Giustizia: quindici anni di morti e suicidi nelle nostre carceri di Barbara Alessandrini L’Opinione, 21 ottobre 2015 Mancano solo due mesi al termine degli Stati Generali dell’esecuzione penale, il semestre di lavoro e confronto tra operatori penitenziari, magistrati, avvocati, docenti, esperti, rappresentanti della cultura e dell’associazionismo civile inaugurato a maggio per volontà del ministro della Giustizia, Andrea Orlando. È ovviamente presto per verificare se i 18 tavoli tematici impegnati in un’imponente mole di lavoro approderanno alla definizione di un nuovo e organico modello di esecuzione della pena individuando soluzioni materialmente utili al reinserimento, della tutela della dignità e del recupero dei detenuti e ad abbattere il muro culturale e politico contro cui regolarmente si schianta il disegno ed il senso che la Costituzione ha assegnato alla detenzione. Intanto, però, gli istituti di pena italiani seguitano ad inghiottirsi vite umane: 2.468 decessi di cui 882 suicidi dal 2000 al 20 ottobre 2015. Sono i dati aggiornati contenuti nel dossier "Morire di carcere, dossier 2000-2015. Suicidi, assistenza sanitaria disastrata, morti per cause non chiare, overdose" curato dall’Osservatorio permanente sulle morti in carcere, di cui pubblichiamo i dati, indegni per un paese civile. Numeri che dovrebbe dare la misura della prova cui sono chiamati gli Stati Generali delle carceri e delle ciclopiche dimensioni della sfida cui sono chiamati: riuscire a dare un decisiva spinta a capovolgere le tendenze attuali della politica nei confronti della pena detentiva e ricondurre l’esecuzione penale entro l’alveo dei principi sanciti dal dettato costituzionale e della giurisprudenza europea, di restituirle quel fine rieducativo e quella funzione risocializzante e di ricostruzione e proiezione del detenuto verso il reinserimento, insomma quel rispetto della dignità umana che i passati decenni pervasi di giustizialismo e di pulsioni punitive nei confronti di indagati e detenuti tanto hanno contribuito ad erodere. Non ci si deve stancare di ripetere che si tratta di un traguardo operativo e culturale insieme, che sarà raggiunto soltanto quando l’opinione pubblica si avvicinerà al mondo della detenzione e comprenderà che la certezza della pena significa innanzitutto riconoscerle le finalità rieducative ed eliminare dalla sua dimensione quello che già Platone nel "Protagora" definiva con efficacia il "desiderio di vendicarsi come una belva". Tanto più alla luce delle "utilitaristiche" ricadute virtuose che una pena volta al rispetto della dignità ed al reinserimento comporta in termini di sicurezza collettiva e calo delle recidive (il 68 per cento dei ristretti in condizioni meramente afflittive commette nuovi reati una volta fuori dal carcere mentre solo il 19% di chi ha avuto accesso a percorsi riabilitativi e formativi torna a delinquere). Solo quando gli elementari principi costituzionali e della civiltà giuridica, quindi della civiltà, faranno parte del bagaglio comune e verrà ritrovato e riconosciuto il senso reale dell’esecuzione penale la prospettiva dell’appuntamento elettorale cesserà progressivamente di premiare politiche intrise di quel populismo penale responsabile di irrigidimenti sanzionatori e di una visione della pena tiranneggiata dal carattere meramente afflittivo, punitivo e retributivo. Gli Stati Generali rappresentano dunque il primo faro acceso da decenni sulle storture del nostro sistema penitenziario per portare all’attenzione del dibattito pubblico e politico in modo maturo lo stato di illegalità in cui versa il nostro sistema carcerario e le condizioni disumane e degradanti a cui sono costretti i detenuti. "Sei mesi di ampio e approfondito confronto - spiega da mesi Orlando - che dovrà portare certamente a definire un nuovo modello di esecuzione penale e una migliore fisionomia del carcere, più dignitosa per chi vi lavora e per chi vi è ristretto". Che riescano ad aprire una breccia nell’imperante cultura e non si risolvano in una sfilata ad effetto che ha tenuto impegnati molti addetti ai lavori per una manciata di mesi, grossomodo gli stessi che è durato quell’Expo’ situato proprio accanto al carcere di Opera dove gli Stati Generali sono stati inaugurati, questo rimane, per adesso, soltanto un auspicio. L’immagine e la realtà del nostro sistema carcerario rimane, nel frattempo, spettrale e sebbene la minaccia delle sanzioni della Cedu abbia agito da propulsore per la presa in carico di un’ emergenza che non era più differibile, i metodi con cui la si è fronteggiata hanno molto il segno dell’improvvisazione e della disumanità. Alcune misure come l’ aver dato attuazione alla legge 67/2014 che regola la depenalizzazione e le pene detentive non carcerarie favoriscono senz’altro lo sfollamento degli istituti di pena. Ma ricordiamo che il contributo decisivo alla deflazione del sovraffollamento carcerario è stato dato dalla sentenza di incostituzionalità da parte della Consulta sulla Legge Fini-Giovanardi che ha decriminalizzato le droghe leggere e di conseguenza dato il via allo sfoltimento progressivo (le pene non superano i sei anni di detenzione) delle carceri di una buona parte di quel 40% di detenuti accalcati per anni per detenzione di sostanze stupefacenti leggere. Quel che si è invece fatto per affrontare l’emergenza illegalità/sovraffollamento delle nostre carceri, sempre sotto i riflettori della Cedu, è stato ricorrere ad inumani trasferimenti forzati, con la "deterritorializzazione" di molti detenuti dal loro istituto carcerario al fine di ottenere per ciascun ristretto lo spazio individuale minimo (3mq al netto degli arredi) stabilito dagli standard della Cedu. Una mera redistribuzione contabile lungo le carceri dello stivale realizzata a costo di amputare dignità, relazioni affettive e percorsi riabilitativi avviati nell’istituto di pena di origine. Sono solo alcune delle criticità che investono ancora il nostro sistema detentivo ed è di tutta evidenza che l’emergenza, che pone sul tavolo la razionalizzazione degli spazi detentivi, l’accesso ad attività lavorative, l’effettivo diritto alla salute, il disagio psichico, il miglioramento delle condizioni degli operatori penitenziari, le donne ed i minori con le loro esigenze di psicologiche e pedagogiche, il processo di reinserimento del condannato, è tutt’altro che superata. La pena rimarrà sempre, come è giusto che sia, l’aspetto più rigido e duro della giustizia, ma non le si deve permettere di uscire dal dettato costituzionale mortificando i diritti del singolo fino a spingerlo al suicidio o portandolo a morire in carcere nell’indifferenza politica, come accade invece nel nostro sistema penitenziario. I dati sullo stillicidio di morti e di suicidi all’interno degli istituti di pena dal 2000 ad oggi sono l’eloquente prova che al momento lo Stato merita soltanto un’inappellabile condanna. Giustizia: la Consulta promuove la Legge Severino, De Magistris torna in bilico di Vittorio Nuti Il Sole 24 Ore, 21 ottobre 2015 Per la Corte costituzionale, la questione di legittimità sollevata dal Tar Campania nell’ambito del procedimento sul ricorso di Luigi de Magistris contro la sospensione dal suo incarico di sindaco di Napoli scattata in base alla legge su incandidabilità e ineleggibilità dei condannati, meglio nota come legge "Severino", è "non fondata". Come confermato da una nota di quattro righe diffusa nel tardo pomeriggio dall’Ufficio stampa (prassi ormai consolidata quando sono in ballo questioni politicamente delicate), la Consulta, al termine di una Camera di consiglio di poche ore, ha quindi dato torto al giudice amministrativo. E promosso, in pratica, l’applicazione dell’articolo 10 del Dlgs 235/2012 che prevede la sospensione dalle cariche di sindaco, assessore, presidente o consigliere provinciale in presenza di una condanna non definitiva per alcuni tipi di reato. Proprio il caso di de Magistris, condannato in primo grado nel settembre 2014 dal tribunale di Roma ad 1 anno e 3 mesi per abuso d’ufficio nel processo "Why not". La scelta di dichiarare "non fondato" il ricorso del Tar (che chiedeva di stabilire la natura penale o meno della sospensione e la sua efficacia retroattiva) ci dice due cose. La prima: che i giudici hanno evitato una pronuncia di tipo processuale volta a dichiarare l’inammissibilità del ricorso per difetto di giurisdizione del ricorrente. Strada facilmente percorribile dopo la sentenza della Corte di cassazione che ha dichiarato il giudice amministrativo privo di giurisdizione sulla materia demandandola al giudice ordinario. La seconda: che la Consulta è entrata nel merito del ricorso, dichiarando "non fondata" la questione di legittimità così come prospettata nello specifico dal Tar Campania, con la possibilità comunque di tornare sul punto in futuro. La Corte approfitterà certamente delle motivazioni della sentenza (per le quali è difficile stimare i tempi di deposito) per dare indicazioni di carattere generale e di sistema sulla legge Severino, utili per capire come trattare altri casi simili. Bisognerà attendere il deposito delle motivazioni (affidate al giudice Daria de Pretis, esperta di diritto amministrativo) anche per capire gli effetti pratici per il sindaco di Napoli, attualmente in carica grazie alla "sospensione della sospensione" prefettizia dall’incarico di sindaco disposto dal Tar e rinnovato dal giudice civile di Napoli dopo il chiarimento sulla giurisdizione, in attesa della pronuncia della Consulta. L’udienza del tribunale è fissata per venerdì prossimo: probabile un rinvio, utile per prendere una decisione soltanto dopo aver letto le motivazioni dei giudici costituzionali. Senza dimenticare che sulla legge Severino arriverà a breve un’altra questione di legittimità, molto più ampia rispetto a quella vagliata ieri dalla Consulta, sollevata nell’ambito del procedimento riguardante il Governatore dem della Campania Vincenzo De Luca protagonista di un caso analogo a quello di de Magistris. Condannato in primo grado nel gennaio scorso, da sindaco di Salerno, a un anno per abuso d’ufficio De Luca è stato prima sospeso dal Prefetto in base alla Severino e poi reintegrato dal giudice in attesa di una pronuncia definitiva della Consulta. Il giudice titolare della causa De Magistris potrebbe decidere di sospendere il suo giudizio in attesa del nuovo vaglio della Consulta. Ma l’appuntamento più importante è quello di oggi alla Corte d’appello di Roma, dove è in calendario una nuova udienza, forse quella decisiva, sul processo "Why not". Se il processo di secondo grado dovesse concludersi con l’assoluzione o con la dichiarazione di intervenuta prescrizione del reato, verrebbe meno qualunque ragione di sospensione dall’incarico di sindaco per l’ex magistrato "arancione". Che, non a caso, ha evitato ogni commento a caldo in attesa che il quadro si chiarisca una volta per tutte. La decisione dei giudici costituzionali costituisce un buon risultato per il governo, che ha schierato l’Avvocatura dello Stato a favore della legittimità della legge e contro le ragioni del sindaco di Napoli e, indirettamente del Governatore De Luca. Giustizia: la Legge Severino è costituzionale; bocciato De Magistris, inguaiato De Luca di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 21 ottobre 2015 Per la Corte costituzionale la sospensione del primo cittadino non è incostituzionale. Il ricorso del sindaco di Napoli è infondato, ma il reato per il quale è stato condannato è ormai prescritto. Chi rischia è il presidente della Regione, che ha una sola ultima speranza. Una Corte costituzionale ridotta ai minimi termini - undici giudici, il minimo legale, perché uno è assente e tre non sono stati sostituiti dal parlamento - ha deciso ieri pomeriggio che la legge Severino non è incostituzionale. Almeno non nella parte in cui regola diversamente la posizione dei parlamentari rispetto a quella degli amministratori locali condannati. I primi decadono dal mandato solo dopo la condanna definitiva, i secondi vanno sospesi per 18 mesi anche dopo una condanna in primo grado. Tra questi Luigi de Magistris, sindaco di Napoli condannato a un anno e tre mesi per abuso d’ufficio e protagonista del caso discusso ieri dalla Consulta. Il cui esito, però, più che sulle sorti del sindaco, finirà per pesare su quelle del presidente della regione Campania Vincenzo De Luca, anche lui condannato per abuso d’ufficio (un anno) e anche lui minacciato di sospensione in virtù della - ieri convalidata - legge Severino. De Magistris rischia poco in concreto perché proprio oggi la Corte d’appello di Roma dovrebbe decidere sul caso Why not - in primo grado era stato condannato per aver illecitamente acquisito le telefonate di alcuni parlamentari nel 2006 da pm di Catanzaro. Quel reato è prescritto da alcuni mesi. Il sindaco ha sempre dichiarato di voler essere assolto nel merito ma fin’ora non ha rinunciato formalmente alla prescrizione, potrebbe però appellare in Cassazione il proscioglimento, alla ricerca di un’assoluzione piena. Nel frattempo il tribunale civile di Napoli dovrebbe confermare la "sospensione della sospensione" e lasciare il sindaco al suo posto. Il ricorso sulla presunta incostituzionalità della legge Severino era arrivato alla Consulta dal Tar della Campania. Il sindaco infatti si era rivolto alla giustizia amministrativa per restare a palazzo San Giacomo malgrado la condanna penale. Nel frattempo la Cassazione ha stabilito che non è del Tar la competenza sull’applicazione della legge Severino, eppure non è per questo che ieri la Consulta ha dichiarato inammissibile il ricorso. I giudici delle leggi sono entrati nel merito del ricorso, il che è una brutta notizia per De Luca che ha presentato - per le vie giuste del tribunale ordinario - identica eccezione alla Consulta. In attesa delle motivazioni della sentenza della Corte costituzionale di ieri, bisogna attenersi al comunicato nel quale la Consulta segnala di aver ritenuto "non fondata" la questione di costituzionalità riferita al punto del diverso trattamento tra amministratori locali e parlamentari. Nulla si dice dell’altra e più dibattuta questione, e cioè del fatto se la sospensione (o la decadenza) debba considerarsi non la conseguenza automatica della mancanza dei requisiti di onorabilità dell’eletto, ma una sanzione che in quanto tale non può essere fatta valere retroattivamente. Ma sul punto la Consulta si era già espressa in precedenti sentenze, richiamate proprio nei lavori parlamentari che hanno condotto all’approvazione della legge Severino prima (governo Monti) e alla decadenza di Berlusconi poi (governo Letta). Il cavaliere ha sempre sostenuto di essere stato sanzionato con la decadenza per una condanna ricevuta prima (per quanto non definitiva) dell’approvazione della legge Severino. Un argomento che non può usare il presidente campano De Luca, che si è candidato alla guida della regione quando era stato già condannato e con la legge Severino ben in vigore. Tanto da mettere in imbarazzo il governo, con Renzi che prima ha appoggiato la sfida alla legge di De Luca e poi ha schierato l’avvocatura dello stato in difesa della Severino davanti alla Consulta. Il caso di de Magistris è ancora diverso, perché il sindaco di Napoli è stato eletto nel 2011, tre anni prima della condanna in primo grado e un anno prima della stessa legge Severino. Nel suo caso, al limite, sarebbe stato più facile ricorrere all’argomento della non retroattività delle sanzioni penali, stabilito dall’articolo 25 della Costituzione. Nel 2011 de Magistris era stato colpito ancora soltanto dal trasferimento d’ufficio deciso dal Csm e - particolare curioso - fu allora assistito dal giudice Alessandro Criscuolo come difensore di fiducia. Criscuolo oggi presiede la Corte costituzionale che ha dato torto al sindaco. L’argomento della retroattività è lo stesso sul quale puntava De Luca e sul quale continua a sperare anche Berlusconi, che si è per questo rivolto alla corte di Strasburgo (decisione in arrivo). Caduto questo, il governatore ha un ultimo asso per tentare di restare in sella, quello dell’eccesso di delega. La legge Severino avrebbe cioè esagerato nel comprendere il reato di abuso d’ufficio tra quelli che comportano la sospensione. Su questo De Luca ha incentrato il suo ricorso alla Consulta. Da ieri ha meno speranze. Ma fino a che i giudici costituzionali - magari a ranghi completi - non si occuperanno di lui, può restare in carica. Giustizia: la messa in scena mediatico-giudiziario-cinematografica di Mafia Capitale di Massimo Bordin Il Foglio, 21 ottobre 2015 Film, libri, pm che giocano a fare giornalisti e inchieste alla Pulp Fiction Come l’allegro circo mediatico-giudiziario-cinematografico ha trasformato Mafia Capitale in un brand di successo (e pazienza se la mafia non c’è, no?). Siamo ancora ai giri di ricognizione ma il cinque novembre scatteranno i famosi semafori e il gran processo inizierà. L’altro grande dibattimento intanto vede girare la safety car, molti incidenti di percorso hanno funestato il gran premio della trattativa stato-mafia, dal supertestimone pataccaro in panne ai pentiti che vanno a sbattere alla prima curva. A Roma gli organizzatori sono altra cosa, tanto è vero che dopo aver frequentato l’autodromo di Palermo sono arrivati alla Capitale. Altra scuola ma, come vedremo, qualcosa del passato resta. La mafia. Non può non esserci, il pubblico la vuole. E così tutto è iniziato. La corsa si giocherà su questo. Il 2 dicembre dello scorso anno sono iniziate le prove con l’operazione della procura romana che conteneva la parola chiave. Intendiamoci, l’operazione aveva avuto una preparazione accurata e i presupposti non mancavano. Ma non è mancato il supporto mediatico necessario per costruire una storia di qualche successo. E, come notato qualche settimana fa dal presidente delle Camere penali italiane Beniamino Migliucci, la stessa manifestazione mediatica con la quale la procura romana mette in scena, attraverso una conferenza stampa multimediale e una diffusione da trailer cinematografico degli arresti, l’operazione Mafia Capitale sembra anch’essa la riaffermazione di un rapporto di forza, tutto spostato sul piano dell’investigazione penale. A questo punto si può uscire dalla metafora automobilistica del circus di Ecclestone e passare a quello mediatico-giudiziario di Soulez Larivière. Mafia Capitale è diventato un brand affermato e trionfale, e non poteva essere altrimenti. Nel settembre 2013 era in libreria una brochure di sicuro successo. "Suburra", del giudice De Cataldo e del giornalista giudiziario di Repubblica Bonini, metteva in prosa, per la berlusconiana Einaudi, la saga criminale romana e le ultime intercettazioni sul suo milieu. Successo di vendite assicurato dopo il trionfo televisivo della serie Sky sulla "banda", che a Roma è una sola e sta alla Magliana. Solo che all’epoca del Libanese e del Dandy un mafioso di spicco c’era davvero ed era Pippo Calò che li convocava al ristorante "Al montarozzo" e impartiva gli ordini che gli importavano. Quando, negli anni 80, l’azzimato Calò venne arrestato in un palazzo del quartiere Prati, i suoi badanti romani vennero accusati perfino di strage, quella del rapido 904, ma nessun magistrato pensò al 416 bis. Un ruolo di supporto, il loro, non di più. Oggi a Roma non ci sono, per fortuna, i Calò o i Frank Coppola o i Rimi di Alcamo, ma la procura è pronta a giocare la carta della contestazione del 416 bis a una serie di aggregati indigeni. La pressione mediatica aiuta - e aiuta a nascondere bene anche i casi in cui la contestazione del 416 bis decade, come è successo qualche settimana fa con l’ex sindaco di Roma Gianni Alemanno. Il processo, poi, inizierà con il film già nelle sale. Dicono che cinematograficamente non sia un gran che, ma non è questo il punto. Funziona comunque. Eppure le date possono mostrare la difficoltà dell’opzione accusatoria. Il capo di imputazione, come abbiamo visto, è del 2 dicembre 2014. Nel grande calderone delle inchieste romane succede che due mesi dopo, in un’inchiesta parallela, arriva la prima sentenza di condanna per 416 bis per il cosiddetto clan Fasciani di Ostia. Il Tribunale sentenzia 14 condanne su 19 imputati nella operazione "Nuova Alba". Ironia della sorte, a essere assolti furono i fratelli Triassi, sulla cui mafiosità aveva dato ampie assicurazioni il pentito Spatuzza, in trasferta da Palermo. Quello che conta è che la sentenza, di primo grado, dica che a Roma un clan mafioso comunque c’è, e poco importante che il litorale di Ostia non sia esattamente sovrapponibile con Roma. Passa un mese e c’è una nuova importante operazione, denominata in codice "Tulipano". Al quartiere Tuscolano sono colpiti i gruppi di Michele Senese di Afragola, detto ‘"o Pazzo", e di Domenico Pagnozzi, suo killer di fiducia, originario dell’avellinese. Viene arrestato anche un romano in passato appartenente al mondo dell’estremismo armato di destra e per questo associato a Massimo Carminati, figura chiave, detto "er cecato" a Roma nord e "il samurai" nel libro di Bonini-De Cataldo. Eppure è proprio il procuratore aggiunto Michele Prestipino che, invece che enfatizzare il pur debole collegamento, minimizza. Fra Fasciani, Carminati e Se-nese-Pagnozzi c’è "rispetto criminale", "si conoscono, coesistono, non c’è nessun tavolo di regia". Siamo lontani dalle modalità delle organizzazioni criminali del tipo di "cosa nostra". I morti ammazzati qui ci sono, è innegabile. Una sera d’estate a Torvaianica il fratello di Senese uccide Giuseppe Carlino dai fratelli Carlino e Pagnozzi, per conto del suo capo. L’oggetto del contendere, diciamo così, era la spartizione dei proventi di una partita di droga. Ma sono cose che succedono ovunque ci sia criminalità. Già diverso il delitto della Camilluccia nel luglio dell’anno scorso. Tre persone con la divisa della Guardia di Finanza entrano in una palazzina dell’elegante quartiere di Roma nord, caro ai Petacci, per sequestrare Silvio Fanella, cassiere di quel Mokbel imputato nel processo Fastweb e le presunte mazzette di Finmeccanica. L’azione di forza pare giustificata da problemi di spartizione del bottino. Ma anche qui siamo lontani dagli stilemi mafiosi. Più che la strage di viale Lazio sembra Pulp Fiction. Il sequestro fallisce, la vittima si ribella e nasce una sparatoria. Fanella resta ucciso sul pavimento di casa sua e i rapitori mancati lasciano uno di loro ferito, fuggendo nel traffico della tarda mattinata. Insomma, un casino. Nel giro di pochi giorni sono tutti identificati e arrestati. Fra loro un congruo numero di ex estremisti di destra, vecchi la più parte e un "fascista del terzo millennio", il ferito abbandonato. La procura parla di "una accurata pianificazione dell’azione" - anche se da come è andata non parrebbe. Uscirà fuori anche il tesoro di Fanella, nascosto in un casolare del frusinate. Banconote, orologi preziosi e sacchetti di stoffa con grossi diamanti nigeriani. I romanzi criminali della mafia sono diversi, è evidente, e infatti anche qui la procura si tiene sul low profile. Il procuratore aggiunto Prestipino nota come "l’unico contatto di Carminati con uno dei componenti del commando, Egidio Giuliani, sia la frequentazione del giro dei Nar a suo tempo e il più recente uso della stessa cabina telefonica di via Flaminia vecchia per le telefonate compromettenti ma comunque intercettate". Per questo, con ammirevole understatement, la procura romana non gioca la carta del "romanzo criminale" con l’inevitabile corollario di cadaveri e sparatorie. Un 416 bis light. Ma poco importa. Nella grande messa in scena romana la mafia è dovunque. E nell’era in cui i magistrati prima ancora di occuparsi delle inchieste si preoccupano di come le inchieste verranno titolate sui giornali ha ragione chi sostiene che Mafia Capitale non è un evento di cronaca giudiziaria ma segna una svolta qualitativa nei rapporti fra politica e magistratura, fra media e procure, ma anche fra procure e magistratura nel loro complesso. Dove i fatti corruttivi vengono interpretati in chiave mafiosa. E dove se le norme non si piegano ai fatti saranno i fatti a piegarsi alle norme. Giustizia: per gli amministratori giudiziari più incarichi e nomine a rotazione di Federica Micardi Il Sole 24 Ore, 21 ottobre 2015 La norma "ammazza amministratori" esce dal disegno di legge che riforma il Codice antimafia (Dlgs 159/2011). Il Ddl sulle "Misure volte a rafforzare il contrasto alla criminalità organizzata e ai patrimoni illeciti" è in discussione in questi giorni presso la Commissione giustizia della Camera. Tra le misure sotto esame c’era la modifica dell’articolo 35 del Dlgs 159/2011 relativo alla nomina e revoca degli amministratori giudiziari. L’emendamento governativo al disegno di legge Grasso sulla corruzione - ora stralciato - prevedeva che ogni amministratore non potesse avere più di un incarico. Una norma che, secondo il presidente nazionale dei commercialisti, Gerardo Longobardi "avrebbe di fatto disincentivato qualificati professionisti a lavorare nel settore investendovi tempo, risorse umane e finanziarie". I commercialisti si dicono favorevoli alla rotazione degli incarichi ma il meccanismo previsto era - secondo loro - eccessivamente rigido. Un’opinione che la Commissione giustizia ha condiviso recependo il testo riformulato dall’onorevole Rosy Bindi. "Il problema della norma ora stralciata - spiega il consigliere nazionale dei commercialisti delegato alla materia, Maria Luisa Campise - è che non faceva distinzione di complessità tra i diversi incarichi, ne consentiva solo uno a prescindere dalla difficoltà". Il testo ora approvato, invece, non pone questo limite, impone al magistrato di scegliere l’incaricato tra gli iscritti all’albo degli amministratori giudiziari "secondo criteri di trasparenza che assicurano la rotazione degli incarichi fra gli amministratori". Il tema degli incarichi per la gestione dei patrimoni requisiti alle mafie è sensibile, si veda il caso del giudice di Palermo Silvana Saguto (ora sotto inchiesta), e strategico: i patrimoni confisca/sequestrati sono arrivati a quota 140mila. La rotazione degli incarichi non spaventa i commercialisti. Anzi. Ieri il presidente Longobardi, durante un convegno su concordato, accordi di ristrutturazione e fallimento, ne ha proposto l’introduzione, come leva di serietà ed efficienza, nella nomina dei curatori fallimentari. Giustizia: da domani stop agli effetti dei "vecchi" reati fiscali di Antonio Iorio Il Sole 24 Ore, 21 ottobre 2015 Da domani entrano in vigore i nuovi reati tributari e la previsione di più alte soglie rilevanti ai fini penali comporta, da subito, benefici per il passato. Sono interessati dalle novità introdotte dal decreto legislativo 158/2015 (in vigore, appunto, dal 22 ottobre 2015) tutti i contribuenti che avevano omesso il versamento delle ritenute e/o dell’Iva dichiarata, per somme inferiori alle nuove soglie o che avevano presentato od omesso dichiarazioni con evasioni di imposta al di sotto sempre delle nuove soglie previste dal decreto legislativo. La platea. La non punibilità per gli omessi versamenti (si veda l’articolo qui sotto) riguarderà sia coloro che non sono stati ancora scoperti (comprese evidentemente le omissioni consumate lo scorso 21 settembre 2015 per le ritenute 2014), sia quei contribuenti i quali, avendo già ricevuto l’avviso bonario, sono stati già segnalati all’Autorità giudiziaria, anche se il procedimento è già in corso. Analogamente, delle più alte soglie di punibilità previste per i reati di dichiarazione infedele e omessa presentazione potranno beneficiare anche coloro i quali hanno commesso la violazione in questi anni (compresi quindi gli invii al 30 settembre scorso). Per tutte queste ipotesi, infatti, trova applicazione l’articolo 2 del Codice penale, secondo cui nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato; e, se vi è stata condanna, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali. L’estinzione del debito. Inoltre, se il contribuente avesse già estinto il debito (anche a rate ma concludendo il pagamento prima dell’apertura del dibattimento), ove la fase dibattimentale non sia stata ancora avviata la violazione non sarà più perseguibile. Gli stessi benefici verrebbero conseguiti anche se il processo sia in corso ma il pagamento sia avvenuto prima dell’apertura del dibattimento. Niente segnalazione. Se le violazioni (passate) non sono state ancora denunciate e alla luce delle nuove norme non costituiscono più reato, coloro che dovessero accertarle devono attenersi da domani alle nuove regole, per cui se ad esempio viene contestata una dichiarazione infedele per somme evase superiori a 50mila euro ma inferiore a 150mila euro, non si dovrà procedere alla comunicazione della notizia di reato. Analogamente gli uffici dovranno astenersi dalla segnalazione al pubblico ministero degli avvisi bonari con i quali si rilevano omessi versamenti al di sotto dei nuovi importi. L’archiviazione. Nel caso invece che la violazione sia stata già segnalata alla Procura della Repubblica, il pm dovrebbe richiedere l’archiviazione perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato. È opportuno in queste ipotesi valutare la presentazione di una memoria al fine di sollecitare l’archiviazione. Analoghi accorgimenti dovranno essere assunti nel caso in cui il contribuente: • abbia integralmente assolto il debito tributario per gli omessi versamenti o per l’indebita compensazione; • possa beneficiare in genere delle nuove previsioni. Si pensi al caso di una contestazione di infedele dichiarazione basata su costi ritenuti non deducibili ma esistenti. Dibattimento in corso. Se invece il dibattimento è in corso sarà cura del difensore evidenziare che in base alle nuove norme il fatto contestato non è più previsto come reato. Analoghi accorgimenti andranno assunti anche se si è nelle fasi successive al processo di primo grado. Quindi se, ad esempio, il contribuente è stato già condannato ed è in corso il processo di appello, dovrà rilevare da subito la modifica normativa ancorché essa, con ogni probabilità, sarà rilevata direttamente dal giudice. Giustizia: pensionato uccide un ladro sorpreso in casa, indagato per omicidio volontario di Fabio Poletti La Stampa, 21 ottobre 2015 Milano, il racconto dell’uomo non convince gli inquirenti. Ancora da identificare la vittima Salvini: "Non mi dispiace più di tanto". Corteo di solidarietà, il pensionato saluta dal terrazzo. Un colpo solo, diritto al cuore, al ladro disarmato che aveva davanti. Francesco Sicignano, 65 anni, pensionato, non ha il fisico del giustiziere della notte anche se una parte della politica lo ha già adottato e come dice il Governatore Roberto Maroni è pronta pure a pagargli l’avvocato. Il pensionato, diventato eroe suo malgrado per mezza Lega che si scatena sui social network, ha solo una pistola calibro 38 special regolarmente denunciata, ottenuta dopo aver subito una serie di furti in casa, al terzo piano di questa villetta rossa di Vaprio d’Adda in provincia di Milano che divide con la moglie e i figli che stanno al piano di sotto. Una pistola che usa contro il primo ladro che si trova in casa, un romeno di nemmeno 30 anni che si arrampica dalla grondaia, alza la tapparella dopo essersi tolto le scarpe e aver indossato un paio di calzini sulle mani per non lasciare impronte. In mano non ha armi, non una pistola, non un coltello. Solo una torcia che - si giustifica il pensionato - sembrava qualcosa d’altro. Il primo colpo il pensionato lo spara in casa. Ma è uno degli elementi che non convincono i magistrati di Milano Antonio Pastore che insieme al procuratore aggiunto Alberto Nobili si occupa del caso. L’ipotesi di reato iniziale, eccesso colposo di legittima difesa, dopo l’interrogatorio davanti ai carabinieri diventa il ben più grave omicidio volontario. "Solo un’espediente tecnico per avere un maggior margine di indagine. Ma ci sono alcune discrepanze nel racconto del pensionato", spiegano gli investigatori. La più evidente è quella sul luogo dove avviene la sparatoria. Il pensionato giura in camera da letto, praticamente d’istinto non appena si trova davanti il ladro. Ma il corpo del giovane romeno viene trovato sulle scale fuori dall’appartamento. Da accertare se il ladro sia scappato riuscendo ad arrivare alle scale dopo essere stato colpito o se il pensionato per paura o in un impeto di furore lo ha inseguito fin sulle scale aprendo il fuoco e mirando al petto. Il giovane romeno non è stato ancora identificato. Più o meno deve avere tra i 25 e i 28 anni. I magistrati hanno disposto l’autopsia. A quanto hanno raccontato il pensionato e alcuni vicini non era solo. Aveva un paio di complici che si sono dati alla fuga dopo il primo sparo. Francesco Sicignano racconta di averli visti dal balcone di casa e di aver sparato in aria almeno un paio di colpi. "Io ne ho sentiti 5 o 6... Ma non mi sono affacciata perché avevo paura...", racconta una vicina della villetta di fronte. "Solo negli ultimi mesi aveva subito 4 rapine...", dicono tutti in questa strada affollata di carabinieri. "I due che erano in strada li ho visti scappare... Non sembravano italiani...", colora il racconto un altro vicino in favore di telecamere. In questa strada di villette dignitose la paura è il sentimento più diffuso. "Certo che abbiamo paura... Poteva capitare a ognuno di noi... Abbiamo le inferriate dappertutto per sentirci almeno un po’ sicuri", senti dire in coro. E di fronte alla paura la politica risponde a senso unico. Dalla destra sono tutti in difesa del giustiziere di una notte. Il governatore Roberto Maroni è il primo a schierarsi: "La Lombardia si accollerà le spese di difesa del pensionato che per legittima difesa ha sparato al ladro romeno entrato in casa sua". Legalità e pugno di ferro lo chiede anche il segretario della Lega Matteo Salvini: "Il pensionato è la vittima. Ha fatto bene a sparare e a difendersi. L’uomo che era entrato nella sua casa se l’è cercata. Non mi dispiace più di tanto". Ieri sera, al canto dell’Inno di Mameli, molti abitanti di Vaprio d’Adda hanno sfilato. Il corteo era capeggiato da Riccardo De Corato e Carlo Fidanza di Fratelli D’Italia. "Sei uno di noi", ha urlato la gente. Sicignano si è affacciato al balcone per ringraziare. Giustizia: 250 euro dal Comune, ecco il "bonus pistola" del sindaco leghista Buonanno La Repubblica, 21 ottobre 2015 Nuova provocatoria iniziativa del primo cittadino di Borgosesia ed europarlamentare nel pieno delle polemiche per l’accusa di omicidio volontario al pensionato di Vaprio d’Adda che ha ucciso un ladro: "Meglio cimiteri pieni di delinquenti che cittadini onesti in carcere". Il "bonus pistola" del sindaco leghista Buonanno: 250 euro dal Comune per comprarsi un’arma Gianluca Buonanno Gianluca Buonanno, il sindaco leghista di Borgosesia e parlamentare europeo noto per le sue iniziative provocatorie, annuncia il "bonus pistola" per i suoi cittadini: 250 euro, "pari a circa il 30% del costo di un arma da fuoco", per comprare appunto una pistola precisa. L’iniziativa arriva nel pieno delle polemiche per l’accusa di omicidio volontario al pensionato che, a Vaprio d’Adda, ha sparato a un giovane entrato in casa sua per rubare. "Al pari dei cittadini italiani onesti - dice Buonanno - ne ho piene le scatole anche io: sono stanco di vedere chi è costretto a difendersi in casa propria dall’assalto di delinquenti senza scrupoli sedersi tra i banchi degli imputati e venire sottoposto ad una vergognosa gogna mediatica. Ho deciso di costituire nel Comune di cui sono sindaco, Borgosesia, un fondo per incentivare l’acquisto da parte dei cittadini di una pistola". Chi lo vorrà, quindi, potrà usufruire di un contributo comunale di 250 euro: "Voglio aumentare - continua il sindaco leghista - la capacità di difesa e la sicurezza dei miei concittadini. Ho parimenti richiesto alla Commissione Europea di costituire un fondo analogo affinché anche da Bruxelles possa arrivare un sostegno economico per la difesa dei cittadini". Buonanno esprime "pieno appoggio alle forze dell’ordine che, nello svolgere con mezzi e risorse sempre più ridotte il loro dovere, vedono uscire dopo poche ore i delinquenti pluripregiudicati che hanno appena arrestato. Il governo, con le sue leggi svuota-carceri, privilegia come sempre chi delinque anziché tutelare e difendere gli italiani onesti: e allora io dico meglio i cimiteri pieni di delinquenti che le carceri vuote". Giustizia: il caso di Vaprio D’Adda, quella ferita sempre aperta nel Nord profondo di Giangiacomo Schiavi Corriere della Sera, 21 ottobre 2015 Prima di improbabili paragoni con il Far West mettiamoci nei panni di un cittadino che sorprende i ladri in casa. "Se avessi avuto il revolver nel cassetto chissà come finiva", confidò il giudice D’Ambrosio dopo il furto nell’abitazione. Francesco Sicignano il revolver ce l’aveva a portata di mano ed è finita come è finita. Si può morire per quattro soldi e qualche oggetto d’oro, a Vaprio d’Adda come in qualsiasi comune del profondo Nord, quando la paura dei ladri e delle bande che svaligiano ville e appartamenti crea psicosi a lungo sottovalutate. Ma chi spara non è un eroe: niente autorizza la giustizia fai da te. Se questo avviene è perché c’è un deficit di fiducia, una percezione di insicurezza che sindaci e cittadini del Nord lamentano da anni, un allarme confermato dall’inchiesta di Aldo Cazzullo sul Corriere: quando lo Stato lascia sguarnite certe zone o limita i controlli, non ci si può sorprendere se la gente si difende. Chi ha subito un furto in casa sa che la violazione del domicilio è una ferita sempre aperta, una spoliazione di beni e di intimità: ci si difende con le inferriate, gli allarmi, le telecamere e le porte blindate, ma c’è sempre un elemento irrazionale che scatta quando ci si trova davanti a un ladro e si teme per l’incolumità propria e dei familiari. È successo in passato a Castenedolo, nel Bresciano: un ladro è stato ucciso dal proprietario della casa che stava per svaligiare. Reazione di sopravvivenza o eccesso di legittima difesa? Omicidio volontario, lo rubricò il giudice che rilasciò subito l’indagato. Identica è l’accusa per il pensionato che ha sparato e ucciso il giovane rumeno sorpreso nella sua abitazione a Vaprio d’Adda. A suo sostegno sono arrivate le prime fiaccolate, persino l’esaltazione dell’autodifesa con la pistola: in assenza delle risposte, di una riflessione sullo stato delle forze dell’ordine nei territori e nelle zone lasciate alle scorrerie delle bande di ladri e malavitosi, la politica prende le sue scorciatoie propagandistiche. Resta il fatto che la gente ha paura, che i controlli sono scarsi, che non sempre quelli che vengono sorpresi in flagranza di reato stanno in galera. E poi qualcuno spara. Giustizia: Enrico Costa "a volte sparare è legittimo, il governo rivedrà la legittima difesa" di Francesco Grignetti La Stampa, 21 ottobre 2015 All’interno del governo, qualcuno stava già esaminando il problema dei furti in casa che troppo spesso si trasformano in rapine, e su come reagiscono i cittadini. Sul tavolo del viceministro alla Giustizia, Enrico Costa, Ncd, non per caso c’è un dossier di documentazione sulla legittima difesa. "Premesso che non ci sarebbe nulla di più sbagliato di legiferare sull’onda dell’emozione, però io dico anche: riflettiamo". Riflessione in quale senso, viceministro Costa? "Nel senso che i tempi cambiano e le leggi si devono adeguare. C’è stata una mutazione della criminalità. Mi lasci dire che non ci sono più i topi d’appartamento di una volta. Il classico ladruncolo si preoccupava che non ci fosse nessuno in casa quando provava a entrare. Oggi, al contrario, ci sono bande che si muovono di notte ben sapendo che i proprietari saranno dentro. Spesso si portano dietro persino le corde per neutralizzare le persone che incontreranno. Ecco perché le imputazioni cambiano, e spesso da furto con effrazione, che resta un reato odioso, si passa a rapina. Ora, pur beccandomi una polemica con l’associazione nazionale magistrati, che mi accusa di incoerenza, io ho sostenuto l’aumento delle pene minime per i furti in casa e le rapine. Togliendo anche le attenuanti, potremo garantire una maggiore certezza della pena". Una proposta, non una legge. "È stata votata alla Camera, nell’ambito del ddl di riforma del processo penale. Ora è all’esame del Senato. Ci auguriamo che presto diventi legge". Il pensionato che in Lombardia tre sere fa ha sparato a un ladro intanto rischia un processo pesante per omicidio volontario. La Lega e Fratelli d’Italia cavalcano il caso. Lei che ne pensa? "Le rispondo leggendo un documento che ho trovato qui al ministero della Giustizia. Il tema non è stato scoperto mica oggi; vi sono state commissione di studio che hanno approfondito la questione e proponevano una scriminante sull’uso delle armi "per chi è costretto a difendere l’inviolabilità del domicilio contro una intromissione ingiusta, clandestina o violenta, tale da destare ragionevole timore per l’incolumità o la libertà" delle persone presenti nel domicilio". Una scriminante: in gergo giuridico significa che non si farebbe il processo. Molto di più di una attenuante, o no? "Esatto. Resterebbe il fatto, ma da non considerare un reato. Una scriminante è la legittima difesa, per fare un esempio". E lei, Costa, pensa che sia giusto esentare da qualsiasi responsabilità chi spara e ferisce, magari uccide il ladro che trova in casa? "Io penso che in Parlamento sia giusto rifletterci. Se la criminalità cambia, il legislatore ha il dovere di cambiare le pene, ma senza venire meno ai principi. Dev’essere chiaro che non c’è il diritto alla vendetta. Per essere espliciti, se uno insegue il ladro in strada e gli spara, non potrà mai essere considerata una legittima difesa. Se si spara in casa perché si teme per la propria incolumità o libertà, ci si può pensare. Ahimè non è più il tempo in cui bastava accendere la luce per far scappare il ladro". Giustizia: il ladro era disarmato, ecco perché c’è l’imputazione di omicidio volontario di Carlo Federico Grosso La Stampa, 21 ottobre 2015 Ieri pomeriggio ancora una volta la vittima di un tentativo di furto o di rapina ha reagito uccidendo l’aggressore; e ancora una volta la procura della Repubblica ha iscritto chi ha reagito e ucciso nel registro degli indagati. Nel caso di specie sembrerebbe che l’imputazione, originariamente configurata sotto il profilo dell’omicidio colposo (eccesso colposo nell’esercizio del diritto di difesa), sia stata in un secondo tempo trasformata nella ben più grave imputazione di omicidio volontario. Di fronte allo sconcerto e alle durissime reazioni di una parte del mondo politico e dell’opinione pubblica, vale la pena di spiegare perché tale imputazione ha potuto essere configurata, e perché essa è, al momento, tecnicamente ineccepibile alla luce di una disciplina giuridica che riconosce, sì, ai cittadini il diritto di difendersi, ma lo riconosce entro precisi limiti. Il diritto di difendersi da una aggressione è riconosciuto dall’art. 52 comma 1 del codice penale quando l’aggredito si trova in una situazione di "pericolo attuale" di subire un danno alla sua persona o ai suoi beni, purché la reazione sia "proporzionata alla offesa". Ciò significa che, sulla base di tale norma, chi si trova in pericolo di vita a causa di un’aggressione è legittimato ad uccidere volontariamente l’aggressore per salvarsi; chi è minacciato soltanto nella integrità dei suoi beni, in linea di principio non è invece legittimato ad uccidere per salvare il patrimonio, ma può utilizzare strumenti di difesa meno incisivi, purché siano proporzionati al valore dei beni. Di fronte all’esplosione dei casi di delitti contro il patrimonio, al sempre più diffuso senso di insicurezza della gente ed alla conseguente necessità di rafforzare le possibilità di difesa personale, nel 2006, con riferimento ai delitti commessi nei luoghi di privata dimora e negli esercizi commerciali e professionali, si è stabilito che era consentito usare, per difendere "la propria o l’altrui incolumità" o "i beni propri o altrui", un’arma legittimamente posseduta quando "vi era pericolo di aggressione e non vi era desistenza". In questo modo, nel caso di aggressioni perpetrate nei luoghi menzionati, si è consentito qualunque tipo di difesa (anche quella che si concretava nell’uccisione dell’aggressore) a protezione anche di beni di natura meramente patrimoniale: purché l’arma usata per difendersi fosse legittimamente posseduta e purché, soprattutto, non vi fosse "desistenza" da parte dell’aggressore. Nei casi di tentati furti in alloggi, il discrimine fra uccisione volontaria legittima del ladro e uccisione vietata, e pertanto perseguibile come omicidio, alla luce della disciplina testé delineata è pertanto individuabile, sostanzialmente, nella circostanza che l’aggressione sia ancora in corso nel momento della uccisione, ovvero il ladro abbia desistito dalla sua azione delittuosa, ritirandosi e dandosi alla fuga. Sparare al ladro in azione, e pertanto potenzialmente offensivo, è dunque lecito, sparare al ladro in fuga costituisce invece omicidio doloso, in quanto, salvo che per difendersi, a nessuno è consentito uccidere. Ecco, allora, la ragione dell’imputazione, nel caso di specie, per omicidio volontario. Iscrivere nel registro degli indagati chi ha ucciso, allo scopo di accertare come si sono svolti i fatti, costituisce un atto dovuto dalle Procure della Repubblica, anche nell’interesse di chi ha sparato. Se c’è il dubbio fondato che l’uccisione non sia avvenuta quando il ladro era in azione, ma quando aveva ormai desistito e stava fuggendo (e nel caso di specie dubbi di questo tipo, alla luce del luogo in cui stato rinvenuto il cadavere, sembra sussistano), era giocoforza ipotizzare la commissione di un omicidio volontario, salvo poi ricredersi, e chiedere l’archiviazione, o modificare la tipologia del delitto contestato, ove nel corso dell’indagine dovesse emergere che i fatti si erano svolti in modo diverso. Perché, allora, in un primo tempo era stato ipotizzato l’omicidio colposo (per eccesso colposo nella difesa)? Secondo il nostro ordinamento giuridico chi uccide volontariamente un aggressore quando sono presenti gli estremi della difesa legittima non commette un reato, perché l’uccisione volontaria è "giustificata" dalla presenza, appunto, della causa di giustificazione della difesa legittima. Se gli estremi della causa di giustificazione invece non esistono, ma l’aggredito ritiene per errore che esistano (ad esempio ritiene per errore che vi sia un pericolo che invece non esiste, o che l’aggressore sia ancora in azione mentre ha già desistito), questo errore esclude il dolo, e se è colposo può fondare la colpa. Gli inquirenti, in un primo momento, devono avere ritenuto che, in assenza di una effettiva situazione di pericolo (il ladro non era armato), non vi fosse in realtà pericolo, ma esso fosse stato semplicemente supposto dall’aggredito. Rilevato che, probabilmente, il ladro era stato ucciso quando già fuggiva, e che questa situazione non poteva essere ragionevolmente sfuggita a chi lo aveva ucciso, è stato giocoforza contestare l’omicidio doloso (salvo, come dicevo, successivamente ricredersi ove si accertasse che anche su questo profilo vi è stato errore o che i fatti si sono svolti diversamente). Una ultima considerazione. La disciplina della difesa legittima, dopo l’entrata in vigore della legge del 2006, ha un riconoscimento ampio nel nostro ordinamento giuridico (oggi, come dicevo, a certe condizioni è consentito uccidere anche per salvaguardare beni soltanto patrimoniali). Non vorrei che, sull’onda dell’esasperazione suscitata dalla frequenza e sempre maggiore "serialità" di furti, scippi e rapine, si scatenasse una spinta irresistibile ad ampliare ulteriormente l’uso legittimo della difesa privata e delle armi. Semmai, il tema della delinquenza seriale dovrebbe essere affrontata sul terreno, diverso, del potenziamento della prevenzione e della repressione penale dei delinquenti. Giustizia: ma il proteggersi non sia una colpa di Paolo Graldi Il Messaggero, 21 ottobre 2015 Era inevitabile che la storia del ladro ammazzato a Vaprio d’Adda scatenasse la polemica. Una polemica sulla vasta e mai abbastanza esplorata materia dei furti negli appartamenti, della legittima difesa, del suo eccesso fino all’omicidio volontario e, giù giù, fino ai risvolti psicologici che avvolgono la sfera della paura, della protezione dei propri cari, della propria incolumità. C’è, in questo maledetto episodio di ordinario disordine che finisce nel sangue davvero tutto, compreso lo sconcerto (motivato per ragioni tecnico investigative) per l’imputazione di omicidio volontario che la Procura della Repubblica ha deciso di attribuire al povero pensionato dopo che, in un primo momento, era apparsa più congrua quella di eccesso colposo di legittima difesa. Qui il quadro d’insieme è perfino troppo paradigmatico, nel senso che l’insieme delle sequenze ripete un copione già mille volte visto e vissuto. Una tranquilla famiglia con i due anziani genitori, il figlio e la moglie, i figlioletti, distribuiti nei vari piani dello stabile, in una via di villette a schiera, tranquilla, ben tenuta, abitata da gente tranquilla e per bene. Il terreno ideale per una incursione, superando d’un balzo la cancellata ornamentale e incuranti del cartello bianco e rosso: "Attenti al cane". La piccola banda s’infila nel giardino, forza una finestra e entra in casa. Francesco S. sente rumori sospetti, ha la pistola (legalmente detenuta) nel cassetto, l’afferra, si fa forza per vincere paura e batticuore e scende dabbasso dove s’imbatte nell’intruso che sciabola l’aria della stanza buia con una torcia. Il colpo, secco, non si sa quanto mirato al bersaglio che si muove, il tramestio della caduta, il rumore della fuga degli altri, due ulteriori colpi per aria e il dramma si compie. Là, a terra, c’è il ladro, un paio di calzini infilati alle mani per non lasciare impronte, senza scarpe per non far rumore, i complici in fuga. Ha fatto bene, non poteva farlo, la proprietà va difesa anche con le armi, in più c’è l’attenuante che il pensionato aveva già subito altri quattro assalti notturni che gli avevano sconvolto l’esistenza, creato un marasma interiore che s’insinuava nelle sue notti di dormiveglia, di allerta continua, di sottile paura. Insomma anche l’incursione dell’altra notte, in un certo senso, era scritta perché inserita in un contesto di perdurante aggressione alle proprietà quando non alle persone. Francesco era andato dai carabinieri per chiedere il permesso di detenere quell’arma come segno di sfiducia nella sicurezza assicurata alla collettività ma anche come segno di resa di fronte ad assalti sempre più frequenti e talvolta finiti con inaudite violenze e brutalità. La ricerca della cassaforte, il senso di impunità e la "certezza" di non essere riconosciuti e identificati ci hanno portato come segno dei tempi episodi di assoluta efferatezza nei quali ciascuno, per una parte, si è riconosciuto e ha temuto di potervisi identificare. Un uomo è stato ucciso ma non a sangue freddo: è stato ucciso dal calore dello sparo sospinto a sua volta dal calore di una paura per sé e per i propri cari, un senso estremo e probabilmente irrazionale di difesa e forse anche di rabbia. Una rabbia condivisa, comprensibile, accettata come risposta adeguata e inevitabile di fronte a un fenomeno che sta stretto all’interno dei distinguo giuridici che, giocoforza, con chirurgica precisione, devono tipizzare ogni caso, incasellarlo in una fattispecie per poi trarne una indagine compiuta e infine un giudizio rispettoso dei codici. Ci vorrà un po’ di tempo per rimettere a posto, al loro posto, tutti gli attimi della tragedia di Vaprio d’Adda ma è stato chiaro da subito che l’esemplarità del fatto chiama in causa la legislazione vigente pur aggiornata di recente, gli apparati di sicurezza, la rete di protezione sopra i cittadini e i loro beni. Un dibattito infinito che potrebbe, per una volta, privarsi dell’inquinamento propagandistico che si manifesta nella corsa a chi è più duro, intransigente, inflessibile. Rigurgitano in queste ore temi cari a parti politiche che da sempre cavalcano la parte peggiore della complessa e grave questione della sicurezza, della criminalità piccola e meno piccola. Sono contributi di pancia e di fegato, poco di cervello e di saggia freddezza. Certo, l’emozione è squassante e proprio per questo la asticella dell’equilibrio va alzata. Non ci sono né eroi, né martiri, neppure in questa storia nella quale, purtroppo, tutti escono perdenti, i morti ovviamente ma anche e moltissimo i sopravvissuti la cui esistenza non sarà mai più la stessa. La giustizia faccia il suo corso presto e bene (che è quello che è mancato fino ad ora). La politica politicante, se ce la fa, osservi un ossigenante momento di silenzio. Ma il legislatore prenda atto delle mutate condizioni generali in cui parti della nostra società sono costrette a vivere. Costrette, cioè, a convivere con una criminalità arrogante e a subirne la sanguinaria prepotenza. Da sole le leggi non risolveranno questo drammatico problema. Ma saperle aggiornare, modificare, adeguare è diventato un imperativo categorico. Nessuno può pensare che per salvare la propria vita in pericolo qualcuno debba noi subire un devastante processo per omicidio volontario. Tossicodipendenza: inconfigurabile lo "stato di necessità" in caso di crisi di astinenza Il Sole 24 Ore, 21 ottobre 2015 Reato - Cause di giustificazione - Stato di necessità - Crisi di astinenza in soggetto tossicodipendente - Sussistenza dello stato di necessità - Esclusione - Ragioni. Non ricorre lo stato di necessità di cui all’articolo 54 cod. pen. in presenza della circostanza che un soggetto tossicodipendente versi in crisi di astinenza (essendo la conseguenza di un atto di libera scelta e quindi evitabile da parte dell’agente). • Corte di cassazione, sezione VI, sentenza 30 ottobre 2014 n. 45068. Reato - Cause di giustificazione - Stato di necessità - Crisi di astinenza in soggetto tossicodipendente - Sussistenza - Esclusione - Ragioni. Non ricorre lo stato di necessità ex articolo 54 cod. pen. in presenza della mera circostanza che un soggetto tossicodipendente versi in crisi di astinenza, trattandosi della conseguenza di un atto di libera scelta e quindi evitabile da parte dell’agente. • Corte di cassazione, sezione IV, sentenza 28 luglio 2008 n. 31445. Reato - Cause di giustificazione - Stato di necessità - Consegna di droga al tossicodipendente in crisi di astinenza - Esclusione dell’invocabilità della causa di giustificazione dello stato di necessità. Non può invocare, lo stato di necessità colui che fornisce droga ad un tossicodipendente in crisi acuta di astinenza, sia perché la crisi, di per sè, non costituisce imminente pericolo di vita, sia perché al superamento della stessa si presentano, come normali alternative, l’affidamento del tossicodipendente ad un sanitario od il suo ricovero in luogo di cura. • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 16 aprile 1987 n. 4819. Reato - Cause di giustificazione - Stato di necessità - Tossicodipendenza - Esclusione. Non ricorre lo stato di necessità per effetto della mera circostanza di trovarsi nella condizione di tossicodipendenza; l’articolo 54 cod. pen. presuppone che lo stato di necessità non sia stato determinato volontariamente dall’agente, mentre l’assuefazione agli stupefacenti ed il conseguente bisogno di dosi sempre più forti deriva dal precedente abuso della droga imputabile al tossicodipendente medesimo. • Corte di cassazione, sezione III, sentenza 6 marzo 1985 n. 2179. Accertamenti tecnici su materiale biologico. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 21 ottobre 2015 Indagini preliminari - Fonti di prova - Raccolta coattiva di tracce biologiche sulla persona - Forme - Consulenza tecnica o perizia - Legittimità. Qualora per effettuare l’estrazione dei campioni sia necessario l’intervento coattivo sulla persona, al prelievo può provvedere direttamente il pubblico ministero attraverso la nomina di un consulente tecnico, previa autorizzazione del giudice ex articolo 359-bis cod. proc. pen. oppure il perito nominato dal giudice, nel caso in cui all’analisi estrattiva e comparativa del profilo genetico si proceda nelle forme dell’incidente probatorio. • Corte di cassazione, sezione II, sentenza 20 gennaio2015 n. 2476. Indagini preliminari - Assicurazione delle fonti di prova - Raccolta non coattiva di tracce biologiche all’insaputa dell’indagato - Garanzie previste dall’articolo 224 bis cod. proc. pen. - Esclusione. In tema di raccolta di materiale biologico, non è necessario ricorrere alla procedura prevista dall’articolo 224 bis cod. proc. pen. se il campione biologico sia stato acquisito in altro modo, con le necessarie garanzie sulla provenienza dello stesso e senza alcun intervento coattivo sulla persona. • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 5 dicembre 2013 n. 48907. Indagini preliminari - Prelievo del dna dell’indagato - Sequestro di oggetti contenenti residui organici - Divieto di atti invasivi o costrittivi - Applicabilità - Esclusione - Utilizzabilità - Ragioni. In tema di perizia o di accertamenti tecnici irripetibili, il prelievo del DNA della persona indagata, attraverso il sequestro di oggetti contenenti residui organici alla stessa attribuibili, non é qualificabile quale atto invasivo o costrittivo, e, essendo prodromico all’effettuazione di accertamenti tecnici, non richiede l’osservanza delle garanzie difensive, che devono, invece, essere garantite nelle successive operazioni di comparazione del consulente tecnico. • Corte di cassazione, sezione II, sentenza 19 gennaio 2012 n. 2087. Indagini preliminari - Assicurazione delle fonti di prova - Legittima raccolta di tracce biologiche all’insaputa dell’indagato. È legittima l’attività di raccolta di tracce biologiche riferibili all’indagato eseguita dalla polizia giudiziaria senza ricorrere ad alcun prelievo coattivo, ancorché posta in essere all’insaputa dello stesso. • Corte di cassazione, sezione IV, sentenza19 giugno 2009 n. 25918. Poggioreale, i giovani detenuti scrivono ai ragazzi della faida: "Guagliù salvatevi" di Antonio Mattone Il Mattino, 21 ottobre 2015 Una lettera dal carcere d Poggioreale ai giovani boss, protagonisti della violenza che negli ultimi mesi ha insanguinato le strade della città. La missiva è stata scritta dopo l’uccisione di Genny Cesarano, perché, come scrivono gli autori, "non si può più accettare che si possa morire a 17 anni". Una scelta coraggiosa, parole di rottura che si concludono con un appello che diventa un urlo: "Deponete le armi, guagliù salvatevi". Una lettera dal carcere di Poggioreale ai giovani boss, protagonisti della violenza che negli ultimi mesi ha insanguinato le strade della città. Verrà letta oggi dai detenuti che l’hanno scritta davanti ad un gruppo di giovanissimi reclusi alla prima esperienza detentiva. All’incontro sarà presente anche un giovane del Salvador, che parlerà delle "maras", le bande giovanili che in quel Paese seminano terrore e morte. La missiva è stata scritta dopo l’uccisione di Genny Cesarano, perché, come scrivono gli autori, "non si può più accettare che si possa morire a 17 anni". Una scelta coraggiosa con un taglio tutto personale, parole di rottura che si concludono con un appello che diventa un urlo: "guagliù salvatevi". C’è la consapevolezza di aver stravolto la vita di mogli, figli e madri, ma anche di aver procurato dolore e sofferenza a chi non c’entrava nulla. L’invito a cambiare strada è accompagnato da una lucida analisi sulle motivazioni che inducono tanti giovani ad intraprendere la via del crimine: idoli sbagliati, il fascino del potere, il guadagno facile, la delusione di una vita difficile con la sofferenza di non avere niente. Nelle scorse settimane si sono susseguiti dibattiti e analisi sul profilo dei giovani boss emergenti, sul nuovo look e i loro stili di vita. Tuttavia sono state poche le voci di chi si è rivolto apertamente a questi camorristi in erba e soprattutto a chi vive al confine della malavita e corre il rischio di esserne affascinato. Pier Paolo Pasolini nell’anno della sua morte cominciò a scrivere un piccolo trattato pedagogico, dove interloquiva con un immaginario scugnizzo napoletano che si chiamava Gennariello. Lo scrittore, in questa opera incompiuta, metteva in guardia il ragazzino dall’ impeto e dal conformismo dei suoi coetanei che spesso si traducevano in violenza gratuita e feroce. Quanti Gennariello oggi non hanno nessuno che li formi e li appassioni, e nel vuoto di proposte e di lavoro si lasciano conquistare dal modello camorrista. Nei quartieri degradati sappiamo che convivono insieme clan malavitosi e gente onesta. Talvolta anche all’interno di una stessa famiglia c’è chi resiste e sceglie per una vita modesta ma senza alcuna complicità con il malaffare, e invece chi tenta la scalata al potere ed entra a far parte di un gruppo criminale. Non sappiamo se questo appello riuscirà a scalfire qualche coscienza. Conosciamo come sia radicata la camorra a Napoli e la complessità delle azioni che sarebbe necessario intraprendere per cominciare ad estirparla. Qualcuno ha affermato che questa malavita frammentata è più pericolosa oggi che nel passato, perché non ha più regole e gerarchie stabili. Forse i giovani boss possono compiere azioni più spietate, senza codici di comportamento e imbottiti di droghe dagli effetti devastanti. Tuttavia i clan polverizzati sono più deboli, più facili da contrastare purché ci sia una reazione compatta da parte della società civile e delle istituzioni. Purtroppo non sembra che questo avvenga. Basta vedere come è frammentata e litigiosa la politica di fronte a quelle scelte fondamentali che riguardano il futuro e il rilancio della città. Dalla lettera dei detenuti di Poggioreale emerge il grande fallimento di una vita spesa inseguendo il mito camorrista, che finisce per essere "buttata nella cella di un carcere dove l’anima si spegne giorno dopo giorno o peggio nella morte". Ma c’è anche una grande speranza e una voglia di riscatto. La ribellione interiore alla malavita con lo spiraglio di qualcuno che tenda la mano può dare un senso nuovo a vite che sembrano irrimediabilmente perdute. La nostra vita in una cella, non seguite gli idoli sbagliati dai detenuti di Poggioreale Il Mattino, 21 ottobre 2015 Il grido dietro le sbarre "Ieri è toccato a Genny domani a chi può toccare?" Questo l’appello a tutti i ragazzi di Napoli dal carcere di Poggioreale. Leggendo i giornali e guardando la televisione, noi detenuti nel carcere di Poggioreale, abbiamo appreso le drammatiche notizie di giovanissimi ragazzi che in questi giorni sono stati ammazzati a Napoli. E allora abbiamo pensato che è l’ora di far sentire non solo la voce della società di fuori, ma anche di noi che viviamo dietro queste sbarre. Abbiamo mogli e figli bellissimi e non possiamo più accettare che si possa morire addirittura a 17 anni come è avvenuto per Genny Cesarano, e con il cuore in mano e a gran voce vi chiediamo di riflettere e di non ignorare questi consigli da chi, purtroppo da questa vita è stato travolto. Voi non siete dei criminali, forse siete solo arrabbiati perché magari il vostro contesto di vita non era quello che speravate, ma dentro di voi siamo sicuri c’è tanto amore da poter trasmettere alle persone che vi amano. Siamo stati anche noi scugnizzi cresciuti nei vicoli di Napoli, dove portavamo come esempio idoli sbagliati che vivevano di una gloria inesistente. Noi ci chiediamo: cos’è che vi affascina di questa vita che nemmeno conoscete quanto è sofferta e drammatica, che vi travolge solo l’anima? Non esiste un successo in queste tenebre, non ci sarà mai un obiettivo positivo, ma solo distruzione, proprio come hanno vissuto tante persone come noi che sono ancora detenute. Perché copiare atteggiamenti o azioni criminose che assorbono una responsabilità altissima, senza possibilità di scampo dove c’è solo sofferenza e morte? Il fuoco che arde nella giovane età non consente di guardare quello che di buono regala la vita e prima che sia troppo tardi trovate il modo per ravvedervi perché la vostra vita non può essere buttata in un carcere dove l’anima si spegne giorno dopo giorno o peggio nella morte. E allora se da bambini, appena qualche anno fa, giocavate spensierati, ora vi trovate a combattere guerre dove rischiate le vostre giovani vite. Nel carcere da anni non proviamo quasi mai la gioia di essere felici. Anche noi abbiamo vissuto in una età giovanissima in un contesto di vita degradato, povero e insoddisfatto, e abbiamo pensato che scegliere per i soldi facili poteva essere una grande scelta, pensando di essere migliori degli altri. E così abbiamo fatto tante scelte sbagliate e senza rendercene conto, piano piano, abbiamo fatto del male a chi si svegliava la mattina e onestamente andava a lavorare. Ma anche ai nostri cari. Molti di noi hanno trascorso più di metà della nostra vita in carcere per aver sbagliato strada fin da piccoli. E dopo aver pagato il debito con la giustizia, ci sarà un altro debito da pagare quello con la nostra coscienza che ci porteremo per tutta la vita. Guagliù, questa non è vita e né la camorra né nessun altro vi proteggerà. Il male viene sempre pagato con il male. Avete una vita così bella e lunga da potervi godere, da poter vivere, da poter amare, da poter lavorare onestamente. Godetevi la vostra famiglia. Preservate il vostro futuro. Avrete mille opportunità, migliaia di occasioni per dimostrare che siete più forti del male. Siete vita, siete puri. Non ci vuole coraggio per dare un senso alla vostra vita, perché questa è la vita che vi tocca giovani napoletani. State lontano dal male. Noi speriamo che voi troviate uno spiraglio, qualcuno che vi tenda la mano. Ne avete bisogno voi come ne abbiamo bisogno noi. Preghiamo per voi e per i vostri coetanei che sono morti senza neanche sapere il perché, o forse hanno scelto una strada cieca senza pensarci. Ragazzi di Napoli, ribellatevi, dite no alla malavita, ieri è toccato a Genny, domani a chi può toccare? Insieme alla società che sta fuori dal carcere, da qui dentro lanciamo un unico urlo: Guagliù Salvatevi! Abruzzo: il Presidente D’Alfonso; bene il Tar, eleggiamo Bernardini Garante dei detenuti abruzzoweb.it, 21 ottobre 2015 "Io sono assolutamente un convinto sostenitore militante della candidatura e della elezione di Rita Bernardini a garante dei detenuti dell’Abruzzo. Lo sono in ragione non tanto dell’impegno che porta avanti in queste ore e in questi giorni, ma per il lavoro che ha svolto in precedenza, per la sua vita dedicata e per la certezza della sua competenza e della sua motivazione". Lo ha detto a Radio Radicale il presidente della Regione Abruzzo Luciano D’Alfonso. "Il fatto che il Tar abbia validato e regolarizzato la sua candidatura - ha detto ancora D’Alfonso - riduce una quota importante dei nostri doveri. Mi sarebbe piaciuto votare in assenza di quella validazione, proprio per assumerci per intero la responsabilità. Non solo faccio un appello per la elezione di Rita Bernardini, ma faccio coltivazione di voti, mettendo in evidenza il valore di questa disponibilità e di questa nostra candidatura, perché è una candidatura nostra nel senso di chi la deve votare. Io colgo un prius da parte di chi si è dedicato a misurare il valore di questa disponibilità e quindi dobbiamo farci carico di una riuscita all’altezza della qualità della sua esperienza politica, civile e culturale". "Domani parlerò con tutti quelli che non hanno un tappo di natura mentale, chi si astiene è come se avesse un tappo nutrito dal risentimento o dalla condizione dell’odio e non mi pare che questo debba albergare in uno spazio di democrazia qual è un parlamentino regionale. Io non voglio un minuto di merito per il lavoro che farò domani e nei prossimi giorni - ha concluso D’Alfonso - perché se fossimo in regime di diritto naturale è per diritto naturale che dobbiamo votare l’esperienza di Rita". Di Maio (M5S): Rita Bernardini? è una persona che apprezzo (Public Policy) Interpellato sulla candidatura del Segretario di Radicali italiani al ruolo di Garante dei detenuti della Regione Abruzzo, Di Maio ha commentato: "È stata deputata nella precedente legislatura, ho avuto modo di leggere dei suoi lavori legati agli sprechi della Camera dei deputati, la conosco per l’assiduità e professionalità in questo settore e ho avuto modo di apprezzare il suo lavoro e quindi è una persona che io apprezzo". Parma: la denuncia di un ex detenuto "pugni, calci e costretto in cella in ginocchio" di Giovanni Tizian L’Espresso, 21 ottobre 2015 Il racconto shock di un ex detenuto nel super carcere di Parma è finito in un esposto del garante dei detenuti e consegnato alla magistratura. Non sarebbe l’unico caso. Nell’ultimo anno presentate altre tre denunce. "Hanno indossato un paio di guanti neri e hanno iniziato a picchiarmi violentemente sferrandomi pugni alla testa, al volto e calci alla schiena. Io ero terrorizzato... Cadevo a terra ma uno dei due mi rialzava mentre l’altro continuava a colpirmi con pugni in testa e nella schiena... e ancora calci". È il racconto shock di un ex detenuto che "l’Espresso" rivela in esclusiva. Picchiato, costretto a stare nella cella in ginocchio e senza cena. Un incubo durato tre giorni. Una punizione extra per il recluso "infame" del carcere di Parma. Fatti che sono contenuti in un esposto ufficiale consegnato dal garante dei detenuti della città ducale, Roberto Cavalieri, ai magistrati della procura. L’uomo che ha subito il pestaggio è un ingegnere di nazionalità italiana. Era stato arrestato per una presunta violenza sessuale, poi scarcerato e, attualmente, è in attesa di giudizio. Accusato di un crimine che in carcere ritengono infame, e per questo, secondo le regole non scritte del codice della galera, da sanzionare ulteriormente con il castigo corporale. Abusi che demoliscono il principio costituzionale della pena come rieducazione del condannato. Il racconto dei soprusi, firmato e inviato agli inquirenti, è denso di particolari: "Durante il pestaggio entrambi continuavano a chiamarmi "bastardo, pezzo di merda". Finito il pestaggio barcollante mi ordinavano di tornare in cella e dopo avermi aperto la porta dell’anticamera, riuscivo zoppicando ad arrivare fino alla mia cella, sedendomi sul letto. Chiusa la cella si avvicinava allo sportello della porta l’agente più alto che mi ordinava di mettermi subito in ginocchio sul pavimento e a testa bassa, dicendomi che sarei dovuto restare in quella posizione fino alle 18.00, ora in cui lo stesso avrebbe terminato il proprio turno". Non c’è pace, dunque, per il super carcere emiliano dove, tra l’altro, sono reclusi alcuni dei più importanti mafiosi italiani. Per un’altra storia di pestaggi e violenze sono già indagati 8 agenti incastrati dalle registrazioni pubblicate l’anno scorso da "l’Espresso" e poi acquisite dalla procura. È di questi giorni, poi, la notizia di un’altra indagine che riguarda un poliziotto che avrebbe passato un cellulare a un detenuto comune. Ma a quanto pare non è finita. Perché altri esposti gettano ombre pesanti sull’operato di un gruppo uomini in divisa. L’esposto dettagliato del Garante dei detenuti si aggiunge, infatti, ad altri tre casi di presunte violenze a danno di altrettanti reclusi, due italiani e uno straniero, tutti segnalati, nell’ultimo anno, alla magistratura da Cavalieri. Queste denunce però non hanno ancora portato a niente. Tutto fermo. Incluso il rapporto su quest’ultimo caso. Il documento è stato depositato in procura il 2 luglio 2015. In allegato c’è anche il racconto sintetico di quanto avvenuto tra il 4 e 6 aprile di quest’anno: "Sono stato vittima di un pestaggio ad opera di due agenti penitenziari e allo stesso tempo di una tortura durate tre giorni" scrive la vittima. Una versione arricchita di particolari da una volontaria del carcere, che secondo fonti de "l’Espresso" sarebbe già stata sentita dai pm: "Il detenuto mi ha raccontato di essere stato violentemente picchiato da due agenti sabato 4 verso le 13, poi costretto a restare in ginocchio in cella senza cena per molte ore. Mi ha mostrato i grandi lividi nella schiena e sull’occhio sinistro. Io l’ho incontrato verso le 11 e sapeva che alle 13 sarebbe stato trasferito a Piacenza non essendoci a Parma la sezione protetti. La denuncia intendeva presentarla una volta giunto a Piacenza per evitare controdenunce. Il mio stato d’animo era appena "rientrato" per l’altra questione". La denuncia ricostruisce nei minimi particolari quei giorni: "Improvvisamente alla porta della cella si presentavano due agenti di Polizia penitenziaria, i quali iniziavano subito ad offendermi con frasi del tipo "brutto grassone di merda, vestiti, fai schifo". I due agenti di Polizia Penitenziaria erano uno di statura alta, circa l,85 cm, con pochi capelli (o rasato o calvo), l’altro di statura medio bassa, circa 1,65 cm., con capelli scuri e barba, e con fede al dito. Senza fare questioni mi preparavo ed uscivo dalla cella. Entrambi gli agenti sin dall’inizio della vicenda hanno tenuto nei miei confronti un atteggiamento minaccioso e mi hanno reiteratamente ingiuriato, proferendo al mio indirizzo, e ad alta voce, frasi quali "sei un pezzo di merda, bastardo, cosa hai fatto, brutto pezzo di merda, scendi giù"... "non guardare su, testa bassa e cammina rasente il muro, pezzo di merda". Ecco poi la descrizione del pestaggio: "I due agenti continuavano ad insultarmi pesantemente, in particolare quello più alto con frasi del tipo "pezzo di merda, cosa hai fatto allora eh? Bastardo, io ho una figlia se lo facevi a lei tu qui non ci saresti nemmeno arrivato, ti avrei ammazzato di botte", mentre quello basso diceva "bastardo, ora vedi". Si infilavano poi un paio di guanti neri ciascuno, e dopo avermi spinto nell’angolo dell’anticamera, a destra rispetto alla porta di accesso al corridoio delle celle, avvicinandosi alla mia persona cominciavano a picchiarmi violentemente entrambi, sferrandomi pugni alla testa, al volto ed alla schiena, e calci alla schiena. Io ero terrorizzato e schiacciato nell’angolo dell’anticamera porgevo loro il lato sinistro del corpo. Cadevo anche a terra ma uno dei due mi rialzava mentre l’altro continuava a sferrarmi pugni in testa e nella schiena ed ancora calci, mentre io cercavo invano di coprirmi dai colpi. Durante il pestaggio entrambi continuavano a chiamarmi "bastardo, pezzo di merda". Ma l’umiliazione, stando al racconto, prevedeva un ultimo terribile passaggio: "Finito il pestaggio barcollante mi ordinavano di tornare in cella e dopo avermi aperto la porta dell’anticamera, riuscivo zoppicando ad arrivare fino alla mia cella, sedendomi sul letto. Chiusa la cella si avvicinava allo sportello della porta l’agente più alto che mi ordinava di mettermi subito in ginocchio sul pavimento e a testa bassa, dicendomi che sarei dovuto restare in quella posizione fino alle 18.00, ora in cui lo stesso avrebbe terminato il proprio turno". Anche nei due giorni successivi l’ex detenuto è stato costretto a mettersi in ginocchio. Con il corpo pieno di lividi e terrorizzato, il 7 aprile lascia il carcere di Parma. Per lui è previsto il trasferimento a Piacenza. E qui che medici e agenti penitenziari durante la registrazione di ingresso si rendono conto delle sue condizioni. Partono così una serie di accertamenti fatti dallo stesso corpo di polizia del penitenziario piacentino. Verifiche avviate anche dal direttore del carcere di Parma sollecitato con una lettera dal garante dei detenuti. "Visti gli elementi emersi nella Sua missiva si è provveduto a notiziare le autorità competenti e svolgere opportuni accertamenti", si legge nella risposta del dirigente del penitenziario. Sono trascorsi sette mesi dalla risposta del direttore e quattro dalla denuncia del garante. Ma la nebbia su questi presunti pestaggi nel carcere più sicuro d’Italia non si è ancora diradata. Genova: detenuto subisce vessazioni in carcere dai compagni, in tre finiscono sotto accusa ligurianotizie.it, 21 ottobre 2015 I fatti risalgono al maggio dello scorso anno quando l’anziana zia di un detenuto si è recata al Commissariato di Sestri Ponente per denunciare, per conto del nipote, le vessazioni cui egli era sottoposto da parte di altri tre detenuti del carcere di Pontedecimo. L’uomo, un 38enne genovese invalido al 100%, aveva contattato la parente chiedendole di spedire varie somme di denaro agli ex compagni di cella, poiché era loro debitore di 18.000 euro e perché, in caso di rifiuto, gli avrebbero fatto del male. Per convincerla le aveva mostrato una bruciatura da fornelletto sulla spalla inflittagli da uno degli aguzzini a scopo intimidatorio e le aveva detto di esser pronto ad ipotecare la propria casa pur di non subire altre ritorsioni. La zia aveva iniziato ad inviare per posta una parte dei soldi richiesti per un ammontare di 400 euro ma, trascorso circa un mese senza ulteriori invii, era stata più volte contattata sul telefono di casa da uno sconosciuto che, con voce camuffata, le aveva fatto velate richieste di denaro, consigliandole addirittura di rivolgersi ad una finanziaria. La donna, molto spaventata, si era confrontata col nipote che, rendendosi conto di non riuscire a gestire una situazione così pericolosa, le aveva consigliato di rivolgersi alle forze dell’ordine. Le indagini svolte hanno consentito di identificare i tre aguzzini, nei cui confronti il Giudice per le Indagini Preliminari del Tribunale di Genova ha emesso una misura cautelare coercitiva per i reati di tentata estorsione e violenza privata continuate in concorso. I poliziotti del Commissariato Sestri Ponente hanno dato esecuzione all’ordinanza nei confronti di due indagati, un 32enne e un 45enne italiani tuttora detenuti per altri motivi, e hanno rintracciato venerdì scorso il terzo che, nel frattempo, era stato scarcerato. Lui, un genovese di 30 anni, è stato rintracciato in provincia di Milano venerdì mattina, con la valigia pronta e agli agenti di Polizia, che senza allarmarlo erano riusciti a farsi aprire la porta per notificargli l’ordinanza di custodia cautelare in carcere, ha detto che si stava proprio dirigendo in Commissariato per costituirsi. Roma: a Rebibbia tensostruttura da 120 mq nella sezione femminile per corsi e seminari Ansa, 21 ottobre 2015 Sarà inaugurata giovedì prossimo al carcere di Rebibbia una tensostruttura di 120 mq dove le detenute, e tra queste le madri con i loro piccoli figli, potranno muoversi in libertà. Al taglio del nastro, il 22 ottobre alle ore 11.00, sarà presente la stessa direttrice del carcere romano di Rebibbia, Ida Del Grosso, insieme alla presidente dell’Associazione A Roma Insieme, Gioia Cesarini Passarelli, al presidente della Fondazione Prosolidar Onlus, Giancarlo Durante accompagnato dal vice presidente, Agostino Megale e al segretario generale, Ferdinando Giglio. Nel nuovo spazio coperto tutte le associazioni che operano all’interno del carcere, oltre ad "A Roma, Insieme - Leda Colombini", potranno organizzare corsi, incontri, seminari, tesi a facilitare il recupero umano e culturale delle detenute, 300 circa, attualmente presenti a Rebibbia. Il progetto, presentato dai volontari dell’Associazione, è stato condiviso in pieno dalla Fondazione Prosolidar, costituita da tutte le organizzazioni sindacali del settore del credito insieme alle imprese aderenti all’Abi e all’Abi stessa. "Non abbiamo avuto esitazioni a finanziare l’iniziativa che ci è stata presentata da "A Roma, Insieme - Leda Colombini"- dice il presidente di Prosolidar, Gianluca Durante - poiché ci è sembrato importante in questi tempi difficili nel settore carcerario, contribuire ad alleggerire il carico di tensione cui sono sottoposte le donne detenute, specialmente quelle che hanno al loro interno anche i figli piccoli che potranno avere uno spazio per giocare al caldo anche nei mesi freddi". La tensostruttura è costata circa 60 mila euro. Milano: carcere di Bollate, nasce il primo ristorante gestito da detenuti aperto al pubblico di Angela Marino fanpage.it, 21 ottobre 2015 Il locale che vedrà impegnati nel progetto i detenuti della II Casa di Reclusione di Milano. Lunedì 26 ottobre l’inaugurazione del locale. Nascerà nel Carcere di Bollate, in provincia di Milano, il primo ristorante in una struttura detentiva aperto al pubblico. Il locale che vedrà impegnati nel progetto i detenuti della II Casa di Reclusione di Milano-Bollate inaugura lunedì 26 ottobre nei locali della struttura in via Cristina Belgioioso. L’idea nasce dall’iniziativa di PwC Italia, rete professionale nel settore delle imprese, che ha messo a disposizione le proprie competenze e risorse economiche in favore del progetto. Ha contribuito anche ABC La sapienza in tavola, cooperativa sociale che si occupa di catering solidale nata all’interno della Casa di Reclusione di Bollate. Tutto è stato possibile però, grazie alla Direzione della Casa di Reclusione, che ha concesso in comodato d’uso nella struttura circondariale i locali destinati al ristorante. Cagliari: inchiesta sul carcere di Uta "Se questa è vita… detenuti in 4 metri quadrati" di Alessandra Carta sardiniapost.it, 21 ottobre 2015 Carcere di Uta, ore 11,30. "Li facciamo entrare?", dice un agente. L’appuntamento con i detenuti - scelti dalla Direzione - è in una stanza al piano terra. Paolo Campus, Dante Lancioni, William Muscas ed Elton Ziri prendono posto sulle sedie rosse da ufficio sistemate a semicerchio davanti a una scrivania. Prima dell’intervista hanno firmato una liberatoria per autorizzare foto e riprese video, e assumersi - vuole il protocollo penitenziario - la responsabilità di ogni dichiarazione. Compreso l’incipit che non è certo un omaggio all’Italia dell’articolo 27, quell’articolo che doveva essere un baluardo di civiltà. "Le pene - è scritto nella Costituzione - non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità". Ma dalla quotidianità dietro le sbarre viene fuori l’esatto contrario. "Nel nostro Paese - dicono i quattro - si sta attenti agli animali maltrattati, l’uomo invece viene fatto vivere in pochissimi metri quadrati". Paolo, Dante, William ed Elton sono i detenuti che a qualsiasi amministrazione penitenziaria piacerebbe esibire. Cattivi che diventano buoni, per dirla con le categorie della morale. "Trofei" di quella rieducazione riuscita pur vivendo in una cella che ti permette tredici soli passi alla volta, per altrettanti metri quadrati, in uno spazio da dividere in tre, adesso che va bene, adesso che Uta è solo un carcere "affollato, ma non sovraffollato", come ha raccontato il direttore Gianfranco Scalas. Diversamente, i letti potranno diventare anche quattro. C’è una sola regola da rispettare nell’intervista: i detenuti non possono parlare del reato che li ha portati dentro. Lo spiega all’inizio Giuseppina Pani, responsabile giuridico-pedagogico, la capessa degli educatori. Il divieto non è una questione di privacy, ma di percorso terapeutico: sul passato c’è già stata quella che tecnicamente si chiama revisione critica. Ovvero, l’ammissione di colpa. Quasi una vita precedente, in attesa della prossima, fuori dal carcere, se per caso ci sarà. Se la condanna lo consentirà. Ma al netto del paletto, per ammissione degli stessi detenuti, è su quel prima che "la mente torna di continuo", specie quando alle cinque e mezzo di sera, l’ora della cena, tutto si ferma in carcere, dopo la colazione con caffellatte e fette biscottate servita dalle 7 alle 7,30. Il pranzo, invece, è dalle 11,30 alle 12. Il sopravvitto: vitello a 17 euro e farina vietata A Uta lo chiamano il sopravvitto. È il market per i detenuti. Una stanza di venti metri quadrati con un maxi frigorifero sulla destra e gli scaffali in metallo a sinistra. Lo gestiscono cinque guardie carcerarie, a turno. È aperto dalle 8,30 alle 15, festivi compresi. In vendita quasi 500 prodotti: dalla carne alla pasta, passando per doccia schiuma e dentifricio, limette e biscotti. Ecco anche decine di giornali e riviste, come la Settimana enigmistica, Vero Cucina, Topolino, Profilo uncinetto, Raccolta sudoku, Tutto sport o Moda capelli, per citarne alcuni. "Ma la farina e il lievito non sono nella lista", dicono i detenuti. E la direzione del carcere conferma. Quei prodotti li ha vietati il Provveditore, "unico caso in Italia", fanno sapere ancora i reclusi intervistati da Sardinia Post in questa seconda puntata dell’inchiesta sul penitenziario del Sud Sardegna. Loro sono Paolo Campus, Dante Lancioni, William Muscas ed Elton Ziri. E poi ci sono i prezzi. "Alti, troppo", a sentire ancora i quattro. Sotto accusa, le bistecche di vitello a 17 euro al chilo. Ma a piacere poco è anche il pesce, "di scarsa qualità". Non basso sembra pure il costo della crema viso Garnier. Vero che promette il "Miracle", ma sono 12,99 euro per 50 millilitri. Al sopravvitto funziona così: i detenuti fanno le ordinazioni su un quaderno. E ognuno ha il suo. "Noi - spiega un agente penitenziario - carichiamo gli acquisti sul pc e quando portiamo la spesa, riscuotiamo la somma dovuta". Alla fine, sono botte da 50 euro a spesa, ogni volta che i detenuti comprano qualcosa nel market del penitenziario. "Non ce lo possiamo permettere", dicono. Quindi l’appello lanciato un appello al Provveditore, e in Sardegna, in carica da luglio 2015 (quindi erede dei divieti), c’è Enrico Sbriglia che ha preso il posto di Gianfranco De Gesu. "Sappiamo - continuano i detenuti - che la vendita della farina e del lievito è stata bloccata per motivi di sicurezza (nelle confezioni in più di un’occasione è stata nascosta droga). Ma per noi preparare la pizza è un momento di socializzazione". Una variazione del regolamento è richiesta pure per la roba che portano i familiari. "A Buoncammino, si poteva arrivare a 20 chili mensili, qua a Uta invece non si deve superare il chilo e mezzo in ciascuna delle quattro visite" programmate ogni trenta giorni. Ai parenti è comunque vietata la consegna "di salumi che non siano sottovuoto", così come il cibo cotto. Qualche curiosità: tra i prodotti da cartoleria c’è il "Bustone lusso" da dieci pezzi. Prezzo: 4 euro. Il Lavazza qualità rossa, da 250 grammi, costa 3,53 euro, il deodorante Malizia, in stick, 3,87. Il mais Bonduelle da 300 grammi è in vendita a 1,59. Borgo San Nicola: diminuiscono i detenuti, ma ancora in pochi lavorano e seguono corsi lecceprima.it, 21 ottobre 2015 Le osservatrici dell’associazione Antigone tornano nel penitenziario per verificare le condizioni di vita carceraria. Rispetto al 2014 meno persone recluse e segnali di miglioramento della vita carceraria, ma restano alcune criticità strutturali. A distanza di quasi un anno dall’ultima visita, gli osservatori dell’associazione Antigone tornare a visitare il carcere di Borgo San Nicola. Attualmente vi sono 930 detenuti rispetto ai 1130 registrati nel 2014, di cui 73 donne e 152 stranieri. Il penitenziario leccese è stato tra i primi nel Meridione ad applicare la cosiddetta sorveglianza dinamica che consente ad una sezione con reclusi condannati a meno di cinque anni di pena di avere le celle aperte per tutto il giorno e di stazionare in corridoio senza la presenza di agenti di polizia penitenziaria. Da tempo, sottolinea l’associazione si batte su tutto il territorio nazionale per i diritti e le garanzie nel sistema penale, la direzione di Borgo San Nicola è impegnata in un dialogo con quella parte di società civile interessata al miglioramento delle condizioni della vita carceraria. Ma ci sono delle criticità piuttosto evidenti: una riguarda il numero, ancora troppo basso, di detenuti che lavorano: 250 lo fanno con mansioni di basso profilo per l’amministrazione penitenziaria, sono solo 12 i detenuti che lavorano all’esterno e 9 le persone soggette alla semilibertà. Un altro problema è quello relativo alla formazione: ci sono ancora delle sezioni escluse dai progetti perché non raggiungono al proprio interno il numero necessario per l’accesso ai corsi. Gli osservatori di Antigone, nella fattispecie Maria Pia Scarciglia e Ilaria Piccinno, sono autorizzati dal ministero della Giustizia ad entrare nei penitenziari, a fare domande, a raccogliere dati e informazioni. Da più di quindici anni l’osservatorio detenzione, che pubblica on line i propri report, racconta all’esterno la realtà della vita carceraria. Uno dei temi principali è naturalmente il sovraffollamento che determina condizioni di vita molto difficili. Nel gennaio del 2013, con una sentenza pilota, la Corte europea di Strasburgo ha condannato l’Italia per violazione dell’articolo 3 (trattamenti inumani e degradanti) della Convenzione europea dei diritti dell’uomo nel caso denominato Torreggiani, dal nome di uno dei ricorrenti detenuti a Piacenza e Busto Arsizio (per ciascuno un risarcimento di 100mila euro). Ma già nel 2011 il Tribunale di sorveglianza di Lecce aveva condannato l’amministrazione penitenziaria a risarcire un detenuto tunisino (con 220 euro) ritenendo che la violazione dell’articolo 3 comportasse un obbligo risarcitorio. Lucca: Angela Mia Pisano è stata nominata Garante comunale dei diritti dei detenuti luccaindiretta.it, 21 ottobre 2015 È Angela Mia Pisano il garante dei diritti dei detenuti del Comune di Lucca, il nuovo istituto che l’amministrazione ha voluto istituire come cerniera tra la Casa circondariale e le istituzioni. Lo ha deciso il consiglio comunale, con voto a scrutinio segreto, con 25 preferenze (28 votanti, una bianca). La nomina, tuttavia, ha prodotto una lunghissima bagarre in consiglio comunale con chi sosteneva che il nome dovesse essere designato non dalle commissioni ma dal sindaco in persona. Contro questa lagnanza, avanzata tra tutti dal consigliere Pietro Fazzi, si sono sollevate le forze di maggioranza, che hanno invece ricordato che la possibilità è prevista dallo statuto del consiglio comunale ma la discussione si è protratta per quasi due ore sui cavilli, compresa una sospensione dell’assemblea. Alla fine Fazzi, dopo il confronto con i capigruppo e la giunta, annuncia che sono state affrontate alcune questioni anche nel merito della pratica. Il consigliere ha chiesto di fare chiarezza sui lavori della commissione, che ha fornito il nome, in modo che essi non venissero intesi come vincolanti. L’altro elemento del disquisire era che gli accordi politici presi in commissione venissero considerati impegnativi solo per i presenti. E non per il Consiglio. Ma Fazzi va lo stesso all’attacco, sostenendo che la scelta delle commissioni è stata arbitraria e non sostenuta dalla valutazione di tecnici: "La consigliera Picchi ha detto che il colloquio con i candidati verteva sul significato dato al ruolo di garante, come essi lo interpretavano - sottolinea Fazzi: è chiaro, si tratta di un servizio alla collettività ma chi partecipa vuole vedere riconosciuta la propria professionalità. Questa nomina invece deriva secondo me dall’arbitrio". La consigliera si difende, spiegando che gli strumenti forniti durante i colloqui hanno "ulteriormente" fornito elementi per l’istruttoria delle commissioni. Prima delle polemiche, ad introdurre l’argomento è stato il presidente della commissione statuto, Renato Bonturi (Pd): "Eravamo l’unico Comune, fino ad oggi, ad essere sprovvisti di questo istituto - spiega -: abbiamo preferito una modalità condivisa, proponendo la nomina al consiglio comunale. Il lavoro istruttorio è stato svolto con molta serietà dalla commissione. Non è stata una scelta semplice. Si sono presentate personalità di grande spessore. Indichiamo un solo nome che mette d’accordo tutti". Il 20 maggio scorso era stato indetto l’avviso di manifestazioni pubbliche per la candidatura. Il 1 luglio la commissione statuto si è riunita per valutare i candidati: 9 le candidature valide giunte in Comune. Dopo la valutazione dei curricula dei candidati, si sono concordati i colloqui. La scelta è caduta su Angela Mia Pisano. Il primo a prendere la parola è stato il consigliere Pietro Fazzi di Liberi e Responsabili, che ha aperto una "crisi" nel corso della seduta: "Mi chiedo - ha detto - se è stato valutato il fatto che a Lucca sono presenti associazioni di volontariato locale che sono attivi nel carcere, mi auguro che la commissione abbia voluto ascoltare la loro opinione. Il Consiglio elegge questa figura che dovrà essere operativa e interfacciarsi con gli uffici, entrando a tutti gli effetti nelle linee delle operatività comunali. Il Consiglio non può far altro che una designazione, la nomina la farà il sindaco. Secondo me il Consiglio non può fare questa nomina". Secondo Fazzi, la competenza su nomine di questo genere spettano soltanto al primo cittadino, tanto che il consigliere ha chiesto una sospensione della seduta proprio per chiarire questi aspetti. Per il consigliere di Liberi e Responsabili in sostanza si tratterebbe di una nomina anomala: "Le commissioni non hanno il compito di espropriare il lavoro del consiglio comunale - dice -: credo di poter dire che non avrei presentato questo lavoro all’assemblea, con un lavoro bello e firmato". Mauro Macera (Forza Italia), invece, difende il lavoro della commissione: "Le candidature sono state analizzate con grande scrupolo - dice -: poi siamo andati avanti sentendo le persone, cercando di capire non solo la volontà di fare ma anche le capacità. Il Consiglio deve tenere conto del fatto che la decisione è stata condivisa tra maggioranza e opposizione". Piero Angelini di Governare Lucca annuncia invece di non voler votare per il nome indicato: "Sono d’accordo sul fatto che il garante ci sia - dice - ma questa persona non ha alcuna esperienza in questo settore, in rapporto ai carcerati. L’unica cosa è l’esperienza per un anno all’ufficio del gup. Credo che si sarebbe dovuti partire da un livello più alto. Nel bando non c’era una questione fondamentale, ovvero una esperienza diretta nel carcere e con i detenuti. Questa secondo me è una scelta inadeguata. I problemi del San Giorgio non si risolvono con la nomina di una persona con scarsa esperienza". Il consigliere Pini (gruppo misto) annuncia il voto favorevole in base al percorso fatto dalla commissione preposta, associata con quella sociale e cultura. "Rimettere in discussione le cose stasera è controproducente secondo me", dice. La consigliera Enrica Picchi (Pd), presidente della commissione cultura, difende la proposta: "Tutti e nove i candidati erano molto validi - sostiene: la dottoressa Pisano ha saputo porsi molto bene e credo che questa sia la scelta giusta". Diana Curione (Lucca Civica), presidente della commissione sociale, ha preso poi la parola per difendere la procedura seguita dalle commissione: "Il profilo della candidata è sicuramente alto - sostiene -: i colloqui sono stati molto approfonditi". Roberto Lenzi (Idv) evidenzia alcune criticità sull’esperienza del curriculum della candidata. Secondo Lenzi si sarebbe dovuto studiare meglio il bando. L’assessore Antonio Sichi prende la parola difendendo la candidata Pisano: "Chiedo scusa per chi ha utilizzato termini come scarso o inadeguato riferendosi al suo curriculum", dice. "È necessario riportare al giusto livello la discussione - aggiunge l’assessore -: per il garante dei detenuti, si può procedere con la scelta del sindaco o con una decisione del consiglio comunale. È stata scelta da statuto la seconda strada, previa un percorso in commissione. Nessuno è stato obbligato a surrogare una decisione imposta da essa". Marcucci (Pd): bene la nomina del garante dei detenuti Lucca da ieri sera (20 ottobre) ha il suo Garante dei detenuti. Se ne compiace il senatore Pd Andrea Marcucci che su Facebook non risparmia nemmeno una tirata d’orecchie all’amministrazione comunale. "Auguri di buon lavoro alla dottoressa Angela Mia Pisano, nuova garante dei diritti del detenuto del carcere di Lucca - scrive il senatore. Bene il consiglio comunale del Comune capoluogo che si è deciso a votare questa nomina. E dire che la prima volta che ho proposto di istituire tale figura correva l’anno 2011, proposta ribadita nel 2012, nel 2013". Asti: una donna Garante dei diritti dei detenuti al carcere di Quarto, è Anna Cellamaro di Daniela Peira La Nuova Provincia, 21 ottobre 2015 Finalmente anche il carcere di Asti ha il suo Garante dei Detenuti: è Anna Cellamaro, una donna che la casa circondariale di Quarto la conosce bene per la sua lunga "militanza" in qualità di educatrice. A dare la notizia lunedì l’assessore ai Servizi Sociali Piero Vercelli alla presenza del coordinatore regionale dei Garanti Bruno Mellano, della direttrice della struttura Elena Lombardi Vallauri, del comandante delle guardie penitenziarie Ramona Orlando e della consigliera regionale Angela Motta. Presente anche l’ex consigliera regionale astigiana Mariangela Cotto, che era stata fra i primi firmatari della legge istitutiva di questa figura "cuscinetto" fra la popolazione carceraria ed il resto delle istituzioni. "Con la delibera di nomina di Asti siamo arrivati a coprire quasi tutti i 13 istituti di pena piemontesi - ha commentato Bruno Mellano - entro la fine dell’anno saranno nominati tutti i garanti e sarà possibile realizzare una rete regionale e poi nazionale per dare omogeneità all’azione". La figura del Garante è nata per rimediare alle ripetute sanzioni che l’Unione Europea ha inflitto all’Italia nel campo della tutela delle persone private della libertà personale. Il Garante può fare ispezioni al carcere senza preavviso né autorizzazioni oltre a poter intrattenere colloqui personali con i detenuti che ne facciano richiesta per avanzare qualche criticità. L’arrivo del Garante ad Asti coincide anche con un momento di profondo cambiamento della struttura penitenziaria di Quarto che è passata da "Casa circondariale" a "Casa di reclusione" per detenuti condannati all’ergastolo o comunque a pene molto lunghe. Oggi sono circa 250 i detenuti ospitati a Quarto e si prevede un margine di arrivo che porti a 300 unità complessive. Ma questa trasformazione comporta anche un cambio nell’organizzazione della sorveglianza e degli obiettivi di reinserimento e riabilitazione della struttura. "Capite bene che, mentre prima si puntava a percorsi per il reinserimento dopo l’uscita dal carcere, oggi si dovranno rinforzare i percorsi interni per persone che hanno detenzioni così lunghe - ha spiegato la direttrice. Noi accogliamo con favore l’arrivo del Garante, perchè rappresenta una voce esterna che potrà aiutarci a migliorare situazioni interne e porterà fuori dalle mura la realtà del carcere". Ma quali sono i problemi più comuni che Anna Cellamaro si troverà di fronte? "Le lamentele principali riguardano l’attesa di un paventato risarcimento post sanzione dell’Unione europea - risponde la neo Garante dei detenuti - poi ci sono le questioni che riguardano le cure e la salute dei reclusi e la richiesta di maggiori possibilità di lavoro interno". Ad Asti, nello specifico, proprio in seguito a questa ondata di arrivi di ergastolani soprattutto dal Sud, la direzione del carcere si è vista arrivare molte richieste di riavvicinamento alle famiglie perchè se è vero che qualcuna di queste ha già acquistato casa qui ed è disposta a trasferirsi per stare vicina al detenuto, molte altre non possono permettersi il viaggio in treno per i colloqui. Verona: "ispezione ministeriale inutile", dai penalisti solidarietà alla direttrice del carcere Corriere Veneto, 21 ottobre 2015 "Di fronte a quanto avvenuto nelle scorse settimane nel carcere veronese, esprimiamo la nostra incondizionata solidarietà al direttore, al personale tutto della Polizia penitenziaria nonché a tutte le persone che operano e che sono detenute all’interno della Casa circondariale di Montorio, tutti indistintamente vittime dello sconsiderato gesto di due-tre persone che hanno deciso di aggredire, incendiare un materasso e gli arredi di una cella e che sono stati arrestati e processati per direttissima il giorno successivo". Con una delibera firmata dal presidente Federico Lugoboni, dal responsabile della commissione carceri Elena Pranio, dal membro dell’osservatorio nazionale carceri Simone Bergamini e dal segretario Lorenzo ferraresi, la Camera penale veronese interviene con fermezza sugli strascichi e le polemiche correlati agli ultimi giorni di tensione di cui è stato teatro il carcere scaligero. "A che serve chiedere l’intervento degli ispettori ministeriali? Perché ancora una volta invocare provvedimenti esemplari? Perché definire rivolta il gesto sconsiderato di due o tre persone? - polemizzano i penalisti. Occorre al contrario un serio e concreto impegno della politica finalizzato a una riforma organica e non estemporanea dell’Ordinamento penitenziario per dare concreta attuazione al precetto costituzionale della funzione rieducativa della pena". Chiamano direttamente in causa politici e parlamentari, i penalisti scaligeri: "Prendiamo atto dell’improvviso interessamento di alcuni parlamentari veronesi alla situazione del carcere, attratti evidentemente dalle urla di chi grida "Al fuoco al fuoco!", ma non riteniamo che questo sia il modo migliore per affrontare il difficile e spinoso problema della situazione carceraria italiana, in particolare di quella veronese". Ma i penalisti "tirano le orecchie" anche ad "alcune sigle sindacali della polizia penitenziaria": perché "dispiace veder banalizzati eventi importanti quali ad esempio la cena di beneficienza organizzata a settembre dalla sezione Avis dello stesso organo di polizia e alla cui organizzazione noi abbiamo partecipato". E poi "sarebbe stato il caso di informarsi sulle innumerevoli iniziative che la direzione della casa circondariale, anche con l’appoggio della Camera penale, ha portato avanti in questi anni per favorire il miglioramento della situazione interna". Infine l’annuncio di un convegno per il 13 novembre sull’ordinamento penitenziario: "I parlamentari veronesi sono già invitati". Torino: il direttore sul caso dell’educatrice licenziata "la incontrerò, ma non mi fido più" di Jacopo Ricca La Repubblica, 21 ottobre 2015 Il direttore della Casa circondariale di Torino ha deciso la revoca dell’accesso per Angela Giordano: "Mai metterei bavagli ma qui ogni giorno entrano 300 esterni: non possiamo permetterci condotte ambigue". Non sono un illiberale e non mi va di passare per tale. Questo è un carcere, ma non mettiamo nessun bavaglio alla libertà di opinione, abbiamo anche un giornale fatto dai detenuti dove possono scrivere quel che vogliono". Domenico Minervini, direttore della Casa circondariale di Torino, che ha deciso la revoca dell’accesso per Angela Giordano è molto irritato per il clamore che ha suscitato la sua scelta: "La scelta è stata fatta su circostanze precise. La vicinanza ai movimenti antagonisti è un problema per un operatore che lavora qui". I No Tav non possono lavorare nel carcere che dirige? "È un po’ irritante questo vittimismo. Qui ci sono colleghi valsusini non sono d’accordo con la Tav e non c’è alcun problema. Ma mostrare una vicinanza come quella dell’educatrice è sbagliato per chi lavora qui. Baciare e abbracciare persone che partecipano a uno dei presidi dai quali in passato sono state lanciate bombe contro il carcere crea problemi". Anche condividere le opinioni politiche di alcuni reclusi? "La vicinanza a detenuti è diversa dal rapporto professionale quotidiano. Chi entra qui può portare informazioni, o oggetti non consentiti, a qualche detenuto e una vicinanza come quella che la signora ha manifestato fa venire dubbi. Ho saputo dell’ammonizione per la maglietta No Tav dai suoi superiori quando ho revocato il permesso. Se tiene così tanto al suo lavoro non capisco perché non abbia mutato il suo comportamento quando è stata avvertita". Pensate che possa essersi messa in contatto con detenuti diversi da quelli che conosceva professionalmente, come i No Tav arrestati? "No, ma tenere determinate condotte incrina il rapporto di fiducia, necessario in un carcere come questo dove entrano più di 300 esterni al giorno. Negli anni scorsi ci sono stati problemi sull’introduzione di cellulari e stupefacenti. Di solito li lanciano in involucri, ad aprile abbiamo arrestato molte persone per questo, abbiamo trovato 22 telefonini. Sono pagato per garantire la sicurezza e l’ordine qui dentro, e questo faccio". C’è la possibilità che lei incontri la signora e riveda il provvedimento? "Non ho alcun problema a parlare con la signora, ma sia chiaro che ho rispettato la procedura prevista. Per i volontari c’è un protocollo che prevede una contestazione e la conciliazione con possibilità di reingresso, ma in un caso come questo avevo la facoltà di disporre la revoca e l’ho esercitata perché sono pagato per garantire la sicurezza del carcere". Bollate (Mi): "Donne oltre le mura", dentro il carcere un progetto dedicato alle detenute di Roberta Rampini Il Giorno, 21 ottobre 2015 All’avanguardia nel trattamento delle donne detenute. È anche questo il carcere di Bollate. La sezione femminile del carcere, dove sono detenute 56 donne, sarà protagonista del progetto "Donne oltre le mura", promosso dalla Camera del Lavoro metropolitana di Milano insieme all’Associazione Comunità Il Gabbiano onlus, Cooperativa Sociale Comunità del Giambellino, ForMattArt, Associazione per la Ricerca Sociale, Libera Università Popolare, Università degli Studi di Milano-Bicocca, Amalo e realizzato con il contributo della Fondazione Banca del Monte di Lombardia. Il progetto è stato presentato martedì mattina alla presenza dell’assessore alle Politiche per il Lavoro di Milano, Cristina Tajani. "Un’iniziativa di collaborazione tra il Comune di Milano e quello di Lodi - ha dichiarato l’assessore - a sostegno delle donne detenute nel carcere di Bollate per favorire il loro recupero e il reinserimento professionale fuori dal carcere". Il progetto "Donne Oltre le Mura" coinvolge una decina di donne detenute che verranno seguite in un percorso personalizzato: dall’offerta di una nuova abitazione all’accompagnamento verso l’autonomia e il reinserimento sociale in collaborazione con il Comune di Lodi. Non mancherà l’aspetto relazionale e lavorativo grazie a corsi di formazione sulla sartoria che verranno attuati dai formatori del centro Fleming del Comune di Milano. In provincia di Lodi, infatti, è stato già allestito un appartamento per accogliere alcune donne che possono accedere alle misure alternative alla pena detentiva, mentre il servizio di orientamento è svolto dell’Associazione Comunità il Gabbiano di Milano. "Donne Oltre le Mura vuole sperimentate un’azione di sistema tra soggetti pubblici e privati - conclude l’assessore - perché consapevoli che di fronte a bisogni complessi è necessario individuare una rete di realtà competenti che sappiano rispondere con strumenti sinergici ed efficaci". Ancona: le favole dei detenuti escono dal carcere, audiolibro le racconta ai bambini di Teresa Valiani Redattore Sociale, 21 ottobre 2015 "Fiabe in libertà" è stato scritto, musicato e prodotto dai reclusi del penitenziario di Ancona. Storie di principesse, castelli e giovani eroi che combattono il male. E accorciano le distanze con i propri figli. Dvd + volume illustrato in vendita in libreria e sul web. Si chiama "Fiabe in libertà" ed è stato interamente prodotto in carcere l’audiolibro scritto, musicato e prodotto da un gruppo di detenuti della casa circondariale di Montacuto (Ancona). La confezione, destinata ai bambini tra i 6 e i 10 anni, racchiude un dvd e un volume illustrato e verrà distribuita nelle librerie e attraverso il web (radioincredibile.com e hacca.it). I proventi della vendita serviranno a finanziare la seconda edizione. L’audiolibro contiene cinque favole che raccontano storie di principesse, castelli e giovani eroi che combattono il male e accorciano le distanze tra i detenuti e i propri figli realizzando quello che fino a ieri era solo un desiderio: sentirsi chiedere "Papà, mi racconti una favola?". Il progetto è stato promosso e seguito dall’associazione culturale Radio Incredibile che lo ha presentato recentemente nel carcere marchigiano. In sala c’erano tutti: la direttrice del carcere, Santa Lebboroni, i responsabili del comando della polizia penitenziaria e quelli dell’area educativa, insieme a una rappresentanza di detenuti. Poi c’erano loro, gli autori. Emozionati, impacciati, alle prese con quel turbinio interiore che si scatena a ogni contatto con l’esterno e con le telecamere. Il lavoro è stato firmato da Ettore, Nicky, Alberto, Veselin, Giovanni, Rubin, Hedi, Marco, Marien, Rocco, Nini, Robertino, Elio e Stefano: alcuni di loro non erano in sala perché nel frattempo tornati in libertà. "È stata una bella esperienza - hanno raccontato i detenuti - perché ci ha riconsegnato una parte di infanzia. Con questo dvd vogliamo raccontare ai bambini che sono fuori le favole che nessuno ci ha raccontato quando i bambini eravamo noi. E quelle che noi, adulti, da qui dentro non riusciamo a raccontare ai nostri figli. Abbiamo lavorato insieme, anche riprendendo favole della tradizione di altri paesi. Ci chiamano uomini neri, ma anche noi abbiamo sentimenti ed emozioni da trasmettere". I detenuti sono stati impegnati per mesi sui testi, sulle musiche e sull’interpretazione. "Rinunciavano alle altre attività ricreative e allo sport pur di partecipare - ha spiegato la direttrice del carcere, Santa Lebboroni. Ringraziamoci tutti perché è stato davvero un lavoro di gruppo". "Il progetto - ha detto Claudio Siepi di Radio Incredibile - è stato reso possibile grazie alla Fondazione Cariverona, nell’ambito di Esodo, un programma vicino ai percorsi giudiziari di inclusione socio-lavorativa per detenuti, ex detenuti e persone in misura alternativa. Esodo è attuato in collaborazione con le Caritas diocesane veronese, vicentina e bellunese e con il Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria per il Triveneto". Alla realizzazione editoriale ha collaborato Hacca Edizioni, al training teatrale e alla costruzione delle storie e dei personaggi, il Laboratorio Minimo Teatro, all’audio-engineering e alla post-produzione Musicandia, e alla realizzazione grafica e all’interfaccia del dispositivo multimediale, lo studio di Patrizia Principi. Per l’associazione Radio Incredibile hanno collaborato Allegra Moccheggiani, Arianna Masi, Carla Giacchella e Claudia Battistoni. La confezione, stampata in mille e 500 copie, sarà venduta a 14,90 euro. Roma: il Presidente Consulta Penitenziaria "rischio chiusura per le ludoteche in carcere" Ansa, 21 ottobre 2015 Le otto ludoteche realizzate dalla Cooperativa Cecilia in altrettanti istituti di pena nel Lazio rischiano di chiudere per mancanza di fondi. L’appello è di Luigi Di Mauro, presidente Consulta Penitenziaria Roma Capitale e responsabile Giustizia Coop. Cecilia Onlus. "Le ludoteche le abbiamo progettate - spiega Di Mauro - per la tutela del diritto del detenuto a mantenere saldi e forti i rapporti familiari e sociali, la tutela dei diritti bambini e della genitorialità. Le nostre ludoteche sono spazi che hanno anche funzioni di accompagnamento e sostegno attraverso l’attivazione dello "Sportello social" riservato ai colloqui con operatori specializzati con competenze educative, psicologiche, giuridiche e sociali che intervengono su richiesta nelle situazioni di conflitto. Sono spazi colorati ed accoglienti all’interno dei quali il genitore detenuto è aiutato e sostenuto a riacquistare le sue funzioni". "Con questo appello - sottolinea - chiediamo aiuto alle istituzioni preposte, perché questo importante servizio sta rischiando di chiudere a causa della sospensione dei finanziamenti, a fine settembre. Abbiamo presentato un progetto alla Cassa delle Ammende del Dap ma non abbiamo avuto ancora risposte, da un mese circa le ludoteche garantiscono il servizio grazie alla nostra cooperativa che se ne sta facendo carico direttamente. Siamo alla disperata ricerca di fondi per non sospendere un servizio così importante dal grande significato umanitario, auspichiamo che - conclude - le istituzioni, Ministero della Giustizia, Regione Lazio ci aiutino a continuare a garantirlo". Avellino: diritti umani; carcere di Ariano premiato dalla Ecole Instrument de Paix Italia avellinotoday.it, 21 ottobre 2015 Iniziativa sotto l’alto Patronato del Presidente della Repubblica, patrocinata dalla Presidenza del Consiglio dei ministri, dal Ministero della Giustizia, dal Ministero per i Beni e le attività culturali e dal Miur. Irpinia protagonista a Roma, ancora una volta: domani mattina (giovedì 22 ottobre) salirà sul podio dei "diritti umani": un progetto che si piazza al primo posto nella graduatoria del 43esimo concorso nazionale E.I.P. Italia (che vede l’alto Patronato del Presidente della Repubblica, il patrocinio della Presidenza del Consiglio dei ministri, del Ministero della Giustizia, del Ministero per i Beni e le attività culturali, del Ministero dell’Istruzione Università e ricerca direzione generale per lo studente, la comunicazione, l’integrazione e la partecipazione per l’anno). Nella sala della biblioteca nazionale della capitale il carcere di Ariano Irpino guidato dal direttore Gianfranco Marcello e il liceo artistico Ruggero II del Tricolle con il dirigente scolastico Francesco Caloia nonché la giornalista irpina Teresa Lombardo delegata regionale per la Campania dell’Ecole Instrument de Paix che, con caparbia, continua il suo viaggio in punta di piedi all’interno degli istituti penitenziari "per tendere la mano a chi ha sbagliato ma soprattutto per centrare l’obiettivo reinserimento del dopo affinché la recidiva della illegalità possa diminuire". "La conoscenza, per i nostri giovani, della realtà carceraria è fondamentale affinché evitino di commettere errori e continuino a camminare a testa alta sulla strada della Legalità": è il messaggio della giornalista Teresa Lombardo che ha ricevuto il plauso della Commissione nazionale del 43esimo concorso promosso dall’Ecole Instrument de Paix Italia in collaborazione con la Direzione per lo studente del ministero dell’Istruzione e con il ministero della giustizia: "Desidero esprimere la gratitudine della Commissione alla giornalista professionista Teresa Lombardo che è delegata dell’Ecole Instrument de Paix per l’animazione culturale nelle carceri per la Regione Campania per aver segnalato questa iniziativa così meritevole": così il presidente Ecole Instrument de Paix per l’ Italia, preside prof. Anna Paola Tantucci. "L’esempio del progetto "Parole da dentro… emozioni e riflessioni da dietro le sbarre" che vede collaborare insieme la direzione della casa circondariale di Ariano Irpino e la direzione del liceo artistico Ruggero II di Ariano Irpino, rappresenta - si legge nel documento ufficiale della Commissione nazionale - un modello di cui la Commissione ministeriale, presieduta dalla prof. Maria Fedele consorte del presidente del Senato sen. Pietro Grasso ha particolarmente apprezzato la qualità umana e artistica del progetto e l’impegno culturale, umano e sociale, che è testimoniato dalle poesie e dalle riflessioni dei reclusi. La Commissione ha attribuito al progetto il primo premio nazionale. Inoltre è stato assegnato il premio E.I.P poesia giovane Michele Cossu alle seguenti poesie: "A mia moglie" s.n.c "Se io fossi" di P. C. - "La preghiera del detenuto" di A. P. e "Mi dispiace" di C. Celestine O. Il premio poesia prevede la pubblicazione delle opere selezionate. Copie del volume saranno consegnate ai premiati e alla casa circondariale per la biblioteca". Il concorso nazionale. La Cerimonia di premiazione del 43° concorso nazionale dell’E.I.P. Italia (Ecole Instrument de Paix) per le scuole italiane si svolgerà domani (giovedì 22 ottobre) dalle 9.30 alle 13.00 presso la sala delle conferenze della biblioteca nazionale centrale "Vittorio Emanuele II" a Roma. Hanno partecipato al concorso ben 140 scuole di tutte le regioni italiane per progetti e lavori creativi. 43 saranno le scuole premiate, selezionate da una prestigiosa giuria presieduta da Maria Fedele Grasso. Giungerà da Ginevra il presidente dell’Ecole Instrument de Paix Edouard Mancini. Hanno assicurato la loro presenza le autorità patrocinanti il concorso. Le autorità presenti. Il saluto è affidato al direttore della Biblioteca nazionale Andrea De Pasquale. Presenziano: Edouard Mancini président d’Honneur E.I.P. Italie; on. Davide Faraone sottosegretario di Stato Ministero dell’Istruzione; Daniele Ravenna direttore generale Rapporti con il Parlamento Mibact; Maria Maddalena Novelli direttore generale personale scolastico Miur; Carmela Palumbo direttore degli ordinamenti scolastici Miur; Giuseppe Pierro direzione generale per lo studente Miur; Antonio Augenti Consorzio universitario Humanitas; on. Paolo Calicchio Assessore alla Scuola per il Comune di Fiumicino; Paolo Masini Vicepresidente Avviso Pubblico; Claudio Nardocci presidente Unpli. Coordina il presidente nazionale E.I.P. Italia, prof. Anna Paola Tantucci. I valori umani. La premiazione - sotto l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica e il Patrocinio della Presidenza del Consiglio dei Ministri - è uno degli eventi di celebrazione del centenario della prima guerra mondiale che vede riunite le scuole elementari, medie e superiori di numerose regioni italiane, che hanno realizzato progetti di in cui si coniugano la ricerca della memoria e la proposta di pace con lo spirito di solidarietà. Il messaggio che giunge dai giovani, nelle varie sezioni del concorso (poesia giovane, giornali scolastici, arte, teatro, i ricordi della memoria, sport e pace, sicurezza a scuola e non solo) sul tema proposto "Dai diari di guerra alle pagine di pace … curve della memoria per costruire i percorsi del futuro" è la guerra è un’inutile strage e la pace si costruisce sul rispetto dei diritti umani. Il tutto è sintetizzato nel poster della cerimonia e nella mostra dei lavori che sarà visibile presso la Biblioteca nazionale. I vincitori. Per il progetto E.I.P Italia - Miur Direzione (per lo studente, la comunicazione, l’integrazione e la partecipazione ai sensi del protocollo d’intesa su "Cittadinanza e costituzione" con il patrocinio del Ministero della Giustizia "La voce dei minori in carcere") - coordinato da Teresa Lombardo si piazza al primo posto nazionale l’istituto penale di Ariano Irpino (Av) in collaborazione con l’IISS Ruggero II di Ariano Irpino con "Parole da dentro…Emozioni e riflessioni da dietro le sbarre". Sul podio anche la casa circondariale di Larino (Cb) per il laboratorio di poesia e per il Progetto "L’ Arte è…", coordinato da Adele Terzano. Si tratta di una iniziativa nata dall’entusiasmo e dalla partecipazione di tante realtà diverse ma unite da un unico obiettivo: realizzare un progetto di grande valore sociale i cui veri protagonisti sono gli studenti detenuti, autori di messaggi valoriali - positivi per l’intera società. Il concorso prevede anche la Sezione poesia come pace i cui scritti saranno pubblicati nel volume "Poesia come pace, Michele Cossu". Una giuria di studenti, ogni anno, attribuisce riconoscimenti a uomini politici, giornalisti, scrittori che ispirano la loro professione alla cultura dei Diritti Umani e della pace. Quest’anno hanno scelto per il Prix International Jacques Muhlethaler, Valerio Neri direttore generale di Save The Children Italia, per l’impegno, in Italia e nel mondo, a debellare la "povertà educativa" e consentire ai bambini di scoprire e coltivare i propri talenti e tutto il proprio potenziale cognitivo, emotivo. Per il premio "Un libro per i diritti umani" è stato scelto il libro "Annuario dei diritti umani 2015", Ed. Marsilio coordinato dal prof Antonio Papisca - Centro per i Diritti umani - Università di Padova. L’Annuario costituisce un prezioso strumento per valutare l’azione dell’Italia nel campo dei diritti umani e nel contempo promuove un dibattito informato e trasparente su questa tematica fondamentale ed ineludibile in questo momento storico. L’Associazione non governativa scuola strumento di pace E.I.P. Ecole Instrument de Paix Italia, riconosciuta dall’Unesco - che le ha attribuito le Prix Comenius - dal Consiglio d’Europa che l’ha accreditata tra le quattro associazioni esperte nella pedagogia dei diritti umani - gode di statuto consultivo presso l’Onu dal 1967. L’Associazione ha meritato per il 2006 le Prix International Maitre pour la Paix a Bruxelles. Parma: al Liceo "Toschi" inaugurata un’installazione che racconta la vita dei detenuti parmatoday.it, 21 ottobre 2015 È stata inaugurata da Franco La Torre presso l’aula magna del Liceo Artistico Paolo Toschi l’installazione "Quando appoggio la testa sul cuscino. Fermata sbagliata, sognare per vivere" esito finale del progetto Media Evasioni. È stata inaugurata presso l’aula magna del Liceo Artistico Paolo Toschi l’installazione "Quando appoggio la testa sul cuscino. Fermata sbagliata, sognare per vivere", esito finale del progetto Media Evasioni. Realizzato oltre che dal Liceo Toschi, dalla Coop. Sirio e dall’Associazione Culturale Kinoki, con la collaborazione degli Istituti Penitenziari di Parma e la scuola Materna "La Locomotiva" e il sostegno della Provincia di Parma, attraverso il progetto Educ. "Con pochi elementi in cui racchiudere molti significati della vita passata dentro un carcere, si è voluto raccogliere una sfida iniziata con il progetto "Fare cinema in carcere… libera la bellezza " e proseguita con il laboratorio narrativo "Etica sociale e legalità". Il percorso ha portato un gruppo di studenti del Toschi ad incontrare, anche fisicamente, il complesso mondo del carcere. L’installazione che vedrete racconta le vite di persone detenute. Sono vite che come tutte le altre partono da un’infanzia, in cui il mondo appare come un luogo da scoprire, condiviso con gli altri: genitori, fratelli e sorelle, amici. Ad un certo punto, tutto cambia e l’infanzia diventa un luogo da cui far ripartire la memoria e le passioni, ogni giorno, spesso alla sera, proprio quando si mette la testa sul cuscino". La mostra è stata inaugurata da Franco La Torre, figlio di Pio La Torre, il parlamentare ucciso dalla mafia il 30 aprile 1982, insieme al suo collaboratore Rosario Di Salvo. Al termine dell’inaugurazione Franco la Torre ha incontrato le classi partecipanti al progetto e poi si è recato presso gli Istituti Penitenziari di Parma, dove ha dialogato con i detenuti partecipanti al progetto ideato e promosso dalla Sirio "Etica e legalità. Laboratorio narrativo". Un incontro intenso, molto partecipato, dove a fare da filo conduttore è stato il libro di Franco La Torre "Sulle ginocchia. Pio La Torre, una storia", uno dei testi utilizzati nel laboratorio. Dopo l’incontro con Gherardo Colombo ed Agnese Moro, a Franco La Torre è stata affidata la chiusura del progetto. "Per noi della Sirio - afferma il coordinatore dei progetti, Giuseppe La Pietra - si è trattato di proseguire l’importante lavoro culturale nel consolidare il dialogo fra il fuori e il dentro le mura, guardando all’esperienza realizzata nel solco di Mario Tommasini e continuando a lavorare con scuole, associazioni, quale contributo a rendere il nostro tessuto socio-lavorativo sempre più inclusivo e meno stigmatizzante, sensibile ed attento alle vecchie e nuove marginalità sociali". All’incontro, svoltosi nel teatro degli Istituti Penitenziari. di Parma, hanno preso parte, oltre ai detenuti, il Direttore, dott. Carlo Berdini, la Presidente della Sirio, Patrizia Bonardi, il personale della polizia penitenziaria, lo staff delle educatrici, alcuni volontari e una rappresentanza del Consorzio Solidarietà Sociale con alcune cooperative sociali che, ascoltando un appello dei detenuti e guardando all’attuale realtà detentiva di Parma, hanno preso in considerazione l’importanza di creare sinergie con altri significativi protagonisti del territorio affinché ci siano le condizioni per realizzare attività lavorative anche all’interno del carcere stesso. Era presente anche la consigliera regionale Barbara Lori che ha portato i saluti dell’Assemblea Legislativa dell’Emilia-Romagna. L’installazione resterà aperta tutti i giorni fino a domani, giovedì 22 ottobre, durante gli orari di apertura del Liceo Paolo Toschi, in viale Toschi 1, con ingresso verso ponte Verdì. La mostra è disponibile gratuitamente per altri allestimenti presso scuole e associazioni. Info Coop. Sirio: risorseumane@siriocoop.it. Tempio Pausania: "I ricordi non bussano", il rpimo romanzo corale scritto da 14 detenuti buongiornoalghero.it, 21 ottobre 2015 "I ricordi non bussano", nell’ultima serie di appuntamenti del Festival "Un’isola in rete". Mercoledì 21 ottobre alle ore 18.00, Un’isola in rete fa tappa a Tempio, e sarà una tappa speciale. All’interno della Casa di Reclusione di Tempio Pausania Istituto "P. Pittalis" (loc. Nuchis), si terrà la presentazione del libro "I ricordi non bussano", Iniziative editoriali, 2015. L’eccezionalità dell’evento, non solo data dal luogo in cui è svolto, risiede nella natura del progetto del libro che viene presentato: il primo romanzo corale scritto in un carcere da 14 detenuti. "I ricordi non bussano" è il prodotto finale del progetto "Oltre le sbarre", un corso di scrittura creativa che fa parte dell’attività svolte dall’Istituto "P. Pittalis". Il progetto nato dall’idea del giornalista Giovanni Gelsomino (insieme allo scrittore Carlo Deffenu e a Federico Piras), grazie alla collaborazione con L’Istituto "P. Pittalis" e la Direttrice dell’Istituto, Carla Ciavarella, è riuscito nell’impresa di far raccontare una storia d’amore a 14 detenuti, in un lavoro della durata di più di un anno. Scrive Giovanni Gelsomino nell’introduzione al libro: "Non è stato un lavoro facile, si trattava di "accordare" i diversi modi di scrivere per farne scaturire uno che armonizzasse la visione di tutti. Uno stile dove tutti si potessero riconoscere per sentirsi parte del progetto creativo. La discussione è stata fondamentale: frammentaria e disordinata all’inizio, è andata sempre più concentrandosi sull’obiettivo, direi quasi "specializzandosi", diventando esigente, spesso pignola, inventando e reinventando situazioni e personaggi. Anche la scrittura, all’inizio scarna, piena di "vuoti", giri di parole, descrizioni inutili, si è fatta sempre più chiara, precisa e dettagliata. Un po’ alla volta il testo veniva giudicato dai partecipanti al corso tenendo conto di diversi fattori e tra questi la scorrevolezza, la chiarezza, l’accuratezza della descrizione, il grado di realismo e la coerenza. E, come spesso accade, sono stati i personaggi del libro e prenderci per mano, obbligandoci a continui "ripiegamenti strategici" che ci portavano a riconsiderare ciò che già consideravamo definitivo. Tutto il percorso è stato avvincente e l’arricchimento reciproco. Ci siamo fatti contagiare dall’entusiasmo ma anche dalla convinzione che stavamo facendo qualcosa di nuovo e di diverso" L’obbiettivo principale del progetto è quello di contribuire alla funzione riabilitativa della pena. La proposta di un percorso duraturo nel tempo che tramite il mezzo della scrittura possa essere per i detenuti coinvolti una possibilità di umanizzazione, d’invito alla riflessione sulla propria esperienza personale, all’espressione e alla comunicazione, di maturazione nel proprio percorso individuale. Trasmissione di RadioCarcere-Radio Radicale: "I braccialetti elettronici? Sono finiti..." di Riccardo Arena Ristretti Orizzonti, 21 ottobre 2015 E tante persone detenute restano in carcere, anche se potrebbero andare ai domiciliari. Ecco la storia di Luigi (uno fra tanti). Ecco il link http://www.radioradicale.it/scheda/456058/radio-carcere-informazione-su-processo-penale-e-detenzione/radio-carcere per riascoltare la puntata di RadioCarcere, in onda il martedì e il giovedì alle ore 21.00 su Radio Radicale, che è tornata ad occuparsi del famoso braccialetto elettronico. Ed infatti si è scoperto che i braccialetti elettronici, circa 2.000, sono esauriti, e di fatto tante persone detenute che potrebbero andare ai domiciliari restano in carcere. Questa è la storia di Luigi che è rimasto in carcere anche se il Giudice aveva disposto la detenzione domiciliare con il braccialetto elettronico. A seguire le lettere scritte dalle persone detenute. Ban Ki-Moon arriva a sorpresa a Gerusalemme "stop alle violenze" di Fabio Scuto La Repubblica, 21 ottobre 2015 Il segretario generale dell’Onu arriva a sorpresa a Gerusalemme per cercare di bloccare l’escalation Non si ferma l’Intifada dei coltelli: ancora attacchi, uccisi tre attentatori. Arrestato uno dei capi di Hamas. L’improvviso arrivo del segretario generale dell’Onu Ban Ki-Moon, primo concreto segnale dalla comunità internazionale in questa crisi, non sembra aver arginato gli attacchi dei "lupi solitari" palestinesi né le proteste in Cisgiordania né lungo il confine di Gaza. Il segretario generale ha incontrato a Gerusalemme il presidente israeliano Rivlin, il premier Benjamin Netanyahu e ha lanciato un appello a fermare la "pericolosa escalation di violenze perché la dinamica sul terreno può solo peggiorare". Ban oggi sarà a Ramallah per parlare con il presidente dell’Anp Abu Mazen. Anche il capo della diplomazia Usa John Kerry preme per incontrare il premier Netanyahu e il raìs palestinese per fermare questa spirale di violenza anche venendo nella regione. Dopo l’incontro con Ban, il presidente Rivlin ha voluto ribadire che Israelenon intende cambiare lo "status quo" sulla Spianata delle Moschee, la cui contesa è al centro di queste violenze. In Cisgiordania, vicino agli insediamenti ebraici di Gush Etzion, un palestinese si è scagliato con il suo furgoncino contro alcune persone accanto a una fermata del bus; l’uomo non è riuscito a investirle, ma sceso dall’auto ha accoltellato un soldato israeliano e un altro giovane prima di venire ucciso. A Hebron si sono concentrati ieri gli attacchi dei "lupi solitari" col coltello. In mattinata un soldato israeliano è stato accoltellato e ferito in modo non grave da un palestinese, subito "neutralizzato". E Ieri sera ancora doppio attacco contro un gruppo di militari con due palestinesi uccisi. Resta da chiarire invece la morte di un 50enne israeliano per le gravi ferite riportate dopo che l’auto su cui viaggiava era stata bersaglio di lanci di pietre nei pressi di Kiryat Arba, insediamento alle porte di Hebron. Dopo la sassaiola, l’uomo è sceso dalla macchina ed è stato investito da un altro mezzo. L’autista palestinese è fuggito dalla scena, ma poi si è consegnato alla polizia palestinese. Agli agenti, ha spiegato di aver investito inavvertitamente il 50enne e di essere scappato per paura, visto il clima di tensione, di essere scambiato per un terrorista. Nella notte di lunedì, inoltre, l’esercito israeliano ha arrestato a Beituna, non distante da Ramallah, uno dei leader Hamas, Hassan Yusef, uscito di cella sei mesi fa. A Gaza, da dove il movimento islamista sta cercando di prendere la guida di queste proteste, nuovi scontri fra esercito israeliano e manifestanti che si sono avvicinati alla barriera da confine, un giovane palestinese di 17 anni è stato ucciso e 14 sono stati i feriti. Come ti confeziono il nemico di Chiara Cruciati Il Manifesto, 21 ottobre 2015 L’autrice analizza 17 manuali utilizzati negli istituti pubblici israeliani dal 1997 al 2009, evidenziando la fabbricazione della memoria collettiva ad uso e consumo dell’odio per gli arabi. "La Palestina nei libri scolastici di Israele - Ideologia e propaganda nell’istruzione", di Nurit Peled-Elhanan. L’autrice analizza 17 manuali (10 di storia, 6 di geografia e uno di studi civici) utilizzati negli istituti pubblici israeliani dal 1997 al 2009, evidenziando la fabbricazione della memoria collettiva ad uso e consumo dell’odio per gli arabi. A quattro anni dalla sua prima pubblicazione arriva in Italia uno dei libri che meglio analizza la società israeliana e la narrazione collettiva su cui fonda la sua apparente unità: "La Palestina nei libri scolastici di Israele - Ideologia e propaganda nell’istruzione", di Nurit Peled-Elhanan (Ega-Edizioni Gruppo Abele, pp. 288, euro 18) apre uno squarcio nel radicato sistema di propaganda interna che ha accompagnato per decenni la costruzione dello Stato di Israele. Un sistema che si regge su pilastri indiscutibili e che accompagna ogni israeliano nel percorso di crescita, dalla scuola all’esercito fino al mondo del lavoro: la disumanizzazione del palestinese, la cancellazione e l’omissione della narrativa araba, la creazione di una memoria collettiva in contrasto con la Storia. Partendo dallo studio dettagliato di 17 libri (10 di storia, 6 di geografia e uno di studi civici) utilizzati nelle scuole pubbliche israeliane dal 1997 al 2009, Peled-Elhanan imbastisce un’analisi onesta ed approfondita della natura stessa dello Stato israeliano attraverso diversi strumenti: da "analista della narrativa", come si definisce nella prefazione, Peled-Elhanan intesse una trama fatta di studi sociologici e antropologici, esperienza diretta e conoscenza profonda della realtà politica e sociale israeliana, ricerca sul campo. I risultati si dipanano sotto gli occhi del lettore, in un incalzante elenco di esempi volti a dimostrare la tesi dell’autrice: la scuola è il primo mezzo di creazione della memoria collettiva, di una narrativa nazionale per uno Stato e un popolo frammentati, frutto di un’immigrazione "forzata" da ogni angolo del mondo. L’istituto scolastico è il cuoco che sforna un’identità condivisa e comune, non fondata su fatti storici ma sulla loro interpretazione, la loro negazione o la loro omissione. Così la memoria fabbricata finisce per prevalere sulla Storia e si radica nelle menti delle giovani generazioni, mantenendo in piedi una società che riproduce, sempre uguali a se stessi, i propri schemi mentali. La conseguenza, tuttora visibile in Israele, è la creazione a tavolino di una società "sotto assedio", convinta di essere preda di un mondo ostile. La "mentalità da accerchiamento", spiega l’autrice permette alle autorità di modellare l’individuo, accompagnarlo nel cammino da studente a soldato a lavoratore verso la forma mentis desiderata. Gli esempi riportati nel libro variano, spaziando dalle immagini a corredo dei testi scolastici fino alla terminologia utilizzata. Merito dell’autrice è l’analisi del libro di scuola nella sua interezza: ne studia il linguaggio, le mappe, le immagini, la grafica. Niente è lasciato al caso, tanto meno la presenza più o meno occulta di giudizi morali ed etici. Ed ecco che i massacri compiuti dalle milizie paramilitari sioniste nel 1947 e 1948 (Haganah, Irgun-Etzel, Stern) si trasformano in "atti gloriosi, azioni di redenzione e salvezza, compiuti da superbi combattenti, eroi dall’eccellente audacia". A completare il quadro, c’è la presenza-assenza palestinese. Disegnando mappe senza confini, senza Linea Verde, dove la Cisgiordania diventa Giudea e Samaria e Gaza e le Alture del Golan Siriano parte integrante del grande Israele, l’altro, l’arabo, non esiste. E se esiste, spiega l’autrice, è marginalizzato o additato come pericolo all’identità ebraica nazionale. La Nakba, la catastrofe del popolo palestinese, non è citata o è giustificata; il palestinese è disumanizzato, descritto come selvaggio a cavallo di asini o cammelli, non educato, "geneticamente terrorista, rifugiato o primitivo", caricatura negativa di se stesso. È parte integrante di quel mondo arabo in cui va esiliato, ma allo stesso tempo è privato della cultura e le tradizioni che nei secoli ha prodotto: "In nessuno dei libri di testo viene trattato, verbalmente o visivamente, alcun aspetto culturale o sociale positivo del mondo palestinese - scrive l’autrice - Né la letteratura, né la poesia, né la storia o l’agricoltura, né l’arte o l’architettura". Muovendosi su piani diversi, evitando stereotipi e semplificazioni e curando i dettagli, Peled-Elhanan decostruisce il sistema della propaganda israeliana verso i suoi stessi cittadini. Il cui obiettivo è chiaro, come si legge nelle pagine finali: "I libri di testo presentano la cultura ebraico-israeliana come superiore a quella arabo-palestinese, il comportamento ebraico-israeliano come allineato ai valori universali". La sua autrice, Nurit-Peled Elhanan, è docente di Educazione del Linguaggio alla Facoltà di Scienze dell’Educazione Linguistica alla Hebrew University di Gerusalemme e fondatrice del Tribunale Russell per la Palestina. Nel 2011 è stata insignita dal Parlamento europeo del Premio Sacharov per la libertà di pensiero e diritti umani. Un percorso, il suo, segnato da una storia personale strettamente intrecciata agli sconvolgimenti di questa terra: nipote di Avraham Katsnelson, che firmò la Dichiarazione di indipendenza di Israele e figlia del generale Matti Peled, in prima linea durante la guerra del 1948 e quella del 1967, perse sua figlia Smadar nel 1997 in un attentato suicida. La bimba aveva 13 anni. Un evento drammatico che non ha modificato l’approccio di Nurit all’occupazione israeliana, ritenuta la responsabile della morte della figlia. E per questo la ricerca si rivolge al mondo fuori: "La versione originale è in inglese, poi tradotta in spagnolo, italiano e arabo - spiega Peled-Elhanan al manifesto - Non esiste in ebraico perché non avrei trovato editori. Ma soprattutto perché, trattandosi di una ricerca accademica, è rivolta a professori, ricercatori, studenti di tutto il mondo. Voglio parlare alle opinioni pubbliche straniere, nessuno getta mai lo sguardo sulla società israeliana". "Il mio obiettivo era svelare l’architettura della propaganda sionista, un modello che si propaga a educazione, arte, letteratura, archeologia, musica, teatro. Tutte le discipline sono reclutate per dare vita a una storia comune che ovviamente il popolo israeliano non ha, provenendo da ogni parte del mondo". E il sistema, come si evince dal libro, è vincente: "Gli israeliani diventano buoni soldati da subito, dall’età di 3 anni - ci dice l’autrice. Molti di loro non hanno mai visto un palestinese prima di entrare nell’esercito e quando lo incontrano lo identificano come un nemico. È un sistema di successo perché pervasivo, invade ogni settore. Non c’è un’altra realtà visibile. Nessuno in Israele sa cosa sta succedendo in questi giorni, chi vive a Tel Aviv non lo sa, chi vive a Gerusalemme Ovest non mette piede a Gerusalemme Est". La war on drugs alimenta la pena di morte di Marco Perduca Il Manifesto, 21 ottobre 2015 Il 10 ottobre scorso si è celebrata in tutto il mondo la giornata mondiale contro le esecuzioni capitali, quest’anno la Coalizione mondiale contro la pena di morte l’aveva dedicata alla denuncia dell’uso che se ne fa nelle politiche di "controllo degli stupefacenti". In aggiunta alle sistematiche violazioni dei diritti umani causate dalla "guerra alla droga", ufficialmente denunciate dall’Alto Commissario Onu per i diritti umani, il proibizionismo è anche complice dell’uso della pena di morte nel mondo. Secondo il rapporto sulle esecuzioni nel mondo preparato annualmente dall’associazione radicale Nessuno Tocchi Caino, nel 2014 ben 414 esecuzioni in 4 Paesi sarebbero da ricondurre a reati di droga; di queste almeno 41 in Arabia Saudita, un numero sconosciuto in Cina, 371 in Iran e due a Singapore. Al 30 settembre del 2015, sempre secondo i Radicali, almeno 615 persone sono state giustiziate per reati connessi al narcotraffico in quattro Paesi: 55 in Arabia Saudita, un numero imprecisato in Cina, 14 in Indonesia e almeno 546 in Iran. Nel 2014, e nei primi sei mesi del 2015, condanne a morte per droga sono state pronunciate, ma non eseguite, in altri nove Stati: Egitto, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Malesia, Pakistan, Qatar, Sri Lanka, Thailandia e Vietnam. Per l’Ong Harm Reduction International, i Paesi che mantengono la pena di morte per reati legati agli stupefacenti proibiti sono 33, tra questi 12 la prevedono obbligatoriamente in casi specifici e sono Brunei Darussalam, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Iran, Kuwait, Laos, Malesia, Oman, Siria, Sudan, Sudan del Sud e Yemen. In altri 14, tra cui USA e Cuba, la pena di morte è prevista per i trafficanti internazionali ma non viene mai applicata. I dati relativi a Iraq, Libia, Corea del Nord, Sudan, Sudan del Sud e Siria non sono attendibili, ma è ragionevole ipotizzare che la situazione in quei Paesi possa essere gravissima. Oltre a quella contro la pena di morte, esiste anche la giornata mondiale contro il narcotraffico. Negli anni scorsi, grazie anche alla "visione strategica" di Pino Arlacchi direttore dell’Ufficio dell’ONU sulle droghe e il crimine di Vienna, UNODC, per cinque anni fino al 2002, il 26 giugno veniva celebrato con la distruzione pubblica di tonnellate di droghe confiscate e con l’uccisione in piazza dei narcotrafficanti. Oggi, dopo anni di conclamati fallimenti del proibizionismo e il progressivo abbandono della pena capitale in decine di paesi, le Nazioni Unite di Vienna hanno sostanzialmente modificato il loro approccio alla iper-penalizzazione dell’uso e del possesso delle sostanze proibite. Malgrado l’opposizione dell’Unodc alla pena di morte, l’agenzia che oggi è guidata dal russo Yuri Fedotov, insiste col sostegno ad alcuni programmi di "assistenza tecnica" in paesi che mantengono la pena di morte per il narcotraffico. Come denunciato da Iran Human Rights, Teheran rimane il partner privilegiato, in particolare per "contenere" il traffico di oppio dall’Afghanistan all’Europa. L’Iran è, per l’appunto, il paese che sistematicamente applica la pena di morte per reati connessi alla proibizione degli stupefacenti con un accanimento tutto particolare nei confronti delle donne. Finanziamenti minori arrivano anche al Vietnam e al Pakistan, anch’essi con codici penali altrettanto severi. Ogni anno il Rapporto Mondiale sulle Droghe dell’Onu documenta come la produzione, il consumo e il commercio degli stupefacenti proibiti non diminuiscano: un’ulteriore riprova, se mai ce ne fosse bisogno, che la pena di morte non è un mai stato un deterrente e men che meno può esserlo nella guerra alla droga. Caso Pizzolato, lettera al ministro Andrea Orlando di Andrea Haas (moglie di Henrique Pizzolato) Il Manifesto, 21 ottobre 2015 Mio marito, su Sua decisione, sta per essere estradato in un paese con un sistema carcerario che, come Lei sa, sottopone i detenuti e loro familiari a condizioni disumane, lesive della loro dignità. Egregio Ministro della Giustizia Andrea Orlando, mi chiamo Andrea Haas e sono la moglie di Henrique Pizzolato. Abbiamo avuto modo di incontrarci durante un suo passaggio a Sassuolo, la scorsa estate. Mio marito, su Sua decisione, sta per essere estradato in un paese con un sistema carcerario che le stesse autorità giudiziarie che lo amministrano definiscono al collasso e che, come Lei sa, sottopone i detenuti a condizioni disumane, lesive della loro dignità e dei loro diritti fondamentali. Ma per la prima volta, da quando ormai un anno fa ho iniziato in tutti i modi a tentare di fare breccia nel silenzio e nella disinformazione che avvolge il calvario giudiziario di mio marito, ho deciso di non parlare di lui, ma di me, della paura che nutro per la mia sicurezza. Nella sentenza emessa dalla Corte d’Appello di Bologna (sent. n. 11217/2014), che ha negato l’estradizione di Henrique, si legge: "la grave situazione di illegalità non controllabile, non consente di ritenere attualmente tangibile l’efficacia delle intraprese iniziative governative (del Brasile): le violenze subite dai detenuti e - dalle loro famiglie - non può dirsi mutata e permane il rischio che le condizione di vita negli istituti penitenziari siano irrispettose dei diritti fondamentali della persona". Le prigioni brasiliane non sono un pericolo solo per le persone che vi soggiornano, ma anche per i loro cari, sottoposti anch’essi a vessazioni, estorsioni e a volte violenze vere e proprie. Perdoni la crudezza di quanto le sto per scrivere, ma nel Distretto Federale, lo "stato" in cui si trova il carcere di Papuda, a cui il Governo brasiliano e il Suo Governo hanno destinato mio marito, è ancora consentita la perquisizione intima - che consiste nell’obbligo per le visitatrici (incluse donne anziane, disabili e ragazze) di spogliarsi, chinarsi e mostrare l’ano e la vagina affinché le guardie carcerarie possano ispezionarli per verificare se nascondono oggetti illeciti. Se non bastasse il senso comune per considerare degradante e criminale questa pratica, il rappresentante dell’Onu, Juan Mendez, così come molte associazioni dei diritti umani e gli organismi rappresentativi della chiesa cattolica in Brasile si sono espressi recentemente contro questa tortura legalizzata. Può farsene un’idea dalle fonti che cito in calce. Nonostante la palese violazione dei principi costituzionali che trattano della dignità dell’essere umano, i politici brasiliani non hanno finora approvato alcuna legge federale che vieti la perquisizione intima. Il Ministro della Giustizia e soprattutto il Pubblico Ministero brasiliani non fanno nulla! Mi angoscia sapere che i giudici (a eccezione della Corte d’Appello di Bologna) e il Governo italiani ritengano che le garanzie di rispetto dei diritti umani fornite da queste "autorità" per giustificare l’estradizione di mio marito siano considerate affidabili. Non posso trattenermi dall’affermare che l’Italia, accettando le "prove" del Governo del Brasile, sta supportando le autorità brasiliane nella loro connivente cecità di fronte al caos in cui versa il sistema penitenziario brasiliano. Lo dimostra la recente dichiarazione del Segretario della Cooperazione Internazionale della Procura Generale, Vladimir Aras: "La decisione italiana è molto importante perché dimostra che il Brasile ha degli istituti detentivi - come quelli del Distretto Federale e di Santa Catarina - che possono ospitare qualsiasi persona per l’esecuzione penale nel rispetto dei loro diritti fondamentali". Come può il Pubblico Ministero rilasciare tali dichiarazioni pur sapendo che nel Distretto Federale il carcere di Papuda ha un tasso di affollamento del 215%, un tasso di morti violente di 13,6 (x 10mila detenuti) e che vi è un agente penitenziario per ogni 44 detenuti? Mi angoscia sapere che i tribunali e i governanti italiani considerano accettabile l’"offerta" della cosiddetta "Ala dei vulnerabili", perché in primo luogo è stata creata strumentalmente per ottenere l’estradizione di Henrique, secondariamente perchè si tratta di un’"isola" (10 celle!) all’interno di un penitenziario in cui si trovano 10.409 detenuti in lizza per 4.848 posti letto. Una chiara dimostrazione che soltanto con la creazione di un’eccezione alla legge, una violazione dello spirito democratico della Costituzione brasiliana come di quella italiana, le autorità brasiliane possono ottenere l’estradizione di Pizzolato, come se già non bastasse il processo "eccezionale" realizzato in Brasile in cui i diritti di difesa di Henrique sono stati palesemente violati, compreso il diritto di presentare appello. Sappia, sig. Ministro, che le conseguenze di tutti gli errori e le violazione dei diritti di Henrique raggiungeranno in qualche misura anche me. "Torture legalizzate" come la perquisizione intima, a cui potrei essere anch’io sottoposta, non sono certo impedite dalla presenza di un’ala "speciale". Dal momento che in ultimo la decisione dell’estradizione è una decisione politica, ovvero una sua decisione, spero che anche alla luce di queste mie "angosce" Lei possa riflettere bene sulle conseguenze che l’estradizione di mio marito Henrique Pizzolato avrà sulle nostre vite. Grazie per l’ascolto. Svizzera: lavoro in carcere, il direttore Laffranchini punta anche a creare un brand tio.ch, 21 ottobre 2015 La catena statunitense Whole Foods è specializzata nella vendita di alimenti biologici. Fin qui nulla di particolare, ma negli Stati Uniti si è sollevato un proprio e vero polverone quando si è saputo che i prodotti venduti erano coltivati da alcuni... carcerati. E in Svizzera? A Zurigo, per esempio, i detenuti lavorano in diverse fabbriche e officine. Nel Canton Argovia, invece, i prodotti creati nel carcere di Lenzburg vengono venduti tramite un negozio online. Il lavoro nobilita il carcerato, anche in Ticino. Anche in Ticino i detenuti lavorano. Il direttore Stefano Laffranchini precisa però subito che: "Da noi i prodotti non vengono venduti nei negozi". Ma di roba da fare ce n’è: "Diamo lavoro a circa 130 detenuti (su 220, ndr.). Il Codice Penale prescrive l’obbligo al lavoro. In questo modo il detenuto ha i mezzi per rifondere le spese legali e far fronte al proprio sostentamento. Inoltre non va dimenticato il carattere riabilitativo della pena". Lavoro sì, concorrenza no - "Considerate che la nostra forza lavoro - continua Laffranchini - può costare molto poco. Quindi potremmo incappare in una sorta di concorrenza sleale nei confronti delle piccole realtà imprenditoriali del territorio. Abbiamo una falegnameria, una stamperia e una legatoria dove facciamo lavori per terzi, su commissione. Creiamo, per esempio, dei semilavorati e addirittura anche delle bare. Il ricavato va allo Stato". Un articolo "Made in jail" - In futuro ci potrebbe essere un brand La Stampa? "L’unico modo per uscire dalla concorrenzialità è creare un prodotto trendy. Che sia un braccialetto o una maglietta, con un marchio riconducibile immediatamente al carcere. Stiamo pensando a un nostro brand. Il compratore, in questo modo, partecipa al nostro progetto. Ci stiamo lavorando seriamente, magari l’anno prossimo avremo qualcosa di concreto". Malawi: le Ong denunciano "migranti abbandonati nelle carceri, anche in 50 per cella" Dire, 21 ottobre 2015 In 50 in una cella da 20, con un lavabo ogni 900 persone e un bagno ogni 120: vivono così centinaia di migranti "irregolari" dell’Etiopia, arrestati sulla via del Sudafrica e trattenuti ora nelle carceri del Malawi, perchè questo piccolo paese non ha o non vuole stanziare i soldi per rimpatriarli. La vicenda è stata denunciata da alcune Ong e fonti di stampa concordanti. Un reportage rilanciato dal quotidiano sudafricano "Mail & Guardian" riferisce di 29 migranti, tra i quali diversi minorenni, detenuti nel penitenziario di Dezda. Hanno scontato la pena a sei mesi di prigione per ingresso illegale nel paese e pagato una multa di oltre 60 dollari, ma restano in carcere. Drammi simili 60 chilometri più a nord, nella capitale Lilongwe, dove l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) e Medici senza frontiere (Msf) assistono 317 etiopici. Finiti in un carcere che potrebbe ospitare 800 detenuti ma che ne trattiene invece 2650. L’Oim ha calcolato che il rimpatrio dei 317 migranti costerebbe 200.000 dollari. Nel reportage ci sono diverse interviste. Eyasu Tadiya, 15 anni, dice di non voler più "soffrire" e di desiderare solo di "tornare a casa". Aleme, 41, spiega perchè aveva deciso di partire: "Con i guadagni di due o tre anni di lavoro in Sudafrica riesco a mettere da parte i soldi per acquistare una casa. In Etiopia anche se lavori 20 anni non puoi comprare nulla". Sud Africa: l’ex campione paraolimpico Pistorius liberato dal carcere dopo un anno Askanews, 21 ottobre 2015 L’ex campione paraolimpico Oscar Pistorius, condannato nel 2014 a cinque anni di carcere per l’omicidio involontario della fidanzata, è stato liberato in anticipo dalle prigioni sudafricane, dopo avere scontato un solo anno di reclusione, ed è stato assegnato agli arresti domiciliari. La notizia è stata comunicata dal portavoce dei servizi penitenziari del Sudafrica. Pistorius è uscito di prigione con un giorno d’anticipo rispetto a quanto previsto dalla commissione che ratifica la liberazione dei detenuti e si è recato a casa dello zio Arnold Pistorius a Pretoria. Nel febbraio del 2013, nel corso della notte di san Valentino, la 28enne ex icona dello sport sudafricano e paraolimpico aveva ucciso con quattro colpi di pistola la fidanzata Reeva Steenkamp che si trovava chiusa nel bagno della casa di Pistorius a Pretoria. La sua scarcerazione non significa tuttavia la fine della vicenda giudiziaria. A novembre si terrà il processo d’appello che prevedibilmente rinfocolerà violente polemiche, spaccando di nuovo l’opinione pubblica sudafricana e internazionale tra innocentisti e colpevolisti, come tutti i processi penali di grido. Pistorius, amputato sotto il ginocchio a entrambe le gambe dall’età di 11 anni, era diventato una star del sport internazionale correndo su protesi in fibra di carbonio e aveva partecipato alle Olimpiadi di Londra del 2012 correndo con gli atleti normodotati. L’ex atleta ha sempre sostenuto di aver ucciso la fidanzata per errore, ritenendo che un ladro si fosse introdotto nella sua casa. Per questo è stato condannato in primo grado a soli cinque anni di carcere per omicidio involontario.