Giustizia: nel nuovo codice penale contro i reati finanziari si punta sulla prevenzione di Andrea R. Castaldo Il Sole 24 Ore, 18 ottobre 2015 La recente produzione normativa nel campo del diritto penale ed economico non brilla per sistematicità. Il risultato non voluto dal legislatore, forse involuto, è di difficile decifrazione. Emerge in sintesi un pendolarismo preoccupante. Infatti, accanto a interventi di respiro generale dall’obiettivo di deflazionare il carico processuale (per esempio, l’istituto della particolare tenuità del fatto), si scorgono iniezioni di maggiore severità e deterrenza, attraverso la nuova fattispecie del falso in bilancio o l’inasprimento delle sanzioni in tema di reati di corruzione. Ma è soprattutto la prevenzione a fare la parte del leone, sotto molteplici profili. Innanzitutto, con l’estensione delle misure patrimoniali di sequestro e confisca anche a forme ulteriori di pericolosità sociale, quali l’evasione fiscale di professione, secondo almeno l’orientamento della Corte di cassazione. Inoltre, nella legislazione antiriciclaggio, con il sistematico ampliamento degli obblighi di collaborazione attiva e delle segnalazioni di operazioni sospette alla Uif. Per finire con le procedure di risk analysis, poteri di controllo e connesse responsabilità del decreto legislativo 231/2001. Lo schema pensato per il settore privato di organizzazione e gestione del rischio e di un organismo di vigilanza chiamato a impedire la commissione di illeciti viene del resto replicato nell’ambito pubblico. I piani anticorruzione e le circolari in argomento tendono infatti ad accollare la prevenzione del reato all’intraneus all’organizzazione: se appare, in una prospettiva politico-criminale, discutibile nell’area privata, diventa poco giustificabile in quella pubblica, dando l’idea di uno Stato che ritrae il proprio modulo di tutela, addossandolo al cittadino che dallo Stato dovrebbe essere difeso. Il regolamento in materia di rating di legalità, attualmente in consultazione pubblica per la revisione, analogamente trasferisce oneri in capo all’impresa che voglia guadagnare credito in tema di trasparenza e correttezza. L’idea è buona nell’ottica di implementare virtuosismi etici, ma rischia di creare ulteriore burocrazia, controlli periodici e ripetitivi con il connesso pericolo di generare contenzioso. E la contropartita per l’impresa in termini premiali andrebbe significativamente accresciuta. Meccanismo simile si rinviene nella procedura di interpello tributario (decreto legislativo 156/2015). Anche in questo caso, il lodevole intento di ridurre le cause tributarie grazie alla richiesta preventiva di chiarimenti sull’interpretazione di norme fiscali si scontra con la macchinosità dello stesso. Peraltro, l’accountability gioverà se non altro sotto il profilo della mancanza dell’elemento psicologico, poiché sarebbe illogico sostenere che il contribuente uniformatosi al parere dell’amministrazione e ciononostante incappato nel procedimento penale abbia agito con dolo. Sarebbe perciò auspicabile l’introduzione di un’esplicita previsione di esclusione della punibilità in tali casi. Ma soprattutto le riforme in essere dovrebbero ispirarsi auna profonda rivoluzione culturale e di costume, basata sul principio di uno Stato non occhiuto e sospettoso del cittadino, ma che al contrario, consapevole della sua difficoltà di orientarsi sulla scena normativa, si adoperi per aiutarlo. Dunque, non un potenziale delinquente chiamato a giustificarsi, ma un cittadino normale alle prese con un sistema normativo di difficile decifrazione, da aiutare al meglio. Giustizia: Legnini (Csm) "l’illegalità frena l’economia, puntare sulla prevenzione" di Tiziana Testa La Repubblica, 18 ottobre 2015 Il vicepresidente del Csm dice che la repressione non basta più. Ammette che dopo Mani pulite gli sforzi di contrastare il fenomeno sono stati fallimentari e che anche all’Aquila ci sono stati tentativi di infiltrazione della criminalità. Ma si dice fiducioso sul futuro. Ed elogia l’operato della procura di Roma. Su Marino: "È una persona onesta" L’illegalità che frena la crescita del Paese. L’abruzzese Giovanni Legnini, vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura - ed ex sottosegretario all’Economia - faccia a faccia con il giornalista Attilio Bolzoni. Uno deglli appuntamenti di Repubblica delle idee per riflettere sul fardello che pesa sull’Italia, nonostante inchieste e arresti. Una giornata che ha visto anche l’intervento del procuratore di Torino, Armando Spataro - con Liana Milella e Piero Colaprico - con un affondo sui tentativi di limitare le intercettazioni. E l’incontro sull’Aquila, con Giuseppe Caporale, Michele Smargiassi e il fotografo Gianni Berengo Gardin, che ha raccontato il capoluogo abruzzese prima e dopo il sisma. "Non è solo più un fatto criminale, il malaffare", è l’esordio di Legnini, "ma un fenomeno che ha un impatto sul Pil - Confindustria lo stima intorno allo 0,6-0,7 per cento - pesa sull’appeal del nostro sistema rispetto agli investimenti esteri, sul gettito dell’erario. Quindi il contrasto alla corruzione coincide anche con lo sforzo del nostro Paese di tornare a crescere". Il costo della corruzione - aggiunge Bolzoni - sfiora i 70 miliardi in Italia, che è una cifra pari alla metà di quella europea. Che Paese siamo? Qual è la linea sulla prevenzione? Per Legnini è impossibile definire l’impatto preciso di un fenomeno sommerso come quello della corruzione, che ha assunto forme molteplici, si insinua nei mille rivoli delle spesa pubblica. Certo, dopo Mani Pulite i tentativi di arginarla si sono rivelati un fallimento. Il malaffare è diventato più pericoloso, tendendo a dilatarsi come dimostrano Mafia Capitale, l’Aquila, il Mose a Venezia, fenomeni peraltro diversi. Secondo il numero due del Csm, comunque, la battaglia può essere vinta. E la grande novità è il riequilibrio tra prevenzione e repressione: "Per molti anni si è insistito sul contrasto, oggi finalmente si è scelto di ideare strumenti diversi con l’Anac, e un sistema di norme che conducono verso la responsabilizzazione dell’impresa. Talvolta introdotte per legge, altre volte per via regolamentare". E invoca l’interdizione a vita dalle gare d’appalto per gli imprenditori corrotti e il licenziamento dei funzionari condannati. Legnini ritiene che anche all’Aquila - dove sono stati spesi 14 miliardi dopo il sisma - forze dell’ordine e magistrati abbiano dato una prova di efficacia. "È emerso un coinvolgimento di funzionari pubblici, c’è stato un tentativo molto serio di infiltrazioni criminali, ma in parte sono stati arginati. La parte più delicata - insiste Legnini - riguarda la ricostruzione privata: lì la persona da corrompere non è il funzionario pubblico ma è l’amministratore di condominio, il proprietario che gestisce quelle risorse. Estendere la disciplina pubblica all’appalto privato avrebbe conseguenze negative, con una burocratizzazione del sistema. Ma una parte delle norme può essere recepita, ad esempio assimilando l’amministratore di condominio al funzionario pubblico". E sul capoluogo abruzzese conclude: "La guardia comunque non può essere abbassata, anche perché la ricostruzione non è conclusa, ma durerà per almeno otto, nove, dieci anni". La cultura dell’emergenza spesso aiuta il dilagare della corruzione, incalza Bolzoni. "Può essere anche il caso di Expo?". Per Legnini su Expo - salvo sorprese - c’è stata una duplice azione efficace sia per la prevenzione che per la repressione. Ma sicuramente l’enorme dilatazione degli strumenti emergenziali va combatutta: "Una volta bastava un decreto del cdm per definire qualsiasi evento come grande evento. Poteva diventarlo anche una visita del Papa. Per fortuna, a partire dal governo Monti, questa pratica è stata interrotta. Ma dobbiamo tenere presente che ci sono emergenze vere, che richiedono interventi urgenti, come ci viene spesso sollecitato dalla Protezione civile. Negli anni prossimi bisognerà far crescere la cultura della legalità anche negli interventi emergenziali". Infine, il capitolo Roma. Per Legnini c’erano già avvisaglie di quanto sarebbe accaduto con Mafia capitale. Per il vicepresidente del Csm - che tra luglio 2013 e settembre 2014 si occupò dei problemi finanziari del Comune per conto del governo - quel mare di società partecipate e affidamenti erano un sintomo molto chiaro. Parole di lode poi per l’operato della magistratura "quest’inchiesta rappresenta un esempio di come bisogna condurre un’indagine". E su Marino, una frase significativa: "Lo conosco. è una persona onesta". Giustizia: Legnini (Csm) "licenziare i funzionari disonesti e colpire il loro patrimonio" di Giuseppe Caporale La Repubblica, 18 ottobre 2015 Il vicepresidente del Csm: "Fermare il malaffare è una priorità nazionale. Non basta il carcere servono le misure utilizzate nella lotta alle mafie". Licenziare i funzionari pubblici corrotti e aumentare le misure interdittive e patrimoniali perché "la risposta penale e detentiva da sola non basta contro la corruzione. Ed è sicuramente più efficace se combinata con sanzioni di altro genere". E poi prendere a modello l’inchiesta "mafia capitale" come metodo di lavoro investigativo per debellare i fenomeni criminali nella pubblica amministrazione. Dal palco della Repubblica delle Idee Giovanni Legnini, vicepresidente del Csm traccia una via alternativa alla lotta all’illegalità. "Nel contrasto alla corruzione l’Italia deve diventare un modello, anche mutuando istituti adattati finora alla lotta contro le mafie" ha sottolineato il numero uno di Palazzo Marescialli. Durante il faccia a faccia con Attilio Bolzoni, ha spiegato poi che "il malaffare toglie soldi dalle tasche dei cittadini, seppure ancora non ci sia al riguardo una consapevolezza diffusa nel Paese". "La corruzione è un problema nazionale non solo sotto l’aspetto morale come è evidente, ma soprattutto dal punto divista economico. L’illegalità si alimenta di criminalità, corruzione ed evasione in primis, e viene stimata intorno ai 120 miliardi di euro", ha aggiunto Legnini. "Larga parte del futuro dei nostri giovani dipende dall’efficacia della prevenzione, contrasto e repressione di queste condotte. Riforme costituzionali e abolizione delle tasse sulla prima casa sono argomenti di certo rilevanti, ma dovrebbe essere la lotta all’economia illegale la vera missione nazionale". Legnini ha poi voluto sottolineare l’efficacia del "tribunale delle imprese" istituito di recente e che "ha portato alla risoluzione entro un anno dell’83 per cento dei contenziosi". Durante l’intervista si è poi discusso del post terremoto all’Aquila, dove sono stati già spesi oltre 14 miliardi di euro di fondi pubblici e dove il rischio corruzione è altissimo: "La parte più delicata riguarda la ricostruzione privata: lì la persona da corrompere è l’amministratore di condominio, il proprietario che gestisce quelle risorse. Serve una norma chiara per assimilare l’amministratore di condominio al funzionario pubblico". Non è mancato un riferimento alle vicende di Roma e alle dimissioni del sindaco Ignazio Marino. "E persona che conosco e stimo", ha chiosato Legnini, "a mio avviso non si è dimesso per vicende giudiziarie ma per ragioni politiche". Giustizia: il cadavere a terra ignorato per ore e la zona grigia intorno alla camorra di Marco Demarco Corriere della Sera, 18 ottobre 2015 Succede una cosa paradossale sul fronte dell’anti-camorra. A Napoli, ancora ieri un ragazzo di 24 anni, Domenico Aporta, è stato ucciso in un agguato e il fratello ventenne, Mariano, ferito a un braccio; il cadavere di Aporta, che aveva precedenti per rapina e stupefacenti, è rimasto a terra per ore senza che nessuno chiamasse la Polizia anche se un proiettile si è conficcato nella persiana di un’abitazione. Il governo potrebbe mobilitare l’esercito. Potrebbe. Ma la città non gradisce. Lascia cadere. Convinta di far bene, due settimane fa la ministra Pinottì ha spiegato che mille militari erano pronti ad intervenire. E giorno dopo, nonostante una tiepida adesione del governatore Vincenzo De Luca, il discorso era già chiuso. Archiviato. L’esercito è impegnato a Milano a difesa dell’Expo e sarà utilizzato a Roma per il Giubileo. Ma a Napoli si fa fatica ad accettarlo, nonostante la pesantezza del clima: Nunziata D’Amico, 37 anni, reggente dell’omonimo clan, è stata uccisa a Ponticelli ad appena 12 giorni, come ha notato il Corriere del Mezzogiorno, dall’ultima visita, nello stesso quartiere, del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Le ragioni di tanta inspiegabile nonchalance sono molte, ma soprattutto va considerata la natura stessa della camorra, che da fenomeno ambiguo spesso induce all’ambiguità, e dunque alla sottovalutazione o al falso pudore. Era camorra quella con la coccarda tricolore reclutata dal prefetto Liborio Romano ai tempi di Garibaldi, ma è camorra anche quella dei grandi broker che agiscono sul mercato globale. Allo stesso tempo, abbiamo l’impressione di sapere tutto, e invece troppe cose della camorra ancora ci sfuggono. Perché tanta "violenza pervertizzata", come dicono gli psichiatri? Perché tanto primitivismo ostentatamente trascinato nella modernità? E perché fa affari ovunque, si internazionalizza, ma non abbandona mai i vicoli di Forcella, i "bassi" della Sanità e le case popolari di Rione Traiano? In "Vite violente, psicoanalisi del crimine organizzato", un libro recente, Giovanni Starace fa rispondere a Giovanni Melillo, già pm antimafia a Napoli. "Dopo venti anni che mi occupo di questo - dice Melillo - l’idea che un certo grado di conflittualità sia messo in conto come tributo da versare all’azione repressiva dello Stato non mi pare così peregrina". Il riferimento è all’eterno ripetersi di faide tra i clan, e l’ipotesi è che tutto ciò possa addirittura rivelarsi come una sorta di infernale messinscena, alimentata dal "narcisismo ferito" dei boss locali per distogliere lo sguardo dagli affari planetari. Luciano Brancaccio e Carolina Castellano la mettono così. Bisogna aggiornare l’idea di camorra, perché, dicono, ormai "narrazioni letterarie e narrazioni mitiche si contaminano con l’esperienza storica e si condizionano reciprocamente". I due ricercatori hanno curato una raccolta di saggi interdisciplinari titolata "Affari di camorra" (Donzelli editore) e ciò che suggeriscono è di evitare la trappola di concezioni cristallizzate. Fino agli anni 80 del secolo scorso, del resto, essere camorristi non era un reato. Era considerato un modo di vivere la cultura locale. Lo Stato puniva per una rapina o un omicidio, non per l’appartenenza a un potere strutturato. Mancava l’idea stessa di organizzazione criminale. Poi però l’idea è venuta e nel 1982, con l’approvazione dell’articolo 416 bis del codice penale, è iniziata la stagione dei grandi processi e dell’antimafia di massa, che è arrivata fino a Roberto Saviano e "Gomorra. La serie". Lungo questa strada, spiegano Brancaccio e Castellano, "abbiamo assistito a un’eccessiva reificazione del concetto di gruppo mafioso, fino a dargli tratti di alterità e autonomia rispetto al contesto". Insomma, si è esagerato e semplificato nell’identificazione del nemico. Oggi, dicono gli autori dei saggi di "Affari di camorra" (Stefano Consiglio, Stefano D’Alfonso, Ernesto De Nito, Gabriella Gribaudi, Vittorio Marrone, Giovanni Starace, Anna Maria Zaccaria) il contesto è cambiato. Cresce a dismisura l’area cosiddetta grigia, quella della contiguità. Oggi c’è il commerciante, non affiliato, che minaccia il concorrente fino ad accoltellarlo. C’è l’imprenditore che ha a che fare con più di 40 clan, e di fatto li "governa". E c’è l’avvocato dei boss, che si comporta da camorrista pur non essendo stato imbeccato, dicono i giudici, dai vertici dell’organizzazione. Il caso specifico è quello dell’avvocato condannato per aver minacciato Saviano e che Saviano, nella sua concezione "sistemica" non a caso si rifiuta di immaginare come soggetto "autonomo". "Siamo su confini mobili" avvertono Brancaccio e Castellano, il che vuol dire che non siamo più in un romanzo o una serie tv, con i buoni da una parte e i cattivi dall’altra. E se è così che evolvono le cose, dire no all’esercito, fosse solo per dare una mano alle forze di polizia, è un lusso che Napoli non può permettersi. E non solo Napoli, a dirla tutta. Giustizia: Don Ciotti (Libera) "questa miseria ladra si batte con un reddito di dignità" di Roberto Ciccarelli Il Manifesto, 18 ottobre 2015 Nella giornata mondiale contro la povertà Don Ciotti rilancia la campagna Miseria Ladra per un reddito di dignità. Aperto un fronte comune con la Caritas e l’alleanza contro le povertà. Rodotà e Landini, intervenuti all’assemblea al teatro Ambra Jovinelli a Roma, critici sulla legge di stabilità. Il fatto nuovo registrato all’assemblea romana della campagna "Miseria ladra", tenutasi ieri al teatro Ambra Jovinelli in occasione della giornata mondiale contro la povertà, è che la Caritas e l’Alleanza contro la povertà (una rete in cui ci sono anche Cgil-Cisl-Uil) lavoreranno insieme a Libera di Don Ciotti e a tutti i movimenti promotori del "reddito di dignità" (tra cui la Fiom di Landini e la "coalizione sociale"). Fino ad oggi le ipotesi del Reddito di inclusione sociale (Reis), sostenuto dalla Caritas contro la povertà assoluta e quello di reddito minimo sostenuto da Libera (e dal Bin, Basic-Income Network Italia, già tra i protagonisti della raccolta firme per la proposta di legge di iniziativa popolare che ha portato alla proposta di legge oggi sostenuta da Sel in parlamento) non hanno dialogato. All’assemblea di "Miseria Ladra" Don Ciotti ha confermato tale possibilità: "La Caritas e l’Alleanza vanno in direzione del nostro progetto" ha detto. Il vice direttore vicario della Caritas italiana Francesco Marsico ha sostenuto: "La proposta di reddito di dignità costa 14 miliardi di euro all’anno - ha detto - il nostro Reis ne vale 7. Faremo una parte del percorso insieme, sugli altri 7 miliardi vedremo cosa fare". Nel panorama della lotta contro la povertà, per il diritto a una tutela universale contro la disoccupazione e il ricatto del lavoro precario, si tratta di una novità di grande spessore politico. Unire nello stesso percorso le 1600 associazioni antimafia coordinate da Libera e dal Gruppo Abele alle reti della Caritas, senza dimenticare i partiti, le associazioni e i movimenti sociali che sostengono la proposta del reddito minimo, significa creare un fronte unico. La notizia avrebbe potuto diventare una novità politica se si fosse tenuta la manifestazione nazionale contro la povertà e per il reddito originariamente annunciata dalla "coalizione sociale" e da Libera. Le ragioni per cui non è stata organizzata non sono note ufficialmente. Ufficiosamente, si parla di dissidi interni non meglio specificati e idee diverse sull’opportunità di organizzare un corteo a Roma in questo momento. Una situazione di stallo che indebolisce il grande lavoro politico e culturale svolto in questi anni. Il sentore di una svolta che ha portato a considerare in maniera coordinata un’iniziativa contro la povertà assoluta e un’altra a favore del reddito minimo era stato già avvertito quando la Caritas ha valutato positivamente l’iniziativa del Movimento 5 Stelle sul "reddito di cittadinanza". In realtà si tratta di un reddito minimo che presenta tra l’altro seri rischi di una deriva "workfarista", come del resto tutte le ipotesi di reddito minimo quando non rientrano in una rigorosa politica attiva attenta ai diritti della persona e non inteso come un sussidio ai disoccupati in cambio di un lavoro socialmente utile o una formazione astratta e obbligatoria. Ad avere creato le condizioni della svolta è stato l’atteggiamento del governo Renzi che nella legge di stabilità ha deciso si stanziare contro la povertà solo 600 milioni di euro nel 2016 che aumenteranno a 1 miliardo nel 2017 e 2018. Si apre inoltre alla possibilità di finanziamento delle fondazioni bancarie. Sono misure esigue, oltre che ambigue, che confondono il pubblico con il privato, la finanza con il welfare, interni a un’impostazione neoliberista. Le criticità della politica sociale e fiscale del governo sono emerse in tutti i 25 interventi all’assemblea di "Miseria ladra". Don Ciotti ha polemizzato con Renzi sul fatto che il "reddito di dignità" "non è elemosina, ma giustizia sociale", "non è assistenzialismo, ma un investimento sulla speranza". "Le politiche sociali non sono un lusso". Vibrante è stato l’intervento del giurista Stefano Rodotà che dal palco dell’Ambra Jovinelli ha precisato che una misura come il reddito minimo (per non parlare di quello di cittadinanza) è coerente con l’articolo 36 della Costituzione sulla dignità della persona. Questa è l’unica risposta a Renzi che ha definito "incostituzionale" il reddito solo per stigmatizzare, alla sua maniera, la proposta dei Cinque Stelle, opponendola a una visione "lavorista" della Costituzione. Il reddito di cittadinanza è un’erogazione incondizionata di reddito a tutti i residenti, non vincolata alla formazione e al lavoro come accade nel caso del reddito minimo. "Renzi dice che Bruxelles non deve stabilire le nostre scelte economiche - ha proseguito Rodotà - È vero, ma se Renzi avesse detto lo stesso per la Grecia ridotta a un protettorato e costretta a firmare il memorandum l’Europa oggi sarebbe diversa". Rodotà ha infine sollecitato a prepararsi per la battaglia referendaria sul referendum costituzionale. Landini ha definito la legge di stabilità "un’occasione mancata" per le politiche di crescita, mentre il taglio dell’Imu-Tasi "aumenta le diseguaglianze" "Renzi introduce l’idea che chi ha la prima casa non paga nulla, mentre in Italia c’è gente che non arriva a 500 euro al mese". Per il segretario della Fiom sono queste le ragioni che "rendono la proposta di coalizione sociale ancora più forte". Giustizia: processo a Erri De Luca; dignità umana o ordine pubblico, la scelta del giudice di Patrizio Gonnella (Presidente di Antigone) Il Manifesto, 18 ottobre 2015 Erri De Luca domani sarà giudicato dal Tribunale di Torino. È accusato di istigazione a delinquere per avere affermato in un’intervista che "la Tav va sabotata". Il pm ha chiesto che sia condannato a otto mesi di carcere. Dunque in un’aula di giustizia si confrontano la libertà di pensiero ed espressione da un lato e l’esigenza di ordine pubblico dall’altro. Ogni limite alle libertà di pensiero ed espressione, fondative della democrazia costituzionale, deve rispondere alla necessità di tutelare beni o interessi di valore superiore. Nulla è più evanescente invece della clausola "ordine pubblico". La parola "ordine" evoca una sorta di disposizione immodificabile delle cose il cui garante è lo Stato sovrano. È una clausola di salvaguardia tipica dei regimi che vivono di sostanzialismo. Consente a questi ultimi di travalicare i limiti della discrezionalità e sconfinare nell’arbitrio sanzionatorio senza troppe giustificazioni di diritto. È una clausola che le democrazie dovrebbero non avere nei propri codici o quanto meno usarla eccezionalmente, ovvero "cum grano salis". Ogni limite alla libertà di pensiero ed espressione è una sconfitta per la democrazia stessa. È una vittoria dello Stato inteso come esercizio della forza rispetto allo Stato inteso come autorità legittimata. È una vittoria di Pirro. È la rivincita della sovranità illimitata sulla libertà individuale. Dunque lo Stato, nelle sue varie articolazioni ivi compresa quella giudiziaria, dovrebbe essere molto cauto nel ricorrere alla nozione di ordine pubblico per limitare la libertà di pensiero ed espressione. Punire una persona per i suoi pensieri e le sue parole significa mettere a rischio l’origine liberal-democratica e la natura costituzionale dello Stato stesso. È questa la responsabilità che domani è nelle mani di chi deve giudicare Erri De Luca. Dovrà decidere se stare dalla parte della libertà, nelle sue varie e sconfinate forme, o dalla parte della sovranità, con tutte le sue deformazioni totalizzanti. Esiste uno strumento giuridico e filosofico a disposizione di chi deve scegliere se stare da una parte o dall’altra del conflitto. Questo strumento si chiama dignità umana. Nel dubbio di una decisione complessa il riferimento alla dignità umana aiuta chi giudica a farlo ponderatamente. In casi ben più complessi, dove confliggevano libertà e sicurezza, la Corte Europea dei diritti umani ha affermato che la decisione finale va presa sempre promuovendo o proteggendo la dignità umana, bene assoluto non eccepibile e indisponibile. Negare la libertà di pensiero e di parola significa dimezzare la dignità umana. L’uomo è fatto di corpo e coscienza. Negare la libertà di coscienza significa ridurre l’uomo a cosa, ridimensionarlo da fine a mezzo. Dunque condannare Erri De Luca significa far vincere lo Stato sulla persona, la sovranità sulla libertà, la sicurezza sulla dignità umana. Qualora Erri De Luca fosse condannato per le sue parole sarebbe un prigioniero di coscienza che l’Italia si porterebbe sulle proprie spalle. Erri De Luca ha sempre affermato che qualora condannato non si appellerà a nulla e a nessuno per evitare la condanna. La sua scelta socratica metterebbe a nudo il potere e il suo arbitrio. Domani in un’aula di giustizia si discute e si mette in discussione tutto questo. Vedremo se vince la libertà della persona o prevale la forza delle istituzioni. Giustizia: Mafia Capitale, un processo incostituzionale da Giunta dell’Unione Camere Penali camerepenali.it, 18 ottobre 2015 Con l’esperimento romano si cerca di rendere universale un modello di processo che "militarizza" l’azione penale e che impone ai dibattimenti una devastante logica "securitaria" articolata attraverso una pratica estesa ed incondizionata del "processo a distanza". Sin dai suoi primi lampeggiamenti mediatici, con arresti in diretta e distribuzione di materiali investigativi alla Stampa, ci è sembrato evidente che "Mafia-Capitale" non fosse un evento di cronaca giudiziaria tra i tanti, ma un processo che avrebbe segnato una svolta qualitativa nei rapporti fra Politica e Magistratura, fra Media e Procure, e che soprattutto avrebbe rappresentato un esperimento di quelle nuove forme di processo già prefigurate da alcune norme all’esame del Parlamento. Abbiamo subito detto che con "Mafia Capitale" si voleva forzare la mano ai ritardi ed ai tentennamenti con i quali il Legislatore rispondeva alla richiesta di equiparare i reati contro la Pubblica Amministrazione ai reati di mafia con conseguente adozione di tutti gli strumenti giudiziari, processuali, investigativi e di prevenzione previsti dalla legislazione speciale, facendo sì che i fatti corruttivi venissero interpretati tutti in chiave mafiosa. D’altro canto, le Procure antimafia segnalano da tempo che, per combattere la corruzione, occorre esportare le regole del "doppio binario" nei procedimenti che riguardano i reati contro la Pubblica Amministrazione, aprendo la strada ad una estensione di tali regole a fenomeni delittuosi totalmente diversi e disomogenei, con l’evidente rischio di destabilizzare il già precario equilibrio dell’intero sistema processuale. Con l’esperimento romano si cerca, dunque, di rendere universale un modello di processo che "militarizza" l’azione penale e che impone ai dibattimenti una devastante logica "securitaria", articolata attraverso una pratica estesa ed incondizionata del "processo a distanza", priva di effettive ragioni o, peggio, fondata su ragioni ed esigenze suscettibili di ben più ragionevole risposta, il che finisce con il trasformare il processo penale in un penoso simulacro. Tale estensione, già oggetto di una previsione normativa di modifica dell’art. 146 bis disp. att., sulla quale l’Ucpi ha già espresso la sua più ferma contrarietà, collide con i principi cardine del contraddittorio e dell’immediatezza e mortifica in maniera evidente il diritto di difesa, mostrando, come da noi più volte denunciato, i suoi evidenti tratti di incostituzionalità. Allo stesso modo, non può essere sottaciuto l’uso distorto del principio della "ragionevole durata", in base al quale si impongono ritmi incongrui al dibattimento, trasformando di conseguenza l’art. 111 della Costituzione, da strumento di garanzia per l’imputato, in un improprio strumento di limitazione dei suoi diritti e di violazione del giusto processo. Né può, infine, tacersi, in tale contesto, degli attacchi subiti dall’avvocatura romana da parte di chi, mistificando le ragioni della protesta, ha ritenuto di assimilare impropriamente l’avvocato con il proprio assistito e la difesa dei diritti con la difesa dei reati, dimostrando con inammissibili offese la sua insofferenza per la funzione difensiva e la incapacità di cogliere il significato più alto delle battaglie dell’avvocatura penale, coltivate in uno spirito di assoluta indipendenza e condotte ad esclusiva difesa di valori che tutelano la intera collettività e che sono patrimonio intangibile e condiviso di ogni società civile. Poste tali premesse, l’Unione della Camere Penali ritiene di dover fornire il suo più ampio e convinto appoggio e la sua incondizionata adesione alla iniziativa della Camera Penale di Roma che con la sua delibera di astensione dalle udienze ha inteso denunciare con forza lo stravolgimento di regole processuali poste a presidio del giusto processo e delle garanzie di difesa di ogni imputato, riservandosi ogni ulteriore intervento per la tutela degli indeclinabili principi costituzionali posti a presidio del processo e della funzione difensiva. Biella: detenuto appicca il fuoco alla cella per protesta, è di nuovo caos in carcere La Stampa, 18 ottobre 2015 Dopo le proteste inscenate nell’ultimo mese da tre detenuti, arrampicatisi sul tetto da dove minacciavano di gettarsi, in settimana si sono registrate due aggressioni e una cella è stata data alle fiamme. Ad appiccare il fuoco, al terzo piano del padiglione, è stato un carcerato marocchino. L’uomo è stato salvato dall’immediato intervento degli agenti di polizia penitenziaria. Il gesto sarebbe stato compiuto per protestare contro il trasferimento dal primo piano dove si trovava fino a qualche giorno prima. L’uomo nei giorni addietro era stato vittima di un pestaggio nelle docce, e aveva riportato lesioni ritenute guaribili in quattro giorni. Per evitare che venisse in contatto con i suoi aggressori, individuati in due albanesi e un italiano, era stato spostato al terzo piano. E proprio per questo avrebbe incendiato la cella: non voleva essere trasferito per potersi vendicare sui suoi aggressori. Il nordafricano è stato denunciato, così come i tre detenuti che l’hanno picchiato. Sanzione disciplinare invece (75 giorni di liberazione anticipata perduti) per un detenuto italiano protagonista di un’altra aggressione. L’uomo, approfittando della custodia attenuata, che permette di circolare nei corridoi, è entrato nella cella di un marocchino e lo ha picchiato. Quest’ultimo ha riportato lievi ferite medicate nell’infermeria interna. Secondo la polizia penitenziaria, fra le cause delle aggressioni a catena ci potrebbe essere la scoperta, fatta in settimana dagli esperti informatici, della manomissione di alcune tv per consentire la visione di emittenti vietate. Barcellona Pozzo di Gotto (Ms): detenuto dell’Opg aggredisce due agenti penitenziari sicilians.it, 18 ottobre 2015 Ancora un episodio di violenza all’Opg, l’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Barcellona. Ieri uno degli ospiti, il 36enne, ha aggredito due agenti di Polizia penitenziaria in servizio. Per motivi ancora da chiarire uno è stato colpito al volto e l’altro al basso ventre. Da tempo l’uomo sarebbe dovuto essere alla Rems di Caltagirone, in provincia di Catania. I ritardi accumulati nell’applicazione del decreto di riconversione delle strutture penitenziarie manicomiali hanno prolungato la sua permanenza a Barcellona. I due agenti sono stati portati all’ospedale Cutroni Zodda. Uno è ancora ricoverato, l’altro è stato visitato e dimesso con una prognosi di 5 giorni. Quello di ieri mattina è l’ultima di una lunga serie di aggressioni al personale denunciate dai sindacati di categoria, che più volte hanno acceso i riflettori sulla mancanza di sicurezza e su una situazione che è sempre più insostenibile e chiesto chiarezza sul futuro dell’Opg. L’Opg barcellonese è una struttura polivalente, che nonostante una legge ben precisa che ormai lo vieta ospita ancora i 68 detenuti internati,* mai trasferiti nelle Rems siciliane. Medio Oriente: guerra sui luoghi santi, è un’Intifada religiosa di Maurizio Molinari La Stampa, 18 ottobre 2015 Dalla moschea di Al Aqsa alla tomba di Giuseppe. Abu Mazen: gli israeliani stiano fuori dalla Spianata. Attacchi alla Grotta dei Patriarchi, attentati alla tomba di Simone il Giusto, agguati nei pressi del luogo del primo Tabernacolo, l’incendio alla Tomba di Giuseppe, scontri nella Valle di Kidron e la moschea di Al Aqsa come incandescente contenzioso: l’Intifada dei coltelli ha per protagonisti i luoghi santi assegnando a questa rivolta palestinese un carattere religioso che la distingue dal nazionalismo delle precedenti sollevazioni anti-israeliane, nel 1987 e 2000. I palestinesi, singoli e gruppi, che dal 13 settembre lanciano attacchi contro Israele non hanno ancora una guida riconosciuta ma il movente che li accomuna è la "difesa di Al Aqsa", la moschea della Città Vecchia terzo luogo santo dell’Islam, inaugurata nel 705 lì dove nell’anno 70 le legioni di Tito distrussero il Tempio di Gerusalemme. "Non vogliamo che gli israeliani entrino ad Al Aqsa, sosteniamo chi la protegge e chi soffre per proteggerla - afferma Abu Mazen, presidente palestinese - il governo israeliano deve stare lontano dai nostri luoghi santi". Il Movimento islamico della Galilea ha creato i gruppi di "Morabitun" - le sentinelle coraniche, divise in unità di uomini e donne - per difendere Al Aqsa dai "sacrilegi" e Hamas ha coniato l’espressione "Intifada di Al Aqsa", con il proprio leader politico Ismail Hanyeh, per impossessarsi dell’intera rivolta. Le rassicurazioni israeliane, del premier Benjamin Netanyahu come del capo dello Stato Reuven Rivlin, sul "rispetto dello status quo ad Al Aqsa" - frutto delle intese con la Giordania siglate nel 1967 e 1994 - non hanno avuto finora effetto perché, spiega lo storico Shmuel Berkovitz, "è iniziata la battaglia per i Luoghi Santi" e nessuno può dire come e quando terminerà. Per accorgersene basta sovrapporre la mappa degli attacchi a quella dei luoghi religiosi. Le coincidenze abbondano. Dalla fine dell’ultimo conflitto di Gaza, nell’agosto 2014, gli attacchi palestinesi a Gerusalemme - con trattori e auto ad alta velocità - si sono concentrati nell’area della tomba di Simone in Giusto, lungo l’ex linea verde che separava i quartieri Est ed Ovest fino al 1967, e anche nelle ultime tre settimane è sempre qui che sono avvenuti molteplici attacchi con coltelli contro passanti, agenti e soldati. L’altra area di Gerusalemme più colpita è la Porta dei Leoni della Città Vecchia, dove inizia la Via Dolorosa, perché i terroristi la scelgono per colpire gli ebrei che la attraversano per raggiungere il Muro Occidentale, luogo più sacro dell’ebraismo. Fuori della Porta dei Leoni, nella valle biblica di Kidron, c’è il quartiere di Silwan teatro di aspre battaglie fra palestinesi e soldati poco lontano dagli scavi dell’Antica Città di Davide, considerati da Saeb Erakat, braccio destro di Abu Mazen, come "un tentativo di giudaizzare Gerusalemme". In Cisgiordania, le sovrapposizioni di moltiplicano. I luoghi degli scontri più duri sono stati finora tre: davanti all’insediamento ebraico di Beit El, dove si trova il luogo biblico del sogno di Giacobbe; attorno alla Tomba di Rachele a Betlemme, dove è stato ucciso dai soldati un palestinese di 13 anni; davanti alla Grotta dei Patriarchi di Hebron, dove ieri una palestinese ha accoltellato una agente della Guardia di Frontiera. I gruppi palestinesi autori delle violenze scelgono questi luoghi per battersi - lo conferma l’incendio della Tomba di Giuseppe a Nablus - con il risultato di esaltare gli aspetti religiosi della rivolta. Come ha fatto la cellula di Hamas che ha ucciso i coniugi Henkin bersagliandone l’auto davanti all’insediamento di Shiloh, dove secondo la Bibbia venne edificato il primo Tabernacolo. La tesi di Taissir Dayut Tamimi, maggiore autorità islamica dell’Autorità palestinese, sul "Tempio di Gerusalemme mai realmente esistito" perché "il Muro del Pianto era solo il luogo dove Maometto legò il suo cavallo Burqat" aggiunge ulteriori tasselli all’identità di una rivolta che Rivlin ammette di temere perché "rischia di trasformare il nostro conflitto con i palestinesi da nazionale a religioso". Medio Oriente: a Gerusalemme pagano le famiglie degli attentatori di Michele Giorgio Il Manifesto, 18 ottobre 2015 Case circondate e minacciate di demolizione, arresti, intimidazioni. Cresce la pressione delle autorità israeliane sui familiari dei palestinesi responsabili di attacchi. Non va meglio in Cisgiordania. Ieri altri cinque tentati accoltellamenti di coloni e soldati, di cui quattro a Hebron. Quattro palestinesi uccisi. Reparti della polizia israeliana ieri sono entrati con decine di uomini a Jabel Mukaber. Hanno circondato una casa e bloccato le strade circostanti, con la copertura di tiratori scelti. Quindi hanno prelevato la madre, il padre e i fratelli di Muataz Oweisat per interrogarli. L’intera famiglia si è ritrovata sotto accusa per l’azione compiuta dal figlio 16enne. Muataz, stando al resoconto ufficiale, è stato ucciso quando ieri mattina ad Armon HaNetsiv - una colonia costruita nella zona occupata di Gerusalemme, un "quartiere" secondo la definizione israeliana - ha estratto un coltello dalla tasca e tentato di colpire un agente durante un controllo della polizia. La Oweisat è una delle famiglie allargate di Jabel Mukaber maggiormente prese di mira dalle autorità. La partecipazione di suoi membri ad alcuni degli attacchi che dal 1 ottobre hanno ucciso cinque israeliani a Gerusalemme, ha trasformato in potenziali terroristi tutti gli Oweisat, di ogni età, uomini e donne. Da un giorno all’altro possono ritrovarsi senza un tetto sulla testa. Tre giorni fa a Jabel Mukaber, in linea con le misure decise dal gabinetto di sicurezza israeliano, sono state consegnate a quattro famiglie palestinesi ordini di evacuazione immediata dalle loro abitazioni che saranno demolite al più presto. Famiglie che potrebbero perdere anche il diritto a risiedere a Gerusalemme, vedersi confiscati tutti i beni e anche il diritto a seppellire i loro congiunti responsabili di attacchi (i corpi saranno inumati in luoghi segreti dalla polizia israeliana). E girano indiscrezioni che, dovessero continuare gli accoltellamenti, le famiglie dei responsabili di questi atti rischierebbero di essere deportate a Gaza. Sono punizioni collettive criticate dai centri per i diritti umani ma che le autorità giustificano con l’urgenza di fermare a tutti i costi quella che in Israele chiamano "Intifada dei Coltelli" e i palestinesi "Intifada di Gerusalemme". Ulteriori provvedimenti potrebbero essere adottati in Cisgiordania, dove la legge militare già non prevede le tutele sulle quali, almeno fino a qualche giorno fa, potevano contare le famiglie palestinesi di Gerusalemme. Ieri altri due adolescenti sono stati uccisi dopo aver aggredito un colono e una agente di polizia. Entrambi gli attacchi sono avvenuti nel settore H2 di Hebron sotto il controllo delle forze armate israeliane. Il 18enne Fadil Qawasmeh ha provato a colpire un colono accanto a Beit Hadassah, un edificio in Via Shuhada dove vivono diverse famiglie di coloni ebrei, ma è stato fermato e ucciso. Via Shuhada è nota. A poche decine di metri dalla casbah, un tempo era il cuore pulsante del commercio di Hebron. Dal 2000 in poi per "ragioni di sicurezza" è stata progressivamente chiusa ai palestinesi, su insistenza (o imposizione) dei coloni, e oggi è una strada priva di vita: regna il silenzio, i negozi sono tutti chiusi, gli ingressi di alcuni edifici sono stati sigillati, i palestinesi devono seguire percorsi interni in modo da non transitare davanti a Beit Hadassah e altri edifici dei coloni. Qualche ora dopo, sempre nella zona H2, la 17enne Bayan al-Esseili conn un coltello ha ferito a una mano una agente di polizia a breve distanza dalla Tomba dei Patriarchi ed è stata uccisa. In serata si è saputo di un altro accoltellamento di un soldato, ancora ad Hebron. L’attentatore Tareq Natche è morto all’arrivo all’ospedale di Gerusalemme. I coloni, riferiva ieri il giornale online Times of Israel, hanno bloccato e forato una ruota dell’ambulanza incaricata di trasportare il palestinese. Un tentato pugnalamento sarebbe avvenuto in serata anche al posto di blocco israeliano di Qalandiya, tra Gerusalemme e Ramallah. L’esercito si appresterebbe a ordinare la demolizione immediata delle case di questi palestinesi. Tuttavia questa misura non è più di facile attuazione in Cisgiordania. A Nablus, ad esempio, decine di attivisti palestinesi e internazionali, occupano le case di attentatori minacciate di distruzione e, per il momento, tengono lontane le ruspe militari. Lo stesso è accaduto a Surda, il villaggio nei pressi di Ramallah dove c’è l’abitazione del palestinese responsabile due settimane fa dell’uccisione di due israeliani nella città vecchia di Gerusalemme. La macchina punitiva comunque non è ferma. Mufid Sharbati, un testimone oculare dell’aggressione tentata ieri dal palestinese davanti Beit Hadassah, è stato arrestato dai soldati che hanno fatto irruzione nella sua abitazione e sequestrato un computer portatile, una videocamera e una macchina fotografica. È stato arrestato anche Ahmed Amr, responsabile per i rapporti con la stampa del gruppo "Giovani contro le colonie", alcune ore che aveva pubblicato in rete il filmato dell’uccisione di Fadil Qawasmeh. Venerdì, sempre a Hebron, era stato arrestato un fotoreporter, Bilal Tawil, che aveva ripreso l’uccisione di un palestinese del vicino villaggio di Dura, Eyad Awawdeh, che fingendosi giornalista aveva tentato di accoltellare un soldato nei pressi della colonia di Kiryat Arba. Sono stati fermati e interrogati anche altri reporter. I palestinesi riferiscono di decine di arresti avvenuti in diverse località della Cisgiordania e in alcuni quartieri e sobborghi di Gerusalemme Est, a cominciare da Jabel Mukaber, circondati e bloccati dalle forze di sicurezza. Attende una conferma la notizia dell’arresto due giorni fa in Cisgiordania di 19 attivisti e simpatizzanti di Hamas da parte della polizia dell’Autorità nazionale palestinese. San Marino: tangenti e corruzione; arrestato Gabriele Gatti, uomo più potente del Titano di Mario Gerevini Corriere della Sera, 18 ottobre 2015 Si chiude un’epoca a San Marino. Qualcuno lo dice apertamente, come il ministro dell’Industria Marco Arzilli, quasi tutti lo pensano. Ma non fa differenza, da ieri è proprio cosi. Hanno arrestato Gabriele Gatti, colpo di coda di quella inchiesta della procura sammarinese che partendo dai libretti al portatore intestati a un titolare fittizio (Giuseppe Mazzini) ha scoperchiato una tangentopoli. Per molti Gatti, 62 anni, laurea in lettere, è un perfetto sconosciuto ma nel paesone-Stato in terra di Romagna incarna il potere, quello vero, che si sente ma non si vede. Era considerato, con i dovuti distinguo e proporzioni, l’Andreotti del Titano. Trent’anni di politica, per 16 anni ministro degli Esteri e delle finanze, uomo forte della Dc locale che ha governato a lungo. Ora è l’unico "ospite" dell’unico carcere del piccolo Stato, il carcere dei Cappuccini che occupa un’ala del convento. Le accuse a carico di Gatti vanno dal riciclaggio di tangenti alla corruzione, al voto di scambio. Le indagini sono state coordinate dal commissario della Legge (il capo della Procura) Alberto Buriani, secondo il quale Gatti avrebbe tenuto una condotta illecita dal 1999 fino a tutto il 2015. Due date che racchiudono gli anni di massimo sviluppo dell’economia sammarinese e poi il crollo. Ma era uno sviluppo drogato dal riciclaggio e dal "nero" italiano che transitava per molte banche e finanziarie. A un certo punto nello staterello da 33 mila abitanti erano 12 le banche e oltre fio le finanziarie autorizzate dalla Banca centrale. Una bolla destinata a esplodere. Infatti le inchieste giudiziarie della procura di Forlì, la caccia del fisco italiano ai furbetti (evasori) di San Marino e la stretta internazionale sui paradisi fiscali hanno tagliato le gambe alla prima industria sammarinese. Una delle accuse mosse a Gatti è di aver lucrato sulle licenze per aprire le banche, in sostanza aver intascato tangenti pilotando l’assegnazione dì un bene pubblico. Tra gli episodi contestati vi è anche una vecchia speculazione da qualche decina dì miliardi di lire sui terreni dove poi fu costruito il Centro servizi che ospita anche il Tribunale Unico di San Marino. In tutti i casi, comunque, si tratta di ipotesi investigative che dovranno essere dimostrale. Per gli inquirenti Gatti faceva parte di una sorta di cupola di politici affaristi tra cui l’ex ministro democristiano Claudio Podeschi, ora sotto processo per accuse simili. Ma perché il potentissimo Gatti è stato arrestato proprio adesso? Una volta chiusa la carriera politica da Capitano reggente, cioè capo dello Stato, Gatti dal 2012 si è dato alla consulenza. Ma sceso dalle poltrone istituzionali, continuava a esercitare il potere, oltre i confini della legge secondo ì magistrati. Per esempio nel tentativo di delegittimare la magistratura che stava smontando pezzo per pezzo quel "sistema" politico-affaristico di cui (latti era parte, secondo l’accusa. Uno degli episodi contestati è infatti recentissimo e riguarda la presunta creazione di prove false a discredito degli inquirenti. Depositate in tribunale vi sarebbero alcune registrazioni di conversazioni in cui si paria di come gettare discredito sui magistrati e sull’indagine. Una di queste registrazioni sarebbe stata spedita ai magistrati in forma anonima ma vagliata e ritenuta attendibile. Così gli arresti per quello che è ancora considerato l’uomo più potente di San Marino, sono scattati ieri mattina e l’ex ministro degli Esteri, ex capo dello Stato, ex leader della Dc, partito tuttora di maggioranza relativa, è sceso da una Panda gialla e ha fatto il check-in ai Cappuccini. Lì dentro sono passati nell’ultimo anno altri ministri e dirigenti politici. Lunedì infatti parte il processo Mazzini con 27 imputati, tra cui 8 ex ministri, che dovranno rispondere di riciclaggio, corruzione e associazione a delinquere. Il "Conto Mazzini" era un’anagrafica fittizia, gestita da un dirigente della Banca Commerciale sammarinese, che veniva utilizzata per aprire libretti al portatore ("Ciao ciao", "Arrivederci" ecc.) su cui venivano versati i soldi delle mazzette. Tangenti per le licenze bancarie, per quelle delle telecomunicazioni, dei giochi o nel settore immobiliare. Ora a San Marino le cose sono davvero cambiate. Ma sulla proprietà delle banche e delle finanziarie, ad esempio, la nebbia è ancora molto fitta. Stati Uniti: "toppi detenuti, pena rispecchi crimini", pressing Obama per riforma giustizia Ansa, 18 ottobre 2015 Il sistema penale americano continua a essere "ingiusto e negli ultimi anni molti hanno aperto gli occhi su questa verità. Non possiamo più chiuderli". Lo afferma il presidente americano, Barack Obama, nel discorso settimanale, chiedendo una riforma del sistema penale. "Ci sono 2,2 milioni di persone nei carceri americani. Trenta anni fa erano 500.000. Gli Stati Uniti sono la casa del 5% della popolazione mondiale e del 25% dei carcerati nel mondo. Ogni anno spendiamo 800 miliardi di dollari per mantenere le persone in carcere" mette in evidenza Obama, precisando che "negli ultimi decenni sono stati carcerati molti piu’ delinquenti non violenti che in passato, e per periodi più lunghi di quelli passati. Questo è il vero motivo per cui la popolazione in carcere è così alta". "Giustizia vuol dire che la punizione deve rispecchiare il crimine commesso. Ma vuol dire anche che chi ha commesso errori paghi i suoi debiti e si riunisca alla comunità come un cittadino attivo e riabilitato. La giustizia non è mai stata facile da raggiungere, ma vale sempre la pena combattere per la sua conquista". Spagna: migliaia in corteo per chiedere rilascio detenuti Eta Askanews, 18 ottobre 2015 Migliaia di persone hanno manifestato ieri a Saint-Sebastien, nei Paesi Baschi, per chiedere il rilascio di Arnaldo Otegi, capo del partito indipendentista Sortu in stato di arresto per la sua appartenenza all’Eta, e di altri detenuti dell’organizzazione armata. I manifestanti, oltre 10.000, hanno sfilato dietro un grande striscione con la scritta "Liberate Arnaldo e Rafa" Diez, dirigente del sindacato basco Lab. I partecipanti al corteo hanno anche chiesto a gran voce l’"indipendenza", sventolando bandiere basche e della Navarra. Al corteo hanno preso parte anche dirigenti della sinistra abertzale (indipendentista), del partito della sinistra radicale Podemos e di Erc (Esquerra Republicana de Catalunya). Arnaldo Otegi, 57 anni, ex membro dell’Eta, condannato in particolare per il sequestro del direttore di una fabbrica Michelin nel 1970, è l’ex portavoce di Herri Batasuna, poi Batasuna, considerato il braccio politico dell’organizzazione indipendentista basca e interdetto nel 2003. Iran: Human Rights; nel carcere di Ardebil impiccati due trafficanti di droga Aki, 18 ottobre 2015 Due detenuti, condannati a morte per traffico di droga, sono stati impiccati nel carcere di Ardebil, nell’Iran nordoccidentale. Lo ha riferito Iran Human Rights (Ihr), un gruppo che si batte contro la pena di morte nella Repubblica islamica, citando una nota della magistratura di Ardebil. L’identità dei detenuti non è stata rivelata. Tre giorni fa le autorità iraniane avevano giustiziato tramite impiccagione una ragazza di 23 anni, Fatemeh Salbehi, condannata a morte per un omicidio commesso a 17 anni. Secondo Ihr, oltre 800 condanne a morte sono state eseguite in Iran nel 2015, il dato più alto negli ultimi 25 anni. In un rapporto Ihr ha evidenziato come la maggior parte delle condanne eseguite nella Repubblica islamica (oltre 500) sia legata al traffico di droga.