Giustizia: si ostinano a chiamarli "errori giudiziari", ma il sistema è al collasso di Giorgio Mulè Panorama, 1 ottobre 2015 Quello che mi fa ribollire il sangue è che si ostinano a chiamarli "errori giudiziari", a presentarli come casi isolati da inserire nel naturale corso della dialettica processuale. E invece sono la prova provata di un sistema giudiziario marcio fin nelle fondamenta. Aprite i giornali e ogni giorno troverete uno di questi "errori". Facciamo insieme due passi nelle cronache recentissime. La Procura di Caltanissetta chiede e ottiene il proscioglimento di tre funzionari di Polizia accusati di ogni nefandezza compiuta durante l’inchiesta sulla morte di Paolo Borsellino e dei cinque agenti di scorta. Le loro carriere sono state irrimediabilmente compromesse, per non parlare della loro vita. Anni e anni di accertamenti per approdare alla conclusione che i tre investigatori non sono stati dei farabutti. Poi tra le 188 pagine della richiesta di archiviazione firmata dal procuratore ci si imbatte in questa affermazione: "Non può sottacersi come l’intera vicenda che ha avuto come epilogo la celebrazione dei primi due processi per la strage di via D’Amelio sia tra le più gravi, se non la più grave in assoluto, della storia giudiziaria di questo Paese". È già: perché otto persone condannate in via definitiva all’ergastolo come stragisti, in base alle incredibili fandonie raccontate da finti pentiti, hanno trascorso 14 anni in cella prima di essere rilasciati perché innocenti. Chi ha pagato per l’errore "più grave in assoluto della storia giudiziaria di questo Paese"? Nessuno. Quale magistrato tra le decine che si sono occupati del caso ha perso il posto, è stato sanzionato o è stato dirottato in un ufficio dove non può fare altri danni? Nessuno. Chi paga per aver condannato un eroe dell’antimafia come Bruno Contrada (concorso esterno in associazione mafiosa) per un reato che la Corte europea dei diritti dell’uomo ha sancito - dopo quasi un quarto di secolo dall’arresto e dopo che il superpoliziotto ha scontato per intero la pena - che non poteva essergli contestato riconoscendogli perfino un risarcimento morale? Nessuno. E nessuno pagherà perché il governo italiano, che dovrebbe rivalersi sui magistrati, ha tentato di ricorrere contro Contrada e si è preso l’ennesimo schiaffo: la Grande camera della corte europea di Strasburgo lo ha appena respinto senza un minimo di esitazione. Vi risulta, poi, che a seguito della sentenza della Cassazione sul delitto di Perugia (l’assoluzione di Raffaele Sollecito e Amanda Knox) sia stato avviato un qualsiasi procedimento disciplinare a carico degli inquirenti colpevoli - scrive la Suprema corte - di "clamorose défaillance, amnesie investigative o colpevoli omissioni nelle attività di indagine"? Zero. Qualcuno pagherà per aver messo in croce l’ex vescovo di Terni e attuale presidente del Pontificio consiglio per la famiglia, monsignor Vincenzo Paglia, accusandolo di essere un truffatore e un traffichino salvo poi leggere in una sentenza di archiviazione che "è certa la sua totale estraneità visto che, anzi, risulta avere agito sempre con l’unico meritorio obiettivo di assicurare alla realtà cittadina un riscatto in termini sociali e culturali"? Non ci sperate. Non vi sorprendete dunque se a Palermo rimangono ad amministrare giustizia tutti i magistrati protagonisti dello scandalo sulla gestione dei beni sequestrati alla mafia perché accusati di corruzione, concussione, abuso d’ufficio, rivelazione di segreto sui quali non a caso tacciono i giornaloni moralisti. Un qualsiasi impiegato, per molto ma molto meno, sarebbe stato sospeso dal servizio o già arrestato per il pericolo di inquinamento delle prove. Loro, gli impuniti, no. Ma lei, signor ministro della Giustizia, un po’ di sana vergogna non riesce nemmeno a provarla? Giustizia: i media accaniti sugli arresti e silenti sulle assoluzioni di Luigi Crespi Il Tempo, 1 ottobre 2015 Il giorno in cui dalla procura di Bari è trapelata la notizia che Raffaele Fitto e Giampaolo Angelucci erano indagati per corruzione è iniziata una campagna informativa che ha scandito in modo puntuale tutti i passaggi giudiziari: la richiesta di arresto, l’audizione alla Camera, l’inizio del processo, le udienze, la sentenza di primo grado. Ho contato almeno 50 prime pagine in cui i nomi di Angelucci e Fitto sono stati associati a termini quali corruzione e condanna, senza contare le aperture dei telegiornali nazionali e locali e le centinaia di migliaia di tweet, post e commenti che hanno documentato l’iter giudiziario di tutta la vicenda per 10 anni. Ieri Angelucci e Fitto sono stati assolti per non avere commesso il fatto. Una sentenza limpida che restituisce l’onore agli imputati e che ribalta il giudizio di primo grado e trova conferma nelle dichiarazioni di innocenza che non sono mai venute meno da parte dei due protagonisti. Naturalmente a parte "Il Tempo" e qualche altra eccezione non troverete su nessuna prima pagina di un quotidiano nazionale o in apertura di nessun telegiornale la notizia dell’assoluzione, e nessuno si scandalizza perché funziona così, una logica perversa che non trova ragione nel diritto di informazione, o nelle logiche di mercato ma che ci ha assuefatto a questa dinamica per cui è diritto di informazione dare conto durante un’indagine, pubblicare accuse e condanne che assurgono sempre alle prime pagine, mentre le assoluzioni non fanno notizia, non interessano i lettori. Francamente io non credo sia così, penso si tratti un’insopportabile arroganza che non tiene conto della sofferenza che passa attraverso questa lapidazione che non trova ragione per chi la subisce da innocente. Se questo caso non fa rumore, se un caso in cui la buona giustizia, anche se dopo dieci anni, vince sulla cattiva giustizia non fa notizia, come pensate che possa farla il singolo cittadino che viene buttato sui giornali magari senza avere subito un processo? Possibile che chi si occupa di informazione non si ponga un problema di coscienza? Giustizia: intercettazioni, la propaganda di Travaglio per continuare a sputtanare di Filippo Facci Libero, 1 ottobre 2015 "Il Fatto" pubblica (e lo farà per giorni) le intercettazioni considerate irrilevanti dai magistrati. Sono vietate anche dalla legge attuale. Ma nessuno se ne cura. È vietato dalla legge, ma nessuno ci fa caso. Fantastico. Emblematico. Trovate voi l’aggettivo. Nel giorno in cui l’avvocato Caterina Malavenda (Corriere) dimostra un sensazionale talento comico e invita i giornalisti a essere giudici delle intercettazioni che possono pubblicare, il Fatto Quotidiano dimostra che cosa questo significa esattamente: e pubblica - ieri -"le intercettazioni che il governo vuole vietare", anzi "le conversazioni dell’ex ministro De Girolamo, ritenute irrilevanti". Ecco, ritenute irrilevanti da chi? Da poteri oscuri che celano il malaffare? No, da quei magistrati che non le hanno neppure inserite nei loro fascicoli, tanto che andrebbero distrutte: e questa impostazione di non pubblicare le intercettazioni irrilevanti (bavaglio!) peraltro è già stata condivisa dai capi delle principali procure italiane. Ma non dagli amici del Fatto, che evidentemente le ritengono socialmente rilevanti: e come mai? Mica lo spiegano: "Leggendo i testi delle conversazioni che rischiano di essere segretate per sempre", recitava Il Fatto di ieri, "i lettori si potranno fare un’idea da soli". Cioè: pubblicano un’intercettazione per far valutare se andasse pubblicata. E mica è finita: "Il Fatto Quotidiano pubblica a partire da oggi una serie di trascrizioni e conversazioni e atti (di questa e altre inchieste) che dopo l’entrata in vigore della legge non saranno più pubblicabili". Così, per principio. Per puntellare questa concettuale cazzata con una traballante base teorica, poi, eccoti sul Corriere della Sera un contemporaneo scritto dell’avvocato Caterina Malavenda, tra l’altro legale del Fatto Quotidiano. Nei fatti, da tempo, Caterina Malavenda è diventata la sindacalista di tutti i passacarte che vogliono continuare a pubblicare qualsiasi intercettazione, e il fatto (nomen omen) che lei sia legale del Corriere della Sera, del Sole 24 Ore, e di Panorama, Rai, Sky, Fatto Quotidiano e tanti altri, beh, non rappresenta certo un conflitto d’interessi. Per andare al punto: ora che la Camera ha delegato il governo a occuparsi delle intercettazioni penalmente irrilevanti - quelle che sputtanano la gente tanto per sputtanarla - l’avvocato si è affrettata a sostenere che una legge su questo, in Italia, non serva: con ciò candidandosi al premio per la satira di Forte dei Marmi. Ha scritto, a proposito dell’annunciata legge, che "i più hanno paventato si tratti di un bavaglio per l’informazione". "I più" sarebbero gli amici suoi, compreso Marco Travaglio. Altri invece "in misura minore hanno plaudito alla stretta sulla libertà di sputtanamento". Gli altri "in misura minore" invece sarebbero il resto del mondo, e ciò che rende la situazione italiana unica nel suo genere. Dunque, dopo che il Guardasigilli Andrea Orlando aveva detto "noi non vogliamo mettere il bavaglio, vogliamo chiudere il buco della serratura quando non è funzionale all’interesse collettivo", l’avvocato Malavenda ha scritto che il principio è "già recepito nella legge sulla privacy". Che è come dire, se è vero che a Caracas ci sono 25mila omicidi all’anno, che non bisogna intervenire perché in Venezuela l’omicidio è già vietato. Quindi, sulle intercettazioni, siamo a posto: possiamo andare avanti così. Anzi no, perché l’avvocato Malavenda ha un suggerimento: basterebbe che il governo introducesse un solo articolo per punire chi diffonde intercettazioni irrilevanti "a meno che ciò non avvenga nell’esercizio del diritto di cronaca, trattandosi di conversazioni essenziali per l’informazione". Traduzione: basterebbe fare una piccola legge per punire chi diffonde intercettazioni irrilevanti, fatta eccezione per i giornalisti - cioè coloro che le diffondono - e lasciando ai medesimi la facoltà di decidere che cosa è rilevante e che cosa no. Primo premio per la satira. "La selezione rimarrebbe di competenza del giornalista, cui occorre pur dare la necessaria fiducia", ha scritto. Ma certo: e per farsi un’idea basta guardare il Fatto Quotidiano di ieri, e, presumiamo, di oggi e di domani. Ecco, a proposito di competenza: l’avvocato Malavenda forse ritiene di averne parecchia. È senz’altro così, visto che al direttore del Corriere, ieri, ha scritto così: "Mi perdoni se, avendo una discreta esperienza in materia, pur scrivendo a lei, ne approfitto per rivolgermi direttamente al ministro, per quel che ha detto e per quel che potrà fare". Insomma, ministro, non perda tempo con altri interlocutori come già fece con il magistrato Nicola Gratteri e la sua commissione: già allora, nell’aprile scorso, l’avvocato Malavenda del resto scrisse (sul Corriere) che era tutto sbagliato e tutto da rifare. E questo - secondo opinione dello scrivente, noto incompetente - perché l’avvocato Malavenda a proposito delle intercettazioni auspica quello che auspicano parte della classe dirigente e della magistratura e dei giornalisti: cioè un accidenti di niente, perché l’andazzo italiano sulle intercettazioni, unico al mondo, a loro in realtà va benissimo così. Però, a proposito di competenza, qualcosina si potrebbe aggiungere. Ieri l’avvocato sdottoreggiava così: "È impossibile, oltre che non previsto dal codice, impedire la circolazione dei contenuti delle intercettazioni, una volta venuti a conoscenza delle parti, in fase di selezione e, quindi, non più segreti". L’ha scritto male (rileggete, nel caso) ma è sempre la stessa storia, la stessa personalissima interpretazione dei codici: i quali dicono proprio il contrario di quanto sostiene l’avvocato. Eppure la sentenza della Cassazione del 20 gennaio scorso (838/2015, ricorso di Fedele Confalonieri contro Rcs Quotidiani) l’avvocato Malavenda se la prese sui denti: spiegava, la sentenza, che il Codice già contiene gli articoli 114, 329 e 684 che vietano espressamente la pubblicazione di virgolettati provenienti da atti e verbali e intercettazioni e compagnia bella, questo senza bisogno che i governi ogni tanto abbozzino presunte "leggi bavaglio" che poi non vanno mai in porto. Non conta se i virgolettati siano coperti da segreto o no, se siano riportati correttamente, se si ravvisi un interesse pubblico: è - sarebbe - vietato e basta. Tuttavia si tratta di violazioni che sono sempre state "prassi comune di cui di solito non si duole nessuno", scrisse il Fatto Quotidiano, e pensa, evidentemente, l’avvocato Malavenda. Ecco perché entrambi potrebbero impararsi a memoria quanto scrisse la Terza sezione civile della Cassazione: "Fatta salva la possibilità di pubblicare il contenuto di atti non coperti dal segreto, non può derogarsi al divieto di pubblicazione di tali atti (mediante riproduzione integrale o parziale o estrapolazione di frasi), nei casi previsti dall’art. 114 cpp". Significa che un conto è pubblicare stralci di un atto o di un’intercettazione (se è rilevante) e un altro conto è sbattere tutto e integralmente su un giornale. Nota personale: imparai questo concetto basilare in parte col mestiere e in parte coi corsi di giornalismo dell’Ifg di Milano: la mia insegnante si chiamava Caterina Malavenda. Giustizia: il Csm ormai è un "centro di potere", l’indecenza che il governo non vede di Giorgio Mulè Panorama, 1 ottobre 2015 Mettiamola così. Un magistrato-bandiera come Raffaele Cantone, che il governo issa ogni due per tre al solo scopo di rivendicare la sua assoluta dirittura morale, afferma: "Il Consiglio superiore della magistratura è ormai un centro di potere di cui si fa fatica ad accettare il ruolo(...). Le correnti sono diventate un cancro della magistratura (...). Le correnti hanno rappresentato e rappresentano oggi un vero e proprio sistema che per certi versi è peggiore della politica: perché sono uno strumento indispensabile per fare carriera". Le parole dette da Cantone e ignorate dal governo sollevano problemi di una gravità assoluta, perché innanzitutto segnalano una profonda lesione della Costituzione. Infatti, mentre la Carta prevede espressamente l’esistenza dei partiti "per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale" (articolo 49), nulla dice delle correnti dei giudici. Anzi. In più articoli ricorre piuttosto la parola "indipendenza" accostata ai magistrati, proprio a sottolineare la sacralità di una funzione che non dovrebbe obbedire ad alcun condizionamento. Invece accade che la magistratura sia divisa alla luce del sole in fazioni in lotta tra loro, che la totalità delle promozioni - dalla Procura meno celebrata sui giornali ai vertici della Cassazione - sia decisa sulla base di logiche di spartizione e accordi tra le correnti. Questi gruppi di potere hanno perfino la sfacciataggine di darsi nomi nobili tipo "Autonomia e indipendenza", "Magistratura democratica", "Magistratura indipendente", "Unità per la Costituzione" oppure meno prosaicamente "Proposta b" o "Area". Le correnti rappresentano la maggioranza nel Consiglio superiore della magistratura (16 membri su 27) ed è lì che stringono alleanze su ogni singola promozione. Spiace dirlo, ma la verità è che si va avanti solo perché si è amici degli amici con buona pace del criterio imposto dal merito. Questo indecente mercato delle vacche è stato perfettamente fotografato il 27 settembre da Repubblica con un titolo illuminante: "Csm, guerra tra correnti per le nuove nomine". E sono nomine delicatissime a Milano, Firenze, Catania, Caltanissetta solo per citare alcuni uffici giudiziari coinvolti. Tanta è la protervia di questi signorotti che al vicepresidente del Csm, Giovanni Legnini, è stata attribuita questa frase: "Se non la smettete con i vostri equilibri correntizi mi metto a votare anche io e ve lì mando all’aria". Di fronte a questo scenario avvilente dove l’unico requisito per far carriera è l’appartenenza, viene coinvolto, suo malgrado, perfino il capo dello Stato in quanto presidente del Csm e vittima di questa "corte". È lui il primo a subire gli effetti di un’umiliazione costante del dettato costituzionale. E allora non vi pare sia urgente e improrogabile intervenire? Non dovrebbe il governo procedere a razzo sulla riforma della giustizia, tema che riguarda la vita di tutti ed è davvero determinante anche per gli imprenditori italiani e i tanto invocati investitori stranieri? Macché, sforzi e battaglie si concentrano sull’inutile riforma del Senato. La giustizia può attendere. Giustizia: nel Csm dividersi è normale, ma senza contrapposizioni precostituite di Renato Balduzzi Avvenire, 1 ottobre 2015 Mattinata intensa, quella di ieri al Consiglio superiore della magistratura, dove sono state ricordate due figure di elevato spessore umano, cristiano e professionale come Vittorio Bachelet e Giovanni Conso (ma l’Associazione Bachelet, che ha voluto l’iniziativa, ha promesso, per bocca del magistrato di Cassazione Riccardo Fuzio, di aver in animo di promuovere un’iniziativa a ricordo anche di un altro protagonista delle nostre istituzioni, il compianto Piero Alberto Capotosti). Con la presenza, attenta e pensosa, del presidente Sergio Mattarella sono stati evocati i temi principali della vita dell’organo di governo autonomo della magistratura: il senso della presidenza affidata al Capo dello Stato; l’equilibrio tra componenti togate e "laiche"; il ruolo di cerniera tra presidente e plenum svolto dal vicepresidente (eletto da tutto il Consiglio, quindi in prevalenza da togati, ma scelto obbligatoriamente tra gli eletti del Parlamento); l’importanza degli altri due membri di diritto, il primo presidente della Cassazione e il procuratore generale presso la stessa (i cosiddetti "capi di Corte", che con il vicepresidente formano il Comitato di presidenza); l’opportunità che gli essenziali e sommari dati normativi costituzionali e ordinari concernenti il Csm - per usare le parole del professor Cesare Mirabelli - vengano sempre più integrati sia dal regolamento interno, come ha ricordato il vicepresidente in carica, Giovanni Legnini, sia dalla saggezza delle persone, come sottolineato con forza dal professor Gaetano Silvestri; la necessità vitale che le componenti della magistratura associata riprendano e consolidino quello slancio culturale e politico (in senso alto) che ne giustifica l’esistenza e il ruolo. Sottesa a molti interventi, in particolare a quello del Pg di Cassazione Pasquale Ciccolo, l’esigenza che si ricerchi sempre più la massima condivisione possibile, come si sforzarono tra gli altri di fare sia Bachelet sia Capotosti e, in tempi più recenti, Michele Vietti. Una piccola notazione: in un organo che, tra l’altro, amministra (o "governa") in forma collegiale, può essere normale dividersi sulle proposte, specialmente in presenza, per le nomine, di candidature multiple valide e autorevoli. Quella che andrebbe evitata è una contrapposizione precostituita (togati contro laici, parte di togati contro togati, o pezzi di laici e togati contro altri): ne va dell’autorevolezza dell’organo e altresì della sua stessa missione costituzionale, nell’interesse della buona amministrazione della giustizia. Giustizia: beni sequestrati alla mafia, un tesoro disperso tra troppe mani di Roberto Galullo Il Sole 24 Ore, 1 ottobre 2015 Il monito "conoscere per deliberare" lanciato nel 1955 al Paese da Luigi Einaudi ben si adatta anche alla gestione dei beni sequestrati e confiscati alla mafia. Si aggiunga che l’ex presidente della Repubblica lo lanciò attraverso il volume "Le prediche inutili" e si capisce ancora meglio che il paragone non è poi così azzardato, visto che sono anni che esperti e analisti si sperticano per dire che così com’è, proprio non va. Poco o nulla possono i direttori dell’Agenzia nazionale (Anbsc) che per ultimi si sono alternati alla guida di questo (otto)volante, se non denunciare le mille storture e i molti scandali (come è accaduto al prefetto Giuseppe Caruso) o tentare di indirizzare una macchina statale complessa (come fa il prefetto Umberto Postiglione dal 13 giugno 2014). Come possa conoscere e dunque gestire al meglio il tesoro miliardario sottratto alle mafie, deve essere un rovello della stessa Agenzia, se è vero che alla voce "statistiche", fino a qualche ora fa si leggeva: "In aggiornamento. Riallineamento in corso con dati del ministero della Giustizia". I dati, già. Buio (spesso) fitto. E dire che la legge 109/96 nacque solo con lo scopo di creare una banca dati per governare il patrimonio sottratto alle mafie. Il ministero della Giustizia, a pagina 3 della relazione consegnata a febbraio di quest’anno al Parlamento su "Consistenza, destinazione ed utilizzo dei beni sequestrati o confiscati - Stato dei procedimenti di sequestro o confisca", scrive che l’esigenza della banca dati "derivava anche dal fatto che, sino a quel momento, la raccolta dei dati era stata rimessa all’iniziativa delle amministrazioni a vario titolo interessate, le quali, senza alcun raccordo tra loro, avevano provveduto a creare autonomi sistemi di rilevazione, talvolta privi di precisi criteri procedurali". I milioni di euro spesi in questi anni (compreso un bando da sette milioni per l’informatizzazione) devono però aver fruttato poco se è vero che, paradossalmente, i dati tra Agenzia e ministero sono "in corso di riallineamento". Numeri e pallottoliere. C’è da perdersi tra le pieghe ma come dato di partenza fissiamo ciò che sottoscrive lo stesso ministero: i beni inseriti nella banca dati sono, a fine febbraio 2015, 139.187. Dopo una crescita continua fino al 2013, nel 2014 si è registrata una certa flessione, con gli uffici giudiziari che hanno posto la loro attenzione su 16.701 beni (circa 1.400 al mese). I beni sequestrati sono 17.973 (la stragrande maggioranza in Sicilia) e quelli confiscati sono 46.799 (anche qui domina la Sicilia). Il totale fa 64.772. E il resto? Sorpresa: 36.628 sono i beni dissequestrati (tutti quelli con rigetti e/o revoche di sequestri o confische) che, in pratica, tornano ai proprietari (spesso mafiosi). Sono 32.547 i beni proposti (per i quali si è ancora nella fase di attesa di un pronunciamento da parte del giudice di primo grado) e sono infine 5.240 i beni destinati, cioè quelli giunti alla confisca definitiva e poi mantenuti al patrimonio dello Stato o assegnati agli enti locali. Un rivolo, rispetto al fiume che lo alimenta, che poi, quando non viene fatto morire per consunzione e abbandono, si perde nelle mani di pochissime associazioni che detengono il monopolio dell’uso e del riuso. Un rivolo che si perde anche nei meandri della telematica: il sito dell’Agenzia riporta che i provvedimenti per destinare i beni sarebbero solo 1.173 (di cui 739 in Sicilia). Giustizia: per i beni sequestrati un esercito di amministratori, senza regole e trasparenza di Roberto Galullo Il Sole 24 Ore, 1 ottobre 2015 Se la conoscenza è potere allora si capisce perché manchi - nonostante le richieste sollevate a destra e manca - un Albo degli amministratori giudiziari. O meglio: l’Albo c’è ma non si vede, perché mancano i decreti attuativi (che devono seguire la legge 4/2010). Nessuno, dunque, sa quanti siano gli amministratori. Secondo l’Istituto nazionale degli amministratori giudiziari (Inag), ci sarebbero circa 500 professionisti/amministratori giudiziari, stabilmente impegnati nella gestione di patrimoni complessi composti da aziende e circa 700 impegnati occasionalmente su altri beni (immobili, mobili registrati e altri beni). Molti soggetti, infatti, vista la complessità della materia e in considerazione dell’assenza di un tariffario di riferimento (che arricchiscono taluni e fanno vivere talatri), investono le energie in altri settori professionali. La Camera penale di Palermo, presieduta da Antonino Rubino, in una lettera inviata al Csm e al ministro della Giustizia Andrea Orlando, scrive che "la vicenda giudiziaria che oggi colpisce il Tribunale di Palermo, al di là dell’accertamento cui è delegata l’autorità giudiziaria, pone il vero punto nodale della questione che consiste nella stratificazione nel tempo dei medesimi soggetti che sono chiamati a gestire ed occuparsi esclusivamente dei procedimenti di misure di prevenzione". "Manca una normativa di riferimento univoca con i criteri di determinazione del compenso dell’amministratore e ciò - dichiara al Sole-24 Ore Domenico Posca, fondatore dell’Inag - costituisce un’altra grave lacuna della legislazione che finisce col creare disparità di trattamento a fronte di identiche prestazioni professionali". Non c’è dunque da meravigliarsi se nell’opacità degli strumenti a supporto dell’autorità giudiziaria scoppino scandali (tutti da verificare in sede processuale) come quello recente di Palermo e i Tribunali siano costretti a mettere pezze: Palermo stessa non esclude l’azzeramento di alcuni incarichi. Ieri la prima Commissione del Csm ha aperto la procedura di trasferimento d’ufficio, per incompatibilità ambientale, nei confronti dei cinque magistrati coinvolti nell’indagine svolta dalla Procura della Repubblica di Caltanissetta sulla gestione della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo. Già gli incarichi, che non sono solo quelli degli amministratori ma di una pletora di consulenti, periti, commissari liquidatori, presidenti e consiglieri di amministrazione. Per Posca, l’aiuto "che potrebbe essere assicurato dallo Stato in termini di agevolazioni contributive e trattamenti fiscali differenziati sarebbe determinante non solo per legalizzarle completamente, ma anche per migliorarne la gestione e incrementare l’occupazione. Una scelta strategica e senza spese per lo Stato sarebbe, infine, quella di consentire l’utilizzo, seppur parziale, dei 342 milioni definitivamente confiscati e depositati presso il Fug (Fondo unico giustizia) a garanzia di aperture di credito bancario in favore delle aziende sequestrate che ne fanno richiesta". Al Fondo confluiscono le somme e i relativi proventi, compresa ogni altra attività finanziaria a contenuto monetario o patrimoniale (titoli al portatore, a quelli emessi o garantiti dallo Stato anche se non al portatore, valori di bollo, crediti pecuniari, conti correnti, conti di deposito titoli, libretti di deposito) sequestrati - per larga parte - nei procedimenti penali, per l’applicazione di misure di prevenzione patrimoniali (cioè grazie alla lotta alle mafie). Al 5 agosto il Fug, complessivamente, contava 3,4 miliardi. Giustizia: beni sequestrati alla mafia, a rischio la credibilità dei giudici di Palermo di Giovanni Bianconi Il Corriere della Sera, 1 ottobre 2015 Si respira aria pesante, nel palazzo di giustizia di Palermo, simbolo della lotta alla mafia. E adesso è il presidente del tribunale Salvatore Di Vitale, sessantacinquenne con la fama di "moderato", in carica da pochi mesi, a chiedere al Consiglio superiore della magistratura di intervenire con celerità e decisione, perché "la funzione giudiziaria" sta perdendo pericolosamente la propria "credibilità". E il Csm apre subito una pratica per il trasferimento per "incompatibilità ambientale" dei cinque magistrati coinvolti a vario titolo nello scandalo che ha travolto la Sezione per le misure di prevenzione, e non solo quella. Si tratta di uno degli avamposti "strategici" del contrasto giudiziario a Cosa nostra: sono i giudici che dispongono il sequestro dei beni ai boss e ne organizzano la gestione; patrimoni per centinaia e centinaia di milioni di euro, dai quali scaturiscono parcelle anche molto consistenti per chi è chiamato, dagli stessi giudici, ad amministrarli. La Procura di Caltanissetta, competente per i reati contestati alle toghe palermitane, ha accusato l’ex presidente della Sezione Silvana Saguto - ora assegnata ad altro incarico - di corruzione, abuso d’ufficio e riciclaggio (insieme al padre ultraottantenne); inquisiti pure due giudici che lavoravano con lei, e un pubblico ministero accusato di rivelazione di segreto. Per induzione alla concussione è indagato Tommaso Virga, noto espoente della corrente "di destra" Magistratura indipendente, già componente del Csm e adesso della commissione ministeriale che dovrebbe formulare proposte per la riforma dell’organo di autogoverno dei giudici. A suo figlio Walter, giovane avvocato finito anche lui sotto inchiesta, è stata assegnata la gestione di un patrimonio di oltre cinquecento milioni, e tra le ipotetiche "contropartite" ci sarebbe pure un lavoro a tempo per la nuora della Saguto presso lo studio di Virga jr. Questa presunta "gestione familiare" dei beni sequestrati e confiscati (il principale beneficiario delle designazioni come amministratore, l’avvocato Gaetano Cappellano Seminara, è accusato di aver liquidato a sua volta parcelle per oltre 750.000 euro al marito della giudice Saguto, utilizzato come consulente) ha messo l’intero tribunale di Palermo in una situazione di oggettiva difficoltà; anche perché le carte dell’accusa sono state scoperte soltanto in minima parte e da settimane si parla di intercettazioni molto più che imbarazzanti, non solo per gli inquisiti. Al punto che il presidente Di Vitale denuncia lo "sconcerto e profondo turbamento nell’opinione pubblica, nel foro e tra i magistrati" generato dalle notizie uscite sui giornali. Il capo dei giudici di primo grado ha rinnovato l’intero ufficio per le misure di prevenzione, e ha riferito al Csm i primi risultati sull’ispezione avviata in relazione ad "anomalie, conflitti di interessi e pagamenti abnormi negli incarichi" nel mirino dei pubblici ministeri di Caltanissetta. Ma non basta, aggiunge ora nella lettera inviata a Roma. Gli avvocati hanno chiesto addirittura lo scioglimento della Sezione specializzata, e l’Associazione magistrati locale ha messo in guardia dal pericolo di "delegittimazione della funzione giudiziaria" che potrebbe estendersi "con danno di portata incalcolabile". Di Vitale fa proprie queste preoccupazioni, e riferisce episodi inquietanti. "Negli ultimi giorni - si legge nella relazione al Csm - si sono registrati più casi in cui alcuni consulenti si sono presentati a magistrati per comunicare la propria disponibilità ad assumere incarichi, facendo tuttavia sapere, con una certa ironia, di essere consapevoli dell’inutilità di tale richiesta, essendo opinione diffusa che vengono nominati " sempre i soliti noti "". E ancora: "Sono stati da più parti segnalati atteggiamenti irriguardosi nei confronti di magistrati da parte di soggetti processuali, sintomatici di caduta di fiducia nella giustizia". In un simile clima "ogni giorno che passa senza interventi rigorosi finalizzati alla tutela della credibilità della funzione giudiziaria, si accredita l’inaccettabile semplificazione evocata da uno dei professionisti indagati, secondo cui " ovunque in Sicilia si danno incarichi ai parenti delle toghe". Conclusione allarmata del presidente del tribunale: "La credibilità della funzione giudiziaria in un’area connotata da una pervasiva presenza mafiosa rappresenta anche il più importante presidio per la sicurezza fisica di quei magistrati che quotidianamente si espongono" firmando provvedimenti contro "pericolosi criminali". L’imbarazzante vicenda, insomma, finirebbe per mettere a rischio anche chi non è coinvolto nello scandalo, e per fornire ulteriori dettagli Di Vitale chiede di essere ascoltato con urgenza dal Csm. Una prima risposta è arrivata ieri con l’avvio della procedura per il trasferimento dei giudici indagati. "Una decisione tempestiva - spiega la presidente della prima commissione Paola Balducci - per tutelare l’immagine e il prestigio della magistratura palermitana, cui il nostro Paese deve tanto nella lotta alla mafia". Giustizia: Antimafia, un silenzio color vergogna di Claudio Martelli Panorama, 1 ottobre 2015 La Sezione misure di prevenzione dì Palermo è sospettata dì gravi illeciti su beni sottratti ai boss per milioni di euro. Ma il governo è inerte. Il Consiglio superiore aspetta. Così i giudici indagati restano in tribunale. E nessuno dice nulla. Niente al mondo mi suscita tanta avversione, tanto sdegno, tanta rabbia quanto la mafia, per i suoi crimini efferati e per i danni incalcolabili che causa alla Sicilia e all’Italia tutta. Solo un’altra cosa mi suscita un’allergia e un disprezzo paragonabili se non più grandi: l’antimafia fasulla, di facciata e, peggio ancora, l’antimafia corrotta. Mi riferisco a chi, preposto a reprimere Cosa nostra, tradisce se stesso e la Repubblica: a quei giudici che approfittano dell’autorità e del potere di cui sono investiti per arricchire sé stessi, i propri famigliari e gli amici complici. Giudici di tal fatta meritano l’esecrazione pubblica e il massimo rigore della legge. Invece non sembra che la scoperta dei verminaio annidato nel Tribunale di Palermo stia suscitando una reazione adeguata nei grandi organi d’informazione, in genere così solleciti a emettere sentenze morali preventive e a pubblicare col massimo clamore intercettazioni penalmente irrilevanti ma morbosamente attraenti. E, francamente, non mi pare congrua nemmeno la decisione di spostare i giudici indagati dalla Procura di Caltanissetta. Come può essere tollerato che giudici dell’esecuzione della pena accusati di corruzione e concussione e dimessisi dall’incarico conservino funzioni e ruolo, venendo trasferiti a un’altra sezione del Tribunale di Palermo altrettanto se non più importante come quella dei giudici dell’indagine preliminare? Sarebbe questa la cautela? Neppure l’annuncio del vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, Giovanni Legnini, durante l’informale ispezione a Palermo di fine settembre, che "appare fondata la previsione di un trasferimento ad altra sede" appare proporzionata. Il garantismo qui non c’entra: non si tratta di emettere sentenze, si tratta di tutelare e di amministrare la giustizia (a proposito: che fa il ministro Andrea Orlando?). Nell’inerzia meglio, molto meglio, che i giudici dimissionari perché sottoposti a accuse così infamanti restino sospesi senza ricoprire alcun ruolo. Oltretutto, quello che emerge dall’indagine della Procura di Caltanissetta non è un singolo reato ma un sistema corruttivo le cui dimensioni sì allargano ogni giorno di più coinvolgendo magistrati e avvocati dì Palermo e lambendo, secondo Il Messaggero, persino la posizione del prefetto Francesca Cannizzo. Al centro del sistema di corruzione sotto inchiesta c’è l’ormai ex presidente della Sezione misure di prevenzione, Silvana Saguto, accusata di corruzione aggravata, induzione alla concussione e abuso d’ufficio. Gli stessi reati sono contestati all’avvocato Gaetano Cappellano Seminara, all’ingegner Lorenzo Caramma, marito della Saguto che, con il padre e uno dei figli è stata indagata anche per auto-riciclaggio e, perciò, perquisita nell’abitazione e nell’ufficio al Tribunale. L’avvocato Cappellano Seminara, da più di dieci anni vero asso pigliatutto delle amministrazioni giudiziarie del Tribunale di Palermo (per esempio del patrimonio di Vito Ciancimino oltre che di numerose aziende in odore di mafia) e inquisito anche per truffa, nel corso dello stesso periodo avrebbe ricevuto compensi di Stato per 6 o 7 milioni, più quelli che si è concesso in qualità di consigliere delle stesse aziende. Il sospetto degli inquirenti è che parte dei denari ricevuti grazie agli incarichi affidatigli dalla Saguto siano stati poi ristornati ai parenti del giudice. L’analisi dei conti correnti e dei beni stabilirà come stanno le cose. Con loro è inquisito anche Tommaso Virga, già membro del Csm e, fino alle recentissime dimissioni, presidente di un’altra sezione del Tribunale di Palermo. Anche qui un giro famigliare o, meglio, familistico: il figlio di Tommaso, l’avvocato Walter Virga, è infatti accusato di corruzione. Walter era stato nominato da Saguto amministratore del patrimonio Rappa, un imprenditore condannato per concorso esterno in associazione mafiosa. A naso, al di là della parentela, supponendo un normale criterio di competenza, appare incomprensibile la nomina del trentenne Walter, privo di ogni esperienza, ad amministratore giudiziario di un patrimonio che tra imprese edili, concessionarie d’auto e la tv locale Trm è valutabile secondo alcuni 800 milioni, secondo altri molto di più. Sorprende e inquieta anche la circostanza che lo scandalo che oggi tracima in effetti penali era stato da più parti presagito e annunciato. Il prefetto Giuseppe Caruso, da direttore dell’Agenzia nazionale beni confiscati di Reggio Calabria, due anni fa aveva segnalato l’anomalo conflitto di interessi di amministratori giudiziari che esercitavano contemporaneamente il ruolo di dirigenti delle imprese che dovevano controllare. Analogamente siti web indipendenti avevano rilevato come il circuito dei professionisti nominati dal Tribunale fosse composto sempre delle stesse figure. Al tempo Caruso fu zittito dalla presidenza della Commissione parlamentare antimafia, da Claudio Fava a Rosy Bindi, e trattato come uno che sollevava "polveroni" per screditare i probi magistrati dell’ufficio esecuzione della pena in prima linea nella lotta alla mafia. Già; proprio perché il sequestro e la confisca dei patrimoni mafiosi sono stati uno dei capisaldi della legislazione antimafia (dalla legge La Torre al decreto Falcone che varai nel 1992, fino al codice antimafia) non si può tollerare di vederli pervertiti al lucro personale di alcuni giudici e avvocati. Il governo Renzi farebbe bene a darsi una mossa, ben al di là dei pannicelli caldi adottati dall’ultimo frettoloso Consiglio dei ministri. È urgente riformare in radice i criteri seguiti da Tribunali e Comuni e quella stessa Agenzia per l’amministrazione dei beni sequestrati e confiscati ai mafiosi che doveva "gestire e monitorare", ma fa acqua da tutte le parti. Iniziando con il buon senso di capire che anche quando la corruzione non c’entra magistrati e avvocati non possiedono né il profilo né l’esperienza professionale adeguati a risanare e gestire i beni sottratti alle organizzazioni criminali. Imputato detenuto: da rinviare l’udienza per legittimo impedimento di Cisterna Alberto (Magistrato) quotidianogiuridico.it, 1 ottobre 2015 Cassazione Penale, Sezione III - Sentenza 24 settembre 2015, n. 38790. La sentenza della Cassazione esclude che vi sia un contrasto giurisprudenziale in ordine alla necessità per l’imputato o il difensore di comunicare tempestivamente al giudice la detenzione per altra causa essendo sufficiente che tale condizione emerga comunque nel corso del giudizio. Secondo la sentenza n. 38790/2015, qualora l’imputato sia detenuto o agli arresti domiciliari o comunque sottoposto a limitazione della libertà personale che non gli consente la presenza in udienza, poiché in tali casi è in re ipsa la presenza di un legittimo impedimento, il giudice, in qualunque modo e in qualunque tempo venga a conoscenza dello stato di restrizione della libertà, anche senza una richiesta dell’imputato deve d’ufficio rinviare il processo ad una nuova udienza e disporre la traduzione dell’imputato, salvo il rifiuto dello stesso dl assistere all’udienza (art. 420-quinquies). La sentenza n. 38790/15 della Cassazione precisa quale interpretazione debba essere accordata all’art. 420-ter c.p.p. sul punto del legittimo impedimento a comparire dell’imputato che versi in stato di arresti domiciliari per altra causa. Nel caso di specie la difesa lamentava che non era stata disposta la traduzione dell’imputato per l’udienza dibattimentale e che non vi era alcun obbligo per costui di proporre istanza al giudice competente per essere autorizzato a presenziare. La giurisprudenza di legittimità, com’è noto, è in via prevalente orientata nel senso di escludere l’obbligo per l’autorità giudiziaria di disporre la traduzione dell’imputato agli arresti domiciliari per altra causa e che sia onere dell’imputato chiedere al giudice competente de liberate l’autorizzazione ad allontanarsi dal proprio domicilio per presenziare all’udienza. In questo senso, da ultimo, univoca Cassazione sezione V, 25 marzo 2015 n.12690, m. 263887) secondo cui "l’imputato sottoposto agli arresti domiciliari per altra causa, sopravvenuta nel corso del processo, qualora intenda comparire in udienza ha l’onere di chiedere tempestivamente al giudice competente l’autorizzazione ad allontanarsi dal domicilio per il tempo necessario, non essendo, in tal caso, configurabile un obbligo dell’autorità giudiziaria procedente di disporne la traduzione". Esiste, tuttavia, un diverso approdo ermeneutico (puntualmente compendiato dal Massimano della Cassazione nella relazione n. 40/2015) ad avviso del quale lo stato di restrizione dell’imputato agli arresti domiciliari per altra causa, sopravvenuta nel corso del processo e comunicata solo in udienza, costituirebbe un legittimo impedimento a comparire con divieto di procedere in assenza e ciò anche quando emerga che l’imputato avrebbe potuto informare il giudice del sopravvenuto stato di detenzione in tempo utile perché ne disponga la traduzione, in quanto l’unico soggetto processuale onerato di una comunicazione tempestiva dell’impedimento è il difensore (Cassazione sezione IV, 5 maggio 2014, n. 18455, m. 261562). La sentenza in commento aderisce a questo secondo indirizzo interpretativo muovendo dalla circostanza che le Sezioni Unite, sia pure nell’ambito di un obiter dictum, si sono espresse in favore di questa lettura delle disposizioni in tema di legittimo impedimento per altra detenzione domiciliare. Si ricorda, infatti, nella motivazione della pronuncia in esame che Cassazione sezioni unite, 26 settembre 2006 n. 37483, m. 234600 ha affermato che la detenzione dell’imputato per altra causa, sopravvenuta nel corso del processo e comunicata solo in udienza, integra un’ipotesi di legittimo impedimento a comparire e preclude la celebrazione del processo in absentia, anche quando risulti che l’imputato avrebbe potuto informare l’autorità giudiziaria del sopravvenuto stato di detenzione in tempo utile per la traduzione (in tal senso, da ultimo, Cassazione sezioni unite 1 ottobre 2010 n. 35399, n. 247837). L’opzione in questione si fonda, per così dire, su ragioni assiologiche che attengono ai principi costituzionali e sovranazionali del giusto processo. In primo luogo la sentenza 38790/2015 ricorda che il diritto dell’imputato a comparire all’udienza costituisce il presupposto indefettibile del diritto all’autodifesa che è assicurato all’accusato in primo luogo con la sua presenza nel corso del dibattimento a suo carico. Inoltre, questa interpretazione, orientata dalla lettura degli artt. 24 e 111 Cost., troverebbe conferma nell’assunto della Corte sia nelle norme e nei principi enunciati dall’art.6, comma 3, lett. e), d ), e), Cedu che regolano il diritto di ogni accusato di difendersi personalmente, di esaminare o far esaminare i testimoni e di farsi assistere gratuitamente da un interprete implicano necessariamente la presenza dell’imputato; sia nell’art. 14, comma 3, lett. d), e), f), del Patto internazionale di New York del 16 dicembre 1966 che, a sua volta, sancisce il diritto di ogni accusato di essere presente al processo, oltre che di difendersi personalmente o mediante un difensore di sua scelta e via seguitando secondo il noto catalogo di guarentigie. In definitiva, annota la Cassazione, per come affermato dalle Sezioni Unite nella motivazione della richiamata sentenza n. 35399/2010, "nel giudizio ordinario deve sempre essere assicurata, in mancanza di un inequivoco rifiuto, la presenza dell’imputato e quindi, in virtù della norma generale fissata dall’art. 420-ter c.p.p., qualora l’imputato non si presenti e in qualunque modo risulti (o appaia probabile) che l’assenza sia dovuta ad assoluta impossibilità di comparire per caso fortuito, forza maggiore o altro legittimo impedimento, spetta al giudice disporre, anche d’ufficio, il rinvio ad una nuova udienza, senza che sia necessaria una qualche richiesta dell’imputato in tal senso". Appare chiaro che l’obbligo di traduzione sussista solo nel caso in cui l’autorità giudiziaria abbia conoscenza dello stato di detenzione domiciliare dell’imputato, perché comunicato dallo stesso accusato o dal suo difensore. In mancanza di tale consapevolezza si dovrebbe ritenere legittima la prosecuzione del processo in assenza. A tale fine la sentenza in commento esclude che sussista il contrasto giurisprudenziale segnalato dal Massimario poiché l’imputato agli arresti domiciliare ha diritto di richiedere al giudice competente l’autorizzazione a recarsi in udienza o di essere ivi accompagnato o tradotto e, in difetto di quest’ultima o in caso di rigetto della medesima da parte del giudice competente, a fronte della tempestiva richiesta dell’imputato di presenziarvi, v’è l’obbligo del giudice procedente, a pena di nullità assoluta, di disporre la traduzione. Resta da chiarire il profilo, essenziale ai fini di un regolare ed ordinato svolgimento delle udienze, della tempestività che l’imputato o il difensore sono tenuti ad osservare nella comunicazione dello stato di detenzione per altra causa. Il primo punto concerne la necessità per l’imputato di richiedere tempestivamente al giudice de libertate l’autorizzazione a presenziare all’altro processo in cui risponde a piede libero. È un punto non chiaramente preso in esame dalla sentenza n. 38790/2015. Pare scontato che, in caso di inopinato rigetto di tale autorizzazione, il giudice procedente dovrà disporre l’accompagnamento dell’imputato in udienza. È un’ipotesi di scuola, posto che la prassi non segnala casi del genere (art.22 disp. att. c.p.p.). In secondo luogo è da esaminare la tempestività con cui l’imputato o il difensore devono rappresentare al giudice procedente lo stato di "altra" detenzione. In difetto di un’istanza di autorizzazione previamente inoltrata al giudice della libertà si può dubitare che l’autorità procedente possa ritenere legittimo l’impedimento dell’imputato, posto che la "legittimità" dell’assenza risulterebbe esclusa per effetto della determinante condotta dell’imputato che si è volontariamente (con l’omessa richiesta di autorizzazione) posto nella condizione di non presenziare all’udienza. La pronuncia, come detto, non prende in esame questo risvolto della questione che degrada il diritto dell’imputato a presenziare (di rango certamente costituzionale e sovranazionale) ad una facoltà intangibile, ma soggetta all’onere di agire tempestivamente presso il giudice che ha disposto la detenzione. L’inazione dovrebbe autorizzare il processo in assenza. Così come è del tutto evidente che, in caso di assoluta inerzia comunicativa dell’imputato e del suo difensore, "può legittimamente procedersi in contumacia dell’imputato - citato a giudizio in stato di libertà e successivamente tratto in arresto e detenuto per altra causa - quando di tale sopravvenuta condizione il giudice non sia stato posto a conoscenza e l’imputato, o il suo difensore, pur potendo, non si siano diligentemente attivati per darne comunicazione all’autorità giudiziaria procedente (Cassazione sezione II, 9 aprile 2015 n. 17810, n. 263532). Abuso del diritto ed elusione, la riforma operativa da oggi di Dario Deotto Il Sole 24 Ore, 1 ottobre 2015 La riforma dell’abuso del diritto parte oggi, 1° ottobre. Tanto rumore per nulla, però. Questa è la sintesi della previsione sull’abuso del diritto, la quale, a ben vedere, introduce dei principi che dovevano risultare già immanenti nell’ordinamento tributario italiano; e ciò nonostante il decreto legislativo 128/2015 ne affermi la validità solo per gli atti che saranno notificati a partire da oggi. L’unico aspetto di pregio della norma, a ben vedere, risulta aver sancito al di là di ogni dubbio l’irrilevanza penale delle condotte abusive. Abusare del diritto significa, sul piano civilistico, utilizzare in modo distorto, capzioso, un diritto, così da conseguire un vantaggio che, in realtà, quel diritto non consentirebbe. L’atto abusivo si pone al di fuori del diritto, ma non nella sua forma, bensì negli effetti e nelle finalità perseguite: a fronte dell’esercizio di un diritto formalmente perfetto si pone il perseguimento per suo tramite di un vantaggio che l’ordinamento non reputa meritevole di tutela (se non c’è una situazione di vantaggio, di qualunque natura, non può individuarsi abuso). L’abuso del diritto risulta quindi difficilmente traducibile in una norma di legge, posta la sua indeterminatezza. Questo il motivo per il quale in Italia si è scelto di non positivizzarlo, in termini generali, nel Codice civile. Se si comprende cosa significa abuso del diritto sotto il profilo civilistico si deve ammettere che il principio coincide quasi perfettamente con quello di elusione tributaria. Il fatto è che l’elusione è stata erroneamente circoscritta in passato a fattispecie casistiche. Ora, invece, con il decreto 128, esiste un unico principio: quello dell’abuso del diritto o elusione tributaria. Occorre però necessariamente riconoscere che anche in ambito tributario quello dell’abuso è un concetto indeterminato, quasi evanescente, che si sa dove inizia (dove finisce il legittimo risparmio d’imposta), ma non dove termina. Per questo è importante - più che andare a considerare nello specifico la definizione che (un po’ troppo dettagliatamente) viene data all’abuso dall’articolo 10-bis dello Statuto - considerare che lo stesso abuso non può che essere individuato per esclusione. Infatti, le norme più importanti della previsione sull’abuso sono quelle che ne fissano il punto di partenza. Si tratta, in primo luogo, del comma 4, che afferma il principio secondo cui il contribuente può legittimamente perseguire un risparmio di imposta esercitando la propria liberta di iniziativa economica e scegliendo tra gli atti, i fatti e i contratti quelli meno onerosi sotto il profilo impositivo. In pratica, la norma stabilisce che il contribuente, al di là della sostanza economica o meno o delle ragioni extra fiscali, marginali o meno, può scegliere una condotta semplicemente perché la stessa determina un vantaggio fiscale lecito. Nella relazione illustrativa viene specificato che non è possibile configurare una condotta abusiva laddove il contribuente scelga, ad esempio, per dare luogo all’estinzione di una società, di procedere a una fusione anziché alla liquidazione. Il riconoscimento espresso dalla norma della facoltà per il contribuente di scegliere tra regimi opzionali diversi e tra operazioni comportanti un differente carico fiscale, non ha altro significato che quello di escludere in tali ipotesi la configurabilità di un abuso. L’altra condizione in negativo è quella sancita dal comma 12 dell’articolo 10-bis, con la quale si stabilisce che l’abuso non si può realizzare quando si è in presenza di fattispecie rientranti nell’evasione. L’evasione si realizza quando si agisce contra legem. Si evade, ad esempio, quando si occultano ricavi, proventi, quando si deducono delle spese non inerenti, ma anche in tutti i casi di alterazione dei fatti economici. In questo modo non può essere invocato l’abuso del diritto per contestare ipotesi di simulazione, di dissimulazione, di interposizione fittizia. In questi ultimi casi si è, infatti, in presenza di fattispecie di evasione. Da quanto rilevato si può agevolmente comprendere che i tratti qualificanti dell’abuso del diritto risultano, in definitiva, quelli espressi in negativo, quelli cioè che individuano ciò che non va considerato abuso del diritto. Si tratta di un contributo tutto sommato importante, ma che, in realtà, è solo di chiarezza in quanto tutto ciò doveva già considerarsi immanente nell’ordinamento. In definitiva, la formula deve necessariamente essere la seguente: l’abuso del diritto in ambito tributario inizia dove finisce il legittimo risparmio d’imposta e si realizza quando si è in presenza di fattispecie non riconducibili all’evasione. Quanto agli aspetti procedimentali della norma sull’abuso, quello più rilevante appare l’obbligo di contraddittorio preventivo, ma anch’esso risulta già un principio immanente nell’ordinamento, come ha avuto recentemente modo di rilevare la Corte costituzionale (sentenza n. 132/2015). La lista Falciani può essere utilizzata nel processo penale di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 1 ottobre 2015 Tribunale di Novara, ordinanza 8 giugno 2015 La lista Falciani ha piena cittadinanza nel processo penale. Il suo utilizzo da parte della pubblica accusa per inchiodare il contribuente che ha illegalmente trasferito beni all’estero è legittimo. A questa conclusione che ribalta il precedente dei giudici di Pinerolo è l’ordinanza istruttoria dell’8 giugno scorso del tribunale di Novara. La pronuncia coinvolge un cittadino italiano che aveva aperto due conti correnti presso la banca Hsbc di Ginevra, sui quali, secondo l’impianto accusatorio, sarebbero state versate somme provento di redditi non dichiarati in Italia. La difesa aveva subito sollevato una questione di inutilizzabilità, sostenendo che i dati relativi ai conti erano stati acquisiti attraverso un indebito accesso al sistema informatico dell’istituto di credito svizzero da parte di Hervè Falciani. Il tribunale piemontese ricorda che l’articolo 191 del Codice di procedura penale stabilisce l’inutilizzabilità delle prove acquisite in violazione di divieti previsti dalla legge. Legge che, sottolinea l’ordinanza, deve essere di natura processuale, così da sdoganare invece la prova acquisita mediante la precedente commissione di un illecito. Il divieto probatorio di natura processuale, prosegue ancora il provvedimento, potrebbe essere individuato nell’articolo 240, comma 2 del Codice di procedura che riguarda i documenti anonimi e gli atti relativi alle intercettazioni illegali. La disposizione prevede il divieto di "documenti formati attraverso la raccolta illegale di informazioni". Ed è proprio il dato della formazione (che oltretutto differenzia il caso dei documenti da quello dei dati telefonici che non possono essere utilizzati se sono stati "illegalmente formati o acquisiti") a essere valorizzato. Perché, nella lettura del tribunale di Novara, la sanzione dell’inutilizzabilità colpisce solo l’illegale formazione di documenti prima inesistenti "e non nel caso in cui i documenti siano preesistenti e formati legittimamente, ma siano stati successivamente acquisiti illegalmente (ad esempio perché indebitamente sottratti o duplicati)". Nel caso affrontato i documenti sono stati invece formati legittimamente da Hsbc sulla base di informazioni fornite dai correntisti, nello svolgimento di una regolare attività di raccolta del risparmio ed esercizio del credito. Falciani è poi intervenuto solo successivamente con la duplicazione abusiva, senza però formare alcun documento attraverso la raccolta illegale di informazioni. In altri termini, conclude la pronuncia, "la norma deve essere intesa nel senso che i documenti di cui è vietato l’utilizzo debbono essere frutto di un trattamento illecito di dati personali, con la conseguenza che non rientra nell’ambito applicativo della norma il caso in cui i documenti, legalmente formati, siano in seguito sottratti o duplicati in modo illecito". Notai, abuso d’ufficio per l’impiegato che occulta le cambiali di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 1 ottobre 2015 Corte di cassazione - Sezione VI penale - Sentenza 30 settembre 2015 n. 39430. Abuso d’ufficio per il responsabile della cassa cambiali che inganna il notaio non sottoponendogli i "pagherò" emessi dal responsabile legale di una Srl, in favore di terzi, così inducendolo a non protestarli. E procurando un ingiusto vantaggio patrimoniale al traente, consistente appunto nel mancato protesto. Lo ha stabilito la VI Sezione penale della Cassazione, sentenza 30 settembre 2015 n. 39430, che però ha dichiarato inammissibile il ricorso del professionista (costituitosi parte civile) contro la sentenza dichiarativa della prescrizione emessa dalla Corte di appello di Bologna. Il ricorso - Secondo il notaio ricorrente, il momento consumativo del reato era stato erroneamente individuato nello spirare delle 48 ore successive alla scadenza delle cambiali, "senza tener conto della possibilità di un protesto tardivo", effettuabile sino ad un anno dalla scadenza del titolo e "rilevante come constatazione ufficiale del mancato pagamento nonché come presupposto per l’iscrizione nel relativo bollettino, con conseguente slittamento del tempus commissi delicti ed esclusione della prescrizione". La decisione - Argomento bocciato dalla Suprema corte in quanto l’articolo 323 del codice penale (nel testo introdotto dalla legge n. 234/1997) configura un reato di evento, "postulando che il comportamento dell’agente abbia determinato un ingiusto vantaggio patrimoniale per sé o per altri". E nel caso di specie, l’imputazione contestata individua l’evento del reato "nella mancata elevazione del protesto delle cambiali nei termini prescritti". Per cui, prosegue la sentenza, è "esclusivamente a tale accadimento che bisogna aver riguardo per stabilire il momento consumativo del reato", in quanto esso realizza effettivamente l’ingiusto vantaggio patrimoniale, richiesto dalla norma incriminatrice per l’integrazione degli estremi del reato di abuso d’ufficio. E ciò, conclude la sentenza, "indipendentemente dalla prospettabilità di ulteriori vantaggi", come quello connesso alla mancata elevazione del protesto tardivo, che esulano dalla contestazione e "non possono valere a determinare uno slittamento cronologico del tempus commissi delicti e, conseguentemente, del dies a quo della decorrenza del termine prescrizionale". Che dunque è stato correttamente determinato. Il tribunale "ingolfato" salva la toga di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 1 ottobre 2015 Corte di cassazione - Sezioni unite - Sentenza 30 settembre 2015 n. 19449. La situazione "drammatica" del tribunale ingolfato dalle cause salva la toga dalla responsabilità disciplinare per i ritardi. Il magistrato non può essere censurato senza prima mettere a confronto la mole di lavoro che ha svolto con quella smaltita da altri colleghi impegnati sulle stesse materie. Le Sezioni unite della Cassazione, con la sentenza 19449 depositata ieri, annullano la decisione del Csm di infliggere una sanzione disciplinare ad un magistrato per i suoi gravi ritardi su un numero eccessivo di procedimenti, pur riconoscendo che l’incolpata aveva dalla sua una carriera brillante. Ma non è tanto la contraddittorietà della motivazione del Consiglio superiore della magistratura a convincere la Cassazione ad annullare, con rinvio, il verdetto sfavorevole alla toga, quanto le dichiarazioni del presidente del Tribunale dove questa prestava servizio. Il "vertice" dell’Ufficio aveva, infatti, definito la situazione interna "drammatica ed esplosiva" soprattutto per il fallimentare, il lavoro e il diritto delle imprese. L’organico, per quanto riguardava i giudici ordinari, aveva 11 posti scoperti su 51, mentre ad aumentare erano le sopravvenienze. Una situazione che, secondo i giudici, impone un nuovo accertamento di fatto per verificare se, nei periodi contestati, il carico di lavoro al quale era stata chiamata la toga finita sotto accusa, fosse tale da "costituire una straordinaria causa di giustificazione" rispetto alla gravità e al perdurare dei ritardi. Il tutto senza prescindere da un confronto con il lavoro svolto dai colleghi. La Cassazione ricorda comunque che il magistrato è tenuto a segnalare al capo dell’ufficio la situazione di disagio mentre non deve sovraccaricarsi di cause civili se non è in grado di trattarle in tempi ragionevoli. Sempre ieri le Sezioni unite si sono occupate di altre due toghe. In un caso (sentenza 19451) hanno accolto il ricorso di un magistrato finito sotto accusa per aver rivelato, in assenza di una formale richiesta, notizie sullo stato di alcuni procedimenti. Per lui verdetto favorevole perché la violazione non c’è se gli atti non sono coperti da segreto d’ufficio. Meno bene va ad un’altra giudice della sezione fallimentare censurata su due fronti. L’incolpata (sentenza 19450)aveva scelto, al di fuori delle elementari regole di liquidazione giudiziaria, di vendere un complesso immobiliare con la trattativa privata. Come seconda iniziativa, altrettanto infelice, aveva liquidato i compensi della consulente avvocato, sua amica, fissando una cifra decisamente superiore ai massimi tariffari, senza giustificare tanta generosità "con un provvedimento abnorme e privo di qualsivoglia spiegazione". Onorari determinati secondo la media se il valore della causa non è chiaro di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 1 ottobre 2015 Corte di cassazione - Sezione III civile - Sentenza 30 settembre 2015 n. 19520. Nel giudizio relativo ad azione revocatoria il compenso dell’avvocato rischia di essere davvero misero. E questo perché secondo la sentenza n. 19520/2015 della Cassazione qualora nel giudizio il valore della controversia sia manifestamente diverso da quello presunto a norma del codice civile, esso si determina non sulla base del credito a tutela del quale si è agito in revocatoria, ma sulla base del valore effettivo della controversia, il tutto in applicazione dell’articolo 6 del Dm 8 aprile 2004 n. 127. Nel caso concreto, tuttavia, non risultava possibile determinare un valore effettivo della causa avente a oggetto la declaratoria di inefficacia degli atti di donazione di immobili. Il Tribunale, pertanto, ha liquidato i diritti e gli onorari nella misura media, reputandola di valore indeterminato. I fatti - Alla base della vicenda un’ordinanza del tribunale di Lecce che ha liquidato la somma di circa 3600 euro nei confronti di un avvocato per l’attività svolta in giudizio relativo ad azione revocatoria. Contro il provvedimento ha proposto ricorso in Cassazione il legale che ha eccepito come il valore si sarebbe dovuto considerare pari a quello del credito alla cui tutela era preposta l’azione revocatoria, quindi circa 10miliardi di vecchie lire (senza considerare però l’impossibilità di ricostruire un valore effettivo della causa). Il professionista ha così ricordato come i giudici di merito abbiano sbagliato nella determinazione del compenso non tenendo conto il valore nominale degli immobili oggetto dell’azione. Gli indici secondo il ricorrente - Valore che a dire del ricorrente si attestava in una forbice tra i 100 e i 260 mila euro. Di qui l’applicabilità delle tariffe per quegli importi e non quelle per cause di valore indeterminato. Ma secondo i Supremi giudici non rappresenta un criterio sufficiente per determinare il valore della causa l’indicazione dell’importo degli immobili quando sia desumibile solo analizzando le carte del giudizio e non sia fatto valere su impulso del ricorrente. E così rientra nel potere discrezionale del giudice di merito la determinazione della misura degli onorari tra i minimi e i massimi tariffari, sicché non risulta censurabile il provvedimento che, come nel caso di specie, abbia applicato la misura media in relazione all’oggetto e alla complessità della controversia. La mancata produzione della parcella - Anche perché se la parcella non è prodotta in giudizio e/o se è incompleta, la parte richiedente non può pretendere dal giudice del procedimento finalizzato alla liquidazione degli onorari il compimento di un’indagine officiosa volta a colmare lacune istruttorie imputabili alla stessa parte. Dal ricorso non era stato chiarito se in sede di merito fosse stata prodotta una parcella e quali fossero le attività difensive indicate, quindi quali fossero quelle cifre sulle quali si sarebbe avuta la non contestazione della parte resistente. Emilia Romagna: Opg chiuso, ma il Veneto li respinge e 19 detenuti denunciano lo Stato di Leonardo Grilli La Gazzetta di Reggio, 1 ottobre 2015 L’Ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio Emilia è ufficialmente chiuso dal 1° aprile di quest’anno. Nonostante questo però ospita L’Ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio Emilia è ufficialmente chiuso dal 1° aprile di quest’anno. Nonostante questo però ospita ancora 26 detenuti - 19 dei quali sono veneti - internati nella struttura per misure di sicurezza. In barba alla nuova legge che li vorrebbe tutti trasferiti in edifici interamente sanitari e non più penitenziari, le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems). E adesso, per protestare contro questa violazione dei loro diritti, la quasi totalità dei reclusi ha fatto istanza per detenzione illegittima di persona: 24 di loro hanno infatti accolto la proposta dell’associazione L’Altro diritto, impegnata in una battaglia contro la detenzione illegale dei pazienti ancora reclusi negli Opg, firmando le denunce. "Abbiamo presentato un’istanza che chiede di sanzionare l’illegalità della misura di sicurezza", spiega Emilio Santoro, presidente dell’associazione "perché è una palese violazione dell’articolo 13 della Costituzione che stabilisce che i modi della privazione della libertà devono essere stabiliti della legge. E appunto dal 1° aprile la legge ha eliminato gli Opg, imponendo che tutti gli internati debbano essere spostati in Rems o comunque in strutture sanitarie". In realtà la responsabilità di questa violazione non è emiliana: ogni paziente è infatti sotto la tutela della regione di appartenenza e l’Emilia-Romagna ha già provveduto a trasferire i sui internati in Rems provvisorie a Parma e Bologna, in attesa che quelle definitive siano completate. Dei 26 invece 19 sono veneti - come detto - cinque lombardi, uno siciliano e uno toscano: "Nello specifico Reggio Emilia è quindi un problema di inadempienza del Veneto", chiarisce Santoro "la maggioranza degli internati vengono da lì perché la Regione ancora non ha predisposto delle strutture per accoglierli". Oltre a questo c’è poi la questione che, anche laddove esistono le Rems, spesso sono già piene di nuove persone mandate lì dai giudici e non hanno posto per accogliere gli internati dei vecchi Opg. "Quando gli Opg erano sia carcere che ospedale i magistrati stavano più attenti a usarli come misura restrittiva, ma oggi che li mandano in strutture al 100% sanitarie queste sono percepite come sanzioni di pura cura e c’è molta leggerezza nell’utilizzarle". Infine, lo Stato potrebbe nominare dei commissari per gestire il problema, bypassando in questo modo le regioni, ma ad oggi ancora non lo ha fatto. "Non si può prevedere quanto sopravvivrà l’Opg di Reggio se non verranno aperte le Rems", conclude Santoro "tutti i detenuti sono in proroga poiché il periodo minimo di sicurezza è finito, ma questo periodo può essere prorogato di sei mesi in sei mesi dal giudice. Il rischio è che si vada ad esaurimento, un processo molto lento che porterà la struttura a sopravvivere per anni". Internati emiliani già trasferiti, la regione Veneto è in ritardo Non è possibile prevedere quando effettivamente chiuderà l’Ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio Emilia, anche se per legge avrebbe dovuto cessare la sua attività dal primo aprile di quest’anno, ma la colpa non è della nostra regione. A dirlo è Gaddo Maria Grassi, responsabile del Dipartimento salute mentale e dipendenze patologiche dell’Ausl, che spiega il motivo per cui la struttura, inserita all’interno del carcere, ospiti ancora 26 detenuti. "La responsabilità dell’accoglienza dei reclusi è a livello regionale e la maggioranza di questi, ben 19, sono veneti. Tuttavia il Veneto non ha ancora creato delle Rems adatte e quindi devono restare da noi". L’Emila Romagna al contrario ha già predisposto delle Rems provvisorie, in attesa che siano pronte fra due anni quelle definitive di Reggio Emilia da 20 e 10 posti letto, e tutti i detenuti emiliani dell’ex Opg sono stati trasferiti nelle sedi di Bologna e Parma rispettivamente da 14 e 10 posti. La nostra regione ha quindi rispettato i termini di legge, ma finché tutti gli altri internati non saranno smaltiti non è possibile sapere quando la struttura chiuderà i battenti. "Il meccanismo giuridico - chiarisce Grassi - è che mentre la pena ha un termine ben preciso la misura di sicurezza invece ha una data di scadenza al termine della quale il giudice deve valutare se rinnovarla o no. È legata alla pericolosità del soggetto non al reato in sé e qualora questa sia ancora esistente la misura può essere rinnovata di sei mesi in sei mesi fino al termine massimo". Quindi anche se dal 1° aprile non è più entrato nessuno con misura di sicurezza detentiva, ovvero persone che hanno commesso un reato ma sono state prosciolte a causa di malattie mentali o che sono in attesa di giudizio ma sempre malate di mente, le tempistiche di chiusura non sono affatto certe e si potrebbe andare avanti per anni. "Tuttavia c’è anche un’altra possibilità - continua Grassi - ovvero che il giudice invece di rinnovare la misura la trasformi in modo che non sia più detentiva. In questo caso il detenuto viene rilasciato, ma anche qui non ci sono certezze sui tempi: tutto dipende dal giudice e cambia di caso in caso". Infine c’è poi il caso in cui le regioni abbiano predisposto le Rems ma queste siano già piene. È quanto succede per gli altri internati di Reggio Emilia: cinque lombardi, un siciliano e un toscano che sono in attesa che si liberi un posto sul loro territorio di appartenenza. Insomma finché le altre regioni non si assumeranno il carico del proprio numero di internati l’ex Opg non potrà cessare la propria attività, e anche se il Veneto ha promesso di fare qualcosa ancora nulla si muove all’orizzonte. Abruzzo: nomina del Garante dei detenuti, lo sgarbo della Regione a Rita Bernardini di Barbara Alessandrini L’Opinione, 1 ottobre 2015 La decisione della Regione Abruzzo di respingere la candidatura di Rita Bernardini al ruolo di Garante dei detenuti è semplicemente uno schiaffo al buon senso, oltre ad essere un’ulteriore dimostrazione che un codicillo può annichilire un intero percorso umano di abnegazione e battaglie fondamentali per l’affermazione dello stato di diritto e delle garanzie nell’esecuzione della pena. Appare francamente quasi umiliante per la stessa Rita Bernardini dover almanaccare le prove di una vita dedicata alle emergenze che investono chi si trova a dover espiare una pena nelle carceri italiane. Dalle infinite denunce delle condizioni inumane e degradanti, ai limiti della tortura, in cui il sovraffollamento del nostro sistema carcerario costringe i detenuti, all’impegno concreto nella difesa del valore rieducativo della pena che la spinge da sempre a monitorare, carcere per carcere, le effettive possibilità lavorative (ultimo traguardo essere riuscita ad ottenere che alcune decine di detenuti sardi, possano lavorare nei siti archeologici della Sardegna nel progetto Archeo). Dalla battaglia, mai cessata, per l’effettiva applicazione del ricorso alle misure alternative, all’amnistia e all’indulto, come unici strumenti di normalizzazione di una realtà di sovraffollamento che soltanto recentemente, sulla spinta delle scudisciate della Cedu nonché in virtù delle conseguenze della dichiarazione della Corte costituzionale sulla Legge Fini-Giovanardi, è stata timidamente strappata all’illegalità di stato, alla denuncia continua dei suicidi che nei nostri istituti penitenziari si consumano ancora a ritmo devastante. Insomma, da sempre la segretaria dei Radicali italiani Rita Bernardini si è caricata sulle spalle un’attività instancabile per tentare di richiamare i riflettori sulla questione carceraria e sollecitare nuovi interventi in materia di carceri e giustizia. E lo ha fatto con quell’attenzione totalizzante che le ha consentito anche di smascherare i trucchi contabili e le medie aritmetiche sulla distribuzione degli spazi da cui a prima vista risultava che nessun detenuto fosse ristretto in meno dei tre mq previsti e in realtà risultanti dalla media tra celle sovraffollate ed altre relativamente meno. Ed anche di denunciare con forza l’inumano sistema dei trasferimenti lungo lo stivale a cui si è ricorsi per procedere al ridimensionamento del sovraffollamento. Un metodo spietato, responsabile di amputare qualsiasi percorso riabilitativo, di lavoro e di ricostruzione di chiunque improvvisamente si trova come un pacco postale senza più dignità. L’elenco sarebbe ovviamente ancora lunghissimo ma è certo che è in buona parte della Bernardini il merito di aver sollecitato e pungolato il governo ad avviare gli Stati generali sull’esecuzione penale che, almeno sulla carta, testimoniano una nuova, importante volontà di restituire alla carcerazione il senso previsto dal nostro dettato costituzionale e di provare ad avviare un sano cambiamento culturale nel paese. Un’attività e una competenza tanto solide e salde alla azione concreta continua giustificherebbero appieno un riconoscimento per Rita Bernardini. Ad intervenire in proposito l’Unione delle Camere Penali, secondo cui la decisione della Regione Abruzzo di rendere ineleggibile l’esponente radicale "va respinta oltre che per le ragioni giuridiche che saranno espresse nell’opportuna sede, soprattutto per l’alto impegno profuso da sempre da Rita Bernardini nella difesa e nella valorizzazione dei diritti e della dignità dei detenuti e degli ultimi, che non potrebbero avere migliore garanzia delle sue capacità e della sua passione. Ci auguriamo - ha concluso l’Ucpi - che i meriti di chi da sempre si occupa con dedizione, abnegazione e competenza alla causa di chi è privato della libertà vengano al più presto riconosciuti, proprio nell’interesse di costoro e di chi ha a cuore che le garanzie dei detenuti vengano sempre e comunque rispettate". Anche, bisognerebbe aggiungere, a vantaggio di un necessario mutamento nella cultura del paese, interprete di un viscerale sentimento vendicativo nei confronti di chi ha sbagliato ma che deve trovare nell’espiazione della pena una spinta alla ricostruzione del proprio orizzonte psicologico, morale e lavorativo. La Bernardini ha sempre profuso il suo impegno per quel traguardo di civiltà che è la tutela del diritto. C’è quindi solo da augurarsi ed augurare alla Regione Abruzzo che, oltre i codicilli che la interdicono a causa delle condanne per aver violato (sempre intenzionalmente e provocatoriamente) le norme sulle sostanze stupefacenti, le venga riconosciuto questo immenso merito. Milano: ricerca di Casa della Carità "accesso ai diritti in carcere, una doppia pena" mi-lorenteggio.com, 1 ottobre 2015 Presentata ieri una ricerca condotta negli istituti milanesi di Bollate e San Vittore dal Souq - Centro Studi Sofferenza Urbana della Casa della carità Don Virginio Colmegna: "Questo lavoro è uno strumento importante, una premessa alle azioni che le istituzioni e il terzo settore possono e devono mettere in campo per far sì che la situazione migliori". Una doppia pena. È quella che molti detenuti milanesi, una volta entrati in carcere, scontano a causa delle difficoltà che incontrano nell’affermare i loro diritti di giustizia. E che, oltre ad essere iniqua, rischia di incidere negativamente sul recupero dei detenuti stessi. A porre l’attenzione su questo aspetto del mondo carcerario è la ricerca che è stata presentata oggi dal Souq, il Centro Studi Sofferenza Urbana della Casa della carità. Condotta negli istituti di San Vittore e Bollate dalle ricercatrici Lucia Dalla Pellegrina e Margherita Saraceno, l’indagine sottolinea come sia difficile per i cittadini privati della loro libertà risolvere questioni legali precedenti la detenzione o sorte in seguito all’ingresso in carcere, che però non sono legate al reato commesso. Nel primo caso, ci riesce solo il 15 per cento, nel secondo si oscilla tra il 9.3 per cento di Bollate e il 15.5 di San Vittore (vedi ricerca alle-gata, tabella 4). Dati preoccupanti che, però, sono stati raccolti grazie alla collaborazione del personale e degli stessi detenuti delle due carceri, tra cui i membri dell’Associazione Articolo 21. "La ricerca del Souq, anche per le modalità partecipate con cui è stata realizzata, è uno strumento importante, una premessa alle azioni che le istituzioni e il terzo settore possono e devono mettere in campo per far sì che la situazione migliori" ha dichiarato don Virginio Colmegna. Insieme al presidente della Casa della carità, hanno partecipato al convegno tenutosi nella Sala Pirelli di Regione Lombardia, anche i direttori delle due carceri coinvolte Gloria Manzelli e Massimo Parisi, Lucia Castellano (vice presidente Commissione speciale situazione carceraria in Lombardia), Gherardo Colombo e Francesco Maisto (presidente del Tribunale di Sorveglianza di Bologna), Luigi Pagano (provveditore regionale dell’Amministrazione Penitenziaria del Piemonte e della Valle d’Aosta) e Livia Pomodoro. "La cittadinanza - e i diritti ad essa connessi - non sono un dono, ma un patrimonio collettivo che ciascuno di noi detiene, detenuti compresi" ha aggiunto il presidente della Casa della carità. "È questo il messaggio che lanciamo oggi alla politica, affinché si muova. Ma è anche un segnale che mandiamo a tutti i cittadini, perché quella per i diritti deve essere un movimento ampio e partecipato". Sintesi della ricerca Accesso alla giustizia in carcere: alcune evidenze basate su un "questionario fra pari". L’accesso alla giustizia, nella sua accezione più generale, risulta limitato e difficile per i detenuti. Il mancato o limitato accesso quindi si traduce in una sorta di pena accessoria che, benché non prevista dall’ordinamento, aumenta la dimensione afflittiva del carcere. Gli ostacoli al pieno accesso ai diritti fondamentali e di cittadinanza e i limiti alla risoluzione delle questioni legali (specie nell’ambito del diritto di famiglia e civile-amministrativo) colpiscono in prevalenza soggetti che sono già maggiormente vulnerabili perché stranieri o privi di una rete di supporto all’esterno del carcere quale, ad esempio, la famiglia. Benché gli istituti di detenzione organizzino servizi a supporto della risoluzione dei problemi legali e amministrativi dei reclusi, la detenzione rappresenta in sé il paradosso dell’essere "dentro il sistema giustizia" ed esserne al contempo esclusi. Questo, non solo rappresenta un serio problema di equità e giustizia, ma presumibilmente riduce la possibilità di associare al percorso detentivo una valenza riabilitativa e di recupero dei detenuti. Il presente lavoro descrive un primo tentativo di mappare i principali bisogni legali dei reclusi attraverso una survey condotta nel 2014 tramite un questionario tra pari (sottoposto ai detenuti da detenuti-somministratori) presso la Casa Circondariale di San Vittore (Milano) e la Casa di Reclusione di Bollate. Milano: i Servizi Sociali "una famiglia stabile per il bimbo di Alex e Martina" di Alessandra Cori e Franco Vanni La Repubblica, 1 ottobre 2015 Depositata la relazione su adottabilità del figlio della coppia Levato-Boettcher. Si tratta della perizia stilata dai servizi sociali dopo gli incontri del bimbo con i genitori e i colloqui con i familiari dei due condannati a 14 anni. Sulla base del fascicolo i giudici minorili decideranno il futuro del piccolo. I servizi sociali del Comune di Milano hanno depositato al Tribunale per i minorenni la relazione sul nucleo familiare composto da Martina Levato e Alexander Boettcher, condannati a 14 anni per un’aggressione con l’acido e sotto processo per altri blitz, e dai loro rispettivi genitori nell’ambito del procedimento di adottabilità del figlio della coppia, nato lo scorso Ferragosto. Alla fine del procedimento i giudici, in ipotesi, potrebbero decidere di dichiarare il bimbo adottabile e di affidarlo subito, in vista dell’adozione, ad una famiglia "terza". Gli operatori dei servizi sociali hanno assistito, assieme a psicologi, agli incontri settimanali e separati tra i genitori e il bimbo e anche a quelli tra i nonni materni e la nonna paterna e il nipote. Hanno avuto colloqui con Alex e Martina, proprio al fine di redigere la relazione consegnata ai giudici minorili. Il termine di consegna della relazione era stato fissato dagli stessi giudici minorili con il provvedimento del 21 agosto scorso con il quale i magistrati, oltre ad aprire il procedimento di adottabilità, avevano deciso di separare il bimbo dalla madre. Il piccolo, infatti, è stato portato in una casa famiglia fuori Milano e affidato temporaneamente al Comune di Milano, nella persona del sindaco Pisapia (tutore legale), mentre la madre è tornata nel carcere di San Vittore. Le parti interessate (hanno chiesto l’affidamento del piccolo, oltre ad Alex e Martina, anche i nonni) ora avranno accesso al fascicolo del procedimento. E i giudici daranno tempo ai loro legali di depositare memorie e fisseranno un’udienza per la discussione, le istanze e la decisione. Da quanto si è appresso, inoltre, i giudici potrebbero anche ascoltare Levato e Boettcher prima di decidere, anche perché, in base alle norme, è un loro diritto poter parlare di fronte al Tribunale. Trieste: nove poliziotti a processo per il suicidio di Alina Diachiuk, la solidarietà del Coisp triesteprima.it, 1 ottobre 2015 Franco Maccari, Segretario Generale del Coisp, ha manifestato silenziosamente la propria solidarietà ai colleghi in Tribunale a Trieste in occasione dell’avvio dell’udienza preliminare a carico di 9 Poliziotti coinvolti nel caso del suicidio della giovane ucraina Alina Bonar Diachiuk. "Dare solidarietà a colleghi finiti nei guai solo per aver fatto ciò che era previsto e che era stato loro detto di fare, nonostante che strutture e mezzi a loro disposizione non fossero idonei e, soprattutto, senza che a chi gestisce l’intero sistema fosse importato dell’insostenibile responsabilità loro affidata, è il minimo che potessimo fare. Il minimo che avessimo il dovere di fare, in quanto rappresentanti di una categoria che continua ad essere lasciata a se stessa, quella di uomini e donne dai quali si pretende tutto senza concedere nulla, ai quali si addossa ogni responsabilità senza assumersi alcun onere di metterli in condizione di operare al meglio, ai quali si scarica addosso ogni conseguenza problematica di un lavoro ingrato e difficile ed a volte impossibile salvo assumere su di se, invece, ognuno dei continui ottimi risultati che quegli stessi uomini e donne portano a casa a costo di sacrifici personali. Il grave episodio accaduto ad Opicina è il simbolo di tutto ciò, ed ecco perché quella è una delle sedi in cui far sentire la nostra presenza ai colleghi che rischiano loro malgrado di restare schiacciati dal peso di un sistema inadeguato che non hanno pensato, predisposto e messo in piedi loro". Così Franco Maccari, Segretario Generale del Coisp, nel giorno in cui una rappresentanza del Sindacato Indipendente di Polizia ha manifestato silenziosamente la propria solidarietà ai colleghi in Tribunale a Trieste in occasione dell’avvio dell’udienza preliminare a carico di 9 Poliziotti coinvolti nel caso del suicidio della giovane ucraina Alina Bonar Diachiuk, che si tolse la vita nell’aprile del 2012 mentre era trattenuta presso il Commissariato di Villa Opicina. La donna era stata scarcerata la mattina di sabato 14 aprile dal giudice del Tribunale di Trieste, dopo una condanna a 4 anni di reclusione emessa con il rito del patteggiamento per il reato di associazione a delinquere finalizzata al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, in attesa di essere allontanata dall’Italia. Poiché la straniera non era in regola con le disposizioni inerenti il soggiorno, visto che nella fascia pomeridiana non vi era in servizio personale dell’Ufficio Stranieri, ed inoltre che né il sabato pomeriggio né la domenica sono fissate udienze per l’Autorità chiamata a convalidare i decreti di espulsione, fu il personale della Squadra Volante a prelevare dal carcere la cittadina ucraina per accompagnarla presso la sala fermati all’interno del Commissariato di Villa Opicina in attesa dei provvedimenti amministrativi previsti dalla Legge, in considerazione del fatto che secondo la Questura gli immigrati in attesa di espulsione non dovevano essere rimessi in libertà. Qui la donna si tolse la vita ed, in seguito, la Procura ha chiesto il rinvio a giudizio di 9 Poliziotti, fra cui l’allora responsabile dell’Ufficio Immigrazione, con accuse che, a vario titolo, vanno dal sequestro di persona alla morte come conseguenza di altro delitto, ritenendo che la clandestina non dovesse invece essere trattenuta in attesa di espulsione. Una grave "discrasia" evidenziata fin da subito dal Coisp che, soprattutto, si è battuto per evidenziare l’impossibilità di adempiere a disposizioni come quelle contenute nell’allora neo "svuota-carceri" che addossano ai Poliziotti l’onere di trattenere presso le camere di sicurezza, a volte inesistenti o fatiscenti, soggetti fermati in attesa di giudizio. L’udienza di ieri non è entrata nel vivo venendo piuttosto rinviata al prossimo 19 gennaio, ma intanto Maccari ha voluto rimarcare la Posizione del Coisp rispetto a questa come a vicende simili. "Quel che è accaduto a Trieste - ha concluso - ben poteva verificarsi in molti altri posti, come infatti è avvenuto. Ogni giorno, difatti, immigrati clandestini vengono trattenuti negli Uffici di Polizia per eseguirne l’espulsione nonché decine di arrestati vengono trattenuti in attesa di giudizio grazie alle norme dell’ultimo cosiddetto svuota-carceri. Non vi sono disposizioni che regolano punto per punto tali trattenimenti. Sono state fatte le leggi, ma chi le ha fatte si è ben guardato dal redigere le regole per applicarle, demandando agli uomini ed alle donne della Polizia di Stato l’obbligo di arrangiarsi per adempiervi. Nei weekend non è in servizio un giudice che possa convalidare i decreti di espulsione e, di certo non a caso, adesso infatti anche a Trieste è previsto che i clandestini in attesa di giudizio se ne vadano liberi, e se fanno perdere le proprie tracce e non tornano per dare esecuzione al provvedimento al momento che esso diventa esecutivo, tanto piacere e tanti saluti alla pretesa di legalità dei cittadini ed al lavoro di chi prima è stato chiamato per legge a fermarli. Ma se prima a Trieste non era così per volontà di chi di competenza, non è certamente colpa dei Poliziotti che eseguono ogni giorno degli ordini. Come purtroppo il Coisp aveva profetizzato al momento dell’approvazione del decreto svuota carceri, la tragedia di Opicina, l’ennesima, è la conseguenza diretta dello scaricabarile che è stato consapevolmente effettuato sulle spalle delle Forze dell’Ordine, costrette a trattenere persone per giorni in strutture inadeguate senza che siano mai state fissate delle regole procedurali". "Avevamo descritto allora lo scenario e lo rifacciamo oggi - conclude Maccari -: il personale di una Volante arresta un cittadino o qualcuno dispone che determinati soggetti siano trattenuti? Ebbene li si deve trattenere presso la camera di sicurezza e sorvegliarli, ma nel contempo proseguire l’attività di controllo del territorio o garantire le richieste di intervento da parte dei cittadini. Ebbene, il dono dell’ubiquità non ce l’abbiamo, così come non siamo medici né abbiamo a disposizione 24 ore per poter effettuare una valutazione dello stato psico-fisico delle persone che dobbiamo trattenere, così come non abbiamo possibilità di garantire loro qualche minuto d’aria, così come non abbiamo possibilità di garantire loro pasti decenti, e molto altro ancora. Le camere di sicurezza non sono luoghi vigilati come le celle di un carcere, né possono esserlo, non avendo le Questure, e gli uffici di Polizia in genere, personale sufficiente. Personale che, tra l’altro, è stato formato per fare indagini, combattere la criminalità, mantenere l’ordine pubblico, non certo per fare "la guardia" ai malviventi, e che non ha alcuna preparazione che possa aiutarlo ad affrontare emergenze di natura medica, come spesso si verifica. Il suicidio della cittadina ucraina si sarebbe potuto evitare. Ma la tragedia si è verificata e non certo per colpa dei Poliziotti". Novara: detenuti al lavoro con Assa nell’area perimetrale dello stabilimento ex Olcese novaratoday.it, 1 ottobre 2015 I detenuti hanno svolto lavori di pulizia dai rifiuti e di mondatura delle erbe infestanti. I detenuti del carcere di Novara di nuovo al lavoro per la pulizia e il decoro della città. Sono infatti proseguiti questa mattina, mercoledì 30 settembre, i lavori di pulizia dai rifiuti e di mondatura delle erbe infestanti dell’area perimetrale dello stabilimento ex Olcese, compresa tra via Visconti e via Leonardo Da Vinci. "Un intervento importante - ha sottolineato il presidente di Assa Marcello Marzo - che va a riqualificare, almeno nella sua parte esterna, un’area da tempo all’abbandono che è però centrale, molto estesa e molto frequentata ogni giorno dai tanti pendolari e da chi vi transita per l’attraversamento della città, in particolare per raggiungere il polo chimico e non solo". L’intervento è stato eseguito da una squadra di detenuti della Casa circondariale di via Sforzesca, accompagnati dagli agenti della polizia penitenziaria, con il coordinamento tecnico e il supporto operativo e logistico di Assa. Un’attività che rientra nell’ambito delle Giornate di recupero ambientale, sulla base del protocollo che vede coinvolti Comune, Magistratura di sorveglianza, Casa circondariale, Uepe e Assa. All’avvio dei lavori era presente anche il sindaco Andrea Ballarè, che ha verificato di persona la qualità e l’importanza dell’intervento. "Questa attività - ha commentato il primo cittadino - come quella messa in campo attraverso il volontariato dei profughi ospitati in città, o come le diverse azioni legate all’albo dei volontari promosso dal Comune di Novara, rappresentano un modo nuovo ed efficace di affrontare insieme il tema del necessario potenziamento delle manutenzioni svolte dalla pubblica amministrazione con una significativa dimensione sociale". Livorno: teatro in carcere a Porto Azzurro di Licia Baldi (Associazione di volontariato "Dialogo") Toscana Oggi, 1 ottobre 2015 Il teatro è entrato in carcere a Porto Azzurro già nella seconda metà degli anni Ottanta, con sporadiche interessanti esperienze teatrali, portate avanti con la simpatica intraprendenza di un giovanile gruppo studentesco che collaborava con gli ospiti della Casa di Reclusione. Ma è dal 1992 che l’attività di teatro diviene stabile, sotto la guida seria e appassionata di Manola Scali, animatrice e regista di un laboratorio teatrale, che nel tempo viene a denominarsi "Il Carro di Tespi". E dell’antico Tespi (che per primo, con l’invenzione di un attore dialogante con il coro, dette origine nel VI sec. a.C. allo spettacolo teatrale) il laboratorio di Porto Azzurro ha qualcosa in comune. È il primato della parola sulla scenografia, è il teatro povero, che appunto alla parola e alla musica si affida, privo di effetti scenici e di preziosi giochi di luce. L’altro aspetto del teatro di Tespi, quello di teatro ambulante (si dice che con il suo carro Tespi offrisse spettacoli in giro per i villaggi dell’Attica), è per adesso un miraggio. Infatti, molto di rado gli attori detenuti hanno potuto recitare fuori dal carcere e rappresentare le loro esperienze e le loro emozioni a un variegato pubblico esterno, in un vero teatro. Formuliamo un auspicio per il prossimo futuro. Ma se questo particolare "Carro di Tespi" non può uscire all’esterno, è anche vero ed emozionante che da fuori vengano in carcere numerosi spettatori. Sabato scorso, ad esempio, alcuni gruppi di studenti con i loro insegnanti (del Liceo Foresi di Portoferraio, dell’Istituto Carducci Volta Pacinotti di Piombino e della scuola media Galilei di Cecina) hanno assistito in carcere alla messa in scena della commedia di Molière "Il malato immaginario". È stata replicata così la rappresentazione che il sabato precedente aveva avuto fra gli spettatori anche ospiti della Casa famiglia e frequentatori del Centro diurno di Salute mentale dell’Asl, accompagnati da assistenti sociali. Così il carcere si apre al territorio ed è il teatro, efficace comunicatore, a fare da ponte fra questi due mondi apparentemente così distanti, che vengono a unirsi in una comune riflessione, in una risata, in un applauso. Il laboratorio teatrale di Porto Azzurro si inserisce nel progetto "Teatro in carcere", promosso e finanziato dalla Regione Toscana che, unitamente al Provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria, crede decisamente nel valore culturale e sociale di questa iniziativa. Porto Azzurro risponde ogni anno con impegno, con fantasia e non senza difficoltà. Nel repertorio di opere rappresentate dal Laboratorio si trovano esperienze diverse, dal teatro classico greco di Euripide (l’Ifigenia, le Troiane) al Don Chisciotte, a Pinocchio, a Sister Act e fino a Guareschi e a molti altri lavori teatrali, fra i quali anche un testo originale costruito sulle esperienze vissute in stato di detenzione. Il laboratorio teatrale è affiancato da un corso biblico, condotto da Bruno Pistocchi, e da un laboratorio musicale, nato da poco tempo, ma che ha già ottenuto pregevoli risultati ed è condotto da Daniele Pistocchi. Dalla lettura della Bibbia e di testi di altre grandi esperienze religiose viene tratta una riflessione comune, che annualmente, è messa in scena in forma di dialogo e di canti, in occasione della rappresentazione teatrale. Ad esempio quest’anno, prima dell’inizio della commedia di Molière, sono stati espressi concetti derivati dalla lettura del libro di Giobbe, il grande malato della Bibbia, e anche riflessioni personali degli attori. Ne è scaturito un messaggio che invita alla fiducia in Dio, oltre ogni tentativo razionale di comprendere il senso del dolore nella vita umana. Il Carro di Tespi si arricchisce anche, da qualche anno, dell’apporto di alcune attrici del Gruppo archeologico livornese, bravissime e quanto mai simpatiche! Meritano un applauso e un grazie particolarmente sentito. Un grazie va anche, naturalmente, alla Direzione del carcere, agli educatori, agli operatori della polizia penitenziaria e a quanti danno una mano a portare avanti questo progetto, compresi i fotografi e la stampa. Da parte dell’Associazione di volontariato "Dialogo", che nel progetto teatrale ha una delle principali voci del suo programma, ancora un caloroso grazie e un ben augurante arrivederci al prossimo spettacolo. Lecce: "Happy Birthday Barbablù", tornano sul palco i detenuti di Borgo San Nicola di Cinzia Ferilli ilpaesenuovo.it, 1 ottobre 2015 Salgono sul palco i detenuti di Borgo San Nicola. Saranno loro i protagonisti di "Happy Birthday Barbablù", lo spettacolo che martedì 6 ottobre alle 21 andrà in scena al Teatro Paisiello realizzato dalla compagnia "Io ci provo", dal nome dell’omonimo laboratorio/percorso teatrale guidato dalla regista Paola Leone nella sezione maschile del carcere di Lecce. Questo nuovo spettacolo celebra un anniversario importante: il primo debutto della compagnia, che risale al 6 ottobre 2014 in concomitanza con la visita della giuria per la candidatura di Lecce a Capitale Europea della Cultura 2019. Proprio in quell’occasione l’amministrazione comunale si è impegnata ufficialmente a sostenere il progetto, aprendo le porte del Teatro Paisiello alla compagnia, ogni anno. Un atto di riconoscimento importante, per un progetto che sta rivoluzionando a poco poco attraverso il suo compiersi lo sguardo sul carcere e sui suoi abitanti. Quest’anno lo spettacolo è inserito all’interno della programmazione di Lecce 2015 - Capitale Italiana della Cultura, a suggellare il legame con il Comune di Lecce che mira a farlo diventare un appuntamento stabile. Lo spettacolo sarà presentato sabato 3 ottobre alle 11 in una conferenza stampa alla Casa Circondariale di Borgo San Nicola a Lecce alla quale parteciperanno Paolo Perrone (Sindaco di Lecce), Luigi Coclite (assessore al Turismo, marketing territoriale, spettacolo ed eventi del Comune di Lecce), Rita Russo (direttrice della Casa Circondariale "Borgo San Nicola"), Riccardo Secci (comandante Polizia Penitenziaria Casa Circondariale "Borgo San Nicola"), Fabio Zacheo (Coordinatore Area Trattamentale), Silvia Maria Dominioni (Presidente Magistratura di Sorveglianza). Il primo studio di "Happy Birthday Barbablù" è andato in scena lo scorso giugno all’interno del carcere, con 5 date (una serale) con oltre 500 persone che sono entrate in carcere per assistere alle repliche. Saranno undici gli attori/detenuti che, grazie all’articolo 21 della Legge n° 354 del 1975 (Ordinamento Penitenziario), avranno la possibilità di uscire dal carcere per svolgere un’attività lavorativa retribuita regolarmente, un contratto da attore reale, a dimostrazione che il lavoro culturale deve essere riconosciuto e retribuito al pari di altri lavori, dimostrando così che nella cultura si può ancora investire. Un breve estratto dello spettacolo sarà inoltre presentato sabato 7 novembre sul palco del Teatro Politeama Greco di Lecce durante la quarta edizione di TedxLecce. Nello spettacolo un uomo, giovane, bello, spregiudicato e cattivo, viene raccontato dagli occhi e dai ricordi dei suoi "amici", dei suoi genitori, delle sue mogli, nel giorno del suo compleanno. Barbablù, il più temibile delle fiabe, si confessa e ci racconta cosa significa volere bene al Dio sbagliato, come ci si sente quando si capisce che quel Dio sbagliato è ormai la propria voce, il tuo stesso sangue, la tua stessa vita. C’è possibilità di salvarsi? Chi mi può salvare? E chi mi può veramente condannare? Proviamo a raccontare quello che vediamo e che fa parte della nostra esistenza senza giudizio, soltanto prendendo atto che pure questo può accadere quando si viene catapultati nella vita. Non cerchiamo la risposta ma ascoltiamo le domande. Lo spettacolo andrà in scena alle ore 21.00. I biglietti sono disponibili presso l’info point del Castello Carlo V di Lecce (giovedì 1 ottobre dalle 18.30 alle 20.30 e sabato 3 ottobre dalle 16 alle 21). L’ingresso è di 10 euro: una quota di sostegno che non rappresenta solo il costo dello spettacolo, ma il supporto al lavoro annuale dell’associazione "Io Ci Provo", ad un progetto culturale che rappresenta un atto politico necessario, in termini di legalità, inclusione sociale, valorizzazione umana e culturale. Grosseto: musica nel carcere di Massa Marittima, tra gospel e rock-blues ilgiunco.net, 1 ottobre 2015 Una serie di appuntamenti di musica e teatro, organizzati presso la Casa Circondariale di Massa Marittima. Il primo evento è un’esibizione del coro "Leopold Gospel Choir" diretto da Rossano Gasperini, in programma per domenica 20 settembre alle 16. Sabato 3 ottobre dalle 14,30, sempre presso l’istituto, vari gruppi proporranno musica degli anni 60’ e 70’, rock, blues e beat: ci saranno "Gli Antenati", i "Gold Memories", "Franco e i Coralli", "Le Ombre" e "Il Quadro d’Autore". Giovedì 8 ottobre andrà invece in scena lo spettacolo teatrale "Alla ricerca del nuovo mondo", curato dall’associazione "Sobborghi" di Siena, con i detenuti del laboratorio dell’istituto penitenziario come protagonisti. Le iniziative sono organizzate dalla direzione della Casa Circondariale, con il patrocinio del Comune di Massa Marittima, nell’ambito del progetto PRO.M.A.R., finalizzato alla cura e al sostegno dei legami affettivi tra i detenuti e i loro familiari. Proprio per questo, gli eventi potranno servire anche a raccogliere fondi di beneficenza che verranno impiegati per dare un aspetto più accogliente alla sala dove le famiglie attendono di incontrare i loro congiunti e a creare uno spazio giochi per i bambini. A chi farà un’offerta, verranno donati oggetti realizzati dai detenuti. Per la partecipazione è necessario prenotarsi entro tre giorni prima dalla data dell’evento: basta inviare i propri dati anagrafici all’indirizzo cc.massamarittima@giustizia.it o al numero di fax 0566-905691. Per ulteriori informazioni è possibile contattare l’ufficio educatori del carcere al numero 0566-904187 dal lunedì al venerdì dalle 9 alle 11. Cinema: il film "Alaska" di Claudio Cupellini girato in carcere a Bolzano Alto Adige, 1 ottobre 2015 Il film "Alaska" di Claudio Cupellini sarà presentato in anteprima nazionale alla decima edizione della Festa del Cinema di Roma. La pellicola ha un significato particolare per la città di Bolzano che ha fornito una scenografia piuttosto curiosa e singolare: il carcere di via Dante. Di pregio il cast formato da Elio Germano (Il giovane favoloso) e Àstrid Bergès-Frisbey (I pirati dei Caraibi). Il film, prodotto da Indiana Production con Rai Cinema in co-produzione con la francese 2.4.7. Films, ha ricevuto il sostegno del Fondo per le produzioni cinematografiche e televisive della Bls- Film Fund & Commission dell’Alto Adige. Anche se il film è ambientato tra Milano e Parigi, le riprese si sono svolte in gran parte in Alto Adige, tre settimane tra Bolzano e Merano, in vari luoghi individuati anche grazie al lavoro della location manager altoatesina Valeria Errighi. Alcune sequenze del film, ambientate in un penitenziario francese, sono state girate nel carcere di Bolzano, una location solitamente inaccessibile. Oltre a quello di Bolzano, nel film compare anche un secondo carcere, stavolta femminile, i cui interni sul set sono stati ricostruiti a Merano nella vecchia caserma Francesco Rossi. Per ricreare gli interni dell’Hotel Ritz di Parigi invece è stato utilizzato il "Pavillon des Fleurs" del Kurhaus di Merano, un salone famoso per il suo stile art noveau. Molti altri professionisti locali hanno affiancato la troupe sul set in diversi ruoli: Lara Lescio e Bort Thea si sono occupati delle sessioni di casting a Bolzano, Dimitri El Madany e Fabio Crepaldi sono stati coinvolti come assistenti di produzione, Andrea Pozzato come assistente video e Federico Vagliati come fotografo di scena, insieme ad altri professionisti impegnati nei vari reparti tecnici. La Bls è il referente per il sostegno alle produzioni audiovisive in Provincia di Bolzano. Attiva dal primo gennaio 2009, gestisce dal 2010 il Fondo che la Provincia Autonoma di Bolzano mette a disposizione per il sostegno economico alle produzioni cinematografiche e televisive. I finanziamenti sono rivolti a documentari, lungometraggi e serie televisive realizzati totalmente o in parte sul territorio provinciale. Il Fondo può essere destinato come finanziamento per la produzione e come finanziamento per la pre-produzione. Grande curiosità, insomma, per una pellicola che porterà gli spettatori all’interno di luoghi decisamente poco visibili in altre situazioni. Una curiosità che verrà svelata tra pochissimo. La giunta provinciale, lo ricordiamo, nei mesi scorsi ha dato via libera alla seconda tranche 2015 dei finanziamenti per film e documentari girati in Alto Adige. Gli esperti e la Business Location Südtirol (BLS) hanno individuato 10 progetti da sostenere attraverso il Fondo altoatesino alle produzioni. a condizione per ottenere un finanziamento pubblico è che le produzioni televisive e cinematografiche reinvestano in Alto Adige almeno il 150% di quanto ricevuto (il cosiddetto "effetto Alto Adige"). Traffico intenso nel Mediterraneo listato a lutto di Luca Fazio Il Manifesto, 1 ottobre 2015 Ancora un naufragio, questa volta al largo dell’isola greca di Lesbo: muoiono un bambino di due anni e una donna. Risultano disperse altre undici persone. Ancora un naufragio, questa volta al largo dell’isola greca di Lesbo: muoiono un bambino di due anni e una donna. Risultano disperse altre undici persone. Nel frattempo continuano gli sbarchi sulle nostre coste: 351 migranti a Reggio Calabria e 667 ad Augusta "E in questo momento in cui vediamo tanti piccoli che tentano i viaggi della speranza il Papa vi chiede di pregare per loro la Madonna di Lourdes", così ieri Francesco si è rivolto ai bambini in pellegrinaggio di pace. E in quel momento, davanti all’isola greca di Lesbo, un bambino di due anni è morto annegato insieme ad una donna di trentacinque anni. Forse sua madre, forse no. Viaggiava su un gommone partito dalla Turchia e diretto in Europa che si è ribaltato per il forte vento, raffiche a forza sei. I superstiti sono stati salvati dalla guardia costiera greca, quarantasette persone. All’appello però ne mancavano altre undici. Stando così le cose, l’aggiornamento è presto fatto: secondo l’Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim) dall’inizio del 2015 fino al 29 settembre nel mar Mediterraneo sono morte 2.892 persone, da ieri sono 2.905. Poco dopo quest’ultimo naufragio un’altra barca in difficoltà è stata agganciata nello stesso spicchio di mare e per fortuna tutte e quaranta le persone a bordo sono state tratte in salvo da un’altra imbarcazione della guardia costiera. In questi giorni c’è un grande traffico anche al largo delle coste turche. Ieri novantasette persone sono state salvate al largo della costa della provincia nord occidentale di Canakkale. Tutti siriani tranne un congolese. Erano saliti a bordo di un’imbarcazione che al massimo avrebbe potuto contenere venti persone. Sono salvi per caso. Secondo l’ufficio del governatore di Izmir solo negli ultimi dieci giorni le navi della marina hanno soccorso 3.500 rifugiati in 134 operazioni di salvataggio. Tra quelli che ieri non ce l’hanno fatta a raggiungere l’Europa bisogna segnalare anche gli otto tunisini bloccati al largo di Kelibia (sud di Tunisi) su un’imbarcazione con due motori fuoribordo. Sempre ieri il ministro degli Interni tunisino ha annunciato di aver "sventato" un altro tentativo di traversata con quaranta persone a bordo (due gli scafisti arrestati). Il bollettino delle migrazioni, come ogni giorno, ci riguarda molto da vicino. Non se ne accorgeranno in molti, ma oggi nel porto di Reggio Calabria attracca la nave Bourbon Argos con a bordo 351 persone (263 uomini, 85 donne di cui una incinta e tre minorenni). Numeri che ormai non impressionano più (forse meno male) cui bisogna aggiungere lo sbarco avvenuto l’altro ieri ad Augusta, nel siracusano (667 migranti, tra cui due fermati con l’accusa di aver organizzato il viaggio). Ce n’è abbastanza allora per aggiornare anche il dato fornito ieri dal ministro degli Interni Angelino Alfano secondo cui dall’inizio dell’anno ad oggi sono sbarcati in Italia 130.577 migranti, 8 mila in meno dell’anno scorso (ad oggi però sono già diventati 131.595). A questo flusso costante - l’anno scorso gli sbarchi sono stati di più - l’opinione pubblica e la politica ci hanno fatto l’abitudine. Il punto adesso sarà gestire al meglio l’accoglienza nel pieno rispetto dei diritti umani. Il ministro Alfano, sentito dalla commissione Shengen, ieri ha fatto il punto proprio sull’accoglienza. L’obiettivo sarebbe organizzarla in piccole realtà in ogni comune italiano, ma fino ad ora solo 500 comuni italiani su 8.100 hanno dato la loro disponibilità ad ospitare profughi. L’idea sarebbe quella di riuscire ad alloggiarne almeno 40 mila entro la fine del 2016. Ma c’è un’altra scadenza molto più preoccupante destinata probabilmente a mostrare il vero volto dell’Europa: entro fine novembre, ha annunciato il ministro, apriranno i cosiddetti "hotspots". Sono nuove strutture concentrazionarie destinate a contenere - non si sa per quanto tempo e con quali regole - molti migranti che prima o poi verranno rispediti a forza nei paesi di provenienza in base all’insensato criterio che distingue i migranti "economici" da coloro che fuggono da paesi in guerra. Questa, probabilmente, è la brutta storia ancora tutta da scrivere. Quest’altra, invece, farà piacere anche a Papa Francesco. La racconta la Marina Militare italiana per smentire alcune maldicenze, invocando l’articolo 203 del codice della navigazione: il Comandante dell’Unità ha regolarmente certificato la nascita della bambina nata lo scorso 4 maggio a bordo del pattugliatore Bettica. La piccola Francesca Marina è dei nostri. Aperto "hot spot" sperimentale a Lampedusa, ma è già caos di Alessandra Ziniti La Repubblica, 1 ottobre 2015 "Fase di sperimentazione": ma i migranti rifiutano l’identificazione. Arrivati in Sicilia fuggono. Il prefetto di Trapani: "L’Europa deve sapere, non abbiamo mezzi né strumenti per trattenerli". I primi quindici migranti sono già scappati. Identificati qui nell’hot spot sperimentale di contrada Imbriacola, inseriti nel registro delle quote europee, trasferiti sulla terraferma, nell’hub di Villa Sikania a Siculiana (Agrigento) in attesa di essere inviati nel Paese di destinazione. Scappati. Via, a cercare il primo treno o a farsi prelevare dall’autista dell’organizzazione di trafficanti per l’ultima tratta del loro viaggio nel tentativo di raggiungere la destinazione scelta da loro. E non dall’Europa. Esattamente come succedeva prima del 21 settembre, quando è partita la sperimentazione del primo dei sei hot spot chiesti dall’Europa per l’identificazione dei migranti che arrivano dal Canale di Sicilia: Lampedusa, Pozzallo, Trapani, Porto Empedocle, Augusta, Taranto. E qui a Lampedusa l’atmosfera è già tesa. Non solo perché, come non accadeva più da tempo, gli ospiti in pochi giorni sono già oltre 600, impauriti dal diffondersi delle voci di meningite, già smentiti dai medici dopo gli esami a cui sono stati sottoposti una dozzina di migranti arrivati con sintomi preoccupanti. C’è tensione perché nessuno sa come fare a mettere in pratica quelle che, sulla carta, sarebbero le direttive europee. "Come dovremmo fare a convincere questi migranti a lasciarsi identificare e a farsi prendere le impronte? Non possiamo obbligarli e lo sanno tutti che la maggior parte di loro non intende farlo neanche ora con la prospettiva delle quote, che per altro non sanno neanche cosa sono", dice uno degli operatori da 48 ore alle prese con un gruppo di 300 eritrei sbarcati da una delle navi che pattugliano il Canale di Sicilia. Eritrei, ma soprattutto egiziani, nigeriani, senegalesi, marocchini, pachistani. Di siriani sui barconi che affrontano la traversata non se ne vedono più da settimane. Gli ultimi "arrivi" dirottati sui porti siciliani non partono neanche più dalla Libia. Le barche hanno ripreso a salpare dai porti egiziani, trasportano per lo più "migranti economici" che, difficilmente, nelle prime 48 ore in un hot spot potranno dimostrare di avere diritto a chiedere protezione internazionale. E che, quindi, in teoria dovrebbero essere respinti immediatamente. Ma come, e soprattutto quando? Se lo chiedono a Lampedusa dove, tra la gente, ha ripreso a serpeggiare il timore che, nel giro di pochi mesi, l’isola possa tornare a essere assediata da migliaia di persone vista l’oggettiva difficoltà (anche in assenza di accordi bilaterali con i Paesi coinvolti) di organizzare rimpatri di massa. "Hot spot, hub rischiano di rimanere parole vuote - dice il prefetto di Trapani, Leopoldo Falco, da due anni impegnato personalmente nella trincea dell’accoglienza ai migranti - l’Europa deve avere chiaro che qua noi innanzitutto salviamo vite umane. Se si vuole caricare sulla prima linea anche questo lavoro, bisogna innanzitutto investire in risorse. Non si può chiedere all’Italia, alla Sicilia di fare hot spot a costo zero. Qualcuno lo sa cosa significa identificare queste persone? In un’ora se ne possono fare sei, sette. Con i numeri che abbiamo significa caricarci di centinaia di ore di lavoro senza alcuna certezza. E se, come spesso accade, i migranti si rifiutano di farsi prendere le impronte, gli operatori delle forze dell’ordine non hanno altro da fare che una cosa inutile e formale: farsi dire dal migrante il nome che vuole, annotarlo e poi, dopo 48 ore, lasciarlo libero. La legge non prevede altro, noi non abbiamo nessuno strumento per trattenerli. In teoria si dovrebbe arrivare alle espulsioni, in teoria". Al momento, dunque, si naviga a vista. Al centro di accoglienza di contrada Imbriacola di Lampedusa, nelle due stanze approntate a tempo record dalla questura di Agrigento lavorano solo i poliziotti della scientifica. Così come avveniva prima. Del pool di esperti che dovrebbe arrivare da Frontex, da Europol, dall’Eso, non c’è ancora alcuna traccia. E tra le tante domande senza risposta che qui, e presto anche negli altri hot spot, ci si trova ad affrontare la più importante è: basta la provenienza per stabilire in 48 ore se questi uomini e donne che sbarcano con i volti stravolti e gli occhi imploranti sono profughi o migranti economici? Siria sì, Nigeria no. Sarà anche per questo che adesso tutte le nigeriane che arrivano dicono di essere scappate da Boko Haram. Ventimiglia: la polizia sgombera i profughi con la mediazione del vescovo di Giuseppe Filetto La Repubblica, 1 ottobre 2015 "Ci voleva un vescovo per sbloccare una situazione che durava da quattro mesi e rischiava di precipitare". Parola di un dirigente della polizia, a conferma del livello di tensione qui al confine italo-francese. Altissima tensione, fin da prima che arrivasse l’alba, quando ai Balzi Rossi di Ventimiglia si sono presentati 250 uomini, gran parte in tenuta antisommossa, altri in abiti borghesi: tutti armati, hanno quindi sgomberato la tendopoli allestita ai primi di giugno e che ha ospitato in media 150 migranti al giorno, oltre a una cinquantina di giovani "No Borders" e dei collettivi. Sono arrivate le ruspe, quelle invocate da Salvini, per abbattere e ripulire l’accampamento, allestito sotto i portici della ferrovia Ventimiglia-Mentone. "Con lo sgombero abbiamo affermato un principio di legalità - dice il ministro Angelino Alfano. Non puoi stare in Italia e fare quello che ti pare: o rispetti le nostre regole e se non le rispetti ti sgombriamo, perché questo fa un Paese democratico, civile e che fa rispettare le regole". Però alle tre del pomeriggio la Francia chiude il confine impedisce il passaggio a una ventina di attivisti - francesi e italiani - che vogliono portare cibo e acqua ai migranti sugli scogli. Nelle stesse ore in cui davanti all’isola greca di Lesbo un gommone si ribaltava, a causa delle onde alte e del vento forza 6. Un altro naufragio, un altro tragico bilancio: sono morti un bambino di 2 anni e una donna di 35, 11 i dispersi. La guardia costiera è riuscita a mettere in salvo 47 migranti. L’imbarcazione era stata avvistata da un traghetto che copre la tratta fra la città turca Aivali e Lesbo, e mentre i sopravvissuti venivano trasferiti a Mitilene, nella stessa zona veniva individuata un altro barcone con 40 persone a bordo, tutte salvate dalle onde e dal vento. Lo stesso scirocco che soffiava qui a Ventimiglia: a Ponte San Ludovico un vento teso stordiva il centinaio di migranti e "No Borders" che dopo il blitz hanno riparato sugli scogli per non essere arrestati. E sui massi, spruzzati dalle onde, si è seduto monsignor Antonio Sueta. Con una mobilitazione imponente di polizia, carabinieri e militari della Guardia di Finanza, pronta a sgomberare con la forza, nel primo pomeriggio il vescovo ha ottenuto la soluzione "impossibile": una cinquantina di migranti trasferiti al centro di accoglienza della Croce Rossa; 70 giovani dei collettivi condotti pacificamente in commissariato e alla caserma dei carabinieri. Identificati e denunciati soltanto per occupazione abusiva di suolo pubblico, ma a loro non sarà dato il foglio di via. Stati Uniti: il boia non molla, presto altri 5 a morte di Elena Molinari Avvenire, 1 ottobre 2015 Georgia, prima donna uccisa in 70 anni. Ignorati anche gli appelli del Pontefice. La prima donna messa a morte in 70 anni in Georgia e altre cinque esecuzioni faranno delle due settimane seguite alla visita del Papa negli Stati Uniti il periodo con il maggior numero di morti di Stato negli Usa in più di due anni. Nonostante l’appello di Francesco al Congresso di abolire la pena di morte, cinque Stati Usa hanno infatti portato a termine o hanno in programma sei esecuzioni, "un’impennata dell’attività letale", come l’ha chiamata il Washington Post. Inascoltato è stato l’intervento diretto del Pontefice nel caso di Kelly Gissendaner, condannata a morte per aver istigato l’assassinio del marito Douglas nel 1997. Il suo amante, Gregory Owen, che ha ucciso a coltellate il rivale, era stato condannato all’ergastolo dopo aver testimoniato contro la sua complice. L’appello alla clemenza del Papa era contenuto in una lettera del nunzio apostolico negli Stati Uniti, monsignor Carlo Maria Vigano alla commissione per la revisione delle sentenze della Georgia. "Senza voler minimizzare la gravità del crimine per cui Gissendader è stata condannata, e pur rimanendo vicini alle vittime, vi imploro di commutare la condanna in un’ altra che offra una migliore espressione di giustizia e misericordia", si legge nella missiva. Ma la 47enne è stata uccisa ieri mattina in Georgia con una iniezione letale, la 16esima a una donna da quando la Corte suprema reintrodusse la pena capitale nel 1976. Secondo un testimone, la condannata ha cantato il famoso inno Amazing Grace e ha chiesto perdono prima di morire. "Ha pianto, poi ha singhiozzato, quindi ha cominciato a cantare e a scusarsi, se non cantava, pregava", ha raccontato il giornalista della Nbc. I figli, che l’avevano perdonata per aver ucciso il padre, non erano presenti, avendo scelto di fare un ricorso dell’ultimo momento alla Corte suprema, che però è fallito. Altre esecuzioni capitali sono in calendario in Oklahoma, Virginia, Texas e Missouri. Ieri era in programma in Oklahoma l’esecuzione di Richard Glossip, 52 anni, che si è sempre dichiarato innocente dall’accusa di aver ucciso il proprietario di un motel nel 1997. A suo favore si sono schierati negli ultimi anni anche l’attrice Susan Sarandon e il miliardario Richard Branson. Anche in questo caso Vigano ha inviato a nome del Papa una lettera al governatore dell’Oklahoma in cui si chiede di commutare la pena. La Corte suprema ieri ha respinto anche gli ultimi ricorsi, ma il governatore dell’Oklahoma Fallin ha sospeso l’esecuzione per 37 giorni. Oggi è prevista l’esecuzione in Virginia di Alfredo Prieto, un immigrato salvadoregno condannato per la morte di tre persone. I suoi legali lo hanno dichiarato incapace di intendere e di volere, affermando che gli dovrebbe essere risparmiata la pena capitale. Georgia, Oklahoma, Virginia, Texas e Missouri sono gli Stati più attivi sul fronte delle esecuzioni dal 1976, mentre la California non ha eseguito nessuna condanna a morte da quasi un decennio. Il governatore della Pennsylvania sospeso di recente la pena capitale e simili moratorie sono in vigore in Oregon e nello Stato di Washington. Ciononostante, se tutti i condannati "in scadenza" nei prossimi nove giorni saranno uccisi, si registrerà il periodo di maggiore attività in termini di pena capitale negli Usa dal giugno 2013. Stati Uniti: bambini schiavi nei campi di cacao, Nestlé sotto accusa di Franco Zantonelli La Repubblica, 1 ottobre 2015 Class action negli Stati Uniti. Nel mirino anche Mars e Hershey’s. L’azienda nega: contro i nostri principi. Una class action contro Nestlé, per la vergogna dei bambini che lavorano in uno stato di sostanziale schiavitù, nelle piantagioni di cacao della Costa d’Avorio. Il Paese dell’Africa Occidentale, il cui Pil é inferiore agli utili del grande gruppo svizzero, esporta, da solo, ben un terzo della produzione mondiale della materia prima indispensabile per la fabbricazione del cioccolato. La causa contro Nestlé è stata lanciata, in California, dall’avvocato Steve Berman, specializzato in questo tipo di azioni legali. "Sono stato ingaggiato da cittadini indignati dal sapore oscuro del cioccolato che consumano", ha spiegato il principe del foro statunitense, che in passato si era reso protagonista di class action contro Enron, nel frattempo fallita, ma anche contro General Motors. Va detto che Nestlé non è l’unico grande gruppo a produrre e vendere cioccolato, preso di mira dall’avvocato Berman e dai suoi clienti. La causa collettiva, infatti, è stata lanciata anche nei confronti di due grandi marchi americani, Mars e Hershey’s. Quanto alla multinazionale svizzera dell’alimentazione smentisce le accuse, dichiarando che "il lavoro minorile non fa parte della nostra filosofia aziendale". E quindi aggiunge che "in Costa d’Avorio abbiamo creato un sistema di controlli, proprio per evitare che i bambini vengano sfruttati". L’atto d’accusa della class action, lanciata dall’avvocato Berman é, tuttavia, implacabile. In effetti, basandosi su un rapporto delle Nazioni Unite, afferma che "tra il 2013 e il 2014 più di un milione e 100 mila bambini, in Costa d’Avorio, sono stati sottoposti alle peggiori forme di sfruttamento". Questi piccoli schiavi "venduti ai proprietari delle piantagioni di cacao, vengono sottoposti a lavori pesantissimi e pericolosi, visto che devono, tra l’altro, assorbire delle sostanze tossiche". "Respirano pesticidi e, sovente, si feriscono, perché utilizzano il machete", rincara la Ong svizzera Dichiarazione di Berna, che da anni combatte una battaglia di civiltà, per sradicare la piaga del lavoro minorile, nelle nazioni povere. Tutto ciò perché Nestlé, Mars e Hershey’s, possano produrre e vendere il loro cioccolato, la tesi contenuta nell’azione lanciata dallo specialista americano in class action. "Se vivi in California e sei disgustato da come arrivano sulla tua tavola questi dolciumi, contatta il nostro team legale che ti rappresenterà nella causa contro Nestlé Mars e Hershey’s", sta, intanto, chiamando a raccolta i suoi potenziali clienti l’avvocato Berman. Il quale non è la prima volta che se la prende con il colosso elvetico. Non più tardi di un mese fa l’aveva già accusato di sfruttamento del lavoro minorile, in Thailandia, dove Nestlé avrebbe chiuso un occhio sull’impiego di piccoli pescatori schiavi, provenienti da Birmania e Cambogia, per il pesce da utilizzare quale cibo per gatti. Medio Oriente: all’Onu la bandiera della Palestina "ora basta accordi con Israele" di Fabio Scuto La Repubblica, 1 ottobre 2015 Abu Mazen a New York "Siamo sotto l’occupazione più lunga della storia, non ci sentiamo vincolati". Erano tante, ma certamente non tutte, le tv nei bar e nei ristoranti della capitale "de facto" della Palestina sintonizzate ieri sera sul discorso del presidente Abu Mazen all’Onu. Solo qualche timido sorriso quando il raìs fa il primo alzabandiera del vessillo palestinese fra quelle che sventolano davanti al Palazzo di Vetro. Il clima di sfiducia e di diffidenza che circonda questa leadership palestinese, inevitabilmente si riflette nell’audience. Il sostegno della piazza è già stato perso da tempo, come ha rivelato l’ultimo sondaggio: il presidente dell’Anp perde consensi all’interno, sente il conflitto israelo-palestinese spinto ai margini dell’attenzione internazionale, viene meno anche il sostegno dei "fratelli" arabi impegnati ora in una lotta mortale col Califfato. Aveva promesso un discorso esplosivo, "una bomba" avevano anticipato i suoi collaboratori nella Muqata. Il discorso di Abu Mazen è stato invece un elenco delle violazioni israeliane nei Territori occupati, e poi "gli insediamenti, la cui espansione rende impossibile la soluzione dei Due Stati". Per questo ha ammonito il presidente "la Palestina è uno Stato sotto occupazione e noi non possiamo continuare a sentirci vincolati da accordi che Israele vìola continuamente; Israele non ci lascia altra scelta: non resteremo l’unica parte impegnata all’attuazione degli accordi" di Oslo, che prevedevano la creazione di uno Stato palestinese e definivano il completo ritiro delle forze militari israeliane entro il 1999. Il presidente ha detto che è "inconcepibile" che la questione dell’autodeterminazione palestinese non sia ancora stata risolta, e ha chiesto alla platea: "Non è tempo che finisca l’occupazione più lunga della storia, che soffoca il nostro popolo?". Nel suo discorso anche un monito por le politiche di Israele sulla Spianata delle Moschee e le tensioni di queste settimane. Abu Mazen ha accusato Israele di danneggiare i luoghi sacri per l’Islam e per il Cristianesimo e ha invitato il governo a fermarsi "prima che sia tardi". Mezzora più tardi c’è stato il primo alzabandiera palestinese fra quelle che sventolano di fronte al Palazzo di Vetro. È il momento delle lacrime, degli abbracci. E dei sogni. "Un giorno sventolerà su Gerusalemme Est, capitale della Palestina", promette Abu Mazen, attorniato da qualche ospite e i numerosi maggiorenti - 39 - che l’hanno accompagnato a New York, fra loro tre-quattro che pensano di poterlo sostituire in un futuro non molto lontano. Uno "speech" che lascia molte perplessità, e non solo fra gli avventori seduti da "Darna", uno dei ristoranti più blasonati di Ramallah bazzicato dalla leadership di Fatah, il partito del presidente. Il premier israeliano Benjamin Netanyahu - che parlerà oggi all’Onu - l’ha definito "ingannevole, teso a istigare violenza". Abu Mazen non ha preso nessun impegno per riavviare il negoziato di pace, solo la denuncia dei torti subiti. Che evidentemente non basta se l’occupazione della Cisgiordania prosegue da quarant’anni. È il segno che l’autunno del Patriarca è cominciato, consumato in questi 11 anni di presidenza senza un risultato. Lui dice di voler lasciare, 80 anni, qualche acciacco. Ma poi governa con pugno di ferro, quello che non ammette critiche né obiezioni e che ha ristretto il suo "inner circle", quelli di cui si può davvero fidare, a un pugno. Gran Bretagna: non togliete ai carcerati anche le sigarette! di Ivano Abbadessa west-info.eu, 1 ottobre 2015 Uno dei pochi vizi sui quali i carcerati potevano contare sta per finire per sempre. A partire dall’anno prossimo, infatti, fumare sarà vietato in tutte le prigioni del Galles e in quattro grandi istituti penitenziari dell’Inghilterra. Ma l’obiettivo di Londra è quello di arrivare a vietare il fumo in tutte le galere di Sua Maestà. Al momento l’uso del tabacco è consentito soltanto nelle celle, ma non nelle aree comuni. Il nuovo divieto sembra sia giustificato dalla volontà di salvaguardare la salute di coloro che non fumano e mettere fine al contrabbando di bionde che avviene fra internati. Una misura drastica, che lascia perplessi i più. Sono diverse le associazioni che hanno fatto notare come questa misura porterà a un forte malcontento tra i detenuti, lo stress potrebbe facilmente incrementare episodi di autolesionismo e l’angustia trasformarsi in vere e proprie rivolte. Stati Uniti: in California 4mila detenuti arruolati dai pompieri per combattere gli incendi di Anna Guaita Il Messaggero, 1 ottobre 2015 Li chiamano "gli angeli arancione". E ognuno di loro è quasi incredulo all’idea di essere percepito dalla gente come "un angelo". Questi dopotutto sono detenuti. Ma invece che scegliere di starsene in carcere senza far nulla, o al massimo a fare lavoretti noiosi e mal pagati, loro hanno scelto di andare a combattere contro gli incendi. E in California significa spesso rischiare la vita. Sono oramai quasi 4 mila i detenuti che si sono offerti volontari per aiutare le forze regolari a combattere contro i fuochi che quest’anno hanno aggredito la California con una violenza senza precedenti. La siccità gravissima che ha colpito lo Stato ha esposto foreste e campagne a incendi veloci e inarrestabili. Centinaia di migliaia di ettari di terreno sono andati distrutti, e migliaia di case e costruzioni sono state ridotte in cenere. E tuttavia, senza la dedizione coraggiosa dei vigili del fuoco, senza il supporto di questi prigionieri, il bilancio sarebbe stato ben più devastante. I detenuti che scelgono di offrirsi volontari devono seguire quattro settimane di addestramento: "Devono sapere come muoversi, cosa fare, devono conoscere i rischi e e saper rispondere con prontezza ai comandi, in poche parole devono uscire dall’addestramento trasformati in vigili del fuoco" spiega Daniel Berlant, il capo di Cal Fire, il "Dipartimento delle Foreste e della Prevenzione Incendi". I detenuti-pompieri guadagnano due dollari per ogni ora di servizio, pochissimo se paragonato allo stipendio di un vigile del fuoco, che comincia da un minimo di 11 dollari e può arrivare a 21 dollari all’ora. Ma è comunque più dei 30 centesimi che un detenuto prenderebbe accettando lavori in carcere. E comunque, se esplicano il loro lavoro bene, ottengono anche un alleggerimento della pena. Ovviamente si tratta di detenuti non violenti, di solito persone in prigione per guida in stato di ubriachezza, per uso personale di droghe, truffa o simili crimini finanziari. Thomas Mellow, che deve scontare sei anni per un incidente stradale mentre era inebriato, ha detto alla Nbc che la fatica, e anche il rischio che deve affrontare, lo fanno sentire "vivo e utile". Il compito delle squadre dei detenuti in genere è di scavare trincee che isolino i focolai, e di abbattere gli alberi già aggrediti dalle fiamme. Spesso devono trascorrere giorni, se non settimane, nei campi nelle foreste, e lavorare anche 24 ore di fila. Il 29enne James Sharp racconta che ognuno di loro deve portare strumenti per circa 20 chili: "Ho lavorato all’incendio di Lake County - dice: quando la mia squadra è arrivata, già il fuoco aveva distrutto 33 mila ettari di terra. Per arrivare al fronte dell’incendio bisognava camminare quasi 15 chilometri nella terra bruciata. È stato estenuante. Però provavo un senso di esultanza, quando tornando la sera trovavamo la gente che ci aspettava e ci portava da mangiare e da bere, per ringraziarci".