dibattito è stato, ieri dalle pagine de "La stampa", il viceministro Enrico Costa: "Se la criminalità cambia, il legislatore ha il dovere di cambiare le pene". Gli fa sponda il renzianissimo responsabile giustizia del Pd, David Ermini: "La delinquenza è diventata più feroce, spesso entra nelle case senza curarsi della presenza di chi le abita. Può essere utile che, all’evoluzione della delinquenza, corrisponda un’evoluzione del concetto di legittima difesa", dice. Senza violare però, ed è il punto fermo che, ammette, potrebbe rendere complicata qualunque modifica, "la proporzionalità tra offesa e reazione". La riflessione è al momento allo stato embrionale: ma se si riuscissero a risolvere tutti i dubbi giuridici, le modifiche all’art. 52 del codice penale potrebbero essere inserite nella riforma del processo penale in discussione al Senato. Modifiche che non tutti però ritengono necessarie. Andrea Colletti, deputato M5S della Commissione giustizia, dice che "se fosse capitato a me, forse avrei reagito come quel pensionato: io ci sono passato, presi un coltello, il ladro scappo’", ma le norme sulla legittima difesa "sono state già riviste nel 2006, ampliando l’area di non punibilità, non credo sia necessario intervenire di nuovo. Vedremo le indagini, ma penso che anche con questa legge potrebbe essere assolto". E anche nella minoranza del Pd sono maldisposti all’idea: da Gianni Cuperlo ("sono per principio contrario a toccare il codice penale sotto l’urto emotivo di fatti di cronaca") all’ex responsabile giustizia ai tempi di Bersani, Danilo Leva: "Cambiare la legittima difesa è una risposta di destra. Non si piega il diritto penale alle logiche del consenso, altrimenti si fanno leggi sbagliate". Giustizia: il pensionato "eroe" con la pistola non convince gli inquirenti di Luca Fazio Il Manifesto, 22 ottobre 2015 Vaprio d’Adda (Mi). Si complica la posizione di Francesco Sicignano, il sessantacinquenne che due giorni fa ha ucciso un ladro di 22 anni che stava entrando nella sua villetta. Sulla vicenda, strumentalizzata da leghisti e destre varie, interviene anche il viceministro della Giustizia Enrico Costa (Ncd) dicendo che si potrebbe aprire una discussione sul concetto di legittima difesa: "Se si spara in casa perché si teme per la propria incolumità, ci si può pensare". Il fatto di cronaca è da manuale. Francesco Sicignano, pensionato di 65 anni, uccide con un colpo di pistola un ladro di 22 anni che sta per introdursi nella sua villetta di Vaprio d’Adda, al confine tra Milano e Bergamo. Lo sparatore dice di aver subito altri tentativi di furto e di aver colpito per legittima difesa: se l’è ritrovato davanti e ha avuto paura anche per i suoi familiari. Ha raccontato questo, ma prima di essere smentito dalle ricostruzioni del pubblico ministero. Il ragazzo ucciso a bruciapelo è un giovane albanese, inutile aggiungere cosa possa significare questo particolare in un periodo in cui domina la retorica dell’invasione. I vicini di casa solidarizzano e invocano il far west e per le destre variamente rappresentate è come tirare un calcio di rigore a porta vuota: parte una fiaccolata non proprio spontanea per applaudire il gesto dello sparatore, che ricambia affacciandosi al balcone con un sorriso, e Matteo Salvini passa all’incasso su tutti i media disponibili (cioè tutti). La sinistra, o un pensiero che abbia ancora il coraggio di definirsi tale, sostanzialmente tace, o abbozza ragionamenti che ormai la "gente" non comprende più dopo che per venticinque anni l’ideologia della paura è stata agitata da tutti coloro che hanno cercato di vincere facile giocando sporco: politici di governo o di opposizione, a deriva interscambiabile. I dettagli che emergono dalla procura di Milano purtroppo risultano poco significanti, sia per l’opinione pubblica che per i politici che si stanno preparando per le prossime elezioni di primavera che si giocheranno anche sul tema dell’insicurezza (percepita). E dire che la posizione di Francesco Sicignano si va complicando di ora in ora. Nella sua abitazione non sono stati trovati segni di effrazione, significa che il ladro (disarmato) è stato colpito fuori e non dentro casa. Il proiettile che ha colpito il ragazzo avrebbe una traiettoria dall’alto verso il basso, significa che il pensionato quando ha sparato era in cima alle scale esterne all’abitazione e il ladro poco più in basso. Sembra che il pm si sia rivolto all’indagato (accusato di omicidio volontario) dicendogli "scusi, ma lei è salito su una sedia per sparare?". Gli esami balistici del caso diranno ciò che è evidente: il ladro non era in casa. Ma queste sono questioni processuali che purtroppo non cambiano l’ordine del discorso. Sempre lo stesso discorso. Logico che sia così per i campioni della "giustizia fai da te". Per Matteo Salvini il ladro se l’è cercata, Daniela Santanché avrebbe sparato volentieri e Roberto Maroni si è impegnato a pagare le spese processuali del pensionato. Più interessante, invece, gettare uno sguardo sulle poche reazioni del centrosinistra. Si potrebbe quasi tirare un respiro di sollievo dopo aver ascoltato il presidente del Consiglio Matteo Renzi. "Quando la magistratura indaga - ha precisato in tv - la politica deve tacere. Fare del pensionato un eroe penso sia un errore, innanzitutto per la persona e per le dinamiche che non sono chiare". E però, "chi si trova in casa qualcuno ha una reazione comprensibile ma il codice dice che ci deve essere una proporzionalità". A parlare di codice, entrando in dettagli meno rassicuranti, è stato proprio un esponente del suo governo. Enrico Costa, viceministro della Giustizia in quota Ncd. La sua, per ora, è solo una riflessione. Ma è questa: "I tempi cambiano e le leggi si devono adeguare. Una volta il proprietario si svegliava di notte e il ladro fuggiva, oggi se si sveglia il ladro reagisce. Anche la percezione delle vittime potenziali cambia, perché sanno di avere di fronte una criminalità più agguerrita". Significa che sul tema della legittima difesa il fascicolo e un’idea pure: una proposta che "legittima l’uso delle armi per chi si trova costretto a difendere il proprio domicilio contro una intromissione ingiusta, violenta o clandestina". Per essere espliciti, "se uno insegue il ladro in strada e gli spara, non potrà mai essere considerata legittima difesa. Se si spara in casa perché si teme per la propria incolumità o libertà, ci si può pensare". E dovranno pensarci anche tutti coloro che per distanziarsi da Salvini & Co. da anni vanno dicendo che "la sicurezza non è di destra o di sinistra". Giustizia: i pm "né tracce di sangue né segni di effrazione, il ladro ucciso fuori dalla casa" di Federico Berni e Cesare Giuzzi Corriere della Sera, 22 ottobre 2015 "Scusi, ma lei per sparare è salito in piedi su una sedia?". Il pm Antonio Pastore fissa negli occhi il pensionato Francesco Sicignano. Il 65enne ha appena raccontato d’aver sparato contro il ladro nella cucina di casa, di aver premuto il grilletto da una distanza di due metri e mezzo contro una sagoma che veniva incontro in modo "minaccioso". Ma il magistrato ha sul tavolo i risultati delle analisi dei carabinieri, e quella che raccontano le "evidenze scientifiche" è tutta un’altra storia. A cominciare dal colpo sparato con una traiettoria dall’alto verso il basso, non in casa ma sulla scala esterna della villetta di Vaprio d’Adda, a nordest di Milano. In tutto l’appartamento dei Sicignano non sono state trovate tracce di sangue, né segni di effrazione, e in casa è stato repertato un solo proiettile inesploso. Per questo i magistrati, coordinati dal procuratore aggiunto Alberto Nobili, sono sempre più convinti dell’accusa di omicidio volontario per la quale Francesco Sicignano è indagato a piede libero. La certezza nella ricostruzione arriverà soltanto tra una settimana quando sarà eseguita l’autopsia sul corpo del 22enne albanese freddato durante il tentativo di furto di via Cagnola. Ma la differenza d’altezza tra il foro d’entrata al petto e quello d’uscita sulla schiena lascia pochi dubbi. Il proiettile ha descritto una traiettoria dall’alto in basso. Chi ha sparato lo ha fatto da una posizione sopraelevata e da qui la domanda del magistrato durante l’interrogatorio. Il ragazzo è stato colpito al cuore e per questo, secondo gli inquirenti, la morte è stata istantanea senza neppure il tempo di trascinarsi fuori dalla casa dei Sicignano. Durante l’interrogatorio il pensionato, assistito dall’avvocato Antonella Pirro, ha detto di non essersi reso conto che la vittima non era armata: "Se lo avessi saputo avrei sparato in aria". Il 22enne, identificato dai carabinieri della compagnia di Vimercate grazie alle impronte digitali, ha precedenti per furto in appartamento e nel 2013 era stato espulso dall’Italia. Per il momento gli investigatori non hanno diffuso le generalità nella speranza di scoprire il covo della banda. I carabinieri stanno ancora dando la caccia ai due complici. Dalla loro testimonianza potrebbe arrivare l’ultimo tassello per la ricostruzione di quello che - secondo l’accusa - è e resta un omicidio volontario. Tanto che, a norma di legge, nei prossimi giorni potrebbe anche essere richiesta dalla Procura una misura cautelare nei confronti del pensionato. Ieri alle 15.15 Sicignano è rientrato nell’abitazione rosa di tre piani di via Cagnola insieme al figlio Ivano. Quando la Opel Corsa blu s’è fermata davanti a casa, il pensionato è sceso evitando l’assalto di telecamere e microfoni. "Sta bene, anche se è provato" racconta chi gli ha fatto visita. Dopo il saluto dal balcone durante la manifestazione di solidarietà di martedì sera (lasciato uno striscione di FdI e An alla cancellata insieme a un tricolore), tutta la famiglia di Sicignano ha scelto un profilo molto più basso. "Come stiamo? Malissimo" ha detto la moglie. Ma la casa di Vaprio d’Adda è stata meta di un lento e continuo "pellegrinaggio" di abitanti e amici: "Ha fatto bene, doveva uccidere anche gli altri due - ripete una signora di una settantina d’anni -. Stavano entrando a rubare, cosa doveva fare? Farsi ammazzare?". L’esasperazione per i furti subiti nella zona (molti episodi non risultano però nelle denunce) ha creato un clima di intolleranza. Ormai per gli abitanti "non fa differenza se Sicignano ha sparato in casa o ai banditi in fuga". Sulla stessa frequenza il governatore lombardo, il leghista Roberto Maroni: "Fuori casa vuol dire sulle scale di casa". A rincarare la dose ci pensa il segretario del partito Matteo Salvini (criticato ieri dall’Associazione dei funzionari di polizia): "Se per elevare la mia statura morale devo dire che mi dispiace per quel rapinatore, no, io non lo dico. Mi sarebbe dispiaciuto di più piangere il pensionato". In serata sono arrivate le parole del premier Matteo Renzi sulla revisione delle norme sulla legittima difesa: "Su questo credo si possa discutere, ma non strumentalizziamo e spettacolarizziamo la vicenda; è un errore trasformare questo cittadino in un eroe". Giustizia: dove finisce la legittima difesa di Francesco Petrelli (Segretario dell’Unione Camere Penali) Il Manifesto, 22 ottobre 2015 Indigna il fatto che venga indagato per omicidio volontario il povero pensionato di Vaprio D’Adda che ha ucciso il ladro entrato notte tempo nel suo villino, o che un ladro, gravemente ferito a colpi di arma da fuoco dal derubato, abbia ottenuto dai giudici un cospicuo risarcimento o che venga messo sotto processo il rapinato che ha freddato (con un’arma vera) due rapinatori (armati di un’arma giocattolo). Ma non è questione di "buonismo" se magistratura e collettività pretendono che, nella difesa dei propri diritti, i cittadini non si trasformino in vendicatori con licenza di uccidere. L’esercizio della forza da parte di un privato cittadino minacciato nei suoi diritti è regolata da un ben diverso bilanciamento degli interessi che sono alla base di uno Stato di diritto. Lo Stato, che ha l’esclusivo monopolio della forza, deroga a tale monopolio solo in casi eccezionali, quando la minaccia al proprio o all’altrui diritto sia tale da non consentire alcuna alternativa. Certo, non è mai facile stabilire quale sia il confine tra la legittima difesa ed un uso eccessivo della violenza, quale sia la proporzione fra diritti di qualità diversa (la vita, l’integrità fisica, la proprietà). I giudici sbagliano nell’applicare la legge? Può darsi. Sbagliano nel condannare cittadini che, travolti dall’ira, aprono il fuoco contro ladri in fuga? A volte sì. Sbagliano nel condannare chi ben avrebbe potuto richiedere l’intervento della polizia e si è invece fatto giustizia da sé? Certamente capita che i giudici possano sbagliare nel non facile esercizio della giurisdizione. Ma si tratta quasi sempre di questioni controverse, nelle quali è difficile ricostruire i fatti ed apprezzare scenari psicologici nei quali nessuno ha a disposizione una bilancia per pesare, in una manciata di secondi, l’intensità e la qualità delle proprie emozioni, e le conseguenze delle proprie reazioni. È facile, di fronte a casi come quelli che di recente sono rimbalzati sulla cronaca, stimolare il tracimare dei sentimenti più viscerali, il risentimento sociale, i malesseri profondi di una società che si sente insicura e spesso minacciata dal crimine. Ma non è questo il compito della politica e dell’informazione. Ci si aspetta, in casi come questi, che il giornalista faccia soprattutto cronaca ed opera di verità, e che la politica fornisca gli strumenti per poter comprendere come una società civile non possa fare a meno di alcune regole fondamentali, e che il problema è, casomai, quello di applicarle correttamente ed omogeneamente tali regole. La società che, altrimenti, si propizia è una società nella quale nessun giudice giudica i comportamenti dei cittadini (e tanto meno quelli delle forze dell’ordine), nessuno valuta se si sia condannato a morte un ladro di biciclette, se sia fatto legittimo uso delle armi contro un borseggiatore, se piuttosto che chiamare il 112 si sia preferito, troppo sbrigativamente, usare la doppietta tirata fuori dall’armadio. L’informazione ha un compito alto e delicato, ed è quello di formare una opinione pubblica consapevole dei limiti della giustizia, ma anche della sua insostituibilità. Una società che lascia liberi i cittadini di difendere, come meglio credono, la loro proprietà, senza lacci e lacciuoli, senza bilanciamenti, senza limiti e senza inutili leggi, è un Far West redivivo nel quale ogni individuo, esente da qualsivoglia possibile rimprovero, si sostituisce alla forza pubblica, al giudice e, in fin dei conti, allo Stato. Un individuo che, alla fine, fattosi legge, non tollera più alcun controllo e finisce come quel tale che tempo fa ha preso a colpi d’arma da fuoco un autovelox, intendendo anche questo, in fondo, come un insindacabile gesto di legittima difesa. Giustizia: legittima difesa e poteri del cittadino di Carlo Nordio (Magistrato) Il Messaggero, 22 ottobre 2015 La vicenda del pensionato che ha ucciso il ladro introdottosi in casa sua ha sollevato ancora una volta il problema della legittima difesa. La Procura ne ha fatto un indagato di omicidio volontario: anche se forse sarebbe stato più congruo il titolo di eccesso colposo, è abbastanza normale che il Pm contesti il reato più grave, salvo poi derubricarlo, o addirittura escluderlo. Una parte dell’opinione pubblica, dal canto suo, ne ha fatto un mezzo martire, e lo ha platealmente applaudito. Da anni questi episodi stimolano due pulsioni opposte, entrambe eccitate dall’incontrollata emotività: l’una, reattiva alle allarmanti contingenze criminali, invoca il diritto di autotutela, e quindi di sparare all’intruso. L’altra, petulantemente arroccata sulle vuote formule rituali, replica evocando un’ irresponsabile apertura alla cosiddetta legge del Far West. Quest’ultima decrepita litania è peraltro fasulla, perché nel mitico Far West l’assenza dello Stato non giustificava la difesa legittima ma produceva l’iniquità della violenza. Non si trattava cioè di un’ incapacità di applicare la legge quanto di un’assenza di legge, dove il singolo, alla fine, si faceva giustizia da sé. Qui il problema è ben diverso: non si tratta di punire il delinquente, ma evitare che ti faccia del male. Dieci anni fa la legge sulla legittima difesa fu cambiata dal governo di centrodestra, nell’intento di evitare che l’aggredito fosse anche processato e magari incarcerato. Poiché all’epoca avevo l’onore di presiedere la Commissione per la riforma del codice penale, mi permisi di dire al ministro della Giustizia che la riforma non sarebbe servita a niente se non si fosse cambiata l’intera impalcatura del codice. Ma il governo aveva fretta e la riforma fu approvata. Un mattone fragile dentro un edificio di cemento. L’edificio ha retto, il mattone si è sbriciolato, e le cose son rimaste come prima. Perché? Perché il codice penale attuale, codice fascista firmato da Mussolini e dal Re nel 1930, ha una sua formidabile coerenza, che la riforma del 2006 non ha, né avrebbe potuto scalfire. Essa esprime il maestoso precetto dello Stato etico che può riassumersi così: "Io solo posso dire al suddito: sin qui, e non oltre. Io solo posso decidere fino a che punto tu possa difendere i tuoi diritti alla vita e alla proprietà. Perché Io sono lo Stato, e tu, appunto, sei un suddito". Davanti a tanta solennità invasiva, al giudice non resta che affannarsi, come ha fatto negli ultimi settant’anni, sui limiti della legittima difesa, intesa come graziosa concessione sovrana di una condizionata impunità per una condotta arbitraria. L’impostazione liberale di un codice nuovo dovrebbe essere completamente diversa. Lo Stato non è un’entità confessionale, e tantomeno palingenetica. Non deve redimere nessuno né aspirare all’affermazione di un laico paradiso terreno. Esso, più modestamente, nasce da un pactum unionis dei cittadini, che gli devolvono la tutela dei propri inalienabili diritti naturali: la vita, l’incolumità, la proprietà. Questa devoluzione, tuttavia, non è incondizionata e irreversibile. Non è una cambiale in bianco. Se lo Stato è inadempiente, la persona ha il diritto di riprendersi tali diritti. Così impostato, l’intero procedere logico cambia registro. Non più i limiti imposti dallo Stato all’individuo, ma quelli imposti dal cittadino allo Stato. Non più il quesito iniziale: "Fin dove l’aggredito può reagire?" Ma quello simmetrico: "Fin dove lo Stato può sanzionare?" Per essere ancora più chiari: che diritto ha lo Stato di punire la reazione a un crimine che Lui, Stato, non è riuscito a impedire? Può lo Stato processare un cittadino vittima dell’incapacità collettiva a prevenire il crimine? Ecco il problema. Un codice impostato su questi principi eviterebbe gli equivoci che stiamo soffrendo. Se lo Stato ha il dovere di impedire i furti, le rapine e le violazioni di domicilio, è lui, Stato, a dover dimostrare di aver mantenuto i patti, prima di punire chi si è difeso da un’aggressione ingiusta. Ma la strada è lunga, perché l’idea liberale ci è ancora estranea. Giustizia: De Magistris assolto in appello, la legge Severino sotto accusa di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 22 ottobre 2015 Napoli. Il sindaco non aveva rinunciato alla prescrizione, ma non ne ha avuto bisogno. Adesso è il primo ai nastri di partenza per le comunali dell’anno prossimo. Bassolino si congratula da sfidante: ora lo giudichi la città. L’assoluzione alla quale puntava da oltre tre anni, da quando era finito sotto processo a Roma per il modo in cui aveva condotto l’indagine Why Not da pm a Catanzaro, è arrivata ieri sera, in secondo grado. Nel frattempo il presunto reato - abuso d’ufficio per aver disposto l’intercettazione di parlamentari senza chiedere l’autorizzazione alle camere - era caduto in prescrizione. Ma Luigi de Magistris cercava un’assoluzione nel merito. Per restare sulla poltrona di sindaco di Napoli e ancor di più per provare a conservarla nelle elezioni della prossima primavera. La Corte d’appello di Roma ha assolto lui e il suo vecchio collaboratore Gioacchino Genchi. Senza margini di dubbio: i fatti non costituiscono reato. La legge Severino, confermata valida dalla Corte costituzionale solo due giorni, non è ora un problema per il sindaco di Napoli. Al contrario si rafforza il fronte dei critici di quella legge che, prevedendo la sospensione per 18 mesi degli amministratori anche dopo la condanna in primo grado, rischia di produrre danni eccessivi alle città. Nel caso di Napoli non è andata così perché de Magistris, dopo un breve periodo di sospensione, è stato riportato a palazzo San Giacomo prima dal Tar e poi dal giudice ordinario che hanno sterilizzato gli effetti della Severino, in attesa della Consulta. E quando la Consulta ha dato torno alle tesi del sindaco, appena 24 ore dopo - ieri - i giudici dell’appello hanno fatto cadere l’origine dei suoi problemi. Non fu abuso d’ufficio quello del 2006 alla procura di Catanzaro. I giudici di Roma - in attesa delle motivazioni - hanno evidentemente creduto alle ragioni della difesa: l’allora pm de Magistris che indagava sulla gestione illecita di fondi regionali, statali e comunitari, non sapeva che le utenze telefoniche messe sotto controllo da Genchi erano di Romano Prodi, Clemente Mastella, Francesco Rutelli, Antonio Gentile, Marco Minniti, Sandro Gozi, Giuseppe Pisanu e Giancarlo Pittella, tutti parlamentari protetti dall’immunità. Era la tesi infondo sostenuta dalla pubblica accusa nel processo di primo grado, ma alla richiesta di assoluzione il tribunale rispose a sorpresa con una condanna a un anno e tre mesi per de Magistris e per Genchi. Sarà interessante capire perché i giudici di appello hanno assolto anche Genchi: in primo grado era stato indicato come regista delle intercettazioni in forza di una delega in bianco di de Magistris. Il sindaco non aveva rinunciato espressamente alla prescrizione, come pure aveva annunciato, ma non ne ha avuto bisogno e ha ottenuto l’assoluzione piena. Domani, nel terzo giorno di questa settimana cruciale, il tribunale civile di Napoli che avrebbe potuto dichiararlo sospeso dopo che la Consulta ha confermato la validità della legge Severino, dovrà invece prendere atto che de Magistris non si trova più nella condizione prevista dall’articolo 11 di quella legge "liste pulite". Resta sindaco, e un eventuale ricorso della procura generale in Cassazione per un reato chiaramente prescritto appare difficile. Il processo Why Not, affidato ad altri magistrati, si è sostanzialmente concluso in un nulla di fatto, eppure all’epoca provocò una crisi di governo perché fornì all’indagato Mastella l’occasione per togliere la fiducia a Prodi. Fu per la gestione di quelle indagini che de Magistris venne condannato dal Csm e trasferito da Catanzaro a Napoli. Premessa alla sua candidatura, quattro anni dopo, nel 2011. E adesso il sindaco è l’unico sicuramente in pista per le elezioni del prossimo anno. Con lui, evaporata l’Idv di Di Pietro, uno schieramento di sinistra che può andare dai comunisti a Sel a Fassina. Contro di lui, pare, lo stesso candidato della destra berlusconiana sconfitto quattro anni fa, Lettieri. E soprattutto il candidato che sceglierà il Pd, con un ingombrante ex favorito nel caso di primarie. È stato proprio Antonio Bassolino il primo a commentare l’assoluzione del sindaco, con il quale polemizza spesso: "Mi fa piacere per lui e per la città, saranno i cittadini a giudicarlo". Parole da sfidante. De Magistris stamattina terrà una conferenza stampa, intanto ha gioito così: "Sono convinto di avere svolto il mio mestiere di magistrato nel pieno rispetto della costituzione". Parole anche queste non casuali, ma una risposta otto anni dopo alla requisitoria del pg della Cassazione nel procedimento disciplinare: "De Magistris non è il modello di magistrato al quale si ispira la nostra costituzione". L’accusa che gli costò la toga, ma gli aprì la strada di Napoli. Giustizia: Barracciu (Beni culturali) rinviata a giudizio "mi dimetto da sottosegretario" di Alessandro Trocino Corriere della Sera, 22 ottobre 2015 Il processo sui fondi ai partiti in Sardegna. Renzi: non l’ho chiesto, ma apprezzo. Alla fine si è dimessa. Dopo mesi nei quali il governo e il Pd l’hanno difesa, in attesa degli sviluppi processuali, il sottosegretario ai Beni culturali Francesca Barracciu ieri mattina è stata rinviata a giudizio per peculato e, a stretto giro, ha lasciato l’incarico, prontamente ringraziata dai dirigenti pd e dal ministro Dario Franceschini. Lo ha fatto con un comunicato nel quale si dice "colpita" e "dispiaciuta": "Voglio evitare strumentalizzazioni che coinvolgono il governo e avere la libertà e l’autonomia in questa battaglia dalla quale uscirò a testa alta". A Otto e mezzo, Matteo Renzi nega di averla invitata a lasciare: "Non ho chiesto le dimissioni di Francesca Barracciu, ma è un gesto personale molto apprezzabile, di rispetto". E poi, riferendosi indirettamente agli altri sottosegretari indagati: "Non basta essere indagato per dimettersi. Mandiamo a casa chi è condannato, non chi è indagato". Renzi aveva spiegato in passato che si è innocenti fino a sentenza definitiva, difendendo la Barracciu e i sottosegretari indagati. Ma la recente vicenda di Ignazio Marino, sollecitato a dimettersi da sindaco anche a seguito dello scandalo sugli scontrini, ha reso difficile per il Pd sostenere una posizione diversa. E così era chiaro che in caso di rinvio a giudizio la Barracciu dovesse farsi da parte immediatamente, per evitare contraccolpi sul governo. La vicenda processuale riguarda il periodo nel quale la Barracciu era consigliere regionale. Ma la questione esplode pochi giorni dopo il suo trionfo nelle primarie del Pd per la presidenza della Sardegna (il 29 settembre 2013, 44 per cento di voti). La Procura di Cagliari le manda un avviso a comparire per spese di fondi regionali pari a 33 mila euro, privi di rendicontazione. Il 5 dicembre la Barracciu si presenta dai magistrati e spiega le spese come rimborsi chilometrici del carburante per viaggi politici. Giustificazioni necessarie per continuare la campagna elettorale ma che vengono considerate insufficienti. Successivamente emergono nuovi fatti. La Evolvere, una società che faceva capo a Francesca Barracciu e al suo compagno Mario Luigi Argentero, e che organizzava corsi di formazione, si aggiudicò finanziamenti per cinque milioni e mezzo di euro. Si scopre anche una seconda tranche da 45 mila euro di fondi contestati e nuove incongruenze. La Barracciu, il 30 dicembre, viene caldamente invitata da Luca Lotti a ritirarsi dalla corsa alle primarie, per evitare una disfatta. Cosa che viene prontamente fatta, anche perché, come sarà poi evidente, c’è una ricompensa: la carica di sottosegretario ai Beni culturali. Dopo un secondo interrogatorio, la Barracciu cambia avvocato e linea difensiva. Promette di dare spiegazioni sui fondi, ma non si presenta più dai magistrati. Anche per questo era attesa la decisione del rinvio a giudizio. Ieri, dopo l’arringa del suo avvocato, la decisione è stata immediata. La Barracciu non se l’aspettava ed è rimasta quasi scioccata: "Mi sono sentita mandata al patibolo", ha confessato a un amico. Il 2 febbraio dovrà comparire davanti alla seconda sezione penale del tribunale di Cagliari. Alessandro Trocino Il fisco non può opporsi se i giudici penali negano il sequestro di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 22 ottobre 2015 Corte di cassazione, sezione Terza penale, sentenza 21 ottobre 2015 n. 42230. L’amministrazione finanziaria non può opporsi se i giudici penali negano il sequestro dei beni di un gruppo di imputati rinviati a giudizio per il reato di associazione a delinquere finalizzata alla commissione di reati tributari. Neppure facendo appello alla direttiva comunitaria che prevede il diritto della vittima a ottenere un risarcimento da parte dell’autore del reato. Lo stabilisce la Corte di cassazione con la sentenza n. 42230 depositata ieri. La pronuncia conferma così la sentenza del Tribunale che aveva negato, bollandola di inammissibilità, l’istanza di riesame proposta da ministero dell’Economia e agenzia delle Entrate, in quanto parti civili nel procedimento penale. Tra i motivi di ricorso fatti propri dall’amministrazione finanziaria centrale la (asserita) mancanza di tutela cautelare piena a volere seguire l’orientamento del Tribunale, perché i crediti vantati dal fisco e dipendenti dalla commissione di reati tributari non sarebbero azionabili, neppure in fase cautelare, in sede civile: resterebbe aperta solo la via della giurisdizione tributaria, con tutti i limiti del caso. A corroborare le sue tesi, il fisco chiama in causa anche la direttiva Ue n. 2012/29 sui diritti delle vittime da reato. La Cassazione però non ha considerato convincenti le tesi difensive e ha fatto notare innanzitutto come l’articolo 325 del Codice di procedura penale escluda la parte civile dai soggetti che possono presentare ricorso contro le decisioni sui provvedimenti cautelari (vi rientrano invece il Pm, l’imputato, chi ha subìto il sequestro e chi si presume abbia diritto alla restituzione di quanto sequestrato). È vero che la norma prende in considerazione il ricorso in Cassazione, ma logica vuole che la medesima impostazione debba valere anche per l’impugnazione del provvedimento base che ha un contenuto sfavorevole per la parte civile. In questo modo viene compresso il diritto di agire in giudizio della parte danneggiata dal reato? No, sostiene la Cassazione, perché alla parte civile è comunque permesso, revocando la propria costituzione nel giudizio penale, di rimettere in gioco la sua pretesa, anche sul fronte cautelare, davanti al giudice civile. Non ha poi un peso particolare il fatto che in questo caso la parte civile sia rappresentata dall’amministrazione finanziaria. Anzi, a disposizione del fisco ci sono strumenti che rafforzano la sua posizione di vantaggio sulla conservazione dei mezzi per la soddisfazione del credito di diritto pubblico che nasce anche da forme di evasione rilevanti sul piano penale. E questo anche se l’erario aveva ricordato l’impossibilità di azionare l’articolo 22 del decreto legislativo n. 472/97 visto che, nel caso in questione, il credito nasce dalla violazione dell’articolo 416 Codice penale sull’associazione criminale che si pone come esterno rispetto all’avviso di accertamento contestato. Anche la leva comunitaria non fa presa sulla Cassazione. Per due ragioni, una di ordine formale e l’altra invece sostanziale. La prima consiste nel fatto che la direttiva sulla protezione delle vittime da reato non è ancora stata tradotta nel nostro ordinamento: il Governo ha tempo per recepirla sino al 16 novembre del 2016. E poi, se anche la direttiva fosse trasposta anche nel nostro ordinamento, bisognerebbe tenere conto che, stando al testo stesso della direttiva, per vittima del reato deve sempre essere intesa una persona fisica e non un ente o un’amministrazione. Gratuito patrocinio, parcella entro la tariffa media di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 22 ottobre 2015 Corte di cassazione - Sezione II civile - Sentenza 21 ottobre 2015 n. 21461. Gli onorari dovuti al difensore della parte ammessa al gratuito patrocinio non possono superare i valori medi delle tariffe professionali vigenti. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza 21 ottobre 2015 n. 21461, rigettando il ricorso di un legale che, invece, "per l’impegno richiesto dalla complessità dei fatti e delle questioni giuridiche trattate", aveva chiesto il massimo aumento previsto dalla tariffa penale. Per l’avvocato, infatti, negare l’applicabilità dell’aumento per la particolare difficoltà e complessità della vicenda violerebbe la Costituzione sia sotto il profilo della "effettività della difesa dell’imputato" (articoli 24 e 3) che della "retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro svolto" (articolo 36), comportando "una disparità di trattamento fra il difensore di imputato ammesso al gratuito patrocinio e il difensore degli altri imputati". Una ricostruzione bocciata dalla Suprema corte secondo cui i criteri cui l’autorità giudiziaria ha l’obbligo di attenersi nella liquidazione degli onorari e delle spese spettanti al difensore, ai sensi dell’articolo 82 del Dpr n. 115/2002, "devono ritenersi esaustivi". Questo vuol dire che il giudice, nell’applicare la tariffa professionale, "non può invece fare riferimento anche ai criteri integrativi e adeguatori della tariffa medesima", non essendo operante l’articolo 1, comma 2, del Dm 127/2004, invocato dal ricorrente, e che consente di quadruplicare il compenso "per le cause che richiedono un particolare impegno". Ma tale potere gli è inibito anche per "l’espresso divieto, contenuto nel citato articolo 82, del superamento dei valori medi di tariffa". Del resto, prosegue la sentenza, la norma già contempla la "natura dell’impegno professionale" come un elemento da prendere in considerazione ai fini della liquidazione del compenso, ma limita la forbice "tra il minimo della tariffa e la media di tali valori". Infine, conclude la Corte, neppure si può sostenere che una simile limitazione violi le norme costituzionali, come sostenuto dal ricorrente, dal momento che essa è "il frutto della ragionevole scelta del legislatore di contemperare gli opposti interessi in gioco: la necessità di assicurare all’imputato non abbiente la difesa tecnica - garantita per l’appunto con la nomina dell’avvocato - e di retribuire l’attività del legale sulla base delle tariffe professionali - che tengono comunque conto del lavoro svolto". Senza tuttavia perdere di vista "l’incidenza del relativo costo sulla intera collettività". Usura, gli interessi di mora si contano a parte di Selene Pascasi Il Sole 24 Ore, 22 ottobre 2015 Per la verifica del superamento del tasso soglia d’usura, gli interessi corrispettivi e quelli di mora vanno tenuti separati, avendo funzione e natura diversi. Lo ricorda il Tribunale di Cassino, con ordinanza del 7 ottobre 2015 sulla richiesta avanzata da due soggetti - vincolati da mutuo bancario - per sospendere l’esecuzione immobiliare disposta nei loro confronti, vista la natura usuraria del tasso dell’interesse di mora. Era stata chiesta anche la non debenza degli interessi compensativi e di mora, e la nullità della clausola di capitalizzazione. Rilievi infondati, sia per il giudice dell’esecuzione sia per il Tribunale di Cassino: la determinazione negoziale degli interessi di mora era stata calcolata in conformità al contratto. Nessuna indeterminatezza del tasso, dunque, posto che "la determinazione o determinabilità" era stata "sempre possibile in ogni momento del rapporto". Escluso anche l’anatocismo, essendo "solo la quota capitale" l’elemento di comparazione e ragguaglio per la quantificazione degli interessi corrispettivi. Quanto al piano "alla francese" con tasso variabile, il Collegio precisa invece che esso è solitamente gestito dall’istituto erogatore - per i minori costi di gestione e la rapida quantificazione della rata a regime - "con calcolo della quota capitale sul fondamento del tasso iniziale, mantenendola immutata per tutta la durata del piano". Ma ciò non significa che sia un piano non applicabile ai mutui a tasso variabile. Più semplicemente, mentre nel caso di mutuo a tasso fisso le rate sono tutte uguali, in quello variabile possono aumentare o calare, secondo l’andamento del tasso. Scartata, infine, anche l’eventuale ricorrenza dell’usura prospettata dai reclamanti. Nell’accertare il rispetto del tasso di soglia, interessi corrispettivi e di mora non vanno sommati, trattandosi di entità completamente diverse tra loro, che assolvono a funzioni ben distinte. Entità da tenere separate, pertanto, anche in sede di verifica di un ipotetico superamento delle soglie previste dalla legge, non ravvisandosi alcun "vincolo di interdipendenza tra la pattuizione degli interessi corrispettivi e quella degli interessi moratori". Pene accessorie previste dall’articolo 600-septies 2 del codice penale. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 22 ottobre 2015 Reati contro la persona - Pene accessorie Pene previste dall’articolo 600 septies.2, comma 1, nn. 2 e 4 - Principio di applicabilità della legge più favorevole ex articolo 2 cod. pen. - Riferibilità anche alle pene accessorie - Sussistenza. Per le pene disposte dall’articolo 600 septies.2, comma 1, n. 2 e 4 (vale a dire: n. 2, l’interdizione perpetua da qualsiasi ufficio attinente alla tutela, alla curatela ed all’amministrazione di sostegno e, n. 4, l’interdizione temporanea dai pubblici uffici) vale il principio di legalità che si applica anche alle pene accessorie. • Corte di Cassazione, sezione III, sentenza 14 settembre 2015 n. 36915. Reati contro la persona - Delitti in danno di minori - Pena accessoria - Interdizione perpetua da incarichi in scuole e da uffici o servizi in istituzioni o strutture frequentate da minori - Rapporti fra originario articolo 600 - Septies cod. pen. e articolo 600 - Septies2 cod. pen. - Norma più favorevole - Individuazione. La pena accessoria, prevista dall’articolo 600-septies 2 cod. pen., dell’interdizione perpetua da qualunque incarico nelle scuole di ogni ordine e grado, nonché da ogni ufficio o servizio in istituzioni o strutture pubbliche o private frequentate "abitualmente" da minori, trova applicazione anche con riferimento ai fatti commessi nella vigenza della precedente disciplina, la quale contemplava la pena accessoria dell’interdizione perpetua da qualunque incarico nelle scuole di ogni ordine e grado, nonché da ogni ufficio o servizio in istituzioni o strutture pubbliche o private frequentate "prevalentemente" da minori, trattandosi di disposizione più favorevole. • Corte di cassazione, sezione III, sentenza 22 giugno 2015 n. 26204. Reati contro la persona - Violenza sessuale -Pene accessorie - Interdizione perpetua da qualunque incarico nelle scuole nonché da ogni ufficio in istituzioni o altre strutture pubbliche o private frequentate prevalentemente da minori prevista dall’articolo 609 nonies cod. pen. - Questione di legittimità costituzionale in relazione agli articoli 3 e 27 Cost. - Manifesta infondatezza. È manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 609-nonies cod. pen., in relazione agli articoli 3 e 27 Cost. nella parte in cui prevede, in caso di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti, la pena accessoria dell’interdizione perpetua da qualunque incarico nelle scuole di ogni ordine e grado, nonché da ogni ufficio o servizio in istituzioni o in altre strutture pubbliche o private frequentate prevalentemente da minori, in quanto detta sanzione può efficacemente contribuire all’emenda del condannato e al suo reinserimento nel consorzio civile inducendolo a mantenere la buona condotta richiesta per conseguire la riabilitazione, che estingue le pene accessorie. • Corte di cassazione, sezione III, sentenza 23 febbraio 2015 n. 7902. Reati contro la persona - Delitti in danno di minori - Pene accessorie Esecuzione alla Convenzione di Lanzarote per la protezione dei minori contro lo sfruttamento e l’abuso sessuale siglata il 25 ottobre 2007- Legge 1 ottobre 2012 n. 172 - Entrata in vigore articolo 600-septies c.p., comma 2. Il legislatore nazionale, dando esecuzione alla Convenzione di Lanzarote per la protezione dei minori contro lo sfruttamento e l’abuso sessuale siglata il 25 ottobre 2007, ha, con legge 1 ottobre 2012 n. 172, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 235 del 8 ottobre 2012, fra l’altro, inserito l’articolo 600-septies c.p., comma 2.Tale disposizione, sostanzialmente innovativa rispetto alla più favorevole previgente disciplina, è entrata in vigore, stante l’ordinario termine di vacatio legis di cui all’articolo 73 Cost. non oggetto di espressa deroga legislativa, in data 23 ottobre 2012. Ciò posto è evidente che siffatta previsione, con la quel è stato introdotto, sotto il profilo della applicabilità di una nuova pena accessoria, un trattamento sanzionatorio più gravoso, sia applicabile solo in relazione ai fatti costituenti reato commessi a decorrere da tale data. Infatti, come peraltro puntualizzato anche da questa Corte, il principio di legalità della pena e quello di applicazione, in caso di successione di leggi penali, della legge più favorevole operano anche con riferimento alle pene accessorie. • Corte di Cassazione, sezione III, sentenza 29 gennaio 2014 n. 3941. Diritto del difensore di ricevere l’avviso dell’udienza di rinvio. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 22 ottobre 2015 Processo penale - Dibattimento - Difensore - Impedimento a comparire - Designazione di sostituto - Rinvio dell’ udienza su istanza della difesa - Avviso dell’udienza di rinvio al difensore impedito - Necessità - Condizioni. Il difensore che abbia ottenuto la sospensione o il rinvio dell’udienza per legittimo impedimento a comparire ha diritto all’avviso della nuova udienza solo nel caso di rinvio "a nuovo ruolo", poiché, nel diverso caso di rinvio ad udienza fissa, la lettura dell’ordinanza sostituisce la citazione e gli avvisi sia per l’imputato contumace, che è rappresentato dal sostituto del difensore designato in udienza, sia per il difensore impedito, atteso che il sostituto assume per conto del sostituito i doveri derivanti dalla partecipazione all’udienza. • Corte di cassazione, sezione III, sentenza 15 luglio 2015 n. 30466. Processo penale - Dibattimento - Difensore - Impedimento a comparire - Designazione di sostituto ai sensi dell’articolo 97, comma quarto, cod. proc. pen. - Rinvio dell’udienza su istanza della difesa - Diritto del difensore che abbia ottenuto la sospensione o il rinvio dell’udienza per legittimo impedimento a comparire all’avviso della nuova udienza. Il difensore che abbia ottenuto la sospensione o il rinvio dell’udienza per legittimo impedimento a comparire, ha diritto all’avviso della nuova udienza solo quando non ne sia stabilita la data già nella ordinanza di rinvio, posto che, nel caso contrario, l’avviso è validamente recepito, nella forma orale, dal difensore previamente designato in sostituzione, ai sensi dell’articolo 97, comma quarto, cod. proc. pen., il quale esercita i diritti ed assume i doveri del difensore sostituito e nessuna comunicazione è dovuta a quest’ultimo. • Corte di cassazione, sezione II, sentenza 19 dicembre 2013 n. 51427. Processo penale - Dibattimento - Difensore - Impedimento a comparire del difensore - Designazione di sostituto ai sensi dell’articolo 97, comma quarto, cod. proc. pen. - Rinvio dell’udienza su istanza della difesa - Avviso dell’udienza di rinvio al difensore impedito - Necessità - Condizioni. Il difensore che abbia ottenuto il rinvio dell’udienza per legittimo impedimento a comparire ha diritto a ricevere l’avviso della nuova udienza solo quando non ne sia stabilita la data nell’ordinanza di rinvio, posto che, nel caso contrario, l’avviso è validamente recepito, nella forma orale, dal difensore previamente designato in sostituzione e presente alla pronuncia dell’ordinanza, a nulla rilevando che il giudice abbia, comunque, disposto la comunicazione della data della nuova udienza. • Corte di cassazione, sezione V, sentenza 25 maggio 2011 n. 20863. Processo penale - Dibattimento - Difensore - Impedimento a comparire del difensore Designazione del difensore di ufficio - Rinvio dell’udienza con contestuale indicazione della data di rinvio - Omesso avviso al difensore di fiducia - Nullità conseguente a violazione del diritto di difesa - Esclusione. L’omessa notifica - al difensore di fiducia impedito - del rinvio dell’udienza disposto con contestuale indicazione della data di rinvio e alla presenza del difensore di ufficio, designato ex articolo 97, comma quarto, cod. proc. pen. non determina alcuna nullità, in quanto il difensore di ufficio nominato in luogo di quello impedito agisce in nome e per conto di quello di fiducia sostituito e rappresenta la parte processuale interessata al corretto andamento del processo. • Corte di cassazione, sezione V, sentenza 8 luglio 2010 n. 26168. Giudizio - Dibattimento - Atti introduttivi - Rinnovazione della citazione - Rinvio ad altra udienza per impedimento del difensore di fiducia - Cancelleria incaricata di avvisare del rinvio il difensore di fiducia - Omissione - Nullità a regime intermedio - Sussistenza. Comporta di nullità a regime intermedio l’omesso avviso al difensore di fiducia dell’udienza cui il processo sia stato rinviato per legittimo impedimento del medesimo nel caso in cui, presente il difensore di ufficio, il compito della predetta comunicazione sia stato assegnato dal giudice alla cancelleria. • Corte di cassazione, sezione III, sentenza 3 luglio 2007 n. 25173. I detenuti di Poggioreale scrivono ai baby-boss "crediamo in una vita diversa" di Antonio Mattone Il Mattino, 22 ottobre 2015 Il papà in cella: "Sono stanco di soffrire". E i ragazzi applaudono. Trenta giovani detenuti ad ascoltare la lettura dell’appello scritto da alcuni carcerati della Casa circondariale "Giuseppe Salvia Poggioreale" ai baby-boss. Trenta volti acerbi che sembrano adolescenti appena usuiti da una scuola ma che in realtà provengono dal padiglione Firenze, dove viene recluso chi è finito in carcere per la prima volta. Un incontro a più voci arricchito dalla testimonianza toccante di Francisco, un giovane salvadoregno della Comunità di Sant’ Egidio che ha visto il suo migliore amico uccìso dalle "maras", vere e proprie mafie giovanili che seminano terrore e motte in tutto il Paese. Sono curiosi e guardinghi allo stesso tempo, hanno scelto loro di partecipare a questo singolare dibattito che si è tenuto nellascuola del carcere alla presenza del direttore Antonio Fullone, del presidente del Tribunale di Sorveglianza Carminantonio Esposito, degli educatori, i volontari e alcuni agenti della polizia penitenziaria con il comandante Diglio. Un incontro voluto per riflettere sulla violenza che sta dilagando a Napoli. Il carcere e il mondo del volontariato si interrogano sulle possibili risposte da dare. Comincia Francisco, che racconta della violenza diffusa che si respira in El Salvador. Della guerra civile durata 12 anni che ha lasciato un paese ferito e povero con una grande sete di vendetta e di violenza. In questo clima sono cresciute le "maras", bande di giovani marginali e sbandati. Un tatuaggio distintivo caratterizza l’appartenenza ad una determinato clan. E poi un’iniziazione spesso crudele: per essere ammessi nella "mani" bisogna aver ucciso una persona, per dare prova del proprio coraggio. Alcuni si fanno tatuare una lacrima per ogni persona che uccidono, così sul volto di questi ragazzi si può contare il numero delle loro vittime. I detenuti ascoltano con attenzione, ma il clima si fa serio quando Francisco racconta della morte di William, il suo carissimo amico ammazzato all’età di 21 anni perché era diventato un grande amico e una grande speranza per molti bambini. Le maras volevano zittirlo, per loro era un esempio "diverso" che gli sottraeva una facile manovalanza. Quindi è la volta di uno dei detenuti che ha scritto la lettera ai giovani boss. Una lunga condanna da scontare, 41 anni e 2 figli, spiega le motivazioni che lo hanno indotto a mettersi in gioco. "Sono stanco di soffrire, - dice serio e determinato - e alla mia età voglio ancora credere di poter vivere una vita diversa". Si rivolge ai ragazzi con una impensabile paternità e legge con convinzione il testo, accollandosi le sue responsabilità e parlando del fallimento della sua scelta che lo ha portato in carcere "dove l’anima si spegne giorno dopo giorno o peggio nella morte". Un fragoroso applauso conclude il suo intervento, sembra che il pubblico abbia apprezzato. Nel frattempo arriva ancora una lettera da un altro padiglione. "Dovete sapere che una volta dentro è difficile uscirne, ve lo dico per esperienza personale". Poi il racconto diventa drammatico. "Volevo smetterla con questa vita, ma un giorno vennero a bussare alla mia porta e mi costrinsero a fare un grave reato contro la mia volontà. E oggi mi trovo in carcere a scontare 30 annidi reclusione". Il dibattito è il momento più difficile. Molte le domande rivolte a Francisco. "Quando tornerai in El Salvador cosa dirai ai ragazzi? Continuerai a cercare di salvare i giovani come ha fatto William? Non hai paura?" E ancora: "La realtà è diversa, è difficile non pensi che il tuo possa essere solo un sogno?". C’è curiosità ma anche empatia con il ragazzo salvadoregno. Quando si tratta di parlare della violenza di Napoli, e poi in fondo di se stessi, il discorso diventa più sfuggente. Si scivola nel vittimismo, nei luoghi comuni. "Una volta che uscirò chi darà lavoro a me che sono un pregiudicato? Come farò a campare con i pochi soldi che offrono e per di più al nero?". Alcune verità che diventano alibi per non cambiare. Ma sono incontri come questo che possono aprire spiragli sul futuro di tanti giovani. La strada del cambiamento richiede testimoni appassionati e convincenti che sappiano scalfire rassegnazione e violenza. Una strada tutta in salita dove ognuno può tendere una mano per suscitare voglia di riscatto. Lombardia: meno ingressi per droga, ma il sovraffollamento delle carceri resta al top Il Giorno, 22 ottobre 2015 Tutt’altro che svuotate. Sono senz’altro migliorate le condizioni di vivibilità dei 18 penitenziari distribuiti in regione, ma stando anche agli ultimi dati disponibili, che risalgono a fine agosto, la normalità resta un’eccezione. E dunque solo due strutture ospitano analmente meno detenuti di quanti siano i posti letto regolamentari a loro disposizione: la solita Bollate e Sondrio. Tutte le altre, chi più chi meno, restano sovraffollate. Partendo dalle note positive, oltre alla casa di reclusione milanese, da sempre tra le carceri più ambite, che a fine agosto aveva 1.095 detenuti potendo contare su 1.240 posti letto, stavolta c’è anche il capoluogo valtellinese con 27 carcerati su 29 letti. Tutto il resto è overbooking. A Bergamo i detenuti erano 501 con soli 320 posti, e analoga situazione vivono le carceri bresciane. A Canton Mombello erano in 316 di cui 196 stranieri. Da soli, questi ultimi, avrebbero riempito e più i soli 189 posti regolamentari a disposizione. A Verziano, sempre restante a Brescia, 121 dietro le sbarre quando i posti letto restano 72. Non c’è dubbio, a voler dare uno sguardo d’insieme, che nel complesso la fotografia della situazione nelle carceri lombarde abbia segnato negli ultimi anni un sensibile miglioramento, dal punto dì vista dei numeri, grazie all’apertura e alla ristrutturazione di diversi padiglioni, e come conseguenza - questa generale - della diminuzione degli arrivi dovuta, alla. modifica delle leggi in materia di custodia cautelare legata al consumo di stupefacenti o all’immigrazione. Un circolo virtuoso innescato, inutile negarlo, dall’ormai celebre sentenza della Corte dei diritti umani di Strasburgo che puntò l’indice contro l’Italia (e il suo portafoglio) in termini di possibili costosi risarcimenti da elargire ai detenuti che fossero stati ristretti in condizioni non dignitose. Avviata la faticosa opera di "alleggerimento" delle celle, però, la realtà resta per il momento difficile. A Como dietro le sbarre erano a fine agosto 395, ben 170 in più del regolare. E se a Lecco si sfiorava la normalità (58 detenuti per 53 posti), a Cremona i detenuti in più erano già una cinquantina (446 su 393 previsti). Abbastanza male a Lodi: 71 invece dei 50 previsti, ancora male anche a San Vittore-Milano (904 ospiti per 750 posti) anche se indubbiamente i tempi del. soffocamento totale sembrano superati persino nel vecchio carcere cittadino. Il resto è al limite come a Mantova (109 per 104 posti), Varese (63 invece di 54), Pavia (549 invece di 524). Critici restano Vigevano (400 detenuti, solo 239 posti). Voghera (391 in 339 spazi) e Busto Arsizio con 307 ospiti e 238 letti sulla carta. Abruzzo: Brunetta (Fi): farò di tutto perché Bernardini possa diventare Garante detenuti Ansa, 22 ottobre 2015 "Come esponente di Forza Italia farò di tutto perché Rita Bernardini possa diventare garante dei detenuti della Regione Abruzzo". Lo dice a Radio Radicale il capogruppo di Forza Italia alla Camera Renato Brunetta. "Conosco Rita Bernardini da almeno vent’anni - spiega Brunetta - con un sorriso dico che devo a lei anche una broncopolmonite, nel senso che mi ingaggiò tanti anni fa per una maratona oratoria alle 6:30 di mattina, davanti all’Hotel Plaza a Roma, non c’era nessuno, feci la mia ora di maratona oratoria e presi la mia broncopolmonite. Ma ricordo con grande dolcezza quell’ora, quella pioggia, quella mattina e anche i contatti con Rita. Penso che Rita Bernardini sia una persona straordinaria, non solo per il Partito Radicale ma per la vita pubblica italiana e quindi penso che questo ruolo di garante dei detenuti per l’Abruzzo, ancorché non all’altezza della sua dimensione politica, morale e professionale, rappresenti un atto e un fatto simbolico di grandissima importanza. Quindi forza Rita e per quanto mi riguarda farò come esponente di Forza Italia di tutto affinché questo si possa realizzare. Roma: detenuto morto in ospedale dopo l’arresto, confermata l’assoluzione di 4 poliziotti Askanews, 22 ottobre 2015 È stata confermata in secondo grado l’assoluzione di quattro poliziotti, due dei quali accusati di avere avuto responsabilità nella morte di Stefano Brunetti, l`uomo di 43 anni che, arrestato l`8 settembre 2008 per furto e lesioni, che morì il giorno dopo in ospedale. A far cadere le contestazioni sono stati i giudici della I corte d`assise d`appello, presieduta da Mario Lucio D`Andria con Giancarlo De Cataldo, che ha confermato la sentenza nei confronti di Salvatore Lupoli, Alessio Sparacino, Daniele Bruno e Massimo Cocuzza (gli ultimi due sotto processo solo per l`accusa di falso sul verbale d`arresto). Stefano Brunetti aveva 43 anni quando venne arrestato nel settembre 2009 per aver tentato di rubare nel garage di una casa ad Anzio. Portato al commissariato, in piena notte, venne trasferito al carcere di Velletri. Secondo gli agenti che lo avevano in custodia, Stefano si rese protagonista di gravi atti di autolesionismo, con il risultato che la mattina seguente fu portato al pronto soccorso più vicino dove solo qualche ora dopo morì. Per la Procura di Velletri, quella morte era stata provocata dalle percosse che Brunetti aveva subito. I quattro poliziotti mandati a giudizio però sono stati assolti in primo grado con le formule "perché il fatto non sussiste" o "per non aver commesso il fatto". Oggi, la conclusione del processo d`appello, con la conferma della sentenza assolutoria. La sorella di Stefano, la signora Carmela, ha cercato di trovare il motivo di quanto avvenuto. In una intervista ha spiegato: "Durante il processo in corte di assise abbiamo fornito prove tecnico-scientifiche inconfutabili, strano che non ne abbiano tenuto conto e che abbiano creduto alla palese e falsa testimonianza dei poliziotti chiamati a testimoniare in favore dei loro colleghi che tra i tanti "non ricordo", ricordavano solo i gesti di autolesionismo di mio fratello che dava pugni e testate sulla porta della cella". "Siamo cresciuti in una famiglia numerosa, nella realtà di un quartiere povero - aggiunse - Stefano frequentava brutte compagnie ed era troppo fragile per distinguere le strade giuste da quelle sbagliate. Troppo fragile per dire di no a quel mondo che ha sporcato le sue abitudini, i suoi scopi, ma non il suo cuore. Cade nel tunnel della droga e nel corso della sua vita la tossicodipendenza lo ha portato a commettere furti, allo scopo di ricavarne i soldi necessari per la droga, ma non era in grado di fare del male a nessuno". Padova: lavoro in carcere, la visita del giuslavorista Michele Tiraboschi e dei suoi studenti Ristretti Orizzonti, 22 ottobre 2015 "È il mondo del carcere che si deve adeguare al lavoro o il lavoro al mondo del carcere?" Confrontarsi con l’esperienza di chi studia ad alto livello il mondo del lavoro è un notevole aiuto per chi porta lavoro in carcere. Per questo motivo è stata importante venerdì 16 ottobre la visita alle lavorazioni carcerarie della casa di reclusione Due Palazzi del professor Michele Tiraboschi, tra i maggiori giuslavoristi del nostro Paese, con 25 tra ricercatori, dottorandi e studenti della facoltà di Economia dell’Università di Modena e Reggio Emilia. Un incontro molto sentito da entrambe le parti, se è vero che sui social media (soprattutto Twitter, Tiraboschi è un nome che conta nel mondo dei 140 caratteri, e i suoi studenti hanno appreso dal maestro) l’atmosfera era già elettrica da qualche giorno. Oltre che docente ed esperto - e in questa veste interveniva nella casa di reclusione - Tiraboschi è direttore del Centro studi internazionali e comparati Marco Biagi dell’Università di Modena e Reggio Emilia e coordinatore del comitato scientifico di Adapt, l’associazione senza fini di lucro, fondata da Biagi stesso nel 2000 per promuovere, in una ottica internazionale e comparata, studi e ricerche nell’ambito delle relazioni industriali e di lavoro. Il giuslavorista però è anche membro del Tavolo numero 8 (formazione e lavoro) degli Stati generali del carcere istituiti dal ministro Andrea Orlando. Così per la sua "prima volta" nella casa di reclusione di Padova, erano presenti su invito di Giotto anche rappresentanti delle più importanti cooperative sociali che portano lavoro in vari istituti penitenziari, da Ragusa a Como, da Perugia, a Rebibbia (Roma), e poi a Venezia, Bollate (Mi), Torino, Opera (Milano) e Monza. Era presente anche il direttore di Veneto Lavoro Tiziano Barone. La giornata è cominciata con la visita alle lavorazioni in carcere, dalla pasticceria al call center, dalla costruzione di biciclette all’assemblaggio delle business key usb, in un dialogo continuo tra i presenti e con i detenuti lavoratori responsabili dei vari settori. Al termine della mattinata, al piano ammezzato da poco trasformato in call center, l’incontro con gli studenti e i rappresentanti delle cooperative, al qualche hanno partecipato anche vari detenuti lavoratori. "Ci sono molti modi di parlare di lavoro in carcere", ha spiegato Boscoletto, "sulla carta sono circa 14mila su 52mila i detenuti che lavorano, ma se andiamo a vedere i circa 11 mila che compiono i cosiddetti lavori domestici (scopino, spesino, porta-vitto…) corrispondono al lavoro annuo di sole duemila persone. In questo modo è molto difficile che una persona possa fare l’esperienza di riacquistare la propria dignità: troppo sporadica l’attività lavorativa, mal pagata (fuorilegge dal 1993) e per nulla qualificante". Frasi a cui hanno fatto eco poco dopo anche quelle di un detenuto che ha raccontato la propria esperienza lavorativa in carcere: "Ho lavorato per quattro anni nella cucina di un altro istituto pagato con le cosiddette mercedi. Quando poi sono arrivato qui a Padova e ho cominciato a fare lo stesso mestiere con la cooperativa, solo allora mi sono reso conto che ero all’anno zero. Non sapevo fare praticamente nulla". La situazione dei vari istituti di pena italiana è stata presentata dagli esponenti delle cooperative sociali, poi è stata la volta dei detenuti, ascoltati con grandissimo interesse dai ragazzi dell’università. "Essere trattati da persone, chiamati per nome e non essere dei semplici numeri di matricola ci fa risentire uomini". "Lavorare secondo regole certe apre nuove relazioni con l’esterno, con le persone che vivono fuori", ha detto uno di loro, "insegna a rispettarsi, a capire il proprio ruolo, a vivere in modo corretto le relazioni con i compagni e i responsabili del proprio settore. Avere un regolare stipendio poi permette di mantenere la famiglia e non doversi più umiliare a chiedere un aiuto economico ai propri cari oltre a slegarsi da situazioni che ti tengono ancorato al passato". "Io sono stato 25 anni in carcere", ha aggiunto un operatore del call center, "sono arrivato qui che non sapevo cos’è era un computer e ora seguo la formazione dei nuovi addetti. E poi da quando lavoro sono cambiati anche i pensieri e i discorsi: quando torni in cella parli di com’è andata la giornata, delle difficoltà che hai incontrato, dei clienti con cui hai avuto a che fare. Prima il tema era sempre lo stesso: i processi, i diritti, i reati, gli avvocati, i permessi… non si riusciva ad uscirne". "È solo se siamo trattati con legalità che impariamo il rispetto delle regole". Al termine, la parola è andata a Tiraboschi. "Anzitutto sono molto grato dell’esperienza fatta oggi, penso che sia stato un grande arricchimento per i miei studenti". Un pensiero ampliato su Facebook nei giorni successivi. "Cosa è il lavoro? Quale è il suo valore? Quali regole lo governano? È tutto scritto molto bene nei nostri libri, ma fino a quando gli studenti non incontrano esperienze reali sono solo parole". Quanto alle cooperative sociali il docente le ha invitate a sintetizzare in un breve documento le difficoltà ma soprattutto le proposte che emergono dal mondo della cooperazione: "Il vostro è un contributo prezioso, sono certo che darete un apporto sostanziale al dibattito in corso agli Stati generali". La giornata si è conclusa, e non poteva essere diversamente, a suon di tweet. "Il lavoro non è solo un’attività economica", ha cinguettato Ilaria, "incontrare i #detenuti #lavoratori ha #(ri)educato anche noi studenti!". E Isabella: "Bellissima esperienza nel carcere di Padova... abbiamo capito la vera importanza del lavoro". Torino: Airaudo (Sel) "illegittimo il licenziamento dell’educatrice del carcere" Ansa, 22 ottobre 2015 Il caso dell’educatrice a contratto del carcere di Torino licenziata per aver indossato una maglietta con la scritta "No Tav" e per un abbraccio a un’amica incontrata all’uscita dal lavoro durante un presidio di solidarietà agli arrestati per gli incidenti al cantiere di Chiomonte "è illegittimo e discriminatorio perché in contrasto con quanto sancito dalla nostra Costituzione e dallo Statuto dei lavoratori". Lo afferma il responsabile nazionale lavoro di Sel, Giorgio Airaudo, che sul caso ha presentato una interrogazione ai ministri della Giustizia e del Lavoro. "Essere contro l’Alta Velocità non è un reato né una giusta causa di licenziamento - aggiunge - è una libera manifestazione del proprio pensiero. In una democrazia manifestare per le proprie idee non può far perdere il lavoro. I ministri Poletti e Orlando intervengano per far revocare il provvedimento adottato". Sassari: l’Uspp denuncia "nel carcere di Bancali c’è una cronica carenza di organico" Ansa, 22 ottobre 2015 "Da quando sono stati accolti detenuti in regime di 41 bis la carenza di organico nel carcere di Sassari è cronica, il problema non può essere affrontato con soluzioni tampone". Lo denuncia Giuseppe Moretti, presidente dell’Unione sindacati di polizia penitenziaria, ieri in visita a Bancali. Moretti è tornato a Sassari "per verificare lo stato di disagio vissuto dal personale". Per Moretti "una carenza di 75 sottoufficiali non può essere tollerata, eliminare il posto di servizio con un sistema di vigilanza dinamico non funziona in strutture complesse come Sassari". A Bancali "occorre un comandante di reparto in pianta stabile per dare certezza organizzativa al personale", insiste il segretario dell’Uspp. La visita "è stata l’occasione per calibrare una nuova strategia rivendicativa che porti a un vero miglioramento delle condizioni lavorative del personale di polizia penitenziaria", senza il quale si va verso la mobilitazione. "Se non si risolverà la situazione, che riguarda anche Tempio, saremo costretti a manifestare pubblicamente", annuncia il segretario regionale Alessandro Cara. Viterbo: raccolti 600 euro di attrezzature sportive per i detenuti di Mammagialla viterbonews24.it, 22 ottobre 2015 Durante il triangolare di calcio tra le Nazionali dei giornalisti sportivi Rai, jazzisti e l’Associazione Pianeta Giustizia che si è svolto a Marta nel weekend. "Seicento euro. È questa la cifra raccolta per l’acquisto di attrezzature sportive per i detenuti del carcere Mammagialla di Viterbo durante il Triangolare di Calcio tra le Nazionali dei giornalisti sportivi Rai, jazzisti e l’Associazione Pianeta Giustizia svoltosi a Marta nel fine settimana". A renderlo noto è l’avvocato Ottavio M. Capparella, presidente dell’Associazione Pianeta Giustizia Viterbo che ha organizzato l’iniziativa "Diritti in Campo" assieme al consigliere regionale Riccardo Valentini. "Un risultato importante - prosegue Capparella - un primo fondamentale segnale di interesse e vicinanza alla condizione carceraria e a una delle tante necessità dell’istituto penitenziario viterbese. La necessità di avere spazi attrezzati che sono al tempo stesso spazi di socializzazione e condivisione. Spazi decisivi perché luoghi di reinserimento sociale. Un ringraziamento particolare va poi al Presidente della Camera Penale di Viterbo, avvocato Mirko Bandiera, e a tutti coloro che hanno dato il loro contributo sia sul piano organizzativo sia su quello della raccolta fondi permettendo la realizzazione al meglio dell’iniziativa ‘Diritti in Campo"‘. "Sono stati due gli obiettivi dell’iniziativa "Diritti in Campo" - aggiunge Valentini - Da un lato la sensibilizzazione sulle problematiche che caratterizzano la vita dei detenuti, dall’altro la promozione e valorizzazione del territorio del Lago di Bolsena attraverso una competizione sportiva che ha portato a Marta due Nazionali di calcio e una rappresentanza di avvocati viterbesi grazie all’Associazione Pianeta Giustizia. Territorio e istituzione carceraria insieme - conclude Riccardo Valentini - anche per dire che l’una è parte integrante dell’altro ed è da questo punto che occorre innanzitutto partire per affrontare tutti i problemi". Bollate (Mi): invito a cena coi detenuti, apre il ristorante "In galera" di Mario Consani Il Giorno, 22 ottobre 2015 Dentro a mangiare. Per la prima volta in Italia un ristorante in un carcere - con cuochi e camerieri detenuti - accoglierà i clienti esterni, creando di fatto un ponte con chi sta fuori. Lunedì apre "InGalera", all’interno della II casa di reclusione di Milano-Bollate. L’idea è nata dall’incontro tra l’esperienza di "Abc sapienza in tavola", cooperativa sociale nata all’interno del carcere che si occupa di catering solidale, e PwC Italia, parte del network professionale che opera nei servizi alle imprese e che ha messo le proprie competenze economiche e finanziarie a sostegno del ristorante "sociale". Tutto ciò reso possibile, ovviamente, dalla direzione della casa di reclusione che concede in comodato d’uso nella propria struttura gli spazi per la realizzazione del ristorante. "Abc la sapienza in tavola" è la coop onlus fondata una decina d’anni fa da Silvia Polleri, da sempre impegnata nel volontariato internazionale e milanese. A Bollate, con l’appoggio dell’allora direttrice Lucia Castellano, nacque uno dei marchi che si sarebbe conquistato un’importante fetta di mercato nel settore del catering. Come dipendenti della cooperativa, solo detenuti. "È stata un’occasione formidabile di reinserimento e di costruzione di mestieri e professioni", ha raccontato in varie occasioni Polleri, che ha di fatto allevato dietro le sbarre pizzaioli, pasticcieri, cuochi, camerierie gastronomi. Il catering di Abc ha rifornito in questi anni clienti ordinari e anche vip, non trascurando svariati passaggi a Palazzo di Giustizia in occasione di colazioni e buffet per convegni e incontri tra magistrati. Ora il grande salto: un ristorante aperto al pubblico all’interno del carcere, "che vuole essere visto come un luogo in cui si va per mangiare bene, non per fare una buona azione". Un’iniziativa unica nel suo genere in Italia e una delle prime a livello mondiale (in Galles, a Cardiff, c’è The Clink). Il ristorante che apre lunedì troverà spazio tra la portineria e gli uffici, ovviamente lontano dalle celle, prevede una cinquantina di coperti e personale di detenuti e tirocinanti della scuola alberghiera Paolo Frisi attiva all’interno del carcere. "Verrà servita cucina italiana, con la speranza che oltre alla curiosità iniziale, i clienti ritornino spinti dal buon trattamento. Si tratta di un’occasione speciale per confrontarsi con il vero mercato del lavoro" ha spiegato ai giornali il presidente di Abc. Lunedì all’inaugurazione ufficiale, insieme agli ideatori di questo progetto interverranno anche il provveditore regionale lombardo alle carceri Aldo Fabozzi, Paolo Morerio della Fondazione Vismara e Paola Bignardi di Fondazione Cariplo e Luca Azzollini della scuola alberghiera Frisi. A fare gli onori di casa, naturalmente, il direttore del carcere di Bollate, Massimo Parisi. Roma: gli attori-detenuti di Rebibbia di scena al Teatro Boni di Acquapendente newtuscia.it, 22 ottobre 2015 Dopo il successo della presentazione di domenica scorsa, che ha visto la partecipazione tra gli altri di Alessandro Benvenuti e Tiziana Foschi, inizia la nuova stagione del Teatro Boni di Acquapendente diretta da Sandro Nardi, un calendario di spettacoli di elevata qualità tra prosa, danza, musica, eventi speciali. Il primo appuntamento, domenica 25 ottobre alle ore 17.30, è con il teatro sociale: in scena "La verità nell’ombra" di Patrizio Pacioni, autore di origine viterbese, per la regia di Francesco Cinquemani. A rappresentarlo la Compagnia Stabile Assai del penitenziario romano di Rebibbia, composta da detenuti, alcuni dei quali in semilibertà. L’adattamento teatrale è di Antonio Turco e Patrizia Spagnoli. Il celebre processo di Viterbo, con l’assassino di Salvatore Giuliano, il suo luogotenente Gaspare Pisciotta, è il contenitore nel quale si dipana una storia non solo processuale. Il ritratto dell’Italia nella ricostruzione post bellica corrisponde a definire personaggi appartenenti a un’epoca molto confusa e contradditoria in cui si è andata consolidando il rapporto di potere tra Stato e mafia. Gli attori-detenuti come Salvo Buccafusca, appartenente alla famiglia mafiosa di Pippo Calò, poi laureatosi in sociologia in carcere e oggi imprenditore edile; Francesco Rallo, detenuto ergastolano appartenente al clan mafioso di Partanna; Aniello Falanga, detenuto ergastolano appartenente al clan camorristico della famiglia Alfieri; Cosimo Rega, detenuto ergastolano noto per aver vinto con la regia dei Fratelli Taviani l’Orso d’oro al Festival di Berlino nel 2012 con "Cesare deve morire"; Giovanni Arcuri, noto narcotrafficante e oggi affidato ai servizi sociali; Daniele Arzenta, ex terrorista e oggi apprezzato pittore, allievo prediletto del maestro Baruchello; Renzo Danesi tra i veri fondatori della Banda della Magliana ed oggi operaio, sono i protagonisti dell’opera. La scrittura drammaturgica è affidata ad Antonio Turco, il fondatore (nel lontano 1982) della Compagnia, funzionario pedagogico della casa circondariale di Rebibbia. La colonna sonora è eseguita da Lucio Turco, uno dei più grandi batteristi di jazz italiani, Roberto Turco, bassista di Rino Gaetano, Barbara Santoni, nota voce soul di Roma, Paolo Tomasini, sax tenore dei Bianca Blues & i 7 Soul, Paolo Petrilli, bandoneon e fisarmonica, coautore delle musiche di alcuni film di Pupi Avati e Gian Franco Cantucci, voce della musica popolare del Sud. Promozione speciale fino al 25 ottobre: per chi acquista l’abbonamento il prezzo è di 130 euro che comprende l’ingresso a 13 spettacoli. Per ulteriori informazioni: teatroboni.it - 0763.733174 - 334.1615504. "Suburra", un film a Cinque Stelle… ma quelle di Grillo di Angela Azzaro Il Garantista, 22 ottobre 2015 Il qualunquismo ora ha anche il suo film-manifesto. Andate a vedere "Suburra" e capirete che l’ideologia che in questi anni ha sparato a zero sulla politica (al grido: sono tutti corrotti) ha trovato un supporto nell’immaginario cinematografico di primo piano. "Suburra", tratto dall’omonimo romanzo di Carlo Bonini e Giancarlo De Cataldo, racconta l’intreccio tra parlamentari, Ior (la banca del Vaticano), mafia e sottobosco della vita notturna romana. È stato girato da Stefano Sollima, il bravo regista delle serie tv "Gomorra" e "Romanzo criminale", e ha nel cast attori di spicco come Pierfrancesco Favino, Claudio Amendola e l’astro nascente Alessandro Borghi, candidato all’Oscar con il film "Non essere cattivo". La sceneggiatura, dei sempre presenti e sempre uguali Rulli e Petraglia, fa acqua da tutte le parti. Non solo perché per raccontare una Roma cupa e spettrale, la immaginano sempre in preda al diluvio, ma perché la storia procede in maniera manichea: i politici sono tutti corrotti, in Vaticano è tutto o quasi marcio, i personaggi di secondo ordine sono disposti a calpestare chiunque pur di trarre anche solo qualche vantaggio per loro stessi. Il male è ovunque, la mafia controlla la città, il parlamento è un posto tetro e disonesto. Qualcuno ha detto: però Sollima c’ha preso. "Suburra" è stato girato durante i primi arresti di mafia capitale e per molti ha avuto capacità quasi profetiche. Ma può essere questa una qualità tale da rendere un film un buon film? No. Non basta. Perché quello che già si presenta come un processo fondato - più che sulle prove - su una tesi, s’intreccia a un’opera filmica altrettanto incapace di uscire dai luoghi comuni e dagli stereotipi. La storia inizia una settimana prima della caduta del governo Berlusconi, a cui si fa esplicito riferimento. È un ritorno al passato, a quella cultura che oggi non si nutre più dell’odio verso il Cavaliere ma che ha in quel momento una tappa fondativa. Favino è un politico di centrodestra che fa votare una legge per favorire la mafia. L’affare è grosso: trasformare Ostia in una città tipo Las Vegas. Il protagonista finisce in questa brutta storia un po’ perché è corrotto di suo, un po’ perché una sera succede l’irreparabile. Mentre ha un rapporto con due prostitute, una delle due, la più giovane, muore di overdose. Per lui inizia l’incubo. La scena di sesso è contraddittoria: da un lato è filmata per esprimere riprovazione sociale e morale sui politici che fanno tutti così; dall’altra è però ripresa in modo tale da attirare e gratificare lo sguardo dello spettatore. Quello stesso spettatore che in fondo si vuole lusingare in tutti i modi, anche con scene di sesso. I cittadini non sono corrotti. Coloro che guardano non sono corrotti. Non lo sono mai. Loro sono la parte migliore della società, coloro che subiscono. Il colpevole è uno, uno solo. Anzi sono tutti coloro che siedono in Parlamento, fuorché quelli del Movimento Cinque stelle che hanno fatto della legalità la loro bandiera. Questo è "Suburra". Un mix incredibile di romanesco (i dialoghi sono penosi e sintetizzabili in un "aò"), di populismo, giustizialismo, in cui i personaggi sono descritti senza contraddizioni. Così chi guarda il film può pensare che lui sì è bravo, buono, perfetto. "Suburra" è il classico film che dà in pasto a chi lo vede un capro espiatorio, a cui attribuire tutte le colpe. I cittadini invece, soprattutto i Cittadini a 5 stelle, sono giusti, onesti, perfetti. Loro, solo loro, stanno dalla parte delle verità. L’invasione non c’è stata, sbarchi in calo di Carlo Lania Il Manifesto, 22 ottobre 2015 Rapporto del Viminale su arrivi, strutture di accoglienza e costi dell’immigrazione. L’invasione tanto temuta non c’è stata. Fino al 10 ottobre scorso sono sbarcati in Italia 136.432 migranti, il 7,4% in meno rispetto ai primi dieci mesi del 2014. E le previsioni fanno ritenere che per la fine dell’anno gli arrivi potranno al massimo eguagliare la cifra raggiunta sempre l’anno scorso, quando ne vennero registrati in tutto 170 mila. Certo non si tratta di cifre piccole, ma l’esperienza dimostra che per quanto complicato possa essere, abbiamo di fronte un fenomeno che è ancora possibile gestire senza particolari traumi e soprattutto smorzando le paure ingigantite al solo scopo di racimolare qualche voto in più. Le cifre relative agli arrivi di migranti nel nostro paese sono contenute nel "Rapporto sull’accoglienza di migranti e rifugiati in Italia" presentato ieri al ministero degli Interni. Si tratta di uno studio attento delle politiche messe in campo in tema di accoglienza in previsione delle possibili situazioni di difficoltà che le tante crisi in corso sull’altra sponda del Mediterraneo, dalla guerra civile in Libia al conflitto siriano, avrebbero potuto provocare con un incremento massiccio del numero di arrivi. Così non è stato, o non del tutto, anche perché dallo scorso mese di aprile in poi le centinaia di migliaia di siriani in fuga verso l’Europa hanno scelto una rotta diversa preferendo attraversare i Balcani anziché rischiare la vita nel canale di Sicilia che si conferma in ogni caso come uno dei percorsi più pericolosi del mondo. La via del mare resta comunque quella principale per chi proviene dai paesi dell’Africa subsahariana. Il risultato è che è sono cambiate le nazionalità di origine: se nel 2014 il paese di provenienza maggiormente rappresentato è stato la Siria con 43.323 presenze, seguito da Eritrea (34.329) e dal Mali (9.908), quest’anno a guidare la geografia delle partenze risulta l’Eritrea, con 36.838 migranti, seguita dalla Nigeria (18.452) e dalla Somalia (10.605). Per quanto concerne l’accoglienza, il rapporto ricorda come il sistema si regga su "diverse tipologie di strutture: centri di accoglienza governativi, strutture temporanee e rete Sprar (Sistema di protezione richiedenti asilo e rifugiati, ndr), che in ragione delle diverse funzioni hanno modelli organizzativi, voci di costo e tempi di permanenza differenziati". In tutto vi trovano posto 99.096 migranti, la maggior parte dei quali, 70.918, pari al 72%, è ospitato nelle 3.090 strutture temporanee (Cas) esistenti, 21.814 nella rete Sprar, 7.290 nei cara. 464 migranti sono invece ancora detenuti nei Cie, i centri di identificazione ed espulsione. Per quanto riguarda la distribuzione territoriale, dopo le polemiche di questa estate la Lombardia ha infine accettato di ospitare migranti nel proprio territorio, tanto da risultare oggi con la Sicilia la regione che ospita la percentuale maggiore di migranti (13%), seguite dal Lazio (95), Campania (8%) Piemonte, veneto e Toscana (7%) Puglia ed Emilia Romagna (6%). Per quanto riguarda i costi, il Viminale stima che nel 2015 verranno spesi 1.162 milioni di euro suddivisi in 918,5 milioni per le spese relative alle strutture governative (Cara, Cda, Cpsa) e temporanee e 242,5 milioni per i centri Sprar. È bene ricordare come ogni migrante adulto costa 35 euro al giorno (ma solo 2,5 vanno direttamente a lui) e un minore 45, molto meno rispetto ai costi sostenuti nel corso dell’emergenza nord Africa del 2011, quando un adulto costava 46 euro al giorno e un minore 75. Calcolando anche gli stipendi degli operatori, l’affitto delle strutture, il costo totale per l’immigrazione è pari all’1,58% della spesa pubblica nazionale, mentre se si calcolano il gettito fiscale e i contributi previdenziali versati dai migranti che lavorano in Italia, il rapporto costi benefici fa segnare un attivo per lo Stato di 4 miliardi di euro. "Un rapporto che presenta luci ed ombre", è stato il commento di Libera, LasciateCIEntrare e Cittadinanzattiva ai dati del Viminale. che ricordano come dallo studio manchi ogni "riferimento alle illegalità, alle opacità, ai grandi affari che mafie e corruzioni, come dimostrano le recenti inchieste, hanno operato sulla pelle dei migranti" Rifugiati: i Balcani sotto pressione di Anna Maria Merlo Il Manifesto, 22 ottobre 2015 Juncker convoca un mini-vertice domenica tra Europa del sud-est (più Germania e Austria) con Macedonia e Serbia. Crisi umanitaria. Juncker convoca un mini-vertice domenica tra Europa del sud-est (più Germania e Austria) con Macedonia e Serbia. La politica della redistribuzione è già travolta dalle cifre in crescita. In Francia, "Appello di Calais" firmato da 800 intellettuali, per ritrovare "dignità" nell’accoglienza (nella "giungla" i rifugiati sono saliti a 6mila, raddoppiati in poche settimane). Hollande in Grecia per rassicurare dopo le promesse di Merkel alla Turchia Jean-Claude Juncker ha convocato per domenica un mini-vertice Ue-Balcani a Bruxelles. Ci saranno i paesi del sud-est europeo, Bulgaria, Romania, Ungheria, Slovenia, Grecia, paesi di transito dei rifugiati, accanto a Germania e Austria, destinazioni di arrivo. Sono invitate Serbia e Macedonia, che incontreranno, oltre alla Ue e alla presidenza lussemburghese, anche rappresentanti di Frontex, dell’Easo (Ufficio europeo per l’asilo) e dell’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati. La Ue cerca di trovare una soluzione al caos che sta sopraffacendo i Balcani, mentre i piani europei di ricollocamento di 160mila persone sono ormai travolti dalla cifre in crescita, 643mila entrati nella Ue dopo aver attraversato il Mediterraneo dall’inizio dell’anno. In soli due giorni, dal 16 al 18 ottobre, 28mila persone sarebbero arrivate in Grecia, secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni. La situazione è resa ancora più caotica dalle successive chiusure delle frontiere: il 16 ottobre l’Ungheria ha bloccato il confine con la Croazia, dopo aver già alzato un muro, un mese prima, con la Serbia, la Slovenia afferma di aver accolto 19.500 persone nello scorso fine settimana e ha fatto intervenire l’esercito (ma solo per "assistenza logistica" assicura il primo ministro Miro Cerar). Altri paesi potrebbero venire coinvolti in prima linea, come l’Albania e il Montenegro, visto che in migliaia sono bloccati in Serbia e in Macedonia. La Francia è lontana dalle rotte della fuga dei rifugiati dalla Siria, ma la presenza di migranti è raddoppiata nelle ultime tre settimane a Calais, moltiplicata per venti in due anni. Nella "giungla" ci sono ormai 6mila rifugiati, che vivono in uno stato di emergenza, sanitaria, di violenza. Ieri, il ministro degli Interni, Bernard Cazeneuve, si è recato sul posto per la settima volta. È una prima risposta al "Appello di Calais", pubblicato ieri mattina su Libération e firmato da più di 800 personalità del mondo della cultura e dello spettacolo. Dai fratelli Dardenne a Bertrand Tavernier, da Omar Sy a Jeanne Moreau, da Edgar Morin a Thomas Piketty, Enki Bilal, Christine Angot o Eric Cantona, hanno tutti sottoscritto un testo di accusa al governo, per chiedere "un ampio piano di emergenza per far uscire la giungla di Calais dalla mancanza di dignità nella quale si trova". Il mondo della cultura si indigna per il "disimpegno dei poteri pubblici", che è "una vergogna in un paese che, benché in periodo di crisi, resta la sesta potenza mondiale". Il governo è accusato di "scaricare sulle associazioni e sulle buone volontà" la cura dei rifugiati. Cazeneuve ammette che la crisi, benché non sia nuova, "ha preso incontestabilmente una svolta particolare con l’accelerazione della crisi migratoria in Europa". Cazeneuve fa l’equilibrista tra l’indignazione dell’Appello e l’opinione pubblica più in generale (un ultimo sondaggio rileva che il 53% dei francesi è ostile all’accoglienza), ricorda l’impegno di offrire un’accoglienza più degna, con 1500 posti e promette "maggiori mezzi", ma solo 200 posti al centro Jules Ferry per donne e bambini particolarmente vulnerabili. Il numero dei rifugiati cresce e il programma di trasferimenti è inoperante, le persone allontanate da Calais vi ritornano, perché vogliono andare in Gran Bretagna. Londra ha dato dei soldi alla Francia per scaricare il problema, ha inviato dei poliziotti e ha costruito la griglia che dovrebbe bloccare i tentativi di passaggio clandestino nel tunnel sotto la Manica (da luglio ci sono stati già 16 morti). La sindaca di Calais, Natacha Bouchart (del partito di Sarkozy), continua a chiedere l’intervento dell’esercito per sorvegliare la "giungla, perché non sappiamo bene cosa succede lì dentro". Cazeneuve cede e annuncia l’invio di altri agenti di polizia, per impedire i passaggi clandestini. François Hollande oggi e domani sarà in Grecia, per cercare di rassicurare Atene sulle promesse che Angela Merkel ha fatto a Erdogan per ottenere che la Turchia freni le partenze di rifugiati e accetti di riaccogliere chi non ha ottenuto l’asilo in Europa. La Grecia vorrebbe degli hot spots sul territorio turco, ma questo sistema mostra già di non funzionare in Europa, molti migranti rifiutano questa procedura e i ricollocamenti, poiché vogliono raggiungere specifici paesi (Germania, Svezia, Gran Bretagna). La tentazione di Netanyahu: usare il passato nella Terza Intifada di Adriano Sofri La Repubblica, 22 ottobre 2015 Indicando un palestinese come suggeritore della Shoah vuole ricondurre gli scontri attuali dentro quella storia. Così, Benjamin Netanyahu ha voluto ridirlo: Hitler voleva solo cacciare gli ebrei, a dargli l’idea di bruciarli fu il Gran muftì di Gerusalemme. L’aveva già detto nel 2012. Allora si era accontentato di annoverare Haj Amin Al-Husseini (1895 -1974) fra "i principali architetti" del genocidio. Ora l’ha ripetuta addirittura al Congresso sionista mondiale. La cosa è insieme una sciocchezza e un’enormità: decide il contesto. È una sciocchezza, perché trasforma una verità, il sincero e accanito filonazismo di Al-Husseini, in un aneddoto futile e infondato: il 28 novembre del 1941 i due si incontrano e Hitler, che finora non ci ha pensato, si sente dire dal suo amico e accolito che, se si limiterà a cacciare gli ebrei dalla Germania, saranno loro, i palestinesi, a trovarsene invasi, e l’ingenuo e cortese Hitler chiede: "Bè, e che cosa dovrei fare allora?", "Bruciali!", dice il muftì, e Hitler la trova una buona idea e dunque li brucia… La storiella è grottesca, e può ottenere intanto di far dimenticare il rilievo dell’adesione del Gran muftì al nazismo, additato come modello di valori e di organizzazione al mondo arabo e musulmano. Nel coro di voci che si sono levate a protestare contro la versione di Bibi c’è anche uno sdegnato Saeb Erekat per conto dell’Olp: "L’impegno palestinese contro il regime nazista è profondamente radicato nella storia". Purtroppo, nella storia è ancora più radicato l’impegno filonazista. Tolgo da un libro di Carlo Panella due citazioni significative. La prima è dello stesso muftì, in un discorso del dicembre 1944 a un reparto di Ss islamiche a Sarajevo: "La Germania nazionalsocialista sta combattendo contro il mondo ebraico. Il Corano dice. "Voi vi accorgerete che gli ebrei sono i peggiori nemici dei musulmani". Vi sono inoltre considerevoli punti in comune tra i principi islamici e quelli del nazionalsocialismo, vale a dire nei concetti di lotta, di cameratismo, nell’idea di comando e in quella di ordine". La seconda è di Sami Al-Jundi, cofondatore nel 1937, assieme a Michel Aflaq, del partito Baath: "Eravamo nazisti, ammiratori del nazismo, leggevamo i suoi testi e le fonti della sua dottrina, specialmente Nietzsche, Fichte e i Fondamenti del secolo XIX di H.S. Chamberlain, tutto incentrato sulla razza. Fummo i primi a pensare di tradurre il Mein Kampf. Chiunque fosse vissuto in quegli anni a Damasco, si sarebbe reso conto della propensione del popolo arabo verso il nazismo, perché il nazismo era la potenza che poteva essere presa a modello". Molto ragionevolmente, il direttore del Centro Wiesenthal di Gerusalemme, Efraim Zuroff, ha commentato: "L’affermazione di Netanyahu è totalmente senza basi. Che il muftì spingesse sui nazisti e volesse l’invasione della Palestina è fuori discussione, ma Hitler non doveva essere convinto da nessuno". Piuttosto due ossessioni si combinarono: quella di Hitler, antica e rafforzata dall’esempio del genocidio (non si chiamava ancora così) armeno, e quella del fanatico agitatore arabo, che assegnava alla liquidazione degli ebrei un valore apocalittico. Quanto al governo tedesco, il portavoce della signora Merkel è stato costretto a una precisazione quasi surreale, un "Giù le mani dalla colpa dei tedeschi": "Non c’è nessun motivo per cambiare la storia. Conosciamo bene l’origine dei fatti ed è giusto che la responsabilità ricada sulle spalle dei tedeschi". La rettifica di Netanyahu era inevitabile: non ho cercato di assolvere Hitler dalla sua colpa, ha detto. Già: però a trasformare una sciocchezza in un’enormità è il contesto. Il contesto è quello della cosiddetta terza intifada. Bibi Netanyahu si è lasciato tentare dal sollecitare i documenti fino a fare di un palestinese il suggeritore della Shoah, e a ricondurre così per intero il conflitto dentro quella storia. A far sì che sia quel passato a ingoiare e dannare la rivolta dei giovani palestinesi di oggi, l’intifada spontaneista e disperata dei coltelli usati per colpire ed essere colpiti. È questo a fare della sua sciocchezza un’enormità. Il contesto del vicino oriente è sempre più incontrollato. Tempo fa Recep Tayyep Erdogan ha spiegato che i marinai musulmani erano arrivati in America da tre secoli quando ci arrivò Cristoforo Colombo, il quale trovò una moschea bell’e costruita su una montagna di Cuba. Il contesto: la signora Merkel che, dopo tanta accanita ostilità, va a offrire a Erdogan un ammorbidimento rispetto all’ammissione nella Ue nel momento in cui il regime turco esaspera violenze, intimidazioni, arresti e censure, e alla vigilia della più delicata scadenza elettorale, ne è un’ulteriore prova. Oggi Netanyahu è a Berlino, e la prima cosa che deve riuscire a fare è rassicurare i suoi interlocutori tedeschi: sono stati i tedeschi, e non altri, a desiderare, ideare e attuare la soluzione finale. Poi passiamo all’agenda. Brasile: caso Pizzolato; i senatori Pd Guerra e Manconi "salviamo il nostro connazionale" Ansa, 22 ottobre 2015 "Tra 24 ore è possibile che il nostro connazionale Henrique Pizzolato venga impacchettato ed estradato in Brasile. Pizzolato è stato condannato in quel paese a 12 anni e mezzo di carcere e, da tempo, è detenuto nell’istituto penitenziario di Modena". È quanto scrivono in una nota i senatori del Pd Cecilia Guerra e Luigi Manconi ricordando che "tra Italia e Brasile è in via di definizione un trattato, già sottoscritto dal nostro paese, che consentirebbe a Pizzolato di scontare la pena in Italia". "Questa possibilità, - affermano i parlamentari - risulta ignorata dal nostro governo. E ciò perché le autorità brasiliane avrebbero garantito incondizionatamente la tutela dell’incolumità del detenuto in una speciale sezione del carcere di Papuda per detenuti vulnerabili". Ma proprio le condizioni generali del carcere precipitano in queste ore, mettono in guardia i due senatori Pd, "è stato teatro - affermano - di un tentativo di evasione, nel corso di un’agitazione della polizia penitenziaria". Dunque non in grado di garantire a Pizzolato "il pieno rispetto di tutti i suoi diritti" e la "totale protezione della sua incolumità". Inoltre, scrivono, in questo carcere Pizzolato "dovrebbe stare fino al giugno 2016", "per essere poi trasferito in un istituto a regime ordinario". Gli esponenti Pd domandano al governo se "è serio che in queste condizioni Pizzolato, italiano che già sconta la sua pena, venga esposto a rischi possibili per la sua incolumità e alla violazioni certe dei suoi diritti". "Questa vicenda - concludono - ci appare ancor più contraddittoria perché nulla impone una simile soluzione". "Abbiamo seriamente creduto che Pizzolato potesse rimanere in Italia - concludono - confortati dalle parole pronunciate più volte dal ministro della Giustizia. Parole inequivocabili. Evidentemente non avevamo capito". Stati Uniti: un giudice della Corte Suprema "la pena di morte potrebbe essere abolita" di Rolla Scolari Il Giornale, 22 ottobre 2015 Apertura del giudice di origini italiane Scalia, uno dei saggi della Corte Suprema: "Non sarei sorpreso se fosse giudicata incostituzionale". È arrivata da una delle voci conservatrici della Corte Suprema americana un’apertura nei confronti della possibile abolizione della pena di morte negli Stati Uniti. Antonin Scalia, 70 anni, giudice nominato 30 anni fa dal presidente Ronald Reagan, ha detto parlando agli studenti di una facoltà di giurisprudenza in Minnesota che non si stupirebbe di una possibile decisione della Corte sull’incostituzionalità della pena di morte. Il dibattito sulla questione è diventato negli ultimi anni ancora più pressante negli Stati Uniti dopo il caso, nel 2014, dell’esecuzione in Oklahoma di Clayton Lockett, condannato a morte nel 2000 per omicidio, rapimento e stupro. In seguito alla somministrazione dell’iniezione letale, l’uomo è morto soltanto dopo 43 minuti di dolorosa agonia. Il caso ha sollevato polemiche, orrore e controversie nell’opinione pubblica. L’ottavo emendamento della Costituzione americana vieta punizioni considerate "inusuali e crudeli". Altri casi simili a quello di Clayton Lockett si sono verificati in altri stati dell’Unione. Da diversi anni infatti le società farmaceutiche dell’Europa, dove non esiste da anni la pena di morte, che fornivano agli Stati Uniti i farmaci per il mix dell’iniezione letale hanno smesso di farlo per questioni etiche. I penitenziari dei singoli stati americani hanno cominciato quindi ad affidarsi a laboratori locali, ma i risultati sono spesso stati devastanti. Tanto che la questione è stata affrontata dalla Corte Suprema quando tre detenuti "nel braccio della morte" hanno fatto ricorso ai giudici. A giugno, la Corte Suprema - dopo divisione e tensioni enormi interne tra i giudici - han ritenuto costituzionale l’utilizzo del mix di droghe per l’iniezione letale: cinque voti favorevoli e quattro contrari. Tuttavia, all’università del Minnesota Scalia ha ricordato come le decisioni della Corte Suprema sulla pena di morte abbiano "quasi sempre reso impossibile imporla, ma non l’abbiamo formalmente dichiarata incostituzionale". "Non mi sorprenderebbe se lo diventasse", aveva spiegato poco prima, durante l’incontro con gli studenti. Diversi stati in questi mesi stanno faticando a trovare metodi considerati costituzionali in America - secondo l’ottavo emendamento già citato - per portare a termine le esecuzioni, in seguito alla difficoltà di reperire farmaci adeguati, che non causino ulteriori sofferenze ai condannati a morte. In questi giorni, il governatore dell’Ohio, John Kasich, ha per esempio posticipato a una data non specificata nel futuro undici esecuzioni in programma per il 2016 e una per il 2017 proprio perché lo stato, non volendo usare cocktail farmaceutici che potrebbero ricreare casi simili a quello di Lockett, non ha ancora trovato alternative alle droghe finora utilizzate. Il dibattito etico avanza e si irrobustisce, con le associazioni per i diritti umani che sottolineano come i recenti casi di morti in agonia di detenuti e condannati provino la necessità di un veloce cambiamento. Lo stesso Papa Francesco, che ha parlato in settembre davanti al Congresso degli Stati Uniti, ha chiesto all’America e al mondo di abolire la pena di morte. Dall’altra parte, i sostenitori della pena capitale nel Paese hanno avanzato proposte dibattute anche a livello di assemblee locali, come la ripresa di antichi e controversi metodi per le esecuzioni: l’impiccagione, la sedia elettrica e persino il plotone di esecuzione. Stati Uniti: i capi dei dipartimenti di polizia "più misure alternative e meno carcerazioni" giornalettismo.com, 22 ottobre 2015 130 Capi di altrettanti Dipartimenti di polizia degli Stati Uniti hanno firmato una presa di posizione nella quale chiedono lo svuotamento delle carceri americane, che secondo loro sono state riempite di persone che non ci dovrebbero stare. I capi delle polizie americane hanno formato un gruppo di pressione per l’introduzione di misure alternative alla detenzione, la riduzione delle leggi penali e l’abolizione delle pene minime detentive obbligatorie. Il gruppo s’incontrerà domani con il presidente Obama e oggi ha presentato il progetto in una conferenza stampa. Nel gruppo ci sono i capi delle polizie delle maggiori città del paese, da William J. Bratton di New York a Charlie Beck di Los Angeles e Garry F. McCarthy di Chicago, ai quali si sono uniti anche diversi pubblici ministeri da tutto il paese. Gli Stati Uniti hanno la più alta percentuale di popolazione dietro le sbarre, staccando in tale classifica e con ampio margine anche i regimi più repressivi. La severità del sistema giudiziario americano per di più non ha particolari effetti sul tasso di criminalità, sul quale comunque è noto non influisca un maggiore o minore ricorso alla carcerazione. Quando poi l’osservazione della popolazione carceraria riporta l’immagine di un sistema che ha incarcerato in gran parte persone di pelle nera e che allo stesso modo detiene i malati mentali che non hanno altre attenzioni dallo stato, soprattutto per reati che in altri paesi sarebbero sanzionati a fatica con una contravvenzione, diventa evidente che la prima e unica cosa da fare sia quella di ridurre per legge il numero degli imprigionati. Pakistan: ieri 5 impiccagioni, numero esecuzioni sale a 14 in 24 ore Agi, 22 ottobre 2015 Almeno 5 detenuti sono stati impiccati ieri in Pakistan, facendo salire il numero delle esecuzioni nelle ultime 24 ore a 14. Le utime esecuzioni si sono svolte a Lahore, Bahawalpur, Toba Tek Singh, Mianwali, Dera Ghazi Khan, nella provincia centrale di Punjab. A riferirlo un alto funzionario, che ha voluto l’anonimato. Ieri sono state eseguite le condanne a morte per altri 9 uomini. Le impiccagioni hanno portato il conteggio delle esecuzioni a oltre 250. Nel Pakistan è stata revocata una moratoria a dicembre, dopo l’attacco da parte dei talebani in una scuola nel nord-ovest del Paese che causò la morte di 150 persone, la maggior parte bambini. Le impiccagioni erano state ripristinate solo per i condannati per terrorismo ma nel marzo scorso sono state estese a tutti i reati capitali. L’Unione Europea e le Nazioni Unite, oltre alle associazioni per i diritti umani, avevano chiesto urgentemente al Pakistan di ripristinare la moratoria. Amnesty International ha stimato a dicembre che il Pakistan ha oltre 8 mila detenuti nel braccio della morte. Brasile: carceri nel caos, guardie consegnano le chiavi ai prigionieri per mantenere ordine di Chiara Nardinocchi La Repubblica, 22 ottobre 2015 Le prigioni del Pernambuco tra sovraffollamento e violenze, al limite del collasso. Tra celle stracolme e condizioni igienico-sanitarie indecenti, la mancanza di agenti lascia spazio alla criminalità. Per questo in diverse case circondariali i secondini scelgono dei prigionieri per "mantenere l’ordine" a discapito della legalità. Umanità e legge sono due parole che perdono di significato quando si volge lo sguardo alla situazione carceraria brasiliana. La zona più colpita da fenomeni di sovraffollamento e criminalità è la regione di Pernambuco, nel nord est del paese. Qui, con il personale ridotto all’osso e condizioni detentive inumane, gli agenti arrivano a cedere le chiavi delle celle a reclusi scelti tra tanti affinché mantengano l’ordine. Ovviamente sulla pelle degli altri prigionieri. Il caos dietro le sbarre. I diritti umani non sono benvenuti nelle carceri brasiliane. Al di là di ogni norma o regolamento, le celle arrivano a contenere un numero di persone dieci volte superiore alla propria capienza. Nel paese sono più di 607mila i detenuti in strutture progettate per accoglierne 377mila. E nel Pernambuco la situazione è ancora più allarmante. Qui i posti in carcere sono circa 10.500, ma ad oggi in cella ci sono più di 32mila persone. Il triplo rispetto al numero dei detenuti stimati nei progetti. In realtà il 50% dei prigionieri è in attesa di giudizio e a dispetto non solo del diritto internazionale ma anche della stessa legge brasiliana, sono detenuti assieme ai condannati. Inoltre le condizioni igienico sanitarie sono allarmanti: nelle carceri del Pernambuco l’incidenza di tubercolosi è 100 volte superiore alla media nazionale. "Lo stato - afferma Maria Laura Canineu, responsabile di Human rights watch per il Brasile - ha stipato decine di migliaia di persone in celle progettate per ospitarne un terzo. Inoltre ha consegnato le chiavi delle celle a detenuti che usano la violenza e l’intimidazione trattando la prigione come un feudo personale". Prigionieri secondini. Secondo il ministero della Giustizia brasiliano, nelle carceri del Pernambuco il rapporto tra guardie e prigionieri è di uno a 30, il peggiore del paese. Ma ci sono situazioni ancora più inverosimili come una struttura ospitante circa 2.300 detenuti che dispone di soli quattro agenti. In tali condizioni diventa pressoché impossibile per le autorità mantenere il controllo e la legalità all’interno delle strutture carcerarie. Così, in alcune prigioni le guardie cedono le chiavi delle celle direttamente a reclusi scelti tra gli "ospiti" delle strutture. Una sorta di milizia usata per mantenere l’ordine con metodi arbitrari. In compenso le guardie o chiudono un occhio nei confronti delle attività illicite portate avanti dai prigionieri-secondini oppure partecipano intascando delle tangenti. Stando alle testimonianze raccolte da Hrw nel report "Lo stato ha lasciato che il male prendesse il suo posto", i prigionieri non solo vendono farmaci, droghe e smerciano diversi tipi di beni, ma con il benestare degli agenti portano avanti attività criminali di ogni tipo. Un vizio di giustizia. Una delle cause del sovraffollamento risiede nella prassi di non sottoporre i detenuti alle "udienze di custodia". Dei colloqui dove il giudice dopo l’arresto decide dove il detenuto dovrà attendere il processo e verifica la legalità dell’intero iter. La mancanza cronica di questa fase processuale ha diverse conseguenze. Prima fra tutte l’affollamento delle carceri dove condannati e persone in attesa di processo condividono le celle e gli spazi comuni. In secondo luogo la mancanza di queste audizioni non permette al giudice di verificare se i prigionieri sono stati vittima di violenze o abusi da parte delle forze dell’ordine. "Rispettando l’obbligo di proteggere le persone dalla carcerazione arbitraria - afferma Canineu - lo stato del Pernambuco potrebbe contemporaneamente diminuire il numero dei reclusi e combattere il sovraffollamento che contribuisce alle insalubri, degradanti e insicure condizioni delle sue carceri". Etiopia: rilasciato l’ultimo dei 9 blogger accusati di terrorismo Nova, 22 ottobre 2015 È stato rilasciato oggi dalle autorità etiopi Befekadu Hailu, l’ultimo dei nove blogger detenuti per oltre 18 mesi con l’accusa di terrorismo. È quanto riferisce l’emittente televisiva "Fana", secondo cui Hailu è stato rilasciato su cauzione. Nei suoi confronti l’accusa di terrorismo è decaduta ma resta in piedi quella di incitamento alla violenza, dalla quale è chiamato a difendersi in tribunale il prossimo 7 dicembre. Hailu faceva parte di un gruppo di nove attivisti arrestati dalle autorità di Addis Abeba nell’aprile del 2014, tutti prosciolti dall’accusa di terrorismo. Quattro blogger erano stati rilasciati all’inizio di questa settimana, mentre altri gli altri cinque componenti del cosiddetto gruppo "Zone 9" erano stati già rilasciati nei mesi scorsi.