Ridurre il ricorso al carcere, ridurre i danni prodotti dal carcere di Ornella Favero (Direttrice di Ristretti Orizzonti) Ristretti Orizzonti, 19 ottobre 2015 Sono appena stata eletta Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia, e dovrei essere felice che tanti abbiano voluto dare un riconoscimento al lavoro mio e di Ristretti Orizzonti e soprattutto abbiano pensato che io possa essere la persona giusta per offrire nuovi stimoli al volontariato, e per portare avanti ogni possibile iniziativa perché le carceri siano un po’ più umane e dignitose, e soprattutto perché la pena detentiva sia sempre più marginale, sempre più sostituita da pene più utili e sensate, scontate dentro quella società, dove poi le persone dovranno comunque ritrovare un posto. Ma proprio mentre andavo a Roma per le elezioni mi hanno detto che un detenuto dei "miei" della redazione aveva tentato un’evasione dall’ospedale buttandosi dal secondo piano ed era stato ripreso un’ora dopo in una palestra dove si era rifugiato. Ho scelto volutamente di mettere insieme la mia elezione a Presidente del Volontariato che si occupa di carceri, pene, giustizia, con questo disastro della vita di una persona detenuta a cui tengo, perché è sempre così il nostro lavoro di volontari: abbiamo a che fare con le situazioni più complesse, per noi la vita di una persona, anche la più disastrata, o la più sbagliata forse, vale sempre, per noi la parola "delusione" va bandita dal vocabolario. Noi lavoriamo anni per costruire ponti tra la società e il mondo delle pene e delle carceri, e poi un momento di disperazione di un ragazzo che sta trascorrendo la sua giovinezza in carcere diventa motivo per mettere in discussione tutto e per trasformare quell’evasione in un processo al "buonismo" di chi segue, aiuta, dà ascolto ai "cattivi". Andrea Zambonini, voglio mettere il suo nome e cognome e voglio dire brevemente quello che è successo, perché lui ora è stato trasferito e io sono sicura che è una persona fortemente a rischio: Andrea è rinchiuso da quando era ragazzino, lui così si è descritto alla Giornata di Studi "La rabbia e la pazienza": "Io quando ero in libertà, in giovane età, appena maggiorenne ero già stato quattro volte in carcere, mi sentivo un reietto un fallito uno scarto della società e anche uno scarto del carcere". E Andrea da anni combatte con se stesso, con il carcere, con la droga, con la sua solitudine e la sua incapacità di diventare una persona "affidabile". Tre giorni fa gli è stato trovato un cellulare, proprio quando speravamo di poterlo aiutare ad avviare finalmente un percorso, che vedesse almeno in lontananza uno spiraglio per uscire. Dico la verità, per l’affetto che abbiamo per lui, ci siamo arrabbiati in tanti, per quella sua capacità di distruggere in un attimo quello che aveva costruito con fatica. E lui alla fine ha deciso di farsi ulteriormente del male, alla notte si è tagliato, è stato portato in ospedale e si è buttato in una fuga senza speranza, mettendo a rischio se stesso e anche chi lo custodiva, quindi capisco la rabbia della Polizia penitenziaria e so perfettamente che qualcuno mi dirà che sono troppo "tenera" con uno, che è stato spesso anche aggressivo, che ha avuto ricadute e recidive. E qualcun altro al contrario mi dirà che dovevo capire subito, parlargli invece di arrabbiarmi. Io non lo so proprio che cosa era giusto fare, so solo che in carcere non c’è niente che si possa fare con scelte semplici e lineari, il carcere produce tanti e tali danni, che poi aiutare le persone a RICOSTRUIRSI è una impresa titanica. Forse davvero l’obiettivo di UMANIZZARE il carcere è una impresa disperata, impossibile, anche sbagliata, ma se ne possono almeno, forse, limitare i danni, e questo noi volontari lo facciamo ogni giorno, "in direzione ostinata e contraria", come direbbe Fabrizio De Andrè. Contraria perché andiamo contro il pensiero comune, che crede ancora che ci siano i cattivi e ci siano i buoni, e i buoni siano tali per sempre, e lo facciamo però non con le guerre, ma con la forza della parola, della testimonianza, del racconto di vite difficili; ostinata, perché ci vuole davvero ostinazione per occuparsi di ogni singola persona rinchiusa, e per farlo anche quando ti senti "tradito", altra parola da bandire dal nostro vocabolario. Ai poliziotti penitenziari, che mi chiedono spesso perché continuo a occuparmi di persone, che non lo meritano, che tradiscono la fiducia, che sono forse "irrecuperabili", rispondo che io cerco sempre di capire le loro critiche e confrontarmi con le loro ragioni, e mettermi nei difficili panni di chi fa un lavoro rischioso e con poche soddisfazioni. Ma ricordo anche che proprio a Padova alcuni loro colleghi sono stati coinvolti in un triste giro di droga e cellulari: e questo ci deve spingere a riflettere INSIEME su quanto siano complicate le vite delle persone, e quanto sia meglio trattarle sempre con umanità, anche quando avresti voglia come minimo di girarti dall’altra parte. Il 16 ottobre sono stata eletta, il 16 ottobre è anche uscito un comunicato del DAP dal titolo "Il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria registra ulteriori significativi miglioramenti delle condizioni detentive", che parla dei progressi realizzati nella gestione dei tempi e degli spazi della detenzione e ringrazia il personale tutto che ha contribuito a questi risultati. Non voglio entrare nel merito di questi miglioramenti, che ci sono, perché per lo meno i numeri del sovraffollamento sono calati, sono state fatte delle ristrutturazioni e i tempi di apertura delle celle si sono dilatati, voglio solo aggiungere qualche riflessione, o qualche precisazione. Non dimentichiamoci, prima di tutto, che il "tempo aperto" della pena è spesso tempo vuoto, passato nei corridoi delle sezioni. E dove invece il tempo è un po’ meno vuoto, chi gestisce le attività? Vi invito a fare un esercizio: andate nel sito del Minìstero della Giustizia, dove c’è uno spazio dedicato alle "schede trasparenza Istituti penitenziari" e provate a cancellare le iniziative gestite dal volontariato o dalle cooperative sociali, e vedete cosa resta. Andate poi a vedere gli Stati Generali sull’esecuzione della pena, e vi accorgerete che le cooperative sociali non sono presenti, e il volontariato è una presenza in ordine sparso (ci sono anch’io a un tavolo) in cui ognuno rappresenta se stesso e forse la sua associazione. Allora io credo che il volontariato abbia bisogno di un riconoscimento più forte del suo ruolo, che passa anche per il rispetto della sua autonomia e per la consapevolezza che non si può chiamarlo in causa quando si va a Strasburgo a parlare delle condizioni delle nostre galere, e poi non riconoscergli la forza e la ricchezza delle sue conoscenze e la capacità di decidere da chi farsi rappresentare nel necessario percorso di cambiamento delle pene e del carcere. Quanto alle difficoltà e alle situazioni critiche che ci troviamo ogni giorno ad affrontare, perché è vero che le carceri sono un po’ meno piene, ma le condizioni in cui vivono le persone detenute restano spesso desolatamente prive di dignità, spero che riusciremo a essere da stimolo agli Stati Generali perché si apra davvero una fase nuova in cui TUTTI siano coinvolti in un percorso di cambiamento profondo e TRASPARENTE. Scrivevo lettere su lettere imprimendo sui fogli la mia rabbia di Andrea Zambonini Ristretti Orizzonti, 19 ottobre 2015 Intervento di Andrea Zambonini alla Giornata di Studi "La rabbia e la pazienza". Ciao a tutti, mi chiamo Andrea, sono un detenuto che frequenta la relazione di Ristretti Orizzonti da circa tre anni, vorrei parlarvi degli effetti di un mancato ascolto. Io quando ero in libertà, in giovane età, appena maggiorenne ero già stato quattro volte in carcere, mi sentivo un reietto un fallito uno scarto della società e anche uno scarto del carcere, sentivo che nessuno mi ascoltava, e tutto questo mi portava ad usare grosse quantità di cocaina. Nel tempo sono arrivato a un sempre più forte abuso di cocaina proprio per rafforzare la mia innata timidezza, una timidezza per cui è la prima volta che parlo davanti a tanta gente e mi viene difficile. Ecco però quando ero fuori non avevo paura di entrare in banca a fare le rapine, invece adesso sono qui che tremo come un bambino. Parliamo di rabbia in carcere. Questa carcerazione parte dal 2008. Io avevo la grossa difficoltà, e ce l’ho tuttora, ad assimilare grandi quantità di rabbia e quella rabbia poi la indirizzavo in direzioni sbagliate come facevo quando ero fuori. Fuori la rabbia la portavo in banca scambiandola col denaro per comprarmi la cocaina, per vestire bene e per divertirmi, per riscattarmi diciamo verso quella società che mi aveva emarginato. In carcere avevo il brutto vizio di non tenermi mai niente dentro, di litigare spesso, litigavo con i medici, con gli educatori dai quali non mi sentivo ascoltato, non mi sentivo capito e a volte mi sentivo anche preso in giro. Ecco poi c’è stato anche un periodo nel quale ho fatto tante risse e ho espresso così la mia rabbia verso le istituzioni, sì anche verso le istituzioni. Io mi eccitavo spaccando tutto, facendo dei danni facendo delle risse con altri detenuti, spesso litigando anche con le guardie. L’unica cosa di buono che ho ottenuto in tutti questi anni è solo quello che mi sta dando la redazione di Ristretti Orizzonti, cioè la possibilità di capire almeno il perché sono incazzato. Se mi chiedete se sono ancora incazzato vi dico di sì, però la mia rabbia si è affievolita da quando mi viene data la possibilità di capire il perché. Ricordo un periodo nel quale partecipavo ai gruppi della redazione però non parlavo mai, non intervenivo mai, un po’ per timidezza, un po’ per riservatezza, poi col passare del tempo, circa un anno fa, decisi di cercare di incanalare quella rabbia repressa in direzioni diverse, magari più positive, però mi veniva difficile perché, si sa, in carcere bisogna sempre un po’ tenersi tutto dentro e allora trovavo parecchie difficoltà. Un po’ mi aiutava la redazione perché mi sfogavo, cominciavo a parlare di più, a dare il mio contributo, a esprimere il mio pensiero. Ho adottato diversi metodi, uno era quello di scrivere tante lettere, lettere su lettere, a volte anche di notte imprimendo sui fogli la mia rabbia, quella rabbia che si faceva inchiostro e poi la spedivo continuamente, per mandare via la collera, mandare via quel malessere interiore, e un po’ mi è servito e mi sta servendo tuttora. Giustizia: l’arretrato civile invecchia, ci sono cause pendenti da 65 anni di Gabriele Ventura Italia Oggi, 19 ottobre 2015 Arretrato civile in versione vintage. Per eliminare il contenzioso accumulato nei tribunali italiani, il ministero della giustizia è andato a scavare indietro fino agli anni 50. Più precisamente a quando, nel 1951, si formava il settimo governo De Gasperi e il ministro di grazia e giustizia era Adone Zoli. Sì, perché quasi 65 anni e 15 legislature dopo, secondo i dati diffusi da via Arenula all’interno del progetto Strasburgo 2, esistono ancora procedimenti che non sono mai arrivati a sentenza: in alcuni casi si tratta di false pendenze o fascicoli di preture soppresse, giustificano i tribunali interpellati da ItaliaOggi Sette. In altri però non c’è smentita. E comunque in totale, l’arretrato che ci portiamo dietro dal ‘900, tra contenzioso civile classico e procedimenti dell’area fallimentare, è pari a quasi 45 mila pendenze, da azzerare nei prossimi quattro mesi. Con i dieci tribunali più "legati" al secolo scorso che, in entrambe le aree, sono tutti da Roma in giù. Per dare l’idea, basti pensare che al tribunale di Santa Maria Capua Vetere, il 9 luglio 2015, si è tenuta la 68ª udienza relativa a un procedimento datato 1979. Che non è bastata, perché si è conclusa con deposito ed esame della consulenza tecnica. Ma vediamo nel dettaglio quali sono i tribunali che dovranno adoperarsi di più per cancellare le pendenze di oltre 15 anni fa. Con il ministero della giustizia che, attraverso il progetto Strasburgo 2, ha stilato una "lista nera" di 35 circondari che superano la soglia critica in quanto a mole di contenzioso arretrato "ultratriennale", ovvero che di fatto pesa sul bilancio dello stato in ottica rimborsi ex legge Pinto, per eccessiva durata dei processi. La guerra dei dati. I dati raccolti dal ministero della giustizia sul contenzioso pendente relativo al secolo scorso, quindi con anzianità superiore ai 15 anni, sono suddivisi in due aree: l’area Sicid, cioè le cause contenziose classiche, e l’area Siecic, ovvero fallimenti e procedure affini, esecuzioni immobiliari e mobiliari. Nel contenzioso classico le pendenze sono 7.026, mentre nella seconda area sono 37.506. Andando a vedere la suddivisione per anno di iscrizione, vediamo che alcuni tribunali hanno ancora pendenze relative agli anni 50: Cagliari, Foggia, Roma, Tempio Pausania e Verbania nel contenzioso classico; sempre Cagliari, L’Aquila, Reggio Calabria e Santa Maria Capua Vetere per l’area "fallimenti". Dati che però in alcuni casi (Verbania, Tempio Pausania, Santa Maria Capua Vetere) vengono smentiti dai tribunali, che addebitano le pendenze degli anni 50 o a date fittizie inserite per distinguere i fascicoli provenienti dai piccoli tribunali annessi, oppure contestano i dati forniti da via Arenula. In altri casi però (Cagliari e Reggio Calabria) non è arrivata alcuna smentita. I tribunali con più arretrato. Dalla rielaborazione di ItaliaOggi Sette dei dati del ministero della giustizia emergono i tribunali che si portano dietro il maggior peso del contenzioso del secolo scorso. E il primo dato significativo è che in entrambe le aree considerate (Sicid e Siecic) i dieci tribunali "peggiori" sono tutti da Roma in giù. In particolare, per quanto riguarda l’arretrato di tipo fallimentare, si vede che la gran parte è concentrato in Sicilia. Tra Palermo (2.521), Catania, (2.426), Siracusa (1.099), Ragusa (859), Messina (676), Marsala (599), Barcellona Pozzo di Gotto (420), Caltanissetta (373), Enna (368), Caltagirone (345), si arriva a quasi 10 mila pendenze, praticamente un terzo del totale. Nell’area del contenzioso "classico", invece, la Campania risulta la regione più "rappresentata", con Salerno e Napoli ai primi due posti per arretrati del secolo scorso e Santa Maria Capua Vetere comunque tra i primi dieci. In genere, il maggior numero di pendenze è relativo agli anni 90, ma tra i tribunali che devono tornare più indietro nel tempo per eliminare il contenzioso c’è sicuramente quello di Taranto, che, per l’area Siecic, vanta ben tre pendenze degli anni 60, 18 degli anni 70 e ben 577 degli anni 80. Catania, invece, ne ha 3 degli anni che vanno dal 1960 al 1969, 27 sono degli anni 70 e 562 del periodo 1980-1989. Buon viaggio nel tempo, dunque. Obiettivo azzeramento del rischio Pinto. Quasi 120 mila cause pendenti da smaltire entro maggio 2016. Di queste, circa 45 mila vanno azzerate entro gennaio del prossimo anno. È la road map disegnata dal ministero della giustizia, attraverso il progetto Strasburgo 2, per resettare l’arretrato che tribunali e Corti d’appello si trascinano dietro dal 1951 al 2005. Potrebbe chiamarsi "operazione azzeramento rischio Pinto" quella messa in atto dal capo dipartimento, Mario Barbuto, che dopo aver raccolto i dati sulle pendenze di tutti i tribunali e le corti d’appello italiane, ha individuato come prioritario lo smaltimento delle cause ultra triennali, anche sacrificando quelle più recenti. Obiettivo: diminuire il cosiddetto "rischio Pinto", vale a dire quel milione e 100 mila procedimenti che potenzialmente pesano sulle casse dello stato. Fatto sta che da questo mese, ovvero dalla pubblicazione della relazione di Barbuto sul sito del ministero, decorrono i termini di quattro mesi per "l’auspicabile azzeramento" delle cause del secolo scorso, che sono diminuite dalle originarie 86.283 alle attuali 44.639. E di otto mesi per il sempre "auspicabile azzeramento" delle cause iscritte a ruolo a inizio millennio e fino al 2005, che sono passate da 127.146 a 73.928, di cui 1.846 delle Corti d’appello e 72.082 dei tribunali (registri Sicid e Siecic). A vigilare sul rispetto delle scadenze sarà la direzione generale di statistica, che dovrà verificare anche il progressivo smaltimento delle 512.945 cause iscritte a ruolo negli anni 2006-2010. Per la vigilanza sulle 298.965 cause iscritte nell’anno 2011, via Arenula confida invece "nei poteri di autocontrollo dei Capi degli uffici, non senza sottolineare che nel 2016 quelle cause saranno già ultra-quadriennali, in conclamato rischio Pinto". Per queste ultime cause, la vigilanza-osservazione del ministero verrà infatti attivata dopo il superamento della "fase critica". Il rischio Pinto. Dalla relazione di Barbuto emerge anche l’andamento del "rischio Pinto", che rispetto al 2013 è aumentato, mentre dall’altro lato le pendenze globali sono diminuite. Nel dettaglio, per l’anno 2013 il valore del "totale rischio Pinto" di 1.048.619 pendenze, corrispondeva al 28% del totale globale di 3.741.123, rilevato alla stessa data; per l’anno 2014, invece, il valore del "totale rischio Pinto" di 1.117.769, rilevato in sede di aggiornamento dopo un anno, corrisponde al 32% del totale globale di 3.494.549 pendenze. In altre parole, sottolinea il ministero, le cause ultra triennali sono aumentate, e quindi le pendenze globali sono sì diminuite del 6,6% (246.574 unità), ma nel contempo sono invecchiate. In particolare, per via Arenula questi dati sono preoccupanti anzitutto perché l’arretrato in senso stretto, ovvero i fascicoli ultra triennali, ha subito un incremento di 69.150 unità. Tale fenomeno ha inoltre inciso negativamente sul valore della "giacenza fisiologica", abbassando dell’11,7% il suo livello, da 2.692.504 pendenze (a fine anno 2013) a 2.376.780 (a fine 2014). "Il rischio degli indennizzi ex lege Pinto è in aumento, con un serio pregiudizio economico, attuale e futuro, per l’Erario", afferma Barbuto, "è un dato allarmante perché dimostra il trend non positivo della crisi del sistema-giustizia sotto il profilo della durata ragionevole delle cause civili che, non si dimentichi, ha rilevanza costituzionale ed europea nonché un forte impatto sull’economia del paese e anche sul bilancio del ministero della giustizia". L’operazione "depurazione". Dopo aver depurato i dati, eliminando anzitutto le pratiche del giudice tutelare di competenza dei tribunali ordinari, "dato che la loro definizione non dipende dalla volontà né dalla diligenza del giudice", le prospettive cambiano. Il rischio Pinto diminuisce dal valore di 1.117.769 a 930.477, mentre il tasso di invecchiamento delle pendenze passa dal 32% al 29,5%. Il reclutamento. Per realizzare l’obiettivo "azzeramento rischio Pinto", il ministero della giustizia ha avviato anche un progetto di "reclutamento" di risorse da distribuire nei tribunali più bisognosi. In particolare, ricorda lo stesso Barbuto nella sua relazione, sono stati assunti 48 cancellieri provenienti dalle graduatorie di altri ministeri o comparti (in particolare ministero degli interni). Inoltre, è in corso l’assunzione di 96 funzionari provenienti dal concorso Ice (Istituto nazionale commercio estero). A seguito di un accordo di condivisione di una graduatoria relativa al concorso per esami a 107 posti nei ruoli del personale dell’Istituto, infatti, via Arenula è in procinto di assumere 96 funzionari per destinarli agli uffici giudiziari. Ancora, 1.031 unità sono in corso di assunzione a seguito del bando di mobilità esterna del novembre 2014, la cui graduatoria provvisoria è stata pubblicata sul sito del ministero della giustizia il 19 agosto 2015. Duemila unità, sottolinea ancora via Arenula, saranno assunte ai sensi dell’art. 21 dl 27 giugno 2015, n. 83 convertito con modificazioni dalla legge 6 agosto 2015, n. 132. Si tratta, in totale, di circa 3.200 nuove risorse per combattere il "rischio Pinto". Giustizia: contro l’inefficienza il rimedio più valido resta la meritocrazia di Roger Abravanel Corriere della Sera, 19 ottobre 2015 Un centinaio di tribunali su 140 danno risultati mediocri. Il ministro Orlando ha dichiarato che il Csm deve essere più selettivo nella scelta dei presidenti (manager oltre che bravi giuristi). Nei giorni scorsi il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha dichiarato apertamente guerra all’anti-meritocrazia dei tribunali italiani, iniziando un tour in Calabria dove, sostiene, "la giustizia per cittadini e imprese è peggiore". Ha criticato una settantina di tribunali in "gravi difficoltà" e dichiarato che il Csm deve essere molto più selettivo nella scelta dei "capi ufficio"(chi guida tribunali e procure) che non devono essere solo bravi giuristi, ma anche buoni manager. È una notizia importante che non deve essere sottovalutata. Sembra che il ministro abbia deciso di affrontare finalmente il nodo della riduzione dei tempi delle cause civili più contenziose (successioni, fallimenti, contratti commerciali) e che si sia convinto della importanza della leadership dei 140 tribunali civili. A convincerlo ha sicuramente contribuito uno studio effettuato da Mario Barbuto, l’ex presidente del tribunale di Torino chiamato a Roma da Matteo Renzi a guidare la direzione organizzativa del ministero. Pochi mesi dopo il suo insediamento, con l’aiuto di un team del ministero e di consulenti di management (a titolo gratuito), Barbuto ha analizzato 3 milioni di cause e misurato la performance di ognuno dei 140 tribunali. Emerge chiaramente che le prestazioni in termini di durata delle cause e numero di cause ultra-triennali variano incredibilmente da un tribunale all’altro: ce ne sono 27 eccellenti (un anno e tre mesi di tempo medio in primo grado, meglio della media europea), 16 mediocri (un anno e 9 mesi) e 97 pessimi (due anni e sette mesi). Tra questo centinaio ce ne sono 70, di cui parla il ministro, che hanno più di un terzo di cause invecchiate oltre tre anni e che sono i peggiori tra i peggiori. I presidenti dei tribunali sostengono che ci sono poche risorse (magistrati e cancellieri) ma il ministro dichiara di non essere d’accordo e lo studio di Barbuto gli dà ragione: i tribunali migliori riescono ad esserlo pur essendo scoperti sull’organico standard quanto i peggiori. Molti presidenti di tribunale mediocri o pessimi danno anche colpa alla litigiosità locale; ma i tribunali migliori sono in zone con la stessa litigiosità dei peggiori. Uno dopo l’altro, l’analisi di Barbuto ha smontato tutti i possibili alibi. Ne restava uno, il classico problema Nord-Sud. Perché, anche se tra i 97 pessimi ce ne sono alcuni del Nord, la maggioranza è al Sud. Ma non è colpa del contesto meridionale: il tribunale di Marsala in tre anni si è portato tra i migliori dei 27 migliori. Come? Gioacchino Natoli, presidente del tribunale di Marsala, dopo avere studiato il "metodo Barbuto" (ribattezzato "Strasburgo" perché è stato celebrato in Europa), lo ha applicato (e migliorato) con grande successo nel proprio tribunale. Si dimostra così che i capi (come sempre) contano. E che i 97 presidenti dei tribunali peggiori hanno un ruolo chiave per migliorarli. La posta in gioco è alta. Per sostenere e ampliare la crescita del Prodotto interno lordo non basta la fiducia nel premier. Ci vuole anche quella nella giustizia, il che in economia vuole dire certezza del diritto civile e tempi compatibili con le attività delle imprese, soprattutto quelle di servizio. Le leve a disposizione del governo non sono tante, perché i magistrati sono indipendenti dalla politica e il loro referente è il Csm (Consiglio superiore della magistratura) che, sino ad oggi, non ha dato prova di grande volontà di cambiare. Il road-show annunciato dal ministro presso i tribunali più in difficoltà è una leva che va sfruttata. Che cos’altro è possibile fare? Chiedere di ridurre ulteriormente le ferie di tutti i magistrati, servirebbe a poco. Semmai si potrebbe minacciare di chiudere i tribunali più inefficienti. Il governo precedente ha chiuso 40 piccoli tribunali per tagliare i costi, ma lo studio dimostra che sarebbe stato meglio considerare l’efficienza degli uffici nell’accorpare i tribunali, indipendentemente dalla loro dimensione (ce ne sono piccoli efficienti e medio grandi inefficienti). Chiudere un tribunale inefficiente sarebbe un bel segnale. Un’altra leva è una campagna di comunicazione, nei confronti di cittadini e imprese, i veri "clienti" del servizio della giustizia civile. Sino ad oggi le loro impressioni sulla magistratura sono dovute più ad avvenimenti legati alla cronaca, come le intercettazioni, o alla politica come nella guerra tra Silvio Berlusconi e la magistratura. Una massiccia campagna di comunicazione, magari guidata personalmente da Matteo Renzi, per spiegare a cittadini, imprese e avvocati che risiedono dove ci sono i 97 tribunali peggiori potrebbe portare a qualche effetto. Le imprese porterebbero, quando possibile, i fori competenti dove ci sono i tribunali migliori e, in un Paese democratico, i tribunali sono indipendenti dalla politica ma non indifferenti ai movimenti di opinione dei loro concittadini. Forse allora anche il Csm si muoverà e il Paese potrà finalmente partire. Giustizia: due parti in commedia per i servitori dello Stato di Sergio Rizzo Corriere della Sera, 19 ottobre 2015 Il caso di un ex giudice costituzionale che difende in una causa contro l’amministrazione pubblica un costruttore già condannato per truffa aggravata. Motivi di opportunità avrebbero sconsigliato anche a certi magistrati di promuovere un ricorso per non andare in pensione a 70 anni. Può un ex giudice costituzionale patrocinare in una causa contro lo Stato un signore già condannato per truffa aggravata ai danni del medesimo Stato e salvato dalla pena definitiva grazie alla prescrizione? Certo che sì. Non c’è una legge, non un regolamento, ma neppure una circolare che lo impedisca. Ma che una cosa del genere lasci un sapore buono in bocca non si può proprio dire. Il fatto è che non riusciamo proprio ad abituarci all’idea che in questo Paese chi ha servito lo Stato, e magari lo serve ancora, possa a un certo punto schierarsi contro lo Stato. E questo, si badi bene, indipendentemente dal livello dell’incarico pubblico ricoperto. Il caso al quale ci siamo riferiti è quello del contenzioso miliardario che oppone l’ex costruttore Edoardo Longarini allo Stato italiano. Dell’incredibile vicenda si è occupato ripetutamente il Corriere e ha riferito il ministro delle Infrastrutture Graziano Delrio il 14 ottobre alla Camera. Già concessionario dei lavori per la ricostruzione di Ancona, quindi di Macerata e Ariano Irpino, Longarini è incorso in una condanna per truffa allo Stato, poi come detto prescritta, nonché in una ulteriore sanzione della Corte dei conti. Ciò non ha impedito che un arbitrato rocambolesco imponesse allo Stato di versare a Longarini, che già aveva intascato 250 milioni di euro pubblici, la sbalorditiva cifra di 1,2 miliardi. Ebbene, nel ricorso intentato dal ministero delle Infrastrutture per evitare quello sciagurato salasso, Longarini si avvale del patrocinio dell’ex giudice della Consulta Romano Vaccarella. L’avvocato di Longarini venne nominato dal Parlamento alla suprema corte nell’aprile 2002 con 583 voti: praticamente un plebiscito. Cinque anni più tardi si dimise in polemica con il governo di Romano Prodi sul referendum elettorale. Fu una questione di principio e di coerenza. Vaccarella esercita la professione di avvocato. Il suo mestiere è difendere qualcuno. Ma un avvocato può sempre scegliere chi difendere, magari proprio per coerenza. Tanto più che in casi come questi la scelta ha risvolti che vanno ben oltre le questioni puramente professionali. Ci si dovrebbe per esempio domandare se sia opportuno, per un avvocato che ha ricoperto un così alto incarico pubblico, prendere come ha fatto sempre Vaccarella le parti in una causa civile contro la Regione Lazio dei 77 ex consiglieri regionali che contestano un taglietto ai loro ricchi vitalizi. Già, l’opportunità. Purtroppo la domanda circa l’opportunità di una determinata scelta, in un Paese nel quale l’interesse pubblico passa frequentemente in secondo piano, sono assai rare. Tranquillizziamo Vaccarella: il suo caso non è affatto isolato. Certi avvocati dello Stato o certi magistrati amministrativi che intervengono come arbitri (retribuiti al pari di professionisti privati) nelle controversie fra imprese e pubblica amministrazione, e poi danno regolarmente torto allo Stato che paga loro lo stipendio, difficilmente quell’interrogativo se lo sono mai posto. Così come quegli altissimi esponenti dell’avvocatura che hanno fatto ricorso al Tar contro la decisione del governo di mandarli in pensione all’età di settant’anni. O quei magistrati che hanno promosso un giudizio alla Corte costituzionale contestano il taglio delle loro buste paga. Per non parlare di ciò che si verifica nei livelli più bassi degli uffici pubblici. Dove le storie di pezzi dell’amministrazione che assumono decisioni apparentemente contraddittorie con l’interesse pubblico sono all’ordine del giorno. Qualche settimana fa, mentre era in preparazione la legge di Stabilità, l’ipotesi avanzata dal governo di dare una sforbiciatina all’aggio dei concessionari del gioco d’azzardo, che avrebbe fatto risparmiare alle casse pubbliche un centinaio di milioni, è stata bocciata da non si sa quali tecnici delle Finanze con alcune acrobazie di tipo giuridico che abbiamo fatto sinceramente fatica a capire. Il fatto è che la crisi in cui versa la nostra pubblica amministrazione è anche il riflesso delle cattive abitudini di una burocrazia che troppo spesso recita due parti in commedia. E che questa sia la radice profonda delle patologie che la affliggono, esplose di recente nelle vicende di Roma, è più che una semplice impressione. Per questo una riforma della pubblica amministrazione che abbia senso dovrebbe per prima cosa recuperare un principio morale fondamentale: chi serve lo Stato, serve solo quello. Giustizia: Mafia capitale. Roma come Palermo "lesa l’immagine del Comune e della città" di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 19 ottobre 2015 Il Campidoglio parte civile alla prima tranche del procedimento con cinque imputati. Il problema è riassunto nella premessa, giuridica ma anche sostanziale: "Non eravamo certo abituati a pensare la nostra città come coinvolta in trame mafiose, in metodi mafiosi, inquinata da associazioni mafiose". Altrove lo sono, a Palermo è diventato normale che Comune e Regione si costituiscano parte civile nei processi contro gli uomini di Cosa nostra. A Roma invece no, ma ora che alla sbarra sono finiti imputati di mafia o di favoreggiamento alla mafia, la situazione è cambiata. E l’amministrazione comunale decide di scendere in campo al fianco della pubblica accusa. Era successo con il clan Fasciani a Ostia e succede adesso, in una sorta di prologo del dibattimento di Mafia capitale. Il motivo è il presunto danno patito dalla collettività e dalla sua amministrazione: "L’offesa non è solo quella portata all’ordine pubblico, ma alla stessa possibilità per la società di dispiegarsi serenamente, nelle sue diverse forme di espressione, e per il Comune di esprimere la sua forza culturale, di coesione, di legalità (amministrativa, quanto meno): in sintesi, la sua funzione". Ecco allora che "il profilo di lesione e di danno subìto da Roma Capitale (e dalla cittadinanza intera) è di tutta evidenza. L’opposizione dell’associazione mafiosa con l’Ente comunale è totale: l’uno esclude l’altro". È ciò che sostiene l’avvocato del Campidoglio nell’atto di costituzione di parte civile che sarà presentato domani al giudice di Roma, nel processo col rito abbreviato a cinque imputati già coinvolti nell’inchiesta sul "mondo di mezzo". Un atto preparato su "procura speciale" di Ignazio Marino, firmata pochi minuti prima di rassegnare le dimissioni da sindaco e rimanere in carica per l’ordinaria amministrazione. Chiedere un milione e mezzo di euro di risarcimento - di cui 500.000 per "danno all’immagine" - probabilmente non lo è, e l’ormai ex primo cittadino ha voluto farlo quando era ancora nella pienezza dei suoi poteri. L’ultimo atto prima della resa politica. Anche se in questa tranche nessuno è accusato di associazione mafiosa, a tre imputati (l’ex responsabile del coordinamento per i nomadi Emanuela Salvatori, l’ex direttore generale di Ama Giovanni Fiscon e l’ex collaboratore di Buzzi Emilio Gammuto) i pubblici ministeri addebitano l’aggravante di aver favorito la "banda" che sarà giudicata nel maxi-processo fissato per il 5 novembre. Di qui la scelta di proclamarsi controparte anche nei loro confronti. Ma l’avvocato, sempre per conto di Marino, chiede i danni pure per la corruzione. "Siamo in presenza di un’inquietante e drammatica contestazione: per la società civile, per la realtà imprenditoriale e per gli Enti pubblici che operano nel contesto territoriale di riferimento dell’attività criminale", scrive. E i comportamenti contestati, tesi a piegare le decisioni del Comune agli interessi del gruppo criminale, "scardinano le funzioni d Roma Capitale, ledendo gravemente il buon andamento e gli obiettivi dei processi amministrativi, come sottolineato nei capi d’imputazione". Giustizia: Cantone "grave errore aumentare contante, corruzione si batte con la politica" di Michele Smargiassi La Repubblica, 19 ottobre 2015 Non esistono più corrotti. Solo corruttori. Quasi un quarto di secolo dopo Tangentopoli la criminalità degli appalti cambia modi, non certo pericolosità. Lo scandalo Mafia Capitale ha mostrato come il malaffare non abbia più bisogno di comprarsi i favoru abusivi delle istituzioni: le infiltra, le controlla e le usa da padrone. Intervistato dal direttore di Repubblica Ezio Mauro in chiusura di Repubblica delle Idee a Pescara, il magistrato Raffaele Cantone, da un anno e mezzo presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, disegna il nuovo volto di un vizio troppo antico. Per la Corte dei conti si stima in oltre 67 miliardi di euro l’ammontare delle tangenti in Italia. La metà della corruzione europea. Un disastro non solo morale ma economico, che deprime la concorrenza, allontana gli investitori, abbassa la qualità delle opere pubbliche. "Contesto quella cifra, nasce dal calcolo ipotetico di quanto varrebbe la corruzione se fosse un due-tre per cento del Pil, in verità potrebbe essere persino maggiore, per i costi invalutabili che dice lei. Ma l’effetto di queste cifre rischia di essere la rassegnazione: è troppo, non ce la faremo mai, arrendiamoci. Io non credo che la corruzione sia un cancro che ha conquistato il paese, è innervato ma non invincibile, se potremo lavorare in tempi abbastanza lunghi senza che cali l’attenzione". Non si rischia invece una sconfitta? Guardiamo solo agli ultimi giorni: il vicepresidente della Lombardia arrestato, tre arresti a Roma per il primo appalto del Giubileo. È un assedio. "Quando emergono fatti di corruzione vuol dire che che una parte del paese fa il suo dovere. Quegli arresti, mica li hanno fatti poliziotti norvegesi. La cosa del Giubileo è venuta fuori perché abbiamo lavorato in modo diverso, controllando tutti i soggetti partecipanti all’appalto. Abbiamo evitato un grande scandalo italiano, dobbiamo esserne orgogliosi". Ma come è possibile che dopo Mafia Capitale nessuno si sia accorto che quasi tutti gli appalti Atac sono gestiti senza gara? "Me lo chiedo anche io, purtroppo, e penso non sia un caso unico nelle società pubbliche, il vero disastro per la corruzione in Italia. Del resto, sono state create come escamotage per trasferire gli affari a questi meccanismi, ed ecco collegi sindacali pletorici, assunzioni senza concorso. Bisogna che, come è accaduto con la mafia, ci convinciamo tutti che non si tratta solo di un problema morale, ma di una rovina economica. I concorrenti migliori eliminati, l’appaltatore che poteva risparmiare. Se vinco corrompendo non ho bisogno di migliorare le mie capacità d’impresa, di assumere buoni tecnici. Non è un caso se i paesi più corrotti sono anche quelli che fanno meno ricerca e innovazione. Ma, ripeto, oggi un pezzo di Italia vuole davvero cambiare". Aumentare la soglia dei pagamenti in contanti non va nella direzione opposta? "La riduzione della soglia non eliminava la corruzione. Ma sono contrario a quell’innalzamento, perché ha un valore simbolico, sembra dire: purché tu spenda va tutto bene. Senza contare che il cambio continuo delle regole è il contrario della certezza che serve alla lotta contro la corruzione". Parliamo allora anche di noi, società civile e incivile nello stesso tempo. La corruzione prospera anche perché è spesso considerata peccato veniale, e lo Stato un avversario da fregare. Possiamo parlare di una opinione pubblica distratta, rassegnata o connivente? "In tempi recenti la corruzione è stata non solo sottovalutata, ma perfino considerata un meccanismo che fa funzionare il sistema. Quella mentalità ha fatto danni rilevantissimi". Dopo Tangentopoli il sistema politico non ha rigettato i tecnici delle mazzette, è tornato a farli entrare nelle stanze del potere, perché? "Attorno all’Expo sono entrati in azione dei mediatori d’appalto, dei lobbisti, due persone già condannate". Frigerio e Greganti. "Non si nascondevano, avevano incontri ufficiali con imprenditori, politici, e nessuno che dicesse: ma voi cosa c’entrate? Purtroppo il post- Tangentopoli ha prodotto norme che hanno finito per facilitare la corruzione: abuso d’ufficio, falsi fiscali, prescrizione. La più criminogena è la riforma del titolo quinto della Costituzione che ha spostato la capacità di spesa in zone sottratte al controllo: le rimborsopoli delle Regioni sono frutto di questo. Ha ragione chi dice che Tangentopoli ha prodotto un effetto darwiniano, ha eliminato i corruttori fessi lasciando sul campo quelli più abili. Le tecniche ora cambiano, Mafia Capitale è uno spaccato eccezionale. Il malaffare non ha più bisogno di corrompere funzionari pubblici, i suoi interlocutori sono corrotti in partenza, allevati apposta per essere inseriti in un sistema illegale". E questo è gravissimo. Con Tangentopoli la politica era seduta a capotavola, ora è gregaria, subalterna, in stato di cattività. Non c’è più neppure bisogno delle mazzette. "È incredibile, se uno legge gli atti non capisce chi è il corrotto e chi il corruttore. La struttura classica della corruzione è quella di un contratto criminale, uno si vende la funzione e uno la compra, qui invece no, certi funzionari e politici fanno parte integrante della struttura organizzativa del crimine, sono lì per quello". Si può parlare di mafia per questo sistema, o è un termine improprio? "La mafia non è solo quella che spara. La corruzione anzi preferisce non sparare: un uomo minacciato prima o poi lo perdi, uno coinvolto è sempre tuo. Non ci sarà soluzione se la politica non tornerà a prendersi la responsabilità delle persone che sceglie. La corruzione si può battere solo se c’è una svolta nella politica". Abbiamo avuto un ministro degli Interni che sosteneva che non c’era mafia al Nord, sconfessò Saviano che lo diceva, ottenendo perfino una trasmissione riparatoria dalla Rai. "Bisognerebbe spiegare perché se cambia un prefetto, Milano improvvisamente fa più interdittive di Napoli, Palermo e Reggio Calabria. Pasquale Zagaria a Parma si presentava col suo nome, aveva rapporti con politica e imprenditori, l’allora prefetto disse che Saviano si inventava la camorra a Parma, forse non era molto attento a quel che gli accadeva intorno. A parole, la legalità è invocata ovunque. Non costano nulla le parole. La più abusata è proprio legalità, ha ragione don Ciotti, aboliamola, sostituiamola con responsabilità. Conta quello fai, non quello che dici". Giustizia: Erri De Luca, oggi la sentenza "resto convinto che la Tav va sabotata" di Ottavia Giustetti e Paolo Griseri La Repubblica, 19 ottobre 2015 Le ultime dichiarazioni dello scrittore in Tribunale. Alle 13 la sentenza per l’accusa di istigazione e delinquere sulla vicenda Tav. Otto mesi la pena chiesta. "Sarei presente in quest’aula anche se non fossi io lo scrittore incriminato per istigazione. Aldilà del mio trascurabile caso personale, considero l’imputazione contestata un esperimento, il tentativo di mettere a tacere le parole contrarie. Confermo la mia convinzione che la linea sedicente ad Alta Velocità va intralciata, impedita e sabotata per legittima difesa del suolo, dell’aria e dell’acqua". Si è aperta così, con queste ultime dichiarazioni spontanee di Erri De Luca, l’ultima udienza del processo allo scrittore napoletano accusato di istigazione a delinquere per le sue dichiarazioni pubbliche a sostegno del sabotaggio della Tav. Pochi minuti prima che il giudice, Immacolata Iadeluca, si ritirasse in camera di consiglio per decidere la sentenza, De Luca ha parlato dell’aula come di un "avamposto affacciato sul presente immediato del nostro Paese". Ha dichiarato di aver rinunciato a sollevare una eccezione di costituzionalità della legge per la quale è sotto processo per non trasferire nelle stanze "di una Corte sovraccarica di lavoro" la risposta alle accuse. "Ciò che è costituzionale si misura al pianoterra della società" ha detto. E ha concluso con: "La mia parola contraria sussiste e aspetto di sapere se costituisce reato". E la risposta a questo interrogativo che anima il processo contro Erri De Luca fin dai suoi esordi arriverà alle 13 quando il giudice ha riconvocato tutte le parti in aula e pronuncerà la sentenza: lo scrittore con i suoi due avvocati, Gianluca Vitale e Alessandra Ballerini; i pubblici ministeri, Andrea Padalino e Antonio Rinaudo che nella precedente udienza hanno chiesto una condanna a otto mesi; la parte civile Ltf (la società italo-francese che all’epoca delle dichiarazioni di De Luca aveva in gestione in cantiere della tav) rappresentata dall’avvocato, Alberto Mittone. E un pubblico di una cinquantina di militanti No Tav tra cui uno dei leader, Alberto Perino, e i fan dello scrittore. Giustizia: Salvatore Cuffaro, da 5 anni in cella "presto sarò libero, ma mai più in politica" di Francesca Pizzolante Il Tempo, 19 ottobre 2015 Parla l’ex governatore siciliano da 5 anni in cella. "Un uomo che credeva di essere un re ed invece era un mendicante". Si definisce così dal carcere di Rebibbia, dov’è detenuto per favoreggiamento aggravato a Cosa Nostra e rivelazione di segreto istruttorio, Salvatore Cuffaro. "Il Tempo" lo ha intervistato a pochi giorni dalla sua scarcerazione, fissata per il 16 dicembre. Magro, provato, Totò oggi è un uomo nuovo che dice di aver definitivamente chiuso con la politica. Cuffaro, si avvicina il giorno della sua liberazione. "Sono stanco, provato, ma sto bene. Nelle carceri si vive nella miseria che impone la legge dell’uomo. Pesa la condizione di detenuti. Questa nostra condizione è il nostro cilicio, ed avvolge corpo e mente. L’uomo che è in noi soffre e grida il suo silenzio; grida fame e miseria, grida, si sciupa e si dissecca la vita e grida il tempo, l’anima e in tutti noi si spezzano i cuori. Il carcere non ti priva soltanto della libertà. Ti toglie il fiato, il respiro lungo della vita". Sono passati quasi cinque anni da quando si è chiuso alle spalle la porta del carcere. "Come dimenticarlo. Al carcere non ci si abitua mai così come non si dimentica. Ancora adesso nelle notti insonni e amare sento più forte il bisogno di fare l’appello degli affetti. Esco con la mente dalla cella, nel buio vado in giro per il carcere desolato; ascolto il rumore dei miei passi e respiro il tanfo che di notte è intriso di compassione. Nel buio sento il respiro duro e doloroso dei miei compagni detenuti, neanche le tenebre riescono a nascondere le angosce. Sconfitto, accendo la povera luce del mio letto e osservo la foto che mi ritrae insieme a mia moglie e ai miei figli e mi dà conforto cogliere impresso nei loro occhi quello che mi serve". Si è detto che a un certo punto lei ha pensato di farla finita.. "Non ci ho mai pensato anche se purtroppo ho visto miei compagni, nelle celle accanto e di fronte, che si sono determinati nel farlo. La vita va accettata così com’è. La Ballata del carcere di Reading, magnifica opera di Oscar Wilde, ben descrive la vita dei reclusi e la loro disperazione: "E il lancinante rimorso e i sudori di sangue, nessuno li conosce al pari di me: perché colui che vive più di una vita deve morire anche più di una morte". Lei è dimagrito in modo incredibile. "Ho perso 30 chili e almeno in questo il carcere non è stato negativo". E la mafia? "La mia coscienza sa di non aver mai favorito la mafia ma di averla combattuta amministrativamente e culturalmente. Tante persone che mi sono state vicine con le lettere mi hanno aiutato a portare la croce con la preghiera". Chi è oggi Totò "vasa vasa" Cuffaro, l’uomo dietro la cui porta in tanti si mettevano in fila? "È un uomo più vecchio, più innamorato della vita, più consapevole che la vita è il più grande dono che abbiamo avuto: è amore, è rispetto dell’altro e della sua libertà, è comprendere senza mai stancarsi. Ho avuto paura di non sapere affrontare questa avversità e di fallire la prova a cui ero stato chiamato. Oggi posso dire che ce l’ho fatta. Non mi manca il vecchio Totò anche se confesso che mi sarebbe molto di conforto e mi piacerebbe sapere che manca agli altri (ho ricevuto 13mila lettere). So che tornato in libertà nulla sarà come prima. Sono come il mendicante che credeva di essere un re, pensava di esserlo diventato perché si era fatto da sé e che la vita si è incaricato di farlo tornare quello che è giusto che sia: se stesso". Un uomo abituato a ritmi di vita accelerati come si adatta al lento correre del tempo? "In cella ci si abitua a tutto, non si ha scelta. Nella mia ora d’aria mattutina corro, poi leggo, studio, scrivo. Ho già scritto e sono stati pubblicati due libri sulla vita in carcere, sui sentimenti dei detenuti, le loro ansie, speranze, illusioni e sogni. Scrivo del trattamento inumano nelle carceri sovraffollate. Io che sono medico, in carcere mi sono iscritto a giurisprudenza. Ancora due esami e potrò laurearmi". Quanti suoi colleghi di partito e amici le sono rimasti al fianco? Quanti sono spariti? "Mi sono rimasti vicini tanti amici e colleghi di partito. Moltissimi mi hanno scritto e altri sono venuti a trovarmi. Altri ancora hanno preferito prendere le distanze. Ricordo i primi con affetto e i secondi senza risentimento nelle mie preghiere. Mi è stata rubata una parte della vita, ma la perdita di questa parte è servita a sostenere la mia stessa vita e l’ha resa più forte e più vera. La vita è il dono più grande che si riceve e l’aver avuto intaccato questo dono da una radicale ingiustizia impone a chi l’ha subita di amarla con più forza e di combattere per la verità, non innalzando barriere ma gettando ponti. Sono stato mortificato e ho avuto soggiogata la mia innocenza ma non sono stato cancellato nelle coscienze di tanti che mi vogliono bene". Una volta libero tornerà a fare politica? "La politica è stata la mia vita. Il luogo dove mi sono donato alla gente, alla mia Terra, dove mi sono realizzato come uomo e spero come cristiano. È stata purtroppo, suo malgrado, anche la causa del mio carcere. È finito il mio tempo per la politica. Poi mi troverei come un pesce fuor d’acqua. Appartengo a coloro che ritengono migliori i giorni in cui gli ideali si sposavano con la politica, perché erano fecondi, questi che adesso sta vivendo la politica mi pare siano giorni senza ideali, vuoti e sterili". Fuori troverà Renzi, un Berlusconi in declino, i grillini, Salvini... "Stando chiuso in una cella di 16 mq insieme ad altre tre persone passo il mio tempo a leggere giornali e libri, scrivere, vedere telegiornali e talk show. Renzi è animato di grande volontà e voglia di fare. Credo però dovrebbe essere più dialogante, sulle riforme costituzionali avrebbe potuto ottenere gli stessi risultati coinvolgendo gli altri. Renzi è l’unico che è rimasto. Forza Italia con Berlusconi messo alle corde è aggrappata a niente. Non nascondo che sono preoccupato per il nostro Paese". Uscendo da Rebibbia troverà una città senza sindaco. "Conosco bene Marino. È stato il direttore dell’ISMETT (Centro trapianti siciliano) quand’ero al governo della Sicilia. Era un buon chirurgo. Differentemente da come lui si è comportato con me, gli auguro giorni sereni. In carcere ho imparato che un uomo ha il diritto di giudicare un altro uomo solo per aiutarlo". La politica, da uomo disintossicato, è davvero così beffarda e insidiosa? "Ho rispettosamente bevuto per intero l’acqua amara che mi è stata assegnata. Non l’ho rifiutata e neppure allontanata: sarebbe stato scortese verso chi mi aveva prescelto a riceverla... Il carcere è un volo in caduta libera nel dolore, è un cambiamento sostanziale della condizione umana. Io mi sono sforzato di difendere la mia dignità. La politica certamente è passione, sacrificio e scelta di vita. Così l’ho vissuta, ma non posso negare che sia anche beffarda e insidiosa". Tornasse indietro...? "Rifarei il presidente della mia terra perché è quanto di più bello possa capitare a chi ama la propria gente. La consapevolezza di essere stato votato da quasi 2 milioni di siciliani e di avere avuto la loro fiducia mi riempie ancora adesso di orgoglio. La Sicilia è una terra bellissima, difficile e complicata, per questo merita ancor più di essere amata e servita. Anche se la politica è stata motivo del mio dramma, se tornassi indietro la rifarei. Niente può esserci di così pesante e doloroso da potermi far rinunciare all’orgoglio di essere Presidente dei siciliani. Neanche 5 anni di carcere". La prima cosa che farà da uomo libero. "Corro subito a riabbracciare mia madre. In questi anni mi è stato negato persino un permesso di 24 ore per andare ad abbracciarla, lei che ha 92 anni. Poi andrò a far visita a mio padre al camposanto. Voglio stare insieme a mia moglie e ai miei figli. Voglio dormire nel mio letto. Un uomo ha bisogno del suo letto". Falso in bilancio, sulla tenuità del fatto servirà il perito di Guido Chiametti e Paolo Solari Il Sole 24 Ore, 19 ottobre 2015 Una responsabilità in più per il giudice penale, ma anche un’opportunità per i professionisti che operano come consulenti tecnici. La legge 69/2015, inserendo l’articolo 2621-ter del Codice civile, chiama il giudice a valutare "l’entità dell’eventuale danno cagionato alla società, ai soci o ai creditori" per stabilire se il reato di false comunicazioni sociali commesso dagli amministratori - anche nella sua declinazione di lieve entità - possa beneficiare della non punibilità perché particolarmente tenue. Se il giudice dovesse avere poca dimestichezza con i bilanci, tenuto conto del loro particolare tecnicismo (redazione di stato patrimoniale, conto economico e relazioni redatte ai sensi del Dlgs 127/1991 e successive modifiche, nonché in base ai principi contabili, e così via), potrebbe avvalersi di una consulenza tecnica, affidata a un valido esperto, quale ad esempio un dottore commercialista e revisore legale dei conti, nonché un iscritto all’albo dei consulenti tecnici dotato di valida esperienza e che gode della sua fiducia. Ciò al fine di stabilire se le violazioni contestate abbiano o meno cagionato un danno alla società. Se il giudice si avvale di questo strumento dovrà, quindi, declinare un articolato quesito, condividerne il testo con l’eventuale "consulente-perito" e, alla fine, fare propri i risultati della consulenza tecnica. La strada da seguire per il consulente del tribunale sarà quella di valutare in modo prevalente l’entità dell’eventuale danno che la società, col suo comportamento, ha causato a soci o a terzi. Pertanto sarà il professionista incaricato ad addentrarsi nei meandri del bilancio, esaminando ogni singola posta dello stato patrimoniale e del conto economico, con particolare riguardo ai costi e ai ricavi. Le sue conclusioni dovranno essere basate su principi di imparzialità, di giustizia, che sono qualità tipiche di un operatore del tribunale, grazie alla sua professionalità ed esperienza. Il suo verdetto, che poi diventa pensiero e orientamento del giudice, dovrà essere suffragato da un esame critico del bilancio oggetto di esame e il suo lavoro dovrà poggiare su indici, percentuali, comparazioni e sull’esame dettagliato della documentazione contabile (fatture, estratti conti bancari e altro). Il tutto per poter determinare se nel bilancio vi sono fatti tenui punibili o non. In conclusione dovrà giungere alla quantificazione materiale del danno, dando cioé un peso economico a ciò che la società ha subìto. Il risultato sarà riportato nell’elaborato tecnico e diverrà parte integrante e sostanziale della sentenza che il giudice andrà a pronunciare. Ci potrebbe, però, essere un’altra strada. Se il giudice per sua fortuna ha dimestichezza con i bilanci, vale a dire con il tecnicismo che regola la formazione del bilancio, può fare a meno della collaborazione del consulente tecnico, agendo direttamente in proprio. Nella formulazione della norma, infatti, non è stato espressamente indicato dal legislatore l’utilizzo della consulenza tecnica. Non essendovi un espresso divieto, tutto è lasciato al libero apprezzamento del giudice. Di certo, l’utilizzo della consulenza tecnica diventa una strada percorribile e, in questo modo, si potrebbe aprire un settore specifico di attività a favore dei commercialisti iscritti all’albo dei consulenti tecnici, che con il loro intervento potrebbero supportare la macchina della giustizia. Sicurezza: legittimo il foglio di via per atti contrari alla pubblica decenza di Vittorio Italia Il Sole 24 Ore, 19 ottobre 2015 È legittimo il provvedimento del Questore che vieti a un dipendente pubblico di ritornare nel territorio del Comune per 3 anni, perché sorpreso presso una discoteca travestito da donna, con il sospetto che fornisse prestazioni sessuali a pagamento (Consiglio di Stato, sezione 3, sentenza 8 ottobre 2015, n. 4665). La decisione. I giudici hanno argomentato la propria posizione sostenendo che: a) la prostituzione, di per sé, non è un reato, e per l’applicazione della misura del rimpatrio è necessario che concorrano circostanze ulteriori, rilevanti sotto il profilo penale e della sicurezza pubblica; b) i precisi e concreti elementi di fatto, rilevanti sotto il profilo della sicurezza pubblica, sono valutati dall’Autorità amministrativa con la più ampia discrezionalità, salvo che vi sia incoerenza nell’iter logico; c) la condotta denunciata risulta rilevante sotto il profilo della sicurezza pubblica, e che ciò viene rafforzato dalla forma notoria e abituale in cui tale attività veniva svolta, e dal connesso turbamento sociale, manifestato attraverso proteste e segnalazioni rivolte in precedenza all’Autorità di polizia. Le valutazioni dei giudici di Palazzo Spada. La sentenza è meditata, ha considerato con attenzione i precedenti giurisprudenziali ed è intervenuta per risolvere un problema che aveva determinato un indubbio turbamento e disagio sociale nella comunità. Ma su questo punto la sentenza solleva una perplessità. Essa riguarda il rapporto tra la sicurezza pubblica e il disagio o turbamento sociale. Infatti, la sicurezza pubblica è il parametro stabilito dalla legge per le misure di prevenzione dell’Autorità, e tale sicurezza riguarda fatti e atteggiamenti anche potenzialmente pericolosi per l’integrità e la tranquillità pubblica. Ma nella motivazione della sentenza qui considerata viene utilizzato un altro parametro, che non è previsto esplicitamente dalla legge, e che riguarda il disagio sociale, o il turbamento sociale. In altre parole, il comportamento osservato è di certo censurabile sotto un profilo morale, ma è dubbio che esso costituisca una violazione o un attentato alla sicurezza pubblica. Né si potrebbe sostenere che l’espressione sicurezza pubblica dev’essere intesa in senso ampio, così da ricomprendere anche il disagio sociale o il turbamento sociale, perché quando ci si trova di fronte alle limitazioni di un diritto soggettivo (quale è la libertà di circolazione e soggiorno), l’interpretazione è necessariamente restrittiva. Un ulteriore perplessità potrebbe sorgere per la posizione di dipendente pubblico. Si potrebbe, infatti, sostenere che l’articolo 10 del Codice di comportamento dei dipendenti pubblici stabilisce che ‘Nei rapporti privati … il dipendente non assume nessun altro comportamento che possa nuocere all’immagine dell’amministrazionè, in conseguenza il foglio di via poteva essere giustificato anche da questa norma. Ma questa tesi non sarebbe persuasiva, perché la violazione dell’articolo 10 potrebbe comportare una sanzione disciplinare o una condanna per danno all’immagine, ma non avrebbe rilievo per il provvedimento del foglio di via obbligatorio. In sintesi: la sentenza presenta un dubbio che però non dipende dalle argomentazioni dei giudici, ma dalla scarsa chiarezza normativa. È, infatti, la legge che dovrebbe prevedere l’esatto parametro normativo in base al quale le Autorità possono utilizzare il foglio di via obbligatorio nei confronti di persone che sono pericolose per la convivenza con gli altri cittadini. Le conseguenze per le autorità di Polizia. La sentenza è rilevante per le autorità di Polizia, che dovranno tenerne conto nei singoli punti della motivazione di eventuali provvedimenti di fogli di via obbligatori. Le considerazioni e i dubbi qui svolti sono rivolte al legislatore, ma esse valgono anche queste Autorità, che dovranno precisare con la massima attenzione i fatti e gli atteggiamenti che possono giustificare un provvedimento che limita una libertà costituzionalmente garantita. I criteri per determinare la competenza del tribunale per i minorenni Il Sole 24 Ore, 19 ottobre 2015 Competenza - Determinazione della competenza del giudice minorile o del giudice ordinario - Competenza del tribunale per i minorenni - Accertamento dell’epoca di commissione del reato - Incertezza non superabile - Individuazione - Dichiarazioni provenienti dall’imputato - Sufficienza - Esclusione. Ai fini della determinazione della competenza del giudice minorile o del giudice ordinario, l’incertezza insuperabile sull’individuazione del tempus commissi delicti, che impone, in applicazione del generale principio del "favor rei", l’adozione del provvedimento di trasmissione degli atti al Procuratore della Repubblica presso il Tribunale per i minorenni, non può discendere esclusivamente dalle dichiarazioni rese in proposito dall’imputato, a meno che le stesse non siano sorrette dai necessari riscontri, anche indiziari, purché specifici. • Corte di cassazione, sezione III, sentenza 28 luglio 2015 n. 33002. Competenza - Determinazione - Incertezza non superabile sull’individuazione del tempus commissi delicti - Competenza del tribunale per i minorenni - Sussistenza. L’incertezza insuperabile sull’individuazione del tempus commissi delicti, ove il dato rilevi per la determinazione della competenza del giudice per i minorenni o per il giudice ordinario, impone, in applicazione del generale principio del favor rei, l’adozione del provvedimento di trasmissione degli atti al Procuratore della Repubblica presso il Tribunale per i minorenni. • Corte di cassazione, sezione III, sentenza 23 gennaio 2012 n. 2690. Reato - Reato continuato - Reati commessi prima e successivamente al compimento del diciottesimo anno di età - Scindibilità della competenza fra Tribunale ordinario e per i minorenni - Sussistenza. Il reato continuato, composto da alcuni episodi commessi nel periodo in cui l’imputato era minorenne e da altri commessi successivamente al raggiungimento della maggiore età, va scisso ai fini della individuazione del giudice competente, in modo da attribuire la competenza a giudicare i primi episodi al tribunale per i minorenni e la competenza a giudicare gli altri episodi al tribunale ordinario. • Corte di cassazione, sezione II, sentenza 24 febbraio 2009 n. 8352. Reato - Reato continuato - Reati commessi prima del raggiungimento della maggiore età e altri commessi dopo - Scindibilità della competenza fra Tribunale ordinario e per i minorenni - Sussistenza. Qualora un reato continuato sia attribuito a un soggetto che era di minore età all’inizio dell’attività criminosa poi protrattasi con ulteriori reati aventi distinta autonomia, ma unificati dall’identità del disegno criminoso, è possibile scindere le condotte del soggetto e distinguere, pertanto, tra episodi realizzati in data antecedente ed episodi realizzati in data successiva al raggiungimento della maggiore età, attribuendo la competenza a conoscere i primi al Tribunale per i minorenni ed attribuendo la competenza a conoscere i secondi al Tribunale ordinario. • Corte di cassazione, sezione II, sentenza 19 aprile 2004 n. 18033. Messina: detenuto malato morto a Gazzi, è un vespaio di polemiche di Alessandra Serio tempostretto.it, 19 ottobre 2015 Il Tribunale di Sorveglianza replica alla denuncia dell’avvocato Andrè. E i penalisti bisticciano...Intanto un uomo malato è morto in cella, e il Garante dei diritti del detenuto non esiste ancora. Infuocano le polemiche dopo la morte del detenuto malato. La denuncia dell’avvocato Domenico Andrè, referente dell’Osservatorio carceri della Camera Penale, non poteva che avere replica da parte del Tribunale di Sorveglianza. E infatti Il presidente Nicola Mazzamuto "a nome dell’ufficio che si onora di rappresentare, nell’esprimere il sincero cordoglio ai familiari per la prematura scomparsa del congiunto Andrea M., deceduto nel corso della detenzione nel centro diagnostico e terapeutico annesso alla casa circondariale di Messina Gazzi - recita una nota ufficiale - afferma con inconcussa serenità che, nel caso presente come in altri casi, la magistratura di sorveglianza messinese, nelle sue componenti togate e laiche, ha applicato la legge con rigore e umanità intervenendo a più riprese per garantire la doverosa assistenza sanitaria del Mirabile e la sua più idonea allocazione penitenziaria, confida che i rappresentanti dell’Avvocatura messinese e italiana e lo stesso avvocato Andrè, nelle dovute sedi pubbliche, vogliano prendere le giuste distanze da una critica tanto infondata quanto oggettivamente offensiva nei modi e nei contenuti nei confronti del tribunale e dei suoi componenti, a fronte di un triste caso che esigerebbe la misura del giudizio informato e ponderato ed il rispetto della umana pietà". Dalle repliche allo scontro interno: la nota del Presidente della Camera Penale Pisani, Giuseppe Carrabba, intervenuto nella querelle, non è piaciuta all’avvocato Filippo Mangiapane, presidente della Nuova Camera Penale. Mangiapane, che risponde a Carrabba di non essere interessato ad aderire ad alcun organismo nazionale, "si dissocia, nel merito, all’iniziativa dell’avvocato Andrè". Il tono delle repliche incrociate ha messo quasi in secondo piano la morte del detenuto, spentosi in cella solo e malato. Eppure già da qualche anno i Radicali di Messina si battono perché anche a Gazzi venga riconosciuta e quindi istituita e fatta lavorare la figura del Garante dei diritti del detenuto. Tempio Pausania: due progetti di giustizia riparativa con scuola e carcere La Nuova Sardegna, 19 ottobre 2015 La partecipazione dei ragazzini alla vita e alla crescita della comunità e l’impegno dei detenuti in un processo di recupero sociale e della propria vita percorrono lo stesso binario: la collaborazione nel lavoro inclusivo. Questa attività si chiama giustizia riparativa. Ovvero, "la comunità che risponde ai bisogni di sicurezza e benessere di e per se stessa", come precisa il tema della giornata che la "settimana del benessere psicologico in Sardegna" ha promosso a Tempio Pausania per iniziativa congiunta dell’Università di Sassari, il Comune di Tempio e la Casa di reclusione di Nuchis. "Una sinergia - spiega Patrizia Patrizi, ordinaria di Psicologia giuridica nell’ateneo sassarese - che ha lo scopo di analizzare da più fronti sociali le necessità di sicurezza e benessere di tutta la comunità". Per mettere a frutto questi obiettivi nel territorio, gli operatori cercano di dare corpo ad alcuni progetti. Uno è generato dalla stessa università. Una prospettiva, spiega il coordinatore dell’Unità operativa di ricerca e del servizio riparativo e di ascolto dell’ateneo Gian Luigi Lepri, "che speriamo di realizzare la prossima primavera, attraverso un progetto di ricerca-pilota sull’utilizzo degli spazi urbani e sociali negli aspetti interelazionali a Tempio, coinvolgendo la città e le scuole". L’altro progetto è nelle aspettative di Giampaolo Cassitta, referente giustizia riparativa del servizio riparativo e di ascolto Sardegna: "Siamo partiti dall’idea di dire al detenuto "tu devi fare qualcosa, proviamo insieme a ricostruire". Lo abbiamo sperimentato con successo in tre carceri sarde, impegnando i detenuti con la realizzazione di prodotti". Ora Cassitta e i suoi collaboratori puntano sulla possibilità di potere utilizzare un centinaio dei 1200 ettari di Surigheddu, un terreno nel territorio di Alghero. "La legge - spiega Cassitta - prevede che il detenuto possa restituire qualcosa alla comunità: gli diciamo "scendi dalla branda, fai qualcosa". Un passaggio utile anche per eliminare la recidiva". Uno scenario sul quale domina (o, almeno dovrebbe) l’azione preliminare, il necessario lavoro sulla prevenzione, ha sottolineato il sindaco Andrea Biancareddu. Proprio da questi presupposti parte il lavoro sui ragazzi sul quale si è soffermata Pia Haudrup Christensen, docente di Antropologia e studi sui ragazzi dell’Università di Leeds. "La conoscenza locale dei bambini è un capitale. I ragazzi prendono coscienza della loro integrazione nei luoghi e vogliono essere parte dei processi di decisione. Ma ne sono invece esclusi a causa dell’età. Spesso noi adulti pensiamo che i ragazzi siano disinteressati alla vita della comunità. Occorre maggiore collaborazione inclusiva". Analogo il ragionamento applicato alla detenzione. "Ci siamo domandati come far diventare il luogo di pena una risorsa - osserva la direttrice della Casa circondariale Carla Ciavarella. Abbiamo cominciato ad ascoltare i detenuti senza dare nulla per scontato. Chiediamo loro periodicamente come si trovano, quale giudizio danno dei servizi forniti, insomma, pensiamo all’evento umano". Nel pomeriggio, nella casa circondariale, dopo la sesta conferenza riparativa, è stato inaugurato l’anno accademico: sono 24 gli studenti ospiti della Casa di reclusione. Alla cerimonia hanno preso parte gli psicologi consulenti del Servizio OrientAzione e dello sportello RiparAscoltando istituito nell’Osservatorio sociale sulla criminalità del Dipartimento PolComing dell’università di Sassari. L’incontro tra la comunità universitaria e quella penitenziaria ha confermato l’intento comune di "accompagnare in percorsi di integrazione responsabile, e il sostegno all’impegno di chi ha deciso di investire il tempo della pena nella cura della propria formazione". Merkel apre alla Turchia la porta d’accesso alla Ue di Luigi Offeddu Corriere della Sera, 19 ottobre 2015 Negoziati rapidi in cambio di aiuto sui profughi. Otto morti su un gommone in Libia, 112 sono stati salvati. Con migliaia di migranti bloccati fra i fili spinati dei Balcani, il Mediterraneo punteggiato di bare - ieri altri 8 morti, sette donne e un uomo, su un gommone alla deriva assieme ad altri 112 profughi messi in salvo dalla nave "Bersagliere" della Marina militare 130 miglia a sudest di Lampedusa - i confini che si chiudono come ai tempi della peste medievale, e i governi alla ricerca disperata dei grandi ideali che furono, la possibile svolta per l’Europa smarrita giunge ancora una volta da Berlino, o meglio da Istanbul dove Angela Merkel si è recata in visita ufficiale: 10 giorni dopo aver detto un rotondo "no" all’ingresso della Turchia nell’Ue, la cancelliera inverte la rotta e offre alla Turchia tutto il suo aiuto per accelerare l’adesione dell’ex impero ottomano alla famiglia dei 28 Stati. In cambio, chiede qualcosa di altrettanto concreto: il sostegno turco per arginare l’ondata dei profughi dal Medio Oriente, dal Centro Africa, dall’Asia, soprattutto per riaccettare quelli respinti indietro dai Paesi Ue. Berlino aspetta 800 mila nuovi arrivi, forse un milione, entro gennaio: ha aperto o socchiuso le sue frontiere, ha visto i gruppi neonazisti bruciare auto nei sobborghi di Dresda, sa bene di che cosa parla. Come d’altra parte sa bene che la mano tesa ai turchi potrebbe accendere nuove proteste nella grande coalizione guidata dalla cancelliera. A Bruxelles, per esempio, secondo il Financial Times la Commissione Europea starebbe già approntando un nuovo piano per ridistribuire - e però questa volta andandoli anche a prendere direttamente in Turchia, in Giordania, in altri Paesi - fino a 200 mila profughi che sognano un permesso di residenza e di lavoro nell’Unione Europea. Il negoziato Berlino-Ankara è già partito, classificato come "assai promettente" dalla stessa Merkel, di fronte allo sbigottimento di quei primi ministri che solo 4 giorni fa, all’ennesima cena-vertice di Bruxelles, ricamavano all’infinito su quante motovedette in più inviare al largo di Malta. Che quello della signora Angela sia pragmatismo, cinismo (come qualcuno a Parigi sostiene) o il dono dello sguardo storico in prospettiva ereditato da Bismarck, le carte ormai sono già sul tavolo. Nella conferenza stampa congiunta tenuta con il primo ministro turco Ahmet Davutoglu, la cancelliera ha parlato innanzitutto di una procedura accelerata per concedere permessi di ingresso senza visto ai cittadini turchi; e poi, appunto, di una forte spinta ai negoziati fra Bruxelles e Ankara, per l’adesione alla Ue, ormai da anni semi-arenati. Come in una partita di poker, Davutoglu ha "visto" l’offerta e ha scoperto qualcuna delle sue carte: potrebbe firmare quegli "accordi di riammissione" che gli Stati Ue attendono ansiosamente dalle rive del Bosforo, per allentare la pressione della marea umana. Ma la firma turca arriverà, ha precisato il premier, solo quando l’Ue concederà ai turchi la liberalizzazione totale dei visti. Merkel sembra molto sicura del suo nuovo progetto: "Penso che abbiamo usato la crisi che stiamo attraversando, causata da un movimento di profughi molto disordinato e incontrollato, per ricostruire una cooperazione più stretta su molti temi, sia fra l’Ue e la Turchia, sia fra la Turchia e la Germania". Sa di trovare orecchie molto attente nel Paese a cui si rivolge, circondato dai jet russi e dalle scimitarre dell’Isis: per Recep Tayyip Erdogan, il presidente alla vigilia di nuove elezioni, una porta europea socchiusa dagli eredi di Bismarck sarebbe la miglior risposta al grido lanciato poche ore fa: "Noi ne ospitiamo due milioni e mezzo, di migranti, e a nessuno sembra importare". Nei quartieri arabi la culla della violenza "abbandonati da tutti, così vince l’odio" di Jodi Rudoren La Repubblica, 19 ottobre 2015 Gerusalemme Est, da sempre cuore emotivo della vita palestinese, è oggi al centro delle preoccupazioni di moltissime persone. Chi vive in questa area è cittadino israeliano ma spesso si sente discriminato La barriera è stata voluta come protezione: però fa crescere la rabbia. Non solo perché la maggior parte dei giovani responsabili dell’ondata di attacchi a colpi di coltello di questo mese viene da dentro i confini della città, come lo studente 18nne a cui Israele ha revocato la residenza dopo che ha accoltellato un ebreo alla schiena. Ma anche perché vi abitano persone come Fuad Abu Hamed, un imprenditore di successo che condanna l’ondata di violenza, ma condivide la frustrazione e il senso di alienazione che sta alla base di questa nuova rivolta. Abu Hamed ha 44 anni ed è docente presso l’Università Ebraica che gestisce due cliniche nel sistema sanitario israeliano, e vive in una casa confortevole sulle affollate colline di Sur Baher, uno dei quartieri dell’area. Dal suo balcone si vede il disordinato espandersi delle enclave israeliane e il muro eretto da Israele per dividere Sur Baher dalla Cisgiordania. In questi giorni può anche vedere i soldati israeliani che hanno bloccato due delle uscite del quartiere e istituito un posto di blocco nella terza, rendendo la divisione psicologica della città ancora più concreta: "Il problema è la politica, perché qui un palestinese vive continuamente un sacco di problemi che non ti permettono di sentirti parte della città". A Gerusalemme Est il conflitto israelo-palestinese è più personale e più profondo che in altre aree di Israele. Per gli ebrei israeliani questa ondata di attacchi apparentemente casuali da parte di palestinesi è al tempo stesso una sfida difficile da contenere e un richiamo al dilemma eterno di una Gerusalemme unita. Per molti dei 320mila residenti arabi la violenza è una conseguenza di anni in cui si sono sentiti come dei figliastri trascurati sia dal Municipio di Gerusalemme, gestito dagli israeliani, che dall’Autorità nazionale palestinese, che ha sede in Cisgiordania e non può operare a Gerusalemme. Non si sentono voluti qui, né parte di ciò che vi accade. Le istituzioni civiche e culturali si sono trasferite anni fa nella città cisgiordana di Ramallah. Nella Gerusalemme Est araba ci sono troppo poche aule scolastiche e troppi abbandoni fra gli alunni. È difficile ottenere un permesso per ampliare la casa; 98 strutture illegali sono state demolite l’anno scorso. Tre quarti della popolazione vive sotto la soglia di povertà di Israele. Questi palestinesi sono visitatori abituali del sito sacro conteso della Città vecchia, dove i timori di una presa di possesso da parte di Israele hanno contribuito ad alimentare l’ultima esplosione di violenza. Parlano ebraico e, a differenza dei loro fratelli in Cisgiordania o nella Striscia di Gaza, hanno la residenza. Questo significa che possono lavorare e viaggiare ovunque in Israele, come gli altri cittadini: ma anche che hanno una percezione quotidiana di tutto ciò che non hanno. "Da un lato, sì, puoi accedere alla società israeliana, ma dall’altro sei più consapevole della discriminazione", dice Sari Nusseibeh, ex presidente della Al Quds University. L’aumento di aggressività non è iniziato con la ventina di attacchi che hanno ucciso sette ebrei dal 1 ottobre in poi. Gerusalemme Est è diventata un focolaio di violenza sin dal luglio del 2014, quando degli estremisti ebrei rapirono e uccisero Muhammad Abu Khdeir, un sedicenne arabo del quartiere di Shuafat. La polizia ha riferito di 1.594 incidenti con lanci di pietre a Gerusalemme Est negli ultimi tre mesi, contro i 1.216 avvenuti in 10 mesi del 2013; più di 700 persone sono state arrestate per disordini a Gerusalemme nello stesso periodo nel 2014. La polizia dice di aver proceduto a 380 arresti fra il 13 settembre e il 15 ottobre di quest’anno, 171 dei quali relativi a minorenni. Yehuda Yemini, che ha lavorato per 15 anni a Gerusalemme Est per l’agenzia di sicurezza israeliana Shin Bet, lamenta "l’incitamento tossico" che pervadeva i libri di testo nelle scuole arabe fino a pochi anni fa. "C’è una generazione che è cresciuta con il messaggio che un ebreo è qualcuno che viene a fare loro del male e a mettere in pericolo la loro religione", dice. "E c’è un conflitto tra l’Israele moderno, dinamico che vede ogni cittadino arabo-israeliano vede tutti i giorni davanti a sé e l’idea inculcata che c’è un cattivo Israele che non bisogna far vincere". La Gerusalemme Est araba non è un singolo posto, ma una serie di una ventina di satelliti diversi. Ci sono zone come Sur Baher, Jabel Mukhaber e Al-Issawiya, dove raramente gli israeliani si avventurano, ma anche luoghi di livello relativamente alto e accessibile come Beit Hanina, dove vivono gli operatori umanitari internazionali e diplomatici e gli israeliani si affollano per comprare l’hummus. C’è l’irrequieto campo di rifugiati di Shuafat dove regna la droga. E c’è la Città Vecchia, dove le strade di ciottoli sono stranamente vuote da quando sono iniziati gli accoltellamenti. Israele ha conquistato tutto questo alla Giordania nella guerra del 1967, e ha ampliato i confini di Gerusalemme da 6 a 70 chilometri quadrati. L’annessione israeliana fu respinta dalle Nazioni Unite, e la maggior parte del mondo considera questa zona occupata. I leader israeliani affermano che tutta questa è la loro capitale indivisa. I palestinesi vedono Gerusalemme Est come la capitale del loro futuro stato. E le road map della diplomazia internazionali per la pace prevedono il controllo palestinese delle aree arabe e il controllo israeliano per quelle ebraiche, con un regime speciale per la Città Vecchia e i suoi dintorni. Muro a Gerusalemme per fermare gli attacchi "ma sarà temporaneo" di Fabio Scuto la Repubblica, 19 ottobre 2015 Isolata a est la zona da dove partono i lupi solitari. Ucciso un altro israeliano. L’Is: "Colpite gli ebrei". "Blocco di polizia temporaneo" recita la scritta con la vernice sugli alti blocchi di cemento che da ieri mattina separano il quartiere arabo di Jabal Mukaber da quello ebraico di Armon Hanatziv. Le lastre di cemento servono ad evitare il lancio di pietre e molotov verso la zona ebraica, dice la portavoce della polizia, "sono temporanee e rimovibili quando la situazione sarà più calma". Queste strade sono state teatro di 3 attentati in 4 giorni. È da Jabal Mukaber che sono venuti almeno 6 dei "lupi solitari" palestinesi che hanno colpito in queste settimane. Ingresso e uscita da questo termitaio - dove non c’è luce per le strade e i rifiuti non vengono raccolti - sono già strettamente sorvegliati da check-point da diversi giorni così come gli altri quartieri arabi della Città Santa. Isolare la parte Est è un’immagine che fa svanire l’idea di una Gerusalemme unificata. La "linea di demarcazione" virtuale si estende per circa 12 chilometri, dal quartiere di Beit Hanina nel nord, costeggia i bordi della Città Vecchia e arriva a Jabal Mukaber nel sud. Ieri nella Città Santa è stata una giornata relativamente tranquilla, ma nel sud, a Beersheva, 2 terroristi palestinesi hanno colpito. I due hanno agito in punti diversi della zona, prima con i coltelli e poi con una pistola. C’è stato un morto israeliano e 6 feriti, 4 sono agenti intervenuti per bloccare i 2 assalitori. Uno di loro è morto, l’altro è ferito. Mentre sul web l’Is ha lanciato un video rivolto ai "Mujaheddin di Gerusalemme", che "elogia gli attacchi" e invita a "decapitare ebrei". Ieri c’è stata anche guerriglia a Hebron fra coloni e palestinesi, scontri con l’esercito israeliano a Betlemme, Qalandia e Tulkarem. Le violenze non sembrano scemare: la diplomazia stenta a trovare il bandolo da cui far ripartire il dialogo. Ieri mattina il premier Netanyahu ha respinto la proposta francese all’Onu di istituire un gruppo di osservatori internazionali nei luoghi sacri di Gerusalemme, al centro di quest’ondata di violenze. Occhi puntati allora all’incontro che mercoledì Netanyahu avrà con il capo della diplomazia Usa John Kerry a Berlino. Nei giorni successivi Kerry vedrà anche il presidente Abu Mazen ad Amman. Turchia: arrestate a Istanbul 50 persone accusate di legami con lo Stato islamico Nova, 19 ottobre 2015 La polizia turca ha arrestato una 50na di cittadini stranieri a Istanbul questa mattina nel corso di un’operazione volta a smantellare una rete di jihadisti dello Stato islamico, sospettata di coinvolgimento negli attentati di Ankara del 10 ottobre scorso. Secondo quanto riferito dall’emittente televisiva "Ntv", i raid della polizia si sarebbero concentrati nel quartiere di Pendik, situato nella parte asiatica di Istanbul. Al momento non si hanno informazioni sulla nazionalità e dei detenuti e sull’esito degli interrogatori della polizia che sarebbero tuttora in corso. L’agenzia di stampa "Dogan" riferisce che i sospetti si apprestavano a recarsi in Iraq e Siria per unirsi alle fila dello Stato islamico.