Ornella Favero eletta Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia Ristretti Orizzonti, 17 ottobre 2015 La Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia, fondata nel 1998 e con sede a Roma, rappresenta Enti, Associazioni e Gruppi impegnati in esperienze di volontariato nell’ambito della giustizia, all’interno e all’esterno degli istituti penitenziari. Ad oggi è strutturata sul territorio con 18 Conferenze Regionali (che riuniscono circa 200 Associazioni), e con l’adesione di numerosi Organismi del Terzo Settore: A.I.C.S., Antigone, A.R.C.I., Caritas Italiana, C.N.C.A. - Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza, Comunità Papa Giovanni XXIII, Forum Salute in Carcere, J.S.N. - Jesuit Social Network Italia Onlus, Libera, S.E.A.C. Complessivamente i volontari che afferiscono alla C.N.V.G. sono oltre 10mila. L’elezione di Ornella Favero a Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia è una buona notizia non solo per il mondo del volontariato in carcere ma anche per tutte le cooperative e le persone di buona volontà che lavorano per rendere più umani e civili gli istituti penitenziari, quindi per dare linfa vitale all’articolo 27 della Costituzione. Ornella Favero ha fondato e dirige dal 1997 la rivista Ristretti Orizzonti, un importante punto di riferimento a livello nazionale sul mondo della detenzione, non un "giornalino" dal carcere, ma un centro di elaborazione e informazione sul mondo carcerario italiano, di riflessione sul senso della pena e sul rapporto tra autori e vittime di reato, attraverso i dibattiti e l’attività giornalistica, cui si affiancano attività formative, convegni e scambi culturali. Oltre all’edizione di libri ed alla rivista a stampa, redatta con detenuti italiani e stranieri, Ristretti Orizzonti pubblica in rete un "Notiziario quotidiano" completo su informazioni e commenti riguardanti il carcere e la giustizia, e ha un archivio storico di 15 anni e 130 mila notizie, strumenti indispensabili a chiunque voglia conoscere, studiare e contribuire a fare qualcosa di buono in carcere. Ristretti Orizzonti è anche da anni il motore di un progetto, "la scuola entra in carcere, il carcere entra a scuola", che coinvolge migliaia di studenti e decine di detenuti in un confronto serrato e sincero. Ornella Favero è l’animatrice volontaria di questa esperienza, i cui risultati principali sono stati di rendere i detenuti protagonisti della conoscenza e del riconoscimento di sé, e di suscitare il loro confronto continuo con i giovani delle scuole e con le vittime di reati e loro famigliari. Il messaggio di Carla Chappini (Giornalista, direttore di "Sosta Forzata") Vorrei trovare il tono giusto per esprimere la mia autentica soddisfazione per l’elezione di Ornella Favero alla Presidenza della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia, cercando di attenermi alla realtà dei fatti e di andare oltre la profonda amicizia e stima che mi legano alla persona. Non si tratta, infatti, qui di celebrare un impegno coraggioso e straordinario nei confronti delle persone detenute e le loro famiglie perché tanti, in modi diversi, con differenti sensibilità e capacità si spendono generosamente negli stessi ambiti. Per fortuna. Si tratta piuttosto di riconoscere un’altra preziosa forma di impegno. Da anni ogni giorno, gratuitamente Ristretti ci offre una newsletter aggiornata, competente e sempre più ricca sui temi legati alla Giustizia; da anni Ornella risponde agli innumerevoli e faticosi inviti del volontariato in giro per l’Italia; da anni condivide saperi ed esperienze con chi chiede consigli e consulenza. Con coraggio affronta temi complessi che esistono, sono sotto i nostri occhi ma ci spaventano perché così poco popolari da incutere timore. Ornella è l’immagine un volontariato dignitoso, consapevole e corretto. Un volontariato che, attento alle persone, vicino alle persone, non dimentica i diritti. Che supera il solo "fare", impegnandosi anche nel pensare e nell’esercitare un giusto dovere di critica. Ove e quando sia necessario. Per tutto questo, oltre alla fiducia e all’incoraggiamento per Ornella, esprimo la mia stima nei confronti della Conferenza che ha saputo riconoscere il suo valore e la sua credibilità. Giustizia: Dap; migliorano le condizioni di vita dei detenuti, più ore passate fuori da celle Ansa, 17 ottobre 2015 Migliorano in modo "significativo" le condizioni di vita dei detenuti nelle carceri italiane: è quanto sottolinea il Dap (il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) sulla base di un nuovo "sistema applicativo che da quest’anno fornisce in tempo reale i dati degli interventi messi in atto dai Provveditorati regionali e dagli istituti penitenziari". Il confronto con i dati forniti a Strasburgo, a maggio, dal ministro della Giustizia Andrea Orlando, ricevendo l’apprezzamento della Cedu, "evidenziano un notevole netto miglioramento", afferma il Dap. In particolare, rileva il Dipartimento, a ottobre 2015 il 95% dei detenuti di media sicurezza effettua almeno 8 ore di permanenza fuori dalle celle, con un incremento del 5% rispetto a maggio; in 123 istituti si effettuano i colloqui su prenotazione ("con il vantaggio dell’eliminazione delle lunghe ore di attesa"), il dato precedente era di 109; le visite pomeridiane si svolgono in 137 istituti a fronte dei 93 precedenti, quelle domenicali in 148, 67 in più rispetto a maggio; in 120 istituti è attivo il servizio di telefonate ai familiari tramite la tessera telefonica, a maggio il servizio era attivato in 111 strutture (prossimamente lo sarà in altri 16 istituti ed è stato finanziato per ulteriori 49); in 101 istituti (altri 20 progetti sono in fase di valutazione) sono presenti le aree verdi per le visite dei familiari, 4 in più rispetto al dato precedente. Attenzione anche al "delicato tema della tutela della genitorialità", con l’allestimento di 172 sale colloquio e di attesa (altre 15 sono in allestimento), a fronte delle 130 rilevate a maggio, specificatamente attrezzate per i bisogni dei bambini; sono state realizzate 66 ludoteche, 8 in più rispetto al dato precedente e altre 14 sono in preparazione. Le Icam (Istituti di custodia attenuata per le madri detenute) sono attualmente quattro - a Milano, Venezia, Torino e Senorbì, in provincia di Cagliari - cui si aggiungeranno le Icam di Roma, Barcellona Pozzo di Gotto e Lauro. È poi notizia delle ore scorse la realizzazione della prima Casa famiglia protetta per detenute madri che, a breve, aprirà a Roma, mentre è stato già firmato il protocollo d’intesa tra il Provveditorato regionale del Piemonte e l’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII per facilitare e monitorare il futuro inserimento di detenute madri presso le case famiglia gestite da questa associazione in Piemonte e su tutto il territorio nazionale. La Cassa delle Ammende ha approvato, dall’inizio dell’anno ad ottobre, 220 progetti su 249 presentati, per un finanziamento complessivo di 9 milioni 149.279 euro. "Progetti - afferma il Dap - che consentono non solo di migliorare gli spazi detentivi, ma che presentano il valore aggiunto di offrire opportunità lavorative essendo eseguiti con mano d’opera detenuta: della somma totale, 2 milioni 173.368,60 euro sono destinati alla remunerazione del lavoro di 1.125 detenuti". I progetti finanziati da Cassa Ammende prevedono vari tipi di interventi, dall’aumento dei posti detentivi al miglioramento delle celle, dalla realizzazione di campi sportivi alle aree verdi, alle palestre, all’acquisto di attrezzature. Sono poi 478 i progetti finanziati con i fondi di bilancio della Direzione Generale delle risorse materiali, dei beni e servizi che ha assegnato ai Provveditorati regionali una somma complessiva di 25 milioni 555.617 euro. Dallo scorso mese di maggio a oggi sono stati recuperati, complessivamente, 366 posti detentivi: interventi che, insieme a quelli compiuti nei mesi precedenti, hanno fatto scendere i posti indisponibili dai 5.010 registrati dall’inizio dell’anno, agli attuali 3.970, pari al 7,8% della capienza complessiva. "Le somme assegnate - afferma il Dap - consentiranno di abbassare ulteriormente tale percentuale, con l’obiettivo di avvicinarsi ancora di più, si auspica entro la fine del corrente anno, alla percentuale fisiologica di indisponibilità del 5%". Giustizia: Csm "pochi detenuti hanno possibilità di lavorare, affidare loro manutenzioni" Ansa, 17 ottobre 2015 L’accesso al lavoro, anche quello all’interno delle carceri, è garantito oggi a una "bassissima percentuale di detenuti". Per cambiare almeno in parte questa situazione il Csm indica una strada: introdurre l’obbligo per l’amministrazione penitenziaria di affidare ai reclusi alcuni servizi che oggi vengono solitamente assegnati a soggetti esterni, come la manutenzione ordinaria, la pulizia dei locali e i servizi di giardinaggio. La proposta è contenuta in un parere sul ddl in materia di esecuzione penale approvato all’unanimità dalla Sesta Commissione di Palazzo dei marescialli e che sarà discusso mercoledì prossimo dal plenum. "L’iniziativa riformatrice" del governo "va accolta con sicuro favore", scrivono i consiglieri, ma c’è "un margine non esiguo di miglioramento dei suoi contenuti". Uno dei fronti su cui si può fare di più è proprio quello del lavoro che deve diventare oltre che "una fonte di reddito equamente garantito, una reale opportunità di qualificazione sociale e di reinserimento sociale". E bisogna cambiare approccio anche sull’istruzione: non va più considerata un elemento del trattamento dei detenuti ma un "diritto fondamentale", che deve essere garantito "dalla presenza in ogni istituto, di corsi scolastici di primo e secondo grado, e in ogni regione, di un polo universitario, con possibilità di seguire a distanza le lezioni e di tenere gli esami". Giustizia: "buona scuola" in carcere, messo in discussione diritto costituzionale allo studio di Giovanni Iacomini Il Fatto Quotidiano, 17 ottobre 2015 La scuola ai tempi delle "riforme": presidi reggenti su più sedi (che di fatto non riescono a controllare), segreterie e personale Ata ridotti all’osso, cattedre scoperte, supplenti non nominati perché non ci sono i soldi, personale invecchiato, spesso inadeguato, mal pagato, competenze mortificate, strutture fatiscenti, programmi antiquati che non fanno che amplificare il gap generazionale e la distanza dal mondo reale. I diversi provvedimenti, soprattutto dei governi Berlusconi ma senza cambiamenti rotta nelle parentesi di centro sinistra, sono stati scritti più nel ministero dell’Economia che dalle varie Moratti o Gelmini, con l’unico obiettivo di ottenere tagli indiscriminati e risparmi, riducendo orari, corsi, materie, classi, accorpando istituti. I risultati di vent’anni di cure dimagranti sono a dir poco allarmanti: in diversi importanti parametri, come la percentuale dei laureati o il numero delle iscrizioni, l’Italia si pone all’ultimo posto dei Paesi europei e al penultimo di quelli Ocse (dietro di noi solo la Turchia). Ma è la tendenza che fa più impressione: mentre in tutto il mondo aumenta la spesa per ricerca e sviluppo (quadruplicata negli ultimi 20 anni, interessando anche paesi che eravamo abituati a considerare "arretrati"), solo da noi in controtendenza si è quasi dimezzata e oggi investiamo in conoscenza una quota limitata del Pil, molto al di sotto della media mondiale. Ma veniamo a noi: la scuola in carcere. La riorganizzazione prevista dalla nuova normativa comporterebbe il passaggio di tutta l’educazione per gli adulti, compresi quelli ristretti, sotto i Cpia, entità non ben definite, potentissime sulla carta ma prive di uffici, dotazioni minime per poter lavorare, iscritti. Di fronte all’incertezza delle competenze tra questi e i Dirigenti delle scuole secondarie, a rimetterci in alcuni casi sono stati i detenuti studenti cui non è stato permesso di frequentare le lezioni, interrompendo l’essenziale servizio dell’istruzione e il diritto allo studio costituzionalmente garantito. Più in generale va ribadito che lo studio (alla pari solo del lavoro, ma su piani diversi e alla fine collegati) è tra le pochissime attività che possono riempire di senso l’enorme sforzo di risorse umane e finanziarie che lo Stato compie nel tenere decine di migliaia di persone chiuse in galera. Se la pena avesse solo la funzione afflittiva, risarcitoria e al limite dissuasiva, tanto varrebbe reintrodurre le punizioni corporali e, nei casi più gravi, la pena di morte. Ma la nostra Costituzione sancisce la funzione rieducativa della pena e lo scopo del reinserimento sociale del condannato. Nella legislazione conseguente ci sono tutta una serie di misure atte a inserire a pieno titolo l’istruzione nell’opera trattamentale. Da svariate esperienze compiute a livello internazionale, studio e lavoro si sono rivelati gli unici antidoti alla recidiva. È solo offrendo questo tipo di opportunità che si può sperare che qualcuno cambi vita, riveda criticamente il suo passato e soprattutto smetta di compiere reati (che è quello che interessa alla collettività, sempre più bisognosa di sicurezza). Nelle ultime disposizioni normative si parla di bienni unificati, certificazione di competenze, accorciamento dei corsi, professionalizzazione. Ammesso che certe cose possano avere un senso nell’educazione agli adulti esterni (cd. serali), ove il conseguimento di un diploma può aprire qualche spiraglio nel mercato del lavoro, per la scuola in carcere va fatto un discorso completamente diverso. Va rimarcata una volta di più la specificità di questo ambito dell’istruzione. I detenuti che decidono di studiare quasi mai lo fanno per ottenere certificati: sono adulti, alcuni persino anziani e sanno benissimo che oggi trovare lavoro è impresa ardua anche per chi non riporta condanne. La scuola permette loro di impiegare il tempo in maniera proficua, applicarsi su questioni che non avrebbero mai immaginato potessero interessarli, confrontarsi con i docenti, persone di cultura e, per alcuni per la prima volta nella loro vita, estranee dai circuiti criminali. Sono frequenti i casi di chi, soprattutto coloro che hanno condanne lunghe, finiti i cinque anni di scuola chiede di poter continuare a assistere alle lezioni o addirittura si iscrive all’Università (per cui nel nostro istituto curiamo un progetto di cui ho già raccontato). L’incontro con la cultura per alcuni detenuti ha veri effetti catartici, può sbloccare situazioni psicologicamente difficili, può aprire nuovi orizzonti: solo per fare un esempio, mi piace ricordare un attempato arabo che aveva sempre vissuto di traffici e "nero marcato" tra i paesi mediterranei. Frequentò tutti e cinque gli anni di scuola senza mai perdere una lezione e ringraziando con modi ossequiosi al termine di ogni giornata di studio. Una volta uscito, l’ho incontrato sui banchi di Economia e commercio, più entusiasta che mai. Eh sì, di una grande Riforma avrebbe bisogno la scuola, che la riconsideri tutta dalle fondamenta, tenendo conto di tutte le diverse situazioni. Giustizia: Magistratura Indipendente; Orlando e Anm garantiscano sicurezza nei tribunali Il Velino, 17 ottobre 2015 Magistratura Indipendente (MI) esprime forte preoccupazione per gli atti di intimidazione e aggressione subiti dai magistrati del distretto di Corte di Appello di Napoli. Negli ultimi giorni si sono verificati fatti gravi di violenza che evidenziano come non sia più rinviabile un serio monitoraggio delle situazioni di pericolo nei diversi Tribunali", si legge in una nota del gruppo guidato da Antonello Racanelli e Giovanna Napoletano. "A distanza di pochi giorni diversi Consiglieri della Corte di Appello Lavoro sono stati destinatari di un volantino contenente minacce. Il 9 ottobre la collega Vincenza Barbalucca del Tribunale di Nola, è stata vittima di minacce nel corso di un’udienza. Il 13 ottobre la collega Tina Donadio del Tribunale di Torre Annunziata è stata minacciata nella camera di consiglio". "Sono episodi - prosegue la nota di MI - che confermano una realtà allarmante. Chi vuole può facilmente giungere alle stanze dei magistrati, arrivando anche a conoscerne i movimenti. MI esprime vicinanza e solidarietà ai colleghi vittime di questi gravi episodi e denuncia con forza che le aggressioni ai magistrati sono il frutto avvelenato di una campagna denigratoria che da più parti viene condotta contro la categoria, attraverso continui attacchi alla giurisdizione e una costante e sterile opera di delegittimazione tesa a far sì che le tensioni sociali e il malcontento, che caratterizzano il presente momento storico, si dirigano contro chi svolge il delicato compito di far rispettare ed applicare la legge", spiegano Racanelli e Napoletano, rispettivamente segretario e presidente di MI. "Nel ricordo dei tragici fatti di Milano, MI, ancora una volta, richiama l’attenzione degli organi competenti al fine di porre in essere idonee misure di sicurezza con adeguati impegni finanziari e invita l’ANM a una immediata interlocuzione con il Ministro della Giustizia, Andrea Orlando, sulla questione sicurezza". Giustizia: processi troppo lunghi; stretta sui risarcimenti, risparmi stimati per 30-35 mln di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 17 ottobre 2015 Passa anche per un restyling della legge Pinto la cura dimagrante degli stanziamenti alla Giustizia, prevista con la legge di Stabilità e stimata in 30-35 milioni di euro. L’articolo 56 introduce una serie di paletti per chiedere l’indennizzo da irragionevole durata del processo (civile, penale, amministrativo, contabile) e fissa il minimo (400 euro) e il massimo (800 euro) degli importi che lo Stato è tenuto a liquidare per ogni anno, o frazione di anno superiore a sei mesi, che eccede il termine ragionevole di durata del processo (somme diminuite del 20 o 40% quando le parti del processo sono, rispettivamente, più di 10 o di 50). Una stretta, insomma. Non solo. L’articolo 43 (che riduce una serie di spese dei ministeri) taglia invece le indennità dovute a giudici di pace, giudici onorari aggregati, giudici onorari di Tribunale e viceprocuratori onorari, "in modo da assicurare risparmi non inferiori a 6.650.275 euro per il 2016 e a 7.550.275 euro a decorrere dal 2017". Ridotto, poi, di 4 milioni il Fondo per la mobilità del personale amministrativo, che dovrebbe consentire di coprire entro fine anno 1.031 posti e altri 2mila nel 2016 (su un totale di 9mila scoperture). Sarà dunque meno facile chiedere il risarcimento del danno per l’eccessiva durata dei processi; il che forse consentirà di ridurre anche l’enorme mole delle cause- Pinto pendenti presso le Corti d’appello, la cui durata è spesso "irragionevole". Costituisce infatti condizione di ammissibilità per la domanda di "equa riparazione" l’aver esperito i "rimedi preventivi" all’irragionevole durata del processo, previsti dal nuovo articolo 1 bis della legge. Nel civile, ad esempio, bisognerà aver chiesto di passare dal rito ordinario a quello sommario entro l’udienza di trattazione o, comunque, almeno 6 mesi prima che sia decorso il termine di ragionevole durata (3 anni in primo grado e in altrettanti in appello). Così nel penale, è previsto che le parti possono depositare l’istanza di accelerazione sempre sei mesi prima della scadenza del termine ragionevole (3 anni in primo grado; due in appello) o due mesi prima se il giudizio è in Cassazione. Strada sbarrata al risarcimento, quindi, se il "rimedio preventivo" non è stato esperito correttamente e anche in un’altra serie di casi, tra cui "l’abuso dei poteri processuali che abbia determinato un’ingiustificata dilazione dei tempi del procedimento". Inoltre, si introduce una serie di ipotesi in cui "si presume insussistente, salvo prova contraria, il pregiudizio da irragionevole durata del processo". E tra queste figura anche l’intervenuta prescrizione del reato, limitatamente all’imputato, poiché si presume, appunto, che se l’eccessiva durata ha portato alla prescrizione, quest’ultima rappresenti già un vantaggio per l’imputato. Adempiuti vari obblighi di documentazione previsti dalla nuova disciplina, entro sei mesi lo Stato dovrà pagare, "ove possibile", per intero, ma "nei limiti delle risorse disponibili sui pertinenti capitoli di bilancio". La norma transitoria ovviamente esclude dall’obbligo del "rimedio preventivo" (condizione di ammissibilità della domanda di indennizzo) i processi in corso nei quali, al 31 ottobre 2016, non ci sia più il tempo utile per esperirlo. Giustizia: ddl intercettazioni; no alla nuova legge bavaglio, sì alla possibilità di scegliere di Nadia Urbinati Left, 17 ottobre 2015 Il disegno di legge sulle norme in materia di intercettazioni telefoniche, a favore del quale il Pd ha votato compatto, può essere letto come una gemmazione della tentazione recidiva di chi gestisce il potere di celare quel che fa e sa, ostacolando il lavoro di chi acquisisce informazioni per farle conoscere ai cittadini. Il ddl recepisce un emendamento passato in Commissione giustizia, relatrice Donatella Ferranti (Pd), che espone questo provvedimento a una giustificata contestazione e a una motivata petizione, il testo approvato elimina la possibilità di un’udienza filtro nel corso della quale le parti (il giudice e gli avvocati) avrebbero dovuto decidere le intercettazioni rilevanti da portare al processo, prima di poterle depositare e quindi renderle un documento pubblico e, soprattutto, pubblicabile. La modifica del ddl con questo emendamento, sul quale il Pd - ripeto - ha fatto quadrato, limita il diritto all’informazione ed è in questo senso figlio minore della legge bavaglio che il governo Berlusconi ha invano cercato di far passare. Berlusconi fallì grazie a una mobilitazione straordinaria di cittadini, di rappresentanti degli organi di informazione e dell’editoria. Allora si fecero barricate; ora si tratta di vedere se l’appello lanciato da Stefano Rodotà riuscirà ad attirare la stessa attenzione. Figlio minore della legge bavaglio, perché in questo caso non vengono ostacolati, come nell’altro, gli organi giudiziari nel reperimento per mezzo di intercettazione delle informazioni come strumento d’indagine; ma perché, anche in questo caso, viene impedito di dar notizia delle inchieste giudiziarie sino all’udienza preliminare (che in Italia può richiedere anni). Questo provvedimento fa proprio uno dei due aspetti della proposta di legge bavaglio: mette in discussione il principio del rendere pubblico, del far conoscere ai cittadini il contenuto delle intercettazioni. Interviene, limitandolo, sul diritto all’informazione. L’argomento usato dal Pd per giustificare questo provvedimento è che la possibilità di pubblicazione potrebbe essere lesiva dei diritti di coloro che sono, in qualche modo, coinvolti nelle indagini benché il prosieguo delle stesse ne dimostri poi l’estraneità al reato. Ma si tratta di un argomento ingannevole perché l’udienza filtro serviva proprio a ovviare a questo problema, che è serio. Come lo è il mettere a repentaglio la dignità della persona con il rischio palese di consegnare il suo nome alla gogna mediatica. L’udienza filtro doveva servire a evitare questo, a "selezione del materiale intercettativo nel rispetto del contraddittorio tra le parti e fatte salve le esigenze di indagine". Perché toglierla? Viene da sospettare che la si sia tolta per poter meglio giustificare questo giro di vite sull’informazione. Il Pd si trincera dietro il nobile principio della privacy. Sostiene che mentre le intercettazioni non si devono impedire, si devono tuttavia conciliare due diritti: quello all’informazione e quello alla privacy. Il fatto è che il testo approvato alla Camera più che conciliare questi due diritti è tutto sbilanciato a favore del secondo e contro il primo. Il governo prevede una pena punibile con la reclusione fino a quattro anni, "la diffusione, al solo fine di recare danno alla reputazione o all’immagine altrui, di riprese audiovisive o registrazioni di conversazioni, anche telefoniche, svolte in sua presenza ed effettuate fraudolentemente". Questo provvedimento è lesivo dei diritti civili e politici. È in nostro nome che dobbiamo chiedere che venga modificato. In nostro nome perché, per esempio, la conoscenza preliminare di un candidato incluso nelle liste è un diritto politico - il diritto civile all’informazione dà agli elettori dati di conoscenza che consentono loro di fare una scelta politica libera, non condizionata da quel che viene loro celato. La dignità della persona nel nome della quale questo provvedimento è stato giustificato, deve essere rispettata anche in relazione al cittadino: la sua dignità di essere trattato come un attore autonomo al quale non si nascondono informazioni che possono essere essenziali nella formulazione delle sue scelte. Giustizia: il ministro Orlando "per i futuri avvocati nuovo percorso dall’inizio del 2016" di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 17 ottobre 2015 Entro i primi mesi dell’anno potrebbe diventare realtà un nuovo percorso di accesso alla professione di avvocato. Lo ha annunciato ieri il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, al congresso delle Camere civili. D’intesa con il ministero dell’Università, a inizio 2016, la via preferenziale per l’accesso alla professione forense potrebbe essere rappresentata dalla iniziale frequentazione di un ultimo anno del corso di laurea in giurisprudenza, a numero programmato, al quale poi si aggiungerebbe post laurea il periodo di pratica. Una maniera per aggirare il divieto al numero chiuso che configgerebbe con la disciplina comunitaria e che non sarebbe esclusivo, ma renderebbe le alternative - ha sottolineato un po’ cripticamente Orlando - almeno tortuose. L’atto ormai è pronto e dovrebbe essere formalizzato a breve dopo i pareri degli organismi tecnici del Miur. Si aprirà poi nelle prossime settimane una nuova fase di quella che, forse impropriamente, è definita come degiurisdizionalizzazione: Orlando ha annunciato, oltre alla firma del decreto che definisce le procedure per potere usufruire dei 5 milioni di agevolazioni fiscali per la negoziazione e gli arbitrati, la costituzione di un gruppo di lavoro che dovrà individuare le nuove tipologie di controversie da comprendere nel perimetro delle forme alternative di soluzione. Tra queste, ha risposto Orlando alle sollecitazioni del presidente dei giuslavorista Aldo Bottini, ci potrà essere spazio anche per le controversie in materia lavoristica che, inizialmente previste dalla versione originaria della negoziazione assistita vennero poi stralciate in Parlamento. Il ministro, rispondendo alle domande di Renzo Menoni presidente dei civilisti, ha poi spiegato che sarà affrontato anche il tema delle competenze, senza tabù, ma in maniera laica, senza la rivendicazione di "riserve indiane". Ma nella lista delle prossime modifiche, Orlando ha annunciato anche la volontà di procedere a una modifica della norma primaria che presiede alle elezioni degli Ordini per andare nella direzione di una uniformità di base delle regole, facendo venire meno le polemiche sulle differenze tra elezioni di primo e secondo grado e di compatibilità con l’esercizio della funzione giurisdizionale. Capitolo a parte quello dell’efficienza degli uffici giudiziari. Orlando ha rivendicato il lavoro di monitoraggio e conoscenza fatto dal ministero. Con risultati per certi versi anche sorprendenti, visto che tra le sedi con le peggiori performance (nella fascia bassa ci sono una settantina circa di uffici) ce ne sono anche alcune senza scoperture di organico. Da martedì Orlando avvierà, a partire dalla Calabria, un tour nei tribunali in maggiore difficoltà. In ogni caso, dal prossimo anno, prenderanno servizio 4.000 cancellieri in più che andranno a dimezzare i vuoti in organico accumulati nel corso di 25 anni. Ma Orlando ha anche tenuto a sottolineare che a dovere essere affrontato anche l’argomento delle dimensioni delle Corti d’appello, perché non si può da una parte invocare la specializzazione come elemento di un servizio giustizia di qualità e poi difendere distretti dalle dimensioni tanto ridotte da renderla ardua nei fatti. E sui temi più indigesti per l’avvocatura il ministro ha tenuto a ricordare la volontà di dare un maggiore peso ai legali nei consigli giudiziari, a patto però di superare la frammentazione attuale che porta a volte con difficoltà a individuare una posizione unitaria. Infine, il ministro ha chiarito che la legge delega di riforma complessiva della legge fallimentare potrebbe confluire in un pacchetto di emendamenti alla legge di stabilità oppure essere abbinata alla delega sulla procedura civile che adesso dovrà, esaurito il processo penale, riprendere il cammino parlamentare. Giustizia: nuova indagine medica su morte di Stefano Cucchi "fu tortura fisica e psichica" di Eleonora Martini Il Manifesto, 17 ottobre 2015 Presentato in Senato uno studio indipendente dei Medici per i diritti umani. Per il Medu fu omicidio: le violenze fisiche inferte sono "la causa prima della morte" di Stefano. Da quelle scaturì la sindrome psichica, tipica della tortura, che indebolì il corpo fino al decesso. Le violenze fisiche inferte da uomini in divisa su Stefano Cucchi sono ormai accertate, manca solo di sapere chi esattamente le ha commesse, dal momento dell’arresto, nella notte tra il 15 e il 16 ottobre 2009, e fino alla morte del 22 ottobre. Ciò che potrebbe ancora essere messo in discussione è che queste violenze "sono la causa prima della sua morte", come attesta invece una nuova indagine medica indipendente dei Medici per i Diritti umani (Medu), presentata ieri nella sala dell’Istituto di Santa Maria in Aquiro del Senato alla presenza del senatore Luigi Manconi, Ilaria Cucchi, l’avvocato Fabio Anselmo e il presidente di Antigone, Patrizio Gonnella. Un punto importante, perché se venisse assunta come vera questa affermazione, il pm Giovanni Musarò - titolare dell’inchiesta bis aperta dal procuratore capo di Roma Pignatone sulla morte del giovane geometra romano, rimasta dopo quasi sei anni esatti ancora senza responsabili - potrebbe decidere di trasformare il reato contestato attualmente ai tre carabinieri finora indagati da "lesioni dolose aggravate" in "omicidio". Ma c’è di più: lo studio firmato dai medici per i diritti umani, Andrea Barbieri e Massimiliano Aragona, afferma che "in conseguenza dell’aggressione, Cucchi ha sviluppato una grave reazione psicopatologica post-traumatica", evidentemente non curata, che ha portato ad un ulteriore deperimento del corpo già martoriato del 32enne, fino alla morte. Qualcosa di molto simile a ciò che avviene nelle vittime di tortura, che non a caso secondo la Convenzione Onu - ma non secondo la legge italiana impantanata in parlamento dai diktat delle forze dell’ordine - si delinea come inflizione di sofferenze fisiche o psichiche. "Se ci sarà una legge sulla tortura, mi piacerebbe fosse intitolata a Stefano", ha detto sua sorella, Ilaria Cucchi annunciando per la mattina del prossimo 31 ottobre "una maratona in memoria di Stefano" che si svolgerà nel Parco degli Acquedotti, nei luoghi dove suo fratello venne fermato dai carabinieri ora indagati. Secondo i medici che hanno firmato l’inchiesta indipendente che "si basa sullo studio e l’analisi della documentazione processuale" e delle perizie più recenti, la reazione post traumatica è stata provocata nel giovane da uno o più pestaggi violenti e "intenzionali, così come riconosciuto dalle Motivazioni della sentenza d’appello". Sappiamo oggi che il corpo di Cucchi presentava, "oltre a probabili lesioni minori", "lesioni contusive importanti in regione frontale sinistra e parieto-temporale destra, una frattura in regione sacrale (S4)" e "una concomitante frattura alla terza vertebra lombare (L3)" come sostenuto dai consulenti tecnici delle parti civili. "Nelle ore susseguenti all’episodio (o agli episodi) delle percosse - spiegano i medici - Cucchi inizia a manifestare diversi sintomi e comportamenti provocati dal trauma psichico innescato dalla aggressione subita: sofferenza psicologica intensa e prolungata e marcate reazioni psicofisiologiche". Dimostra di essere incapace "di ricordare con coerenza l’episodio delle percosse", non vuole parlare dell’evento, mostra una "persistente condotta ritirata ed evitante, una ipervigilanza e sospettosità simil-paranoidea, con diffidenza e paura nei confronti dei rappresentanti dell’autorità, medici compresi; umore deflesso; comportamento irritabile, aggressività verbale e manifestazioni di rabbia; disinteresse nei confronti di se stesso e della propria salute e comportamenti a rischio". Sorgono inoltre "episodi di insonnia" e non riesce più a mangiare, soffre di "nausea e astenia", anche se a tratti chiede cibo o bevande. Sostanzialmente, si chiude in un isolamento interiore che ha un nome medico ben preciso: "Disturbo correlato a eventi traumatici e stressanti con altra specificazione", del tipo specifico "Disturbo Acuto da Stress sotto-soglia" (DSM-5)", si legge nel rapporto del Medu. E, "senza la messa in atto di interventi terapeutici efficaci", il tutto viene "esacerbato dal dolore fisico e da fattori ri-traumatizzanti quali la detenzione (il reparto protetto del Pertini è dotato di celle come un carcere) e l’isolamento, dal momento che gli viene negata la possibilità di comunicare con persone di fiducia". Si sviluppa così "la sindrome da inanizione che ha provocato in modo esclusivo o in concausa la morte di Cucchi". Una lenta fine che passa da "un severo squilibrio metabolico-elettrolitico, a un probabile arresto cardiaco aritmico e, infine, alla morte". Una lettura medica che non ha trovato legittimità nei due processi conclusisi con l’assoluzione di tutti gli imputati: sei medici, tre infermieri e tre poliziotti penitenziari. Ma secondo il Medu, è "possibile ipotizzare che prima dell’udienza di convalida abbia avuto luogo un’ulteriore aggressione fisica, come testimoniato dal teste Samura Yaya", ritenuto dai medici "affidabile" in ragione della "difformità dalle sentenze di primo grado e d’appello". Spiega il legale della famiglia Cucchi, Fabio Anselmo: "Il processo che si è celebrato è diventato simbolo negativo di tanti problemi culturali del sistema giudiziario. Noi abbiamo tentato di esplorare processualmente il tema del trattamento psichiatrico cui Stefano non fu sottoposto, senza alcun risultato. Penso che adesso questa nuova indagine medica, introdotta nel processo, potrà far capire che esiste un vizio che potrebbe portare ad un annullamento in Cassazione". "Cucchi nel reparto detentivo dell’ospedale Pertini non ha ricevuto nessuna visita psichica o psichiatrica", ricorda Manconi che sottolinea: "Quanto affermato nelle due sentenze conferma che le prime 24 ore sono state totalmente omesse dalle indagini. C’è stato un vuoto investigativo". Oggi che quel vuoto viene colmato dalla seconda indagine della procura, si rende però sempre più evidente l’esigenza di introdurre nel nostro ordinamento il reato di tortura, come ha affermato Patrizio Gonnella, presidente di Antigone e Cild-Coalizione italiana per le libertà e i diritti civili. "Un pezzo dell’inchiesta è sottratta alla giustizia - fa notare Gonnella - Non c’è mai violenza fisica sganciata dalla violenza psichica. Siamo, nonostante la sentenza europea dei diritti umani e l’impegno del premier Renzi, senza una risposta in Parlamento. Io spero che questa indagine apra gli occhi e che finalmente si arrivi a una giustizia". A luglio, infatti, la commissione Giustizia del Senato ha annullato le modifiche apportate alla Camera al testo della legge sulla tortura, peggiorandolo ancora di più e allontanandolo dalla prescrizione delle convenzioni internazionali. Da allora, comunque, l’iter del provvedimento si è fermato e in ogni caso rischia di morire di sfinimento nel rimpallo del testo tra le due camere. Ilaria Cucchi però non perde la speranza: "Stefano - racconta - era apparso in sogno ad un amico e aveva detto che il mio impegno magari non servirà a scoprire la verità sulla sua morte ma servirà sicuramente in futuro per tutti quelli che malauguratamente dovessero trovarsi in quella sua stessa situazione". Giustizia: De Cataldo "c’era una volta Tangentopoli… ma ora lo chiamano golpe" di Stefania Parmeggiani La Repubblica, 17 ottobre 2015 Lo scrittore e magistrato domani sul palco con Carlo Bonini e Franco Gabrielli parlerà di metodo criminale come metodo di governo: "Siamo alle grida manzoniane". "La corruzione come metodo di governo è storia antica, è nata con l’Unità d’Italia e forse anche prima, se ne parlava già ai tempi di Cicerone". Giancarlo De Cataldo, il magistrato che ha processato e raccontato la Banda della Magliana, lo scrittore che con i suoi romanzi criminali misura lo stato di salute del nostro Paese, non ama i toni apocalittici. Per lui il malaffare non è un problema solo italiano e soprattutto non è una deriva recente. De Cataldo com’è cambiata negli anni la corruzione? "Credo che a cambiare sia stata la nostra percezione: si è fatta più acuta. Le tante inchieste che si susseguono ci impediscono di nascondere la polvere sotto il tappeto. Negli anni è però peggiorata la qualità della corruzione, il suo segno. Ci sono epoche in cui con la corruzione si costruiscono opere ed epoche in cui si suscitano opere che non verranno mai realizzate e che sono finalizzate solo alla corruzione". E noi viviamo in questa seconda epoca? "Indubbiamente sì. Tangentopoli doveva essere lo choc salutare e invece è naufragata in una lettura orwelliana che è diventata popolare, quello che era il naufragio di una classe politica corrotta si è trasformato agli occhi di molti in un golpe della magistratura contro una classe politica. È un problema di narrazione, si è costruita una contro mitologia che ha neutralizzato i fatti ". Che strumenti abbiamo per contrastare la corruzione? Non le sembra che le nostre armi siano spuntate? "Noi non abbiamo armi spuntate, noi abbiamo armi che si cerca in tutti i modi di spuntare. Prendiamo le intercettazioni: al dato di fatto che servono per colpire alcuni reati e per prevenirne altri, si è sostituita una contro narrazione che le considera una minaccia da cui difendersi ". La legge Severino ha fatto fare dei passi in avanti? "Sulla legge Severino, per i suoi aspetti più controversi, aspetterei la pronuncia dell’Europa. In ogni caso, dopo quella legge è stato fatto altro, dalle norme sull’antiriciclaggio all’istituzione dell’Autorità nazionale anticorruzione. Il problema è che tutti i provvedimenti confluiscono nel processo penale che in Italia è disastroso". Perché se la corruzione è così diffusa nelle nostre carceri solo pochissimi detenuti sono lì per avere violato la legge in materia di criminalità economica e fiscale? "Io non sono un fan del carcere. Nei casi di corruzione è più importante recuperare il maltolto e neutralizzare il malfattore che non lo spettacolo della gente in galera. In Italia con la pena si procede da anni secondo grida manzoniane, si minaccia tanto e poi si "quaglia" poco". In ogni caso i processi arrivano a cose fatte... "Il processo penale colpisce la patologia, ma non previene". Cosa serve dunque? "Servono controlli e anche semplificazioni delle procedure. È fondamentale che le persone non si sentano impotenti: se vuoi aprire un negozio, se vuoi darti da fare nell’imprenditoria, se vuoi rapidamente il certificato che ti serve, se pensi che l’unica strada sia la corruzione, questa penetra nelle coscienze e le corrompe. Infine, è necessario il consenso di una comunità schierata a difesa della legalità, sulla quale non facciano presa i discorsi di chi cerca di delegittimare la magistratura o di spuntare le armi alle indagini e ai sistemi di controllo". Chi paga il prezzo della corruzione? "Tutti noi, e non intendo solo noi italiani. La corruzione è un fenomeno mondiale. Quando si moltiplicano gli scandali non ci si può limitare a dire che sono fenomeni episodici all’interno di un sistema che funziona. Questa è ipocrisia: ti devi domandare se c’è qualcosa di profondamente distorto in partenza, nelle regole". Sardegna: suicidi e droga, è allarme carceri di Silvia Sanna La Nuova Sardegna, 17 ottobre 2015 Un detenuto morto a Uta, tentativi di suicidio a Nuoro. Una madre di 70 anni fermata dopo avere consegnato l’eroina ai figli. La mamma che porta la droga ai figli rinchiusi in cella è il simbolo di un sistema carcerario che rischia di esplodere. La donna, 70 anni, è stata beccata all’uscita del penitenziario di Uta dal fiuto di un pastore tedesco: dal reggiseno è saltata fuori una siringa, l’eroina la madre premurosa l’aveva già consegnata ai due ragazzi detenuti ed è stata recuperata nei loro armadietti. A fine settembre nei guai era finito un papà: lui l’hascisc per il figlio, avvolto nella carta stagnola, l’aveva nascosto sotto la cintura dei pantaloni. A Uta, dove la maggior parte dei detenuti è tossicodipendente, la situazione è drammatica. Non solo per le falle dei controlli, legate allo scarso numero di agenti. Ma soprattutto per l’alto numero di detenuti che tenta di togliersi la vita. L’allarme sulle condizioni di vita nelle carceri è però più esteso: tutte le strutture isolane assomigliano a pentole in ebollizione. Allarme suicidi. Giovedì un quarantenne cileno si è ammazzato impiccandosi in infermeria. Dopo 15 tentativi di suicidio andati a vuoto in appena 10 mesi - da quando è stata aperta la struttura carceraria nel Cagliaritano - il cileno ha raggiunto l’obiettivo. È grave, invece, il cinese che qualche giorno fa ha tentato di togliersi la vita nel carcere nuorese di Badu e Carros. Penitenziario storico, dal quale arriva la denuncia di un forte disagio. Esattamente lo stesso che si respira a Tempio-Nuchis, che mal sopporta il sovraffollamento: qui i reclusi sono 181 a fronte di 167 posti disponibili. E da Massama (Oristano) dove i detenuti sono 274, otto in più del numero massimo previsto, dalle celle arriva la denuncia di una situazione invivibile, ormai ai limiti della sopportazione. Pochi agenti. Le strutture sono nuove: Massama ha tre anni di vita, Uta appena dieci mesi. A Sassari il carcere di Bancali - vicino al sovraffollamento - è stato inaugurato nel luglio del 2013 e ha permesso la chiusura del vecchio carcere di San Sebastiano nel cuore del centro cittadino. Anche Nuchis, ha una storia recente: ha aperto i battenti nel novembre del 2012. In tutti i casi si tratta di strutture molto grandi e moderne che hanno ereditato gli stessi problemi del passato. Pochi gli agenti di polizia penitenziaria, organici ridicoli rispetto all’alto numero dei detenuti: in queste condizioni garantire la sicurezza e controlli accurati diventa impossibile. Ecco perché la droga arriva facilmente nelle celle, ecco perché un detenuto ha il tempo di legarsi una corda intorno al collo e farla finita prima che qualcuno si accorga di lui. Un dato: solo a Uta, a parte i 16 tentati suicidi, in 10 mesi sono stati segnalati 250 casi di autolesionismo. Mentre sono stati 7 gli scioperi della fame collettivi, segnale inequivocabile di una situazione di profondo malessere. Poltrone vacanti. Non solo. A complicare la situazione, ci sono anche molte poltrone di comando vuote o in condominio. Un solo direttore per Nuchis-Badu e Carros e per Bancali-Mamone. E lo stesso provveditore regionale Enrico Sbriglia, nominato a luglio, continua a gestire il Triveneto e verrà nell’isola soltanto in missione. Troppo poco, per un sistema che rischia il tracollo. Ferrara: detenuto muore in cella asfissiato dalla bomboletta del gas, indaga la procura estense.com, 17 ottobre 2015 Poche le informazioni che trapelano, l’uomo si sarebbe tolto la vita inalando il gas da una bombola. La procura ha aperto un’indagine sulla morte del detenuto avvenuta nella sera di giovedì al carcere dell’Arginone di Ferrara. Sul fatto vige però uno strettissimo riserbo: dal carcere nessuno parla e l’unica conferma sulla morte del detenuto - M.A.P., le sue iniziali, di 41 anni - arriva dal segretario nazionale del sindacato Sappe, Giovanni Battista Durante. Dalle poche notizie che si riescono ad avere appare essere un suicidio compiuto dall’uomo inalando il gas di una bombola da campeggio utilizzata per una fornello in cui riscaldare gli alimenti. L’indagine, affidata al pm di turno, Barbara Cavallo, sarebbe comunque un atto di rito a fronte del decesso. I carabinieri, ai quali sono stati affidati i relativi atti investigativi, non rilasciano alcuna informazione. Poco si sa anche delle dinamiche: a scoprire il fatto sarebbe stato il compagno di cella della vittima che avrebbe immediatamente dato l’allarme agli operatori della Polizia penitenziaria i quali avrebbero poi chiesto l’intervento dei sanitari del 118. Ma, purtroppo, era ormai troppo tardi. Messina: detenuto morto nel carcere di Gazzi, Tribunale di sorveglianza respinge le accuse strettoweb.com, 17 ottobre 2015 Il presidente Nicola Mazzamuto rispedisce al mittente le accuse dell’avvocato Domenico Andrè. "A nome dell’Ufficio che si onora di rappresentare, nell’esprimere il sincero cordoglio ai familiari per la prematura scomparsa del congiunto Andrea Mirabile, deceduto nel corso della detenzione presso il Centro diagnostico e terapeutico annesso alla Casa Circondariale di Messina Gazzi", il presidente del Tribunale di Sorveglianza speciale - Nicola Mazzamuto - respinge con fermezza in quanto destituite di ogni fondamento giuridico e fattuale le "improvvide dichiarazioni che l’Avv. Domenico Andrè" ha reso agli organi di stampa con ampia eco locale e nazionale. Nel caso presente come negli altri, la Magistratura di sorveglianza - precisa Mazzamuto in una nota -"nelle sue componenti togate e laiche ha applicato la Legge con rigore ed umanità, intervenendo a più riprese per garantire la doverosa assistenza sanitaria del Mirabile e la sua più idonea allocazione penitenziaria". La critica viene così definita "tanto infondata quanto oggettivamente offensiva nei modi e nei contenuti nei confronti del Tribunale e dei suoi Componenti, a fronte di un triste caso che esigerebbe la misura del giudizio informato e ponderato ed il rispetto della umana pietà". Campobasso: decesso in carcere, parla la difesa degli indagati "fu un evento imprevisto" primonumero.it, 17 ottobre 2015 Dopo la pubblicazione dell’articolo sulla morte del detenuto campobassano 34enne Alessandro Ianno, l’avvocato Stefano Brienza, difensore di alcune delle quattro persone indagate per omissione di soccorso (un medico e tre infermieri), interviene a difesa di chi "da sempre, correttamente e professionalmente - scrive nella sua precisazione - si è adoperato per la tutela della salute dei detenuti, anche con enormi sacrifici personali e familiari. Stupisce come la dettagliata ricostruzione dei fatti, così come operata da parte dei familiari e dei loro difensori (il fratello dell’ex detenuto, Maurizio Ianno e gli avvocati Silvio Tolesino e Antonello Veneziano, ndr), non solo non corrisponda a verità fattuale, ma contrasti con il contenuto del fascicolo delle indagini, delle testimonianze ivi contenute e le risultanze peritali. Appare inopportuno e dissacrante - a detta del difensore degli indagati - scendere nei dettagli della vicenda così come è stato fatto. Inopportuno perché il fascicolo è ancora avvinto dal carattere di segretezza; dissacrante perché viene totalmente distorta la realtà dei fatti e vengono paventate delle ipotesi omissive, condite da indifferenza e spregiudicatezza nell’operato dei sanitari tanto da tracciarne un profilo da carnefice. Corre l’obbligo di affermare l’unica verità che è quella che ha condotto il Pubblico Ministero a chiedere l’archiviazione del procedimento (come evidenziato anche nel nostro articolo, ndr), ossia la assoluta corretta condotta professionale dei miei assistiti e la mancanza di qualsivoglia nesso causale tra il loro operato ed il tragico evento. Pur condividendo il dolore dei familiari per il grave lutto, non si può condividere un intento persecutorio fondato su dati falsi ed inesistenti. L’affermazione di aver somministrato insulina post-mortem (come dimostra l’orario segnato sul registro dell’infermeria nelle mani della famiglia Ianno, ndr), indigna ed è una calunnia. L’evento che ha condotto al decesso del povero ragazzo era assolutamente imprevedibile ed inevitabile. Il personale sanitario tutto si è adoperato tempestivamente e correttamente per fronteggiare l’emergenza allorché, per la prima volta, si è verificata alle ore 17 circa. Fino a quel momento non ha potuto avere contezza, qualora vi fosse stato, di alcun segno premonitore della patologia". Bari: perché è morto Carlo Saturno? Il Pm chiede l’archiviazione, la famiglia si oppone di Nazareno Dinoi La Voce di Manduria, 17 ottobre 2015 Per la terza volta il Pubblico ministero della Procura della Repubblica di Bari, Isabella Ginefra, ha chiesto l’archiviazione dell’inchiesta sulla morte del manduriano, Carlo Saturno, trovato impiccato e in fin di vita il 30 marzo del 2011 nella sua cella del carcere di Bari dove era rinchiuso e deceduto otto giorno dopo. Per i genitori del ragazzo, invece, qualcuno lo avrebbe spinto ad uccidersi. Su questo si basa la tesi dell’avvocato della famiglia, Tania Rizzo, del foro di Lecce che ha già preparato una istanza di opposizione all’archiviazione. Una richiesta analoga l’aveva presentata già nei precedenti tentativi di chiudere il caso, entrami respinti dal giudice del tribunale di Bari che ordinava al pm ulteriori indagini. Su questo si basa l’opposizione all’archiviazione preparata dall’avvocatessa Rizzo che è convinta che la morte del giovane sia stata la causa quantomeno di una non adeguata assistenza. Inquietante poi la circostanza dell’impiccagione avvenuta quando il detenuto era da solo in cella (e le sue condizioni psichiche lo vietavano) e soprattutto subito dopo un violento scontro fisico con due agenti di custodia carceraria. "Perché - scrive il legale della famiglia Saturno - il medico di guardia del carcere di Bari, che aveva visto il Saturno dopo le percosse o colluttazione subita dagli agenti e che aveva accesso all’intera cartella clinica del ragazzo (comprensiva di indicazione di psico-farmaci ed inibitori), non si era impegnata ad evidenziare la necessità che il ragazzo fosse sottoposto a particolare osservazione ed assistenza psicologica e/o psichiatrica?". Dalle testimonianze raccolta pare che il ventitreenne manduriano dopo la colluttazione (o aggressione) sia stato trascinato di peso nella cella dove poi è stato trovato agonizzante circa mezz’ora dopo. Ora il gip dovrà esprimersi per la terza volta su una richiesta di archiviazione che la famiglia non vuole. Cagliari: nel carcere suicidi e autolesionismo? Il direttore Pala "solo atti dimostrativi" di Alessandra Carta sardiniapost.it, 17 ottobre 2015 Una delle finestre sul cortile è la stanza del direttore. Carcere di Uta, strada ovest, Macchiareddu: rettilinei tutti uguali fino al cartello "Casa circondariale Ettore Scalas". La carreggiata si restringe, la svolta è a sinistra. L’ufficio di Gianfranco Pala - 57 anni, una laurea in Giurisprudenza, "direttore con concorso pubblico perché la libera professione non mi interessava" - è al primo piano. Sono le 9 di giovedì 15 ottobre. La visita di Sardinia Post, autorizzata dal ministero della Giustizia, comincia col controllo documenti, al blockhouse davanti al cancello color panna. Il carcere di Uta è aperto dal 23 novembre 2014: 650 posti sulla carta, compresi i 92 del braccio per il 41 bis. Ma l’ala della massima sicurezza non è finita, "l’impresa è fallita", lasciando incompiuti anche la palestra e l’anfiteatro. Le celle sono 205, distribuite su quattro piani divisi ciascuno in tre sezioni. Direttore, un po’ di conti: 558 posti disponibili, di cui 525 occupati, senza considerare i tre detenuti che sono al momento in ospedale. "Carcere già sovraffollato", a sentire il segretario della Uilpa penitenziari, Eugenio Sarno. "Carcere affollato, non sovraffollato". Considerando che la struttura è aperta da appena undici mesi, non si tratta esattamente di un primato: nelle celle da due brande ce ne sono già tre. "Se per quello si può arrivare a quattro". Metri quadrati per cella? "Tredici. E lo spazio per detenuto deve essere di almeno tre metri quadrati. Quindi, è tutto in regola". Difficile pensare che queste condizioni da minimo sindacale non incidano sul percorso rieducativo, ovvero la funzione del carcere. "L’affollamento non c’entra nulla con l’educazione. Se ci fossero meno detenuti, il carcere sarebbe solo più snello. Tuttavia, qui a Uta, a differenza di Buoncammino, si può stare negli spazi comuni per otto ore al giorno". Tipologia dei detenuti? "A fronte di una popolazione carceraria di 525 unità, ospitiamo 416 condannati in via definitiva, 74 imputati, 24 appellanti e 11 ricorrenti (in Cassazione)". Il dato è positivo o negativo? "Per me, è positivo. Se il grosso dei detenuti è già stato condannato, vuol dire che la giustizia funziona. E quella di Cagliari funziona benissimo". Per tornare al report del sindacalista Sarno, in visita a Uta lo scorso 28 settembre, il carcere del Sud Sardegna vale un bollettino di guerra. La Uilpa denuncia intanto 200 casi di autolesionismo. "Di cui il 99,9 per cento di autolesionismo dimostrativo". Cosa vuol dire? "Prendere una lametta e farsi un taglio verticale, senza alcuna conseguenza. E succede come forma di protesta. Perché magari il detenuto è stato cambiato di cella o vuole spostarsi. In un anno si contano solo uno o due casi di autolesionismo vero, cioè tagli orizzontali, con i quali si possono recidere le vene". Sui 43 tentati suicidi cosa dice? "Come sopra: quelli veri sono normalmente uno o due. Quest’anno ancora nessun caso (quando questa intervista è stata fatta, era ancora in vita il detenuto che mercoledì si è stretto un lenzuolo al collo e ieri è morto in ospedale. Sentito in un secondo momento, Pala ha detto: "Il ragazzo deceduto era tossicodipendente e alcolizzato, e aveva alle spalle una drammatica situazione di abbandono. Era sotto cura, nel centro clinico interno. Addirittura, qualche ora prima del gesto è stato sentito dallo psicologo, al quale era parso tranquillo)". Anche i suicidi sono dimostrativi? "Se una persona vuole morire davvero, si mette il cappio al collo e salta. In quel caso perde la vita al cento per cento. Nella stragrande maggioranza dei casi, invece, un detenuto si lascia andare lentamente, col solo obiettivo di richiamare l’attenzione ed essere salvato. Appunto: suicidio dimostrativo". Ha modi un po’ spicci, Direttore? "Dopo trent’anni di professione, abbiamo imparato a conoscere i detenuti, i loro comportamenti e anche le tattiche". Sono comunque richieste d’aiuto, o no? "In ogni struttura penitenziaria bisogna imparare che non vale la regola del tutto e subito. Si chiede e poi si aspetta la risposta. E anche quando è negativa, viene motivata. In Italia per ottenere qualcosa, basta protestare. Ma in carcere non funziona così. Non esiste provare a impietosire con un gesto all’apparenza forte. Dirò di più: se qui lasciassimo le porte aperte, la gran parte dei detenuti non scapperebbe". È sicuro? "Assolutamente sì: tanti detenuti ospitati in questo penitenziario non saprebbero dove andare, non avrebbero di che mangiare e vestirsi. Infatti non chiedono la detenzione domiciliare, che è un diritto quando il residuo pena è inferiore ai due anni. Posso dare anche un numero". Prego. "A Uta 135 detenuti hanno diritto alla detenzione domiciliare. Ma, al momento al magistrato, non è pervenuta alcuna richiesta, che ci verrebbe poi trasmessa. Qui hanno tutto: colazione, pranzo e cena. Dentista, psicologo, cardiologo, oculista e otorino". Grand hotel Uta, insomma. "Il problema italiano non sono le carceri, affollate o sovraffollate che siano. Il problema è l’assenza di una prospettiva". Allora il vostro lavoro è inutile? "Noi siamo un pezzo di Stato, non tutto. Di certo, non si può negare che senza una prospettiva, e intendo una famiglia e una possibilità di lavoro, un detenuto continuerà a delinquere, per poi tornare in carcere un’infinità di volte". Stando sempre al report del sindacato, da novembre 2014 i detenuti ricoverati d’urgenza sono stati 85, "nonostante a Uta ci sia l’ospedale interno". "Abbiamo il centro clinico, ma non i macchinari per la Tac o per la risonanza magnetica. Se un detenuto non sta bene e si avverte la necessità di esami approfonditi, i medici fanno benissimo a disporne il ricovero in ospedale". Botte tra detenuti: la Uilpa ne ha contate 26. "Spintoni per decidere quale canale tv guardare, per esempio. In carcere le dinamiche della convivenza non sono differenti rispetto a quelle tra moglie e marito". I coniugi, di norma, mica si picchiano. "In queste undici mesi, le risse vere sono state due. La più grave quella tra albanesi e sardi". Com’è finita? "Un albanese medicato al centro clinico per alcune leggere ferite. In quell’occasione sì che se le sono date. In carcere, come fuori, ci sono i prepotenti e i maleducati. E come succede oltre queste mura, partono anche i pugni". Scioperi della fame: 106 in undici mesi. "Nessuna flebo fatta in conseguenza dell’astinenza da cibo. Si tratta ancora di azioni brevi e dimostrative". Sette manifestazioni collettive. "Gavette battute sulle sbarre perché, a detta dei detenuti, veniva servito pane duro. O per gli spazi comuni chiusi durante dieci giorni, ma lo si decise in seguito a quella violenta rissa". Minacce e aggressioni ad agenti: il sindacato ne ha denunciati 63. "Un solo vero episodio: un pugno dato da un detenuto con problemi psichici. Un fatto grave, ma si può comprendere il fatto". Quanti stranieri ci sono? "Appena il 18 per cento. Siamo in controtendenza rispetto al dato nazionale: nel resto della Penisola la media è del 36, ma da Firenze in su si arriva anche al 65". Buoncammino che fine farà? "Non ne ho la minima idea. Mi auguro solo che quanto prima si proceda con la manutenzione". Firenze: Fns-Cisl; per l’Opg di Montelupo Fiorentino incertezze e poca cura del personale gonews.it, 17 ottobre 2015 Dopo anni di denigrazione e di disinformazione tra i Cittadini, finalmente con il Governo Renzi si è arrivati alla promulgazione dei Decreti di superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari. Alla data del 31 marzo 2015 tutto doveva essere risolto. Anni di ipotesi e di proposte (la Regione Toscana è stata capostipite tra Tutte) per poi una volta raggiunto lo scopo non essere pronti con nessuna alternativa. La legge ha stabilito che al posto degli Opg ogni Regione deve disporre di una Rems (Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza). Strutture che non devono avere né un aspetto ex manicomiale, né aspetto ex carcerario. Invece passa il 31 marzo 2015 e solo qualche realtà in Italia apre (non la Toscana che ha battuto tutti in chiacchiere e poi nei fatti non ha ancora la REMS, ma nonostante ciò non è stata "Commissariata" come la stessa legge di riforma indicava). Intanto Castiglione delle Stiviere (Mn) ha aperto ben 8 Rems nell’ex Opg, otto strutture da 20 posti per un totale di 160, pari pari quelli che aveva l’Opg. Insomma una furbesca ristrutturazione che ha creato una sorta di ex San Salvi (l’allora manicomio civile di Firenze) con letti a pagamento, rette che vengono pagate dalle Regioni che hanno trovato come non ottemperare alla legge non costruendo e prendendo in carico il problema della gestione degli Internati, ma scaricandoli a Castiglione. Fino a qui ci sarà anche chi non si meraviglia, ma poi arriva la genialata. A Castiglione delle Stiviere hanno superato la capienza prevista dalle 8 Rems ed invece di 160 Internati sono arrivati a 250; basta pagare le Rette ! Altre Regioni invece hanno proceduto a provare a farsi carico del problema, tipo la Sardegna. Peccato però che poi alla Rems di Capoterra (cosi si chiama la Struttura di Cagliari) sono arrivati non gli Internati "Sardi" ma altri, tipo il condannato Chiatti che a Foligno ed in Umbria hanno chiarito non gradirne il ritorno; questo mentre gli Internati "Sardi" erano e restano a Montelupo Fiorentino. Servirebbe ricordare a tutti che questa Legge realizza una situazione unica sotto il piano giuridico internazionale. Infatti il Codice penale risulta invariato e quindi i Giudici si trovano costretti a disapplicarlo per effetto di una Legge di riforma che prevede: Un Cittadino autore di reato (ad esempio omicidio) se capace di intendere e volere viene condannato e va in carcere quale Detenuto. Un altro cittadino autore di identico reato, ma ritenuto incapace di intendere e volere per vizio di mente etc., (quindi alla stregua di un under 14 anni non imputabile di reato) va Internato in Opg. No, scusate va in una Rems (che non esiste per il Codice penale), in esecuzione di una misura penale giudiziaria ma non eseguita dallo Stato tramite la Polizia Penitenziaria (art. 5 della Legge 395/1990) ma dal Servizio Sanitario che - giova ricordarlo - si chiama Nazionale ma è di fatto Regionale. Padova: detenuto evade dall’ospedale, la Polizia penitenziaria lo cattura in una palestra Il Gazzettino, 17 ottobre 2015 Mattinata ad alta tensione a Padova. Un detenuto che sembra avesse una pena da scontare fino al 2023 per vari reati tra i quali rapina, è evaso dall’ospedale. Il fuggitivo, un pregiudicato della provincia di Lecce, Andrea Zambonini, si è nascosto in una palestra ma poco dopo è scattato il blitz dei poliziotti con pistole e mitra in pugno. L’uomo è stato arrestato. Racconta Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe: "L’episodio è accaduto verso le 9. L’uomo, con un balzo felino, si è lanciato dalla finestra al secondo piano del nosocomio dov’era ricoverato. I poliziotti di scorta sono riusciti ad afferrarlo ma, pur strappandogli la tuta, l’uomo è balzato fuori. Immediatamente diramato l’allarme, circa 80 unità della Polizia Penitenziaria della Casa di reclusione patavina si sono messi a pattugliare la città, insieme ad appartenenti ad altre Forze di Polizia fino a trovarlo in una palestra di via Nazareth. Grazie alla professionalità del personale di Polizia Penitenziaria della Casa di reclusione l’evasione è stata limitata nel tempo ed il fuggitivo riacciuffato". Il Sappe, con il Segretario Regionale del Veneto Giovanni Vona, denuncia come "da tempo il Sappe auspica la realizzazione di un Reparto detentivo all’interno dell’Ospedale proprio per garantire il diritto alla salute dei detenuti ricoverati con le esigenze di ordine e sicurezza. Richiesta reiterata più volte nell’indifferenza delle istituzioni ministeriali e regionali. Mi auguro che il grave episodio di oggi favorisca invece la realizzazione di un Padiglione detentivo sanitario nell’Ospedale di Padova". Padova: Cisl-Fp "va tutelata la sicurezza, per ricoverare i detenuti serve reparto-bunker" di Sabrina Tome Il Mattino di Padova, 17 ottobre 2015 Ogni settimana tre ricoveri di carcerati: i sindacati di sanità e polizia penitenziaria chiedono un’area riservata. Roveron, Cisl: a rischio cittadini, infermieri e agenti. Due in un mese e mezzo non sono più soltanto un caso, ma diventano un problema. Il 3 settembre scorso un detenuto, ricoverato con la Tbc nel reparto di Malattie Infettive, era riuscito a scappare calandosi dal balcone. Ieri un altro carcerato si è dato alla fuga passando dalla finestra del secondo piano del Monoblocco. E potrebbe succedere di nuovo considerato che gli "inquilini" del Due Palazzi sono una media di 1.000, che il 60% di loro soffre di una qualche patologia e che ogni settimana si contano tre ricoveri in ospedale. Per questo il sindacato scende in campo chiedendo con forza, a livello locale e regionale, un intervento a tutela della sicurezza dei cittadini, dei lavoratori della sanità e dì quelli della polizia penitenziaria. "Chiediamo alcune stanze riservate ai detenuti oppure, a livello regionale, la creazione di un reparto-bunker", elenca Michele Roveron, segretario generale della Cisl Fp annunciando l’intenzione di sollecitare un incontro con i direttori generali delle aziende sanitarie padovane e interessando altresì l’assessore regionale alla Sanità Luca Coletto. "Si è verificata un’altra evasione, con un pregiudizio per la sicurezza dei cittadini, degli infermieri, degli agenti dì polizia penitenziaria", afferma Roveron, "Ci sono a questo punto due possibilità. La prima: si possono individuare due o tre stanze riservate ai carcerati e una per il personale di polizia che li deve sorvegliare. La seconda: creare un reparto dedicato considerando anche altre realtà carcerarie al di fuori di quella padovana". Va ricordato che in Azienda Ospedaliera, fino a 13 anni fa esisteva un bunker e che successivamente è stato fatto un progetto (rimasto tale) per la sua riapertura al terzo piano del Monoblocco. I detenuti avrebbero potuto contare su un’area di 280 metri e su sette posti letto; ci sarebbe stata una zona d’ingresso controllata e un’ulteriore guardiola. Il costo dell’intervento era di 700 mila euro, con finanziamento della Regione. Il bunker e rimasto nella carta, ora però - alla luce delle due evasioni dall’Azienda Ospedaliera - torna dì estrema attualità. "Ci tacciamo carico di questo problema affinché venga valutato dagli organi competenti", prosegue Roveron, "Personalmente chiederò un incontro con i direttori generali delle aziende sanitarie padovane, mentre i colleghi si interesseranno a livello regionale con l’assessore alla Sanità Luca Colletto". A sostenere tale battaglia anche Giuseppe Terraciano, segretario Cisl Sicurezza, con riferimento ai problemi del comparto da lui rappresentato. Che non solo soltanto di sicurezza, ma anche di organizzazione del lavoro. Con una media di tre ricoveri settimanali di detenuti, infatti, devono spostarsi anche gli agenti: circa 24 ogni settimana. E questo, sotto il profilo logistico, crea diversi disagi. Verona: dopo incendi in carcere, il Sindaco Tosi scrive al ministro della giustizia Orlando di Angiola Petronio Corriere Veneto, 17 ottobre 2015 Provvedimenti rapidi ed esemplari, adeguati alla gravita del fatto. È quanto ha chiesto il sindaco Tosi nella lettera inviata al ministro della Giustizia Orlando in riferimento per gli incendi appiccati nel carcere di Montorio da alcuni detenuti. I sindacati della polizia penitenziaria rilanciano lo stato di agitazione. Lunedì andranno dal prefetto. Per loro la sezione è quella in cui avevano appiccato le fiamme. La seconda, quella dei detenuti sottoposti a sanzioni disciplinari. Sono tornati lì, in attesa del processo per incendio Jil Jesus Maria Paredes e Janku Bahic, i due carcerati che mercoledì hanno dato fuoco a materassi, sedie, scrivanie e armadietti di due celle. Se ne sono stati buoni, ieri, i due "incendiari". Come è stato il detenuto che ha fatto la stessa cosa lunedì. Ma per il carcere di Montorio la "tranquillità" è un concetto alquanto lontano. E non solo per gli accadimenti degli ultimi giorni. Dopo l’intervento del deputato del Pd Vincenzo D’Arienzo, dopo l’interrogazione della senatrice Cinzia Bonfrisco, dopo - soprattutto - sopralluogo del dirigente della direzione "detenuti e trattamento" Roberto Piscitello, ieri è stata la volta del sindaco Tosi. Ha vergato una lettera indirizzata al ministro della Giustizia Andrea Orlando. "Sono episodi di una gravita assoluta - ha scritto il primo cittadino - che non possono trovare alcuna giustificazione e hanno messo m pericolo la vita degli agenti della polizia Penitenziaria e degli altri detenuti. Per questo e per evitare che altri siano tentati di reiterare tentativi di incendio all’interno della struttura è quanto mai necessario che la giustizia prenda provvedimenti esemplari ed adeguati alla gravita del fatto nei confronti dei due detenuti individuati come responsabili degli incendi". In sostanza Tosi chiede quanto già paventato dalla visita di Piscitello e caldeggiato da D’Arienzo. Lo spostamento di quei detenuti "facinorosi" in carceri di massima sicurezza. Intanto rimane caldo anche il fronte della protesta sindacale da parte degli agenti della polizia penitenziaria che da tempo sono schierati su un fronte opposto rispetto alla direzione del carcere. Cgil, Cisl e gli autonomi di Osapp, Sappe e Uspp lunedì pomeriggio alle 18 incontreranno il prefetto Salvatore Muías. Intanto hanno ripreso quella sorta di "sciopero bianco" che stanno portando avanti da due anni. Non si possono, per legge, astenere dal lavoro gli agenti della penitenziaria. Ma le forme di protesta non mancheranno. Hanno ripristinato quello stato d’agitazione e ñ continueranno a chiedere incontri con le istituzioni, torneranno le bandiere fuori dal carcere. Si asterranno dal consumare i pranzi nella mensa, portandosi il cibo da casa. Ma non escludono neanche azioni più eclatanti, come dei presidi davanti al carcere. Chiedono, i sindacati, che a Montorio il ministro della Giustizia mandi un’ispezione. Cosa difficile, visto che era accaduto un anno fa. Speravano che Piscitello ascoltasse anche loro, ma ha parlato solo con i detenuti. E il malessere nel carcere di Verona trabocca. Tra le celle, ma anche tra il personale di sorveglianza. Foggia: i detenuti coltivano la terra, il carcere sia parte integrante della città di Lino Del Carmine (ex assessore ai Diritti Umani del Comune di Foggia) immediato.net, 17 ottobre 2015 "Campi liberi" è un’iniziativa lodevole, così i detenuti aiutano la Caritas. Bene ha fatto don Francesco Catalano della Caritas, ad aderire al progetto, condividendo l’idea che il carcere deve svolgere una funzione rieducativa e non sia una discarica sociale. Un tema questo molto ostico per molti, che si dividono su garantisti e giustizialisti. Mentre io penso che bisogna dare delle chance a chi ha sbagliato, appunto rieducandolo, insegnarli un mestiere e a fine pena dargli la possibilità di poter guadagnare onestamente senza dover delinquere. In passato mi sono cimentato da amministratore di questa città considerando il carcere come parte integrante della città, non solo con iniziative ludiche, ma anche l’esperienza di alcuni giorni all’aria aperta per i detenuti ad imparare la potatura degli alberi al bosco dell’Incoronata. Ben venga la volontà di costituire una cooperativa di ex detenuti per il lavoro e la salvaguardia del bosco dell’Incoronata, immaginiamo quante persone potrebbero lavorarci magari costruendo anche panchine in legno ed altre oggetti sempre in legno, tenendo al contempo il bosco pulito. Toglieremmo di sicuro dalle mani della criminalità, chi ha terminato la pena e non ha nessuna voglia di continuare a delinquere, dando loro una possibilità di vita onesta. Sempre in quel periodo da amministratore mi furono presentati alcuni progetti, tra cui una cooperativa di guardiania a tutela di alcuni parchi cittadini in zone ad alto tasso di inciviltà, di alcuni bulli di quartiere, beh, devo dire che chi ci ha lavorato, pur con uno stipendio minimo contrattuale, non solo si è sentito utile alla società ma in tutto quel periodo non ha in nessun modo avuto la voglia di continuare a delinquere.Il problema è che spesso la politica dimentica di cimentarsi in queste problematiche, per il rischio di perdere qualche consenso o che da queste persone non possano ricevere voti. Io penso chela politica, per definizione, tende ad un ideale, finalizzato alla costruzione di una società "perfetta". Ciò posto in una società ideale non ci sarebbe spazio per un sistema carcerario, in quanto, dominando l’armonia tra gli individui, nessuna forma di prigionia avrebbe luogo. Nel mondo reale, però, purtroppo, gli istituti penitenziari esistono. Anzi sono anche pochi, visto il dramma del sovraffollamento, le cui conseguenze determinano la violazione del dettato dell’art. 27 della Costituzione: "le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato". Anche se in provincia di Foggia ci sono penitenziari terminati con soldi pubblici, ma mai messi in funzione. I detenuti, infatti, stipati come sardine in edifici fatiscenti, sono costretti a espiare pene così disumane, che tanti preferiscono togliersi la vita piuttosto che continuare a resistere alla "tortura di Stato". Così la pena non svolge alcuna funzione di rieducazione, di recupero, come stabilito dalla legge fondamentale dello Stato, ma è solo repressione. È solo punizione. In questo contesto la questione "carcere" si lega a doppio filo con le problematiche della sicurezza e dell’ordine pubblico: lo Stato, infatti, non dotando le strutture carcerarie delle professionalità e degli strumenti necessari a realizzare programmi seri di recupero, finalizzati a un rapido e integrale reinserimento sociale del condannato, provoca inesorabilmente il ritorno al crimine di chi riottiene la libertà. Oggi le prigioni non sono centri rieducativi, ma vere e proprie scuole del crimine, dove chi vi entra, arriva mansueto come un agnello, per uscire poi feroce come un leone, carico di odio e rancore nei confronti delle istituzioni. Chi esce dal carcere non è "recuperato", ma fa "carriera" criminale. Rendendo evidentemente meno sicura la nostra comunità. Questa è una stortura inaccettabile. Bisogna, quindi, invertire questa tendenza con delle mirate misure politiche, che non possono più rinviarsi, se ne esistono le volontà politiche. Si propongono a tale scopo le seguenti proposte: pensare a soluzioni alternative alla detenzione per i numerosi tossicodipendenti, immigrati clandestini e malati psichici rinchiusi nelle case circondariali, al fine di contrastare il fenomeno del sovraffollamento, evitare il carcere come misura cautelare, concedere i domiciliari a chi è a fine pena, finanziare e attuare misure di reinserimento dei detenuti, finalizzate a insegnare un mestiere, per agevolare una futura entrata nel mondo del lavoro, nonché a diffondere la cultura della legalità, del rispetto del prossimo e delle istituzioni. Incrementare le risorse destinate a dotare gli istituti di detenzione di un numero congruo di educatori, assistenti sociali, psicologi professionalmente preparati a svolgere efficaci attività di recupero. Agevolare con leggi ad hoc, che prevedano incentivi interessanti, le aziende che offrono lavoro agli ex detenuti, per contenere il rischio di un loro ritorno al crimine. Promuovere protocolli d’intesa con gli enti locali, ma anche con le imprese al fine di consentire ai detenuti di svolgere lavori socialmente utili durante la loro prigionia. Amnistia come misura straordinaria per fronteggiare l’eccezionale sovraffollamento nelle prigioni. Certo non come in passato che venne approvato l’indulto con la promessa di risorse per i Comuni per l’avvio di progetti di lavoro costituendo cooperative, ma quei finanziamenti non sono mai arrivati e neanche stanziati. Si considera questo appena illustrato una bozza minima di programma, che qualsiasi forza politica può tenerne conto se nella loro agenda politica ci si preoccupa di difendere le ragioni degli "ultimi", degli emarginati, dei deboli, dei dimenticati, dovrebbe sforzarsi di portare avanti in Parlamento, al fine di potenziare i diritti di chi come un "oggetto" viene parcheggiato in quelle autentiche discariche umane che sono le prigioni italiane attuali. Vibo Valentia: diritti dei detenuti e sicurezza del cittadino al festival Leggere & Scrivere strill.it, 17 ottobre 2015 Equilibrio tra istanze della sicurezza, necessità di repressione e rispetto dei diritti del cittadino. Se ne è discusso nell’incontro "Diritto alla sicurezza e sicurezza dei diritti", moderato dall’avvocato Agostino Caridà. La dignità umana è intangibile, ha ribadito Patrizio Gonnella presidente dell’associazione "Antigone". Un principio categorico difeso dalla legislazione europea. Concreto l’intervento di Mario Antonio Galati, in qualità di direttore della Casa circondariale di Vibo Valentia. In un primo momento la necessità dell’istituzione penale si concentrava sulla neutralizzazione dei soggetti pericolosi e la loro riabilitazione, in una visione "medicalizzata del detenuto". Dal 2006, da una finalità riabilitativa, si passa al riconoscimento dei diritti. Il procuratore Mario Spagnuolo quindi, è entrato ancor più nello specifico parlando dell’evoluzione della condizione del detenuto, partendo da esempi immediati: "I lavori forzati - ha illustrato - erano legati al sistema capitalistico, oggi queste esigenze non le abbiamo e la repressione altro non è che espressione della società e del modo di essere della stessa". Rispetto al passato, il legislatore ha dato un chiaro messaggio: "Adesso per noi chiedere il carcere è divenuto un percorso ad ostacoli, estremamente difficile". Previste una serie di misure "alternative" come i domiciliari o l’affidamento in prova ai servizi sociali; salvo poi "quando si verifica il fatto eclatante e spaventoso, diventare tutti forcaioli". Sul lato "umano" dell’esperienza carceraria, si sono focalizzati i contributi di Patrizio Gonnella: "La vita carceraria - ha analizzato - è fatta di corpi, "parliamo 53 mila persone, che provengono per lo più dagli strati bassi della società. Circa il 33% sono extracomunitari, ed il grado di scolarizzazione è simile al secondo dopoguerra". Non per questo il carcere deve essere considerato una discarica sociale. Siena: uno spettacolo con i detenuti del carcere e le storie del chiostro di Santo Spirito antennaradioesse.it, 17 ottobre 2015 La casa circondariale di Siena apre le proprie porte al teatro e partecipa al programma di Siena capitale italiana della cultura 2015. L’Associazione Culturale "Sobborghi" Onlus metterà infatti in scena "Le storie del chiostro", uno spettacolo teatrale dei detenuti della Casa Circondariale di Siena con la regia di Altero Borghi. "Lo spettacolo - spiega Borghi - nasce dall’idea di narrare la storia del chiostro all’interno del carcere di Santo Spirito ma anche tutte le storie che il vivere all’interno di questo spazio - che ha quasi 800 anni di storia - stimola i detenuti a scrivere, descrivere, inventare e pensare. Un sovrapporsi di emozioni, di vissuto, di narrato e di fantasticato che saranno espresse nel percorso scenico della rappresentazione". La prima del lavoro di Borghi coi detenuti è in programma per martedì 13 ottobre alle 17, le altre date sono: martedì 27 ottobre (ore 17), martedì 10 novembre (ore 16), martedì 17 novembre (ore 16) e martedì 15 dicembre (ore 16). Le rappresentazioni si terranno presso il teatro della Casa Circondariale in piazza Santo Spirito 3, al termine di ogni spettacolo sarà offerto un aperitivo "happy hour". L’ingresso è consentito fino a disponibilità di posti ma è necessario prenotarsi entro sette giorni dalla data dello spettacolo, inviando un documento di riconoscimento a questi indirizzi di posta elettronica: cc.siena@giustizia.it e matricola.cc.siena@giustizia.it. Da tempo l’associazione Sobborghi ed il regista Altero Borghi portano avanti il proprio lavoro all’interno della Casa Circondariale senese attraverso un laboratorio teatrale permanente e spettacoli fuori e dentro gli spazi carcerari. Lo spettacolo è realizzato dall’Associazione Culturale Sobborghi Onlus con la partecipazione di Conad e Comune di Siena. Fa poi parte del programma di Siena capitale italiana della cultura 2015 una produzione del Comune di Siena con il Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, la Regione Toscana e la Provincia di Siena ed è realizzato in collaborazione con l’Università di Siena, l’Università per Stranieri, Fondazione Musei Senesi, Biblioteca comunale degli Intronati, Magistrato delle Contrade, Camera di commercio di Siena, Banca Monte dei Paschi di Siena, Fondazione Monte dei Paschi di Siena, Estra, Tiemme, Accademia Musicale Chigiana, Fondazione Siena Jazz, Istituto superiore di studi musicali Rinaldo Franci, Gruppo Polifonico Madrigalisti Senesi, Orchestra a Plettro Senese "Alberto Bocci" e Arcidiocesi di Siena, Colle di Val d’Elsa e Montalcino. Salerno: Lions Club "rieducare e reinserire i detenuti attraverso lo sport" salernonotizie.it, 17 ottobre 2015 Nell’ambito del progetto "Corpus sanum ad mentem sanam. Rieducazione e reinserimento sociale attraverso lo sport", venerdì 9 ottobre 2015 alle ore 11:00, presso la Casa di reclusione A. Caputo di Salerno, si è svolta la manifestazione di consegna degli attestati di istruttore di qualifica alle tredici detenute che hanno frequentato il corso di formazione per istruttore di base di I° livello. L’evento di particolare rilevanza per il nostro territorio, ha avuto lo scopo di alleviare attraverso lo sport e l’istruzione il problema dell’emarginazione nella quale versano i detenuti, favorendo al termine della pena un più agevole reinserimento sociale e lavorativo. Il comitato scientifico, rappresentato dall’avv. Antonella Simone e dall’avv. Marco De Luca ha avuto modo di relazionare ai presenti l’importanza del progetto, non solo per il dettato costituzionale dell’art. 27, ma per i valori etici volti all’inclusione e alla cittadinanza attiva, offrendo ai reclusi un’alternativa al loro profondo disagio, capace di scalfire la monotonia della vita carceraria. Sono intervenuti all’evento: dott. Stefano Martone (Direttore Casa Circondariale), dott. ssa Carmela Fulgione Sessa (Presidente del Lions Club Salerno Arechi), avv. Antonella Simone (Università degli Studi di Salerno), avv. Marco De Luca (presidente Avantgarde Sport), Comm. Antonio Fuscaldo (Governatore Lions Club International Distretto Y108) dott. Luigi Bernabò (Consigliere Comunale di Salerno). Se in nome della lotta al Terrore si torna a legittimare la tortura di Adriano Prosperi Left, 17 ottobre 2015 Nel nome della guerra e di uno stato di eccezione si teorizza la "ticking bombe" come mezzo indispensabile. Torturare e poi misurare dagli esiti se è stato utile farlo: questa in sintesi la proposta consequenzialista. La tortura, vietata dalla Dichiarazione dei diritti umani del 1948, è stata oggetto di una precisa definizione nella "convenzione contro la tortura" approvata dalla Assemblea generale dell’Orni il 10 dicembre 1984. Vi si individua come tortura "qualsiasi atto mediante il quale sono intenzionalmente inflitte ad una persona dolore o sofferenze forti, fisiche o mentali... qualora tale dolore o sofferenze siano inflitte da un agente della funzione pubblica o da ogni altra persona che agisca a titolo ufficiale, o su sua istigazione, o con il suo consenso espresso o tacito". Dunque, un reato del potere; anche nella nostra Costituzione (art. 13, quarto comma). E tuttavia a oggi l’ordinamento italiano non ha una legge che punisca questo crimine. Il che ha reso impossibile perseguire i responsabili delle torture inflitte da "agenti della funzione pubblica" a Genova in occasione del G8. Si pensi alla sconvolgente ricostruzione che ne ha fatto il giudice Roberto Settembre in Gridavano e piangevano (Einaudi). È per questo che la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia. Eppure il nostro Parlamento non sembra avere fretta di colmare la lacuna. Allo stato attuale quelle che sono ancora due Camere hanno consumato molto tempo nel rimpallarsi il progetto di legge presentato dal senatore Manconi. Nei balletti tra Camera e Senato il testo è stato riscritto e svuotato di contenuto. Il reato qui non è più quello compiuto da un "agente della funzione pubblica" ma un fatto privato, qualunque tipo di violenza esercitata da "chiunque" su "persona a lui affidata". Inoltre le violenze o minacce sono diventate nell’attuale formulazione "gravi", "più di una": e devono essere anche "reiterate". Per soprammercato si dovrà provare che l’autore abbia agito "con crudeltà". Dunque Jean Améry, torturato dalle SS, non potrebbe chiedere giustizia perché nelle pagine dedicate al racconto della sua tortura in Intellettuale a Auschwitz si legge che fu l’atteggiamento freddo e distaccato dei suoi torturatori a rendere più atroce la loro azione. Di fatto, non si vede perché quando qualcuno fornito di autorità tortura una persona dovrebbe aggiungervi anche un sentimento personale (a meno che non sia una personalità disturbata da sadismo). Ancora: il progetto di legge richiede che per provare l’esistenza di un reato di tortura si debba dimostrare che esso ha prodotto un "verificabile trauma psichico". Come si fa a verificare un trauma psichico? Sappiamo solo - da Améry e dall’esperienza degli psicologi che lavorano per organizzazioni umanitarie - quanto sia difficile far ritrovare al torturato un rapporto normale non solo con gli altri ma addirittura con se stesso. Lo ha confermato la psicologa Muriel Montagut, collaboratrice di Médecins sans frontières, raccontando le sue osservazioni in un recente seminario pisano presso la Scuola Normale che ha visto come relatori Alberto di Martino, Mauro Palma e molti altri. D’altra parte con la tortura abbiamo anche a che fare con l’avanzare di una legittimazione che sta via via cancellando il patrimonio di convinzioni elaborate da secoli. Viviamo tempi di una guerra mondiale frammentata secondo una definizione ormai proverbiale. Ma c’è un protagonista che emerge come il nemico assoluto: il Terrore. In nome della guerra a questo nemico si sta retrocedendo velocemente dalla comune coscienza dei diritti inviolabili e si ripropone il ricorso alla tortura come indispensabile per far fronte alla minaccia. Marina Lalatta Costerbosa, dell’università di Bologna, ha analizzato gli argomenti con cui sta avanzando una legittimazione del ricorso alla tortura fondato sulla condizione dello stato di eccezione imposto dalla lotta al terrorismo e teorizzato con l’argomento della "ticking bombe". Torturare e poi misurare dagli esiti se è stato utile farlo: questa in sintesi la proposta "consequenzialista". Ma il bello è che in Italia la resistenza all’introduzione di una norma specifica si basa sulla ragione opposta: il nostro felice Paese non avrebbe alcun bisogno di questa norma semplicemente perché da noi la tortura non c’è. Questo l’incredibile argomento con cui, in un Parlamento di nominati, forze politiche diverse messe sotto pressione dai sindacati di polizia, stanno cercando di svuotare di ogni contenuto la legge su una questione che resta molto grave. Guerra sporca, i droni a carte scoperte: il 90% vittime innocenti di Luca Celada Il Manifesto, 17 ottobre 2015 Scoop mondiale di "The Intercept", la redazione di controinformazione di Greenwald e Poitras (gli stessi del caso Snowden-Nsa). Una nuova "gola profonda" rivela nel dettaglio tutti i meccanismi e la catena di comando di queste cieche macchine di morte. Fino al 90 % di vittime dei "bombardamenti mirati" dei droni americani sarebbero state innocenti. Lo rivela un rapporto di the Intercept, la redazione di controinformazione digitale fondata dal giornalista Glenn Greenwald e Laura Poitras, la regista di Citizen Four (il documentario su Edward Snowden). Nel rapporto, una serie di articoli meticolosamente circostanziati grazie a documenti riservatissimi del joint special operations command, il riferimento all’origine del carteggio è semplicemente "la fonte". Due anni fa Poitras e Greenwald furono già i depositari delle rivelazioni di Edward Snowden sulla sorveglianza totale della Nsa ma i nuovi documenti che rivelano in dettaglio i retroscena delle "uccisioni mirate" Usa provengono, ormai è chiaro, da un secondo individuo. Forse si tratta della persona cui si fa riferimento al termine di Citizen Four, in cui Greenwald e lo stesso Snowden commentano, dal rifugio russo di quest’ultimo, l’esistenza di una nuova "gola profonda" che dall’interno dell’ apparato di sicurezza nazionale avrebbe deciso di seguire il suo esempio. I documenti resi pubblici da Intercept, in collaborazione con Huffington Post per avere maggiore visibilità, costituiscono una documentazione voluminosa e minuziosa sulle operazioni segrete che gli Stati Uniti da anni conducono in Afghanistan, Pakistan, Yemen e Somalia a mezzo di droni telecomandati usati per "neutralizzare" obiettivi nemici, come vengono designati nel burocratese della Cia gli individui inseriti nella "kill list". Il dossier comprende statistiche su numero e ubicazione delle operazioni, numero di vittime e le modalità di selezione impiegate per individuarle. In diagrammi e grafici powerpoint da congresso aziendale vengono illustrate le modalità organizzative del complesso militare segreto creato per combattere i terroristi. Si spiega ad esempio come funziona la kill chain, la catena di comando per le uccisioni "mirate" che culmina con l’autorizzazione firmata della casa Bianca. Segue il protocollo di "esecuzione" che prevede ulteriori firme, come quella del "capostazione" Cia e ambasciatore in loco. Si delineano con dovizia da aggiornamento professionale le più efficienti "tecniche di caccia all’uomo" impiegate nell’ Hindu Kush. La fonte dei documenti non viene mai rivelata da the Intercept (che mantiene un server criptato per le denunce anonime) ma nel rapporto viene citato. "È un esplosione di monitoraggio", sostiene fra l’altro "l’informatore", "una catalogazione di individui a cui vengono assegnati numeri (…) e condanne a morte senza avvertimento su un campo di battaglia mondiale". Una campagna, come scrive uno degli autori di Intercept, Jeremy Scahill, perseguita all’insegna della parossistica segretezza da "due presidenti nell’arco di quattro mandati". Ma come si delinea in base ai nuovi documenti, il programma istituito da Bush dopo l’11 settembre è stato ingigantito e potenziato da Obama che ha adottato la guerra segreta come strategia sostitutiva a fronte del ritiro di forze convenzionali da Iraq e Afghanistan. Scahill, già autore del bel documentario Dirty Wars su questo stesso argomento, rivela inoltre i dettagli del pressing esercitato su Obama subito dopo la sua elezione per sviluppare un complesso bellico occulto il cui budget si calcola ormai in trilioni di dollari. "Una dottrina", sempre secondo Scahill, "che ha alimentato una guerra senza frontiere ormai raffinata e istituzionalizzata (e) normalizzato l’assassinio come componente centrale della politica antiterrorista americana". "Normalizzato" è stato anche il concetto di danno collaterale accettabile. I documenti rivelano ad esempio che nell’operazione denominata Haymaker condotta in Afghanistan fra il gennaio 2012 e febbraio 2013 i droni delle forze speciali hanno fatto 200 vittime di cui solo 35 erano bersagli intenzionali. Lo scorso gennaio una bombardamento telecomandato mirato su "bersagli nemici" ha ucciso anche il contractor americano Warren Weinstein e il cooperante siciliano Giovanni Lo Porto, ostaggi degli Afghani. L’istituzionalizzazione delle esecuzioni extralegali sono il contrappunto alle detenzioni illimitate di Guantanamo. L’appalto della guerra a forze speciali e Cia ha determinato una deriva verso l’assassinio come metodo risolutivo e, come dimostra la piccola "guerra mondiale" nei cieli della Siria, ha avuto un inarrestabile effetto di contagio. Fra le tante ironie nessuna forse è più amara della recente cronaca afghana con la riconquista talebana di Kunduz, il bombardamento americano dell’ospedale di Msf e il dietrofront sul ritiro delle ultime truppe. Con l’ascesa dell’Isis, a conferma oltretutto della futilità effettiva di 13 anni di mortifere operazioni segrete. Conclude la talpa di Intercept: "Abbiamo consentito che questo accadesse e quando dico "noi" mi riferisco a ogni cittadino americano con conoscenza dei fatti, che tuttavia continua a non fare nulla". Ankara gela l’Ue: "Nessun accordo sui profughi". Consiglio europeo senza risultati di Carlo Lania Il Manifesto, 17 ottobre 2015 L’entusiasmo europeo per un accordo con la Turchia sui migranti è durato poco. A gelare gli animi ci ha pensato ieri un portavoce dell’Akp, il partito del presidente Recep Tayyip Erdogan smentendo che sia stata raggiunta alcuna intesa al termine della missione che il vicepresidente della commissione Ue Frans Timmermans ha condotto giovedì nel paese. Una dichiarazione che coglie di sorpresa i vertici di Bruxelles al punto che dalla commissione Ue e dal consiglio europeo arrivano nel giro di poche ore dichiarazioni contrastanti tra loro. "Per noi da ieri sera (giovedì, ndr) c’è un accordo", dice infatti la portavoce della commissione presieduta da Jean Claude Juncker. Poco dopo fonti del Consiglio correggono il tiro: "È vero che non abbiamo un accordo. Il piano di azione è più una dichiarazione di buona volontà che un accordo" ammettono alcuni alti funzionari facendo capire come "senza soldi" sia difficile convincere Ankara. Un giallo che ben rappresenta la confusione che a quanto pare regna a Bruxelles in queste ore. Il vertice dei capi di stato e di governo che si è concluso giovedì notte sembra infatti aver raggiunto ben pochi risultati. Ad esempio anche una questione come la creazione di un meccanismo automatico di redistribuzione dei richiedenti asilo, che pure sembrava ormai acquisita, è ancora in altro mare sempre per l’ostruzionismo dei paesi dell’est e della Spagna. Ma è il fascicolo Turchia quello che in queste ore appare il più spinoso. A segnare la distanza tra Ankara e bruxelles ci ha pensato lo stesso Erdogan: "la sicurezza e la stabilità dell’Occidente e dell’Europa dipendono dalla nostra sicurezza e stabilità", ha detto il presidente parlando della crisi dei rifugiati e del mancato accordo con Bruxelles."ma se dipende dalla Turchia perché non la prendete nell’Ue?". E ancora più polemicamente: gli europei "annunciano che prenderanno 30-40 mila rifugiati e vengono nominati per il Nobel. Noi ne ospitiamo 2 milioni mezzo e a nessuno importa". In ballo ci sono i finanziamenti destinati alla Turchia per aprire nuovi campi profughi e applicare maggiori controlli alle frontiere. Al termine della sua missione Timmermans aveva parlato di 3 miliardi di euro da destinare ad Ankara, ma i capi di stato e di governo hanno frenato E lo stesso hanno fatto sulle richieste più politiche avanzate da Ankara per impedire ai migranti di raggiungere l’Europa, come l’accelerazione della liberalizzazione dei visti, l’inserimento della Turchia nella lista dei paesi sicuri e lo scongelamento del processo di ingresso nell’Unione. Tutti punti sui quali è emerso più di un dubbio tra gli stati membri, anche se non ci sarebbe un rifiuto a priori su nessuno di essi. Per ora, però, vince la prudenza e si è preferito rimandare ogni decisione a un prossimo vertice, ma soprattutto a dopo le delicate elezioni politiche turche fissate per il 1 novembre. Nel frattempo ai 28 non mancano certo punti sui quali litigare. I paesi del gruppo Visegrad (Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia e Polonia) continuano a opporsi alla distribuzione dei richiedenti asilo e soprattutto all’idea che questa avvenga in maniera automatica. A loro si è aggiunta anche la Spagna. Una presa di posizione che al vertice della scorsa note ha fatto scattare la cancelliera tedesca: "Non riesco a capire perché i paesi dell’est ritengono di non essere trattati bene", ha detto Angela Merkel. "Devo capire perché reagiscono così a una delle sfide che l’Europa deve affrontare". Altro punto caldo sono i soldi promessi per i trust fund su Siria e Africa: mancano ancora 2,2 miliardi di euro: la soluzione trovata prevedrebbe uno stanziamenti graduali, partendo quest’anno con 500 milioni di euro prelevato dal bilancio Ue e altri 500 messi a disposizione dagli stati membri. Dietrofront tedesco sui migranti, aumentano le restrizioni di Jacopo Rosatelli Il Manifesto, 17 ottobre 2015 Germania. Kosovo, Albania e Montenegro sono considerati paesi "sicuri", beni e servizi anziché diarie, più tempo nei centri di raccolta. Da ieri è ufficiale: in Germania entrano in vigore nuove norme sul diritto d’asilo, più restrittive. Il via libera definitivo è arrivato dal Bundesrat, la camera in cui siedono i rappresentanti dei governi regionali. E in cui gli equilibri sono diversi da quelli dell’altro ramo del parlamento, il Bundestag, dove la grosse Koalition fra democristiani (Cdu/Csu) e socialdemocratici (Spd) gode di una schiacciante maggioranza: nella camera dei Länder la coalizione che sostiene il governo di Angela Merkel ha soltanto 24 seggi sui 69 totali. Per raggiungere i numeri necessari, c’era bisogno che dicessero "sì" anche esecutivi regionali in cui sono presenti i Verdi: ed è ciò che ieri è puntualmente accaduto. Nonostante i malumori interni, e l’astensione dei loro compagni nell’altro ramo del parlamento, i Grünen che amministrano il Baden-Württemberg, lo Schleswig-Holstein e la Renania-Palatinato (con la Spd) e l’Assia (con la Cdu) hanno deciso di sostenere le nuove regole. Gli unici Länder a non approvare l’inasprimento delle condizioni di vita dei profughi sono stati la piccola città-stato di Brema, dove gli ecologisti hanno imposto l’astensione agli alleati socialdemocratici, Brandeburgo e Turingia, dove a impedire il voto favorevole è stata la Linke. Cosa cambia dunque per i richiedenti asilo? Innanzitutto, non potranno più essere considerati tali quelli che arrivano da Kosovo, Albania e Montenegro, che passano ad essere considerati ufficialmente "Paesi sicuri". Evidentemente, in pochi si sono accorti dei tumulti scoppiati a Pristina nei giorni scorsi, legati ovviamente alle difficili relazioni e alla tensione esistente fra maggioranza albanese e minoranza serba: il fatto che in quella parte di Balcani operi tuttora un contingente di "peace enforcing" della Nato dev’essere un dettaglio trascurabile. Per molti critici, compresa la principale ong che si occupa di profughi, Pro-Asyl, è questo l’aspetto peggiore della nuova normativa. Ma c’è dell’altro: le procedure di allontanamento vengono semplificate, ai migranti verranno elargiti beni e servizi invece delle diarie, e aumenta il periodo di tempo in cui dovranno stare nei centri di raccolta. Il cosiddetto "bicchiere mezzo pieno", su cui hanno fatto leva i Verdi che ieri hanno detto "sì", consiste nell’aumento dei finanziamenti per le amministrazioni locali che devono affrontare l’"emergenza", e nell’investimento in nuovi programmi di integrazione, a partire dal settore dell’educazione infantile. Il segno complessivo delle nuove regole è comunque regressivo, fondandosi sul dogma della distinzione fra profughi "legittimi", come i siriani, e "illegittimi", come tutti i cosiddetti "migranti economici". Il clima in Germania non è più quello degli applausi alla stazione di Monaco e dei selfie della cancelliera nei centri di accoglienza: il vento è cambiato e soffia nella direzione gradita al governatore bavarese Horst Seehofer e alle destre di varia natura: dagli ultra-conservatori di Alternative für Deutschland ai "Patrioti contro l’islamizzazione" di Pegida, che organizzano marce molto partecipate. Merkel deve fare i conti con una crescente fronda nel proprio partito: l’ultimo a farsi sentire, ieri, è stato il democristianissimo governatore della Sassonia, Stanislaw Tillich, che ha dichiarato di "comprendere" chi nutre riserve verso le scelte compiute dalla sua leader. In evidente difficoltà, la cancelliera deve andare incontro agli oppositori: ed è per questo che in un’intervista pubblicata nell’edizione odierna della Frankfurter Allgemeine, ma anticipata già nella serata di ieri, dà l’ok alla proposta di creare nelle zone di confine degli speciali centri di raccolta (Transitzone) riservati ai profughi che vengono dai cosiddetti Paesi sicuri. Un modo, evidentemente, per rendere quasi automatico il loro respingimento, impedendo la "dispersione" nel Paese. Un progetto inquietante, a cui la Spd - per fortuna - si dichiara contraria. Medio Oriente: Israele e Palestina sull’orlo del precipizio di Lucio Caracciolo La Repubblica, 17 ottobre 2015 È la carenza di prospettive che distingue la cosiddetta "terza intifada" dalle due precedenti. Se Abu Mazen è figura patetica, Hamas non sta molto meglio, pur se cerca di cavalcare la rivolta. Quando nulla appare più possibile tutto diventa possibile. Persino che la Terra di Israele / Palestina s’avviti nel caos. Per mancanza di alternative. Giacché ormai tutte le ipotetiche soluzioni alla questione della sovranità sull’ex mandato britannico appaiono consunte. Impraticabili. Ai due Stati conviventi in pace l’uno al fianco dell’altro non crede più nemmeno chi per dovere di ufficio continua a sacrificarvi celebrando spente liturgie, vuoi per perpetuare lo status quo (Netanyahu) vuoi per segnalare la propria altrimenti impalpabile esistenza (Abu Mazen). Quanto allo Stato binazionale, ipotesi a suo tempo coltivata da alcuni protosionisti, presuppone un grado di fiducia fra concittadini arabi ed ebrei di cui oggi non si vede traccia. Restano in teoria alcune non-soluzioni - misure volte non a risolvere la disputa territoriale ma a limitare la violenza. Come l’apartheid in stile sudafricano, che però sancirebbe la morte della democrazia israeliana, insieme legittimando la guerriglia palestinese giacché chi si batte contro la discriminazione per razza non può essere bollato terrorista. E provocherebbe aspre forme di embargo inter-nazionale contro Israele, oltre a ritorsioni sugli ebrei in diaspora. Se poi lo Stato ebraico intendesse moltiplicare "barriere di separazione" e check point per limitare la diffusione della violenza palestinese, finirebbe per imprigionare se stesso, non solo i Territori, in un labirinto inabitabile. Già si trova a sezionare Gerusalemme, che pure vuole capitale una e indivisibile. È la carenza di prospettive che distingue la cosiddetta "terza intifada" dalle due precedenti. In questo caso il termine "intifada" ("rivolta") è però improprio. Qui non si tratta di una ribellione politica, più o meno armata e violenta, come in passato. Questa è la rivolta dei senza speranza. Soli, scoordinati, senza riferimenti. Almeno per ora. I giovani arabi che in Israele accoltellano per strada i concittadini ebrei o che vengono a loro volta liquidati dalle forze di sicurezza di Gerusalemme non perseguono un progetto politico. Non rispondono a nessun capo. E i palestinesi dei Territori hanno spesso perso quella minima base economica che consentiva loro di compensare la sconfitta geopolitica - vivere per sempre sotto occupazione. Le elemosine provenienti dall’esterno, soprattutto dal Golfo, cominciano a scarseggiare, sia perché i "benefattori" sono in altre faccende affaccendati (per esempio noleggiare jihadisti sul fronte siriano), sia perché i confratelli arabi si sono stancati di fingere d’interessarsi alla causa palestinese (specie gli islamisti radicali, seguaci del "califfo" inclusi). L’intelligence israeliana discetta di "attacchi ispirati", diversi dal "terrore guidato". Violenza spontanea, non studiata. Ne sono protagonisti anche giovani acculturati, insospettabili. Ma deprivati socialmente e politicamente. Perché oggi il frastagliatissimo campo palestinese non esprime una guida. Se Abu Mazen è figura patetica, Hamas non sta molto meglio, pur se cerca di cavalcare la rivolta. La Cisgiordania è abbandonata a se stessa, mentre la Striscia di Gaza è infiltrata da cellule salafite, che lanciano sporadici razzi contro lo Stato ebraico. Sul fronte israeliano, Netanyahu è accusato di mollezza. Questa crisi lo ha sorpreso. Per lui il problema palestinese era in naftalina. Una fastidiosa infezione da tenere sotto controllo con qualche antibiotico, non certo una minaccia esistenziale. Soprattutto, gli mancano efficaci strumenti di reazione. Aerei e carri armati non servono contro i coltelli. Mentre Israele vincerebbe a mani basse qualsiasi guerra con i vicini e potrebbe venire a capo di una classica intifada colpendone le centrali vere o presunte, contro questo caos, esteso dalla Cisgiordania al territorio nazionale - dove è in questione l’asimmetrica coesistenza fra minoranza araba e non troppo omogenea maggioranza ebraica - il governo di Gerusalemme si scopre quasi inerme. Sicché gli ebrei israeliani ricorrono al fai-da-te, allestendo squadre di vigilantes o semplicemente girando armati, come il sindaco della capitale, Nir Barkat, che ostenta la sua pistola davanti alle telecamere. E a scanso di equivoci twitta (8 ottobre): "Attentati terroristici a Gerusalemme possono essere prevenuti grazie alla rapida risposta di cittadini responsabili. Detentori autorizzati e addestrati di armi possono salvare vite". C’è ancora tempo per evitare il caos che eccita gli estremisti musulmani ed ebrei, i quali amano santificare la propria causa con i colori del fanatismo religioso, nella terra più sacra ai tre monoteismi. Finora Israele ha resistito quale isola stabile e prospera nel mare in tempesta delle guerre islamiche. Oggi però la minaccia viene da dentro. E ne mette in gioco l’identità. Dunque l’esistenza. Colombia: Manolo Pieroni "Italia, riportami a casa… devo stare vicino la mia famiglia" di Andrea Spinelli crimeblog.it, 17 ottobre 2015 Detenuto dal luglio 2011, Manolo Pieroni chiede di poter tornare dalla famiglia: prigioniero della burocrazia? Era l’8 luglio del 2011 quando all’aeroporto colombiano di Cali il 30enne lucchese Manolo Pieroni, che viveva da qualche mese in Colombia cercando di avviare un ristorante italiano, veniva bloccato mentre si accingeva ad entrare nell’aereo che lo avrebbe condotto prima a Madrid e poi a Pisa. Pieroni anticipava il rientro di qualche settimana a causa dell’aggravarsi delle condizioni di salute del padre; durante il controllo del suo bagaglio il giovane lucchese sostiene di riconoscere il suo borsone ma non il lucchetto che ne chiude la cerniera. Una volta forzato, gettati alla rinfusa tra i suoi vestiti, i poliziotti rinvengono 7kg di cocaina avvolti nel cellophane, una quantità che basta per essere giudicati dalla legge speciale contro il narcotraffico, in Colombia. All’arresto sente il mondo cedere sotto i suoi piedi. Da subito si professa innocente ma dopo due anni di calvario giudiziario durante i quali se la deve cavare da solo viene condannato a 21 anni e 4 mesi per traffico internazionale, produzione e commercio di sostanze stupefacenti (un reato unico in Colombia). A causa dei continui spostamenti da un carcere all’altro, da Villa Las Palmas dove è attualmente detenuto all’infernale carcere di Buga, sconsiglia lui stesso ai familiari di fargli visita perché non saprebbe dove indirizzarli, mentre l’ambasciata italiana di Bogotà non risponde mai alle sue richieste di assistenza: alla condanna il mondo gli crolla addosso per la seconda volta. In carcere Manolo scopre una realtà parallela. Attualmente si trova detenuto nel penitenziario di Villa Las Palmas, vicino Cali, una struttura dove l’ordine e le regole non sono imposte dalle autorità ma da una vera e propria "cupola" che controlla i traffici ed ogni aspetto della vita delle persone detenute in quel carcere. Qui scopre che quel giorno all’aeroporto avrebbe fatto da "mula involontaria": secondo quanto gli viene raccontato da altri detenuti, capita che gruppi di narcotrafficanti aprano le valigie di ignari passeggeri poco prima di essere imbarcate sul volo, le riempiono di droga e fanno la soffiata ai doganieri. Una vera e propria "mossa Kansas City", utile a distrarre i controlli per poter far passare carichi di droga più consistenti. Sono centinaia i cittadini stranieri che ogni anno sono vittime di questo sistema, anche se Pieroni non è mai stato in grado di dimostrarlo in Tribunale. Secondo quanto denunciato dallo stesso Pieroni però il suo processo sarebbe stato viziato da discriminazioni e superficialità, oltre che da un’assistenza legale che a suo dire lo ha letteralmente "frodato", anche in termini economici. L’appello presentato dopo la condanna ha confermato la sentenza. Noi di Blog siamo riusciti a metterci in contatto con Manolo Pieroni, che il 10 ottobre scorso è riuscito ad inviare in Italia alcune immagini girate all’interno della sezione del carcere in cui vive da 4 anni. Ecco la sua testimonianza esclusiva. Come è la sua vita da quattro anni a questa parte? "Durante il processo è stata durissima perché mi trasferivano in continuazione e senza preavviso da qui al carcere di Buga per le udienze: quello era veramente un posto con condizioni deplorevoli. Ci chiudevano dentro le celle alle 4 del pomeriggio e restavamo dentro fino alle 5 della mattina: non c’erano bagni, non c’era niente, eravamo obbligati a fare i bisogni nei sacchetti e nelle bottiglie, una cosa indecente. Eravamo in 10 in una cella da 5, uno sopra l’altro. [...] Qui dove sono ora è un pochino più decente ma all’inizio pensavo che fosse la fine della mia vita." Come si vive nel carcere di Villa Las Palmas? "Nel patio dove vivo c’è spazio per circa 70 posti letto ma ci viviamo in 115, 120 persone. In totale in tutto il carcere siamo circa 2500 in una struttura pensata per 1000 persone: per questo motivo è passato molto tempo prima che trovassi un posto letto, fino a poco fa dormivo su un materasso in terra. Ora grazie a Dio posso dire che va un pochino meglio. [...] Non c’è luce naturale e molti detenuti accusano sensibili cali di vista e di udito, perché siamo costretti a tenere accesi tutto il giorno e tutta la notte i motori per la ventilazione, che fanno un rumore infernale. Anche io vedo e sento peggio di quando sono entrato qui. [...] C’è un’unico spazio aperto, un piccolo cortile di 5 metri per 7, ma è ininfluente. [...] Sai quante persone ho visto che si sono impiccate qui dentro?" Come sono i rapporti con gli altri detenuti? "Tra noi stranieri diciamo più o meno bene. In realtà qui c’è una cupola che ha il potere, non sono le guardie a comandare qui dentro ma una vera e propria organizzazione: vende posti letto, vende la droga, vende le armi, fa estorsioni, ruberie...qui si dorme con un occhio aperto e bisogna non aver mai paura, sennò si approfittano immediatamente del più debole. Io cerco di tenermi il più alla larga possibile dai problemi ma ci sono stati dei momenti, tempo indietro, dove ho dovuto far capire che so difendermi anche io sennò qui ti mettono i piedi in testa ogni minuto; e poi non mi piacciono le prepotenze, non mi piace che qualcuno si approfitti della gente indifesa e allora prendo sempre le difese di queste persone, sopratutto degli stranieri perché siamo i più discriminati". Di stranieri ce n’è di tutte le nazionalità: spagnoli e portoghesi, altri due italiani, un cittadino ceco, un lituano e poi tanti sudamericani di vari Paesi, dall’Honduras al Guatemala. E invece con le guardie come sono i rapporti? "Se hai i soldi ti portano qualsiasi cosa. E quando dico "qualsiasi" intendo veramente "qualsiasi" cosa. Ma non c’è mai da fidarsi. Nei primi tempi erano più irruenti e arroganti, ora cercano più il lato economico che non la violenza, quando c’è qualcosa che non va qui dentro bisogna sempre trarne il maggior beneficio possibile." Ha mai subito violenze di qualche tipo? "Ho subito due aggressioni: una nell’altro carcere quando mi hanno aggredito con un coltello, ho ancora le cicatrici sulla spalla destra. L’altra qui, ma si è risolta in una scazzottata, niente di che. [...]. I motivi per cui avvengono queste cose sono sempre gli stessi: tentativi di estorsione o di furto o futili motivi. Quando si arriva al limite ci si ribella, non si può sempre subire". E le condizioni igieniche come sono? "Sono disastrose: qui quello che possiamo fare lo facciamo noi detenuti. Mettiamo assieme dei soldi e compriamo tutto ciò che serve per le pulizie all’interno del patio, qui l’amministrazione non si occupa assolutamente di niente. Se ci sono guasti o danni dobbiamo pensarci noi. [...] L’assistenza medica è anche peggio: in teoria dovrebbero essere visitate 10 persone a settimana ma sono sempre meno, 5-6...per qualunque cosa il rimedio è sempre l’aspirina e non esistono urgenze: ho visto gente piangere chiedendo di andare in infermeria mentre le guardie rispondevano che non era possibile e che il medico non c’era. [...]. Io per fortuna ho sempre goduto di buona salute". Come funzionano i pasti? "La mattina alle 6 abbiamo la colazione, alle 11 c’è il pranzo ed alle 2 e mezza del pomeriggio la cena. E se non si hanno derrate alimentari da parte fino al mattino dopo non si mangia più niente". Com’è stata l’assistenza da parte delle autorità italiane? "Da quando sono qui l’ambasciata l’ho vista la prima volta dopo due anni e non è che non li avessi mai sollecitati. [...] Vennero dopo un’interrogazione parlamentare presentata allora da Achille Totaro che smosse un po’ le acque. [...] Noi italiani qui dentro abbiamo anche chiesto loro se ci aiutavano, più che altro sotto il profilo alimentare: abbiamo dovuto far lotte, documenti scritti, minacciare denunce...alla fine ci hanno riconosciuto un aiuto alimentare ogni tre mesi ma ci arriva qualcosa una, due volte l’anno. [...] Grazie a Dio c’è un prete italiano, padre Angelo, che da qualche tempo ci fa da intermediario con l’Ambasciata: lui è veramente una persona squisita che devo ringraziare tanto. È solo grazie a lui che possiamo comunicare con l’Ambasciata, è lui che porta le nostre ragioni da loro per farci dare ascolto: viene ogni tanto a farci visita, ci chiede se abbiamo bisogno di qualcosa, ci dà forza e sostegno come può. È una persona da ammirare, se non fosse per lui saremmo abbandonati qua." In carcere Pieroni cerca lentamente di organizzarsi, riceve quando possibile le visite della sua compagna Solange Del Carlo, che va in Colombia più volte l’anno e che qui in Italia da 4 anni fa una battaglia campale per far conoscere la vicenda del suo promesso sposo. Una donna, anche in questo caso, che dimostra una forza fuori dal comune ed una determinazione più unica che rara battendosi come una leonessa, sin qui contro i mulini a vento, e non dandosi mai per vinta. Dal giorno della sentenza Pieroni intraprende allora una strada diversa per cercare di rivedere la luce: chiedere il rimpatrio. "L’importante ora è tornare in Italia poi là vedrò come fare: devo stare vicino alla mia famiglia, loro hanno bisogno di me in questo momento" spiega Pieroni a Blogo. Le difficoltà della sua famiglia, economiche e sanitarie, sono infatti notevoli: il padre invalido al 100% e la madre anziana, la sorella Debora che combatte indomita nonostante la diagnosi di un male incurabile. E poi c’è Solange, la sua compagna di vita e di sofferenza: ogni volta la nomina Pieroni cambia tono di voce, che trema d’amore e dolore: "Lei è la mia anima, il mio respiro. Si è annullata per me in questi anni, è una persona eccezionale. Non so come avrei fatto senza di lei, senza il suo amore, e senza il sostegno della mia famiglia, sarei stato abbandonato qui e dimenticato da tutti. [...] Devo tornare per loro, hanno bisogno di me". Pieroni intraprende da tempo una lunga corrispondenza con il Ministero della Giustizia di Bogotà e persino con il Presidente della Repubblica Juan Manuel Santos. L’obiettivo è ottenere un rimpatrio per ragioni umanitarie a causa dei problemi di salute dei familiari; la Commissione ministeriale colombiana preposta a valutare il suo caso risponde lo scorso 19 febbraio comunicando la propria disponibilità a valutare con le autorità italiane un rimpatrio per ragioni umanitarie dipendenti dallo stato di salute del padre Giuseppe Pieroni. Il Ministero colombiano ha inoltre informato Manolo Pieroni che avrebbe contattato le autorità italiane competenti (il Ministero della Giustizia a Roma) per formalizzare definitivamente il rimpatrio. Le autorità italiane rispondono ai colombiani con una nota verbale emessa dall’Ambasciata italiana di Bogotà lo scorso 21 maggio 2015, recante la decisione del Ministero di Giustizia: le autorità italiane sostengono che "non esiste un accordo bilaterale tra Italia e Colombia in materia di trasferimento dei detenuti che permetta il rimpatrio del cittadino italiano" e rincara la dose il 17 giugno, con una email nella quale si spiega che in materia la Convenzione di Strasburgo sul trasferimento di persone condannate del 1983 è inutile (la Colombia non ne fa parte). Occorrono "altre basi legali per il trasferimento per ragioni umanitarie del signor Pieroni, già approvato dal vostro Comitato". Manolo Pieroni si troverebbe quindi incastrato in una trappola burocratica. Le autorità italiane manifestano sì l’intenzione di procedere con una trattativa sugli accordi bilaterali pendenti in materia di estradizione, cooperazione giuridica e trasferimento dei detenuti, ma la sostanza è che dopo quattro anni di detenzione Pieroni resta in carcere a Palmira. "All’Ambasciata italiana di Bogotà sto chiedendo da due mesi questo documento del nostro ministero di Giustizia, per studiarlo e capire come muovermi, ma mi hanno detto che devo chiederlo direttamente al ministero a Roma perché loro non possono inviarmi questo documento. Il Ministero della Giustizia non mi ha mai risposto però: oramai ho scritto a tutto il mondo, mi manca solo il Papa". La voce di Pieroni è concitata, la conversazione si interrompe più volte perché le autorità colombiane hanno installato delle apparecchiature che annullano il segnale per impedire ai detenuti di mettersi in contatto con l’esterno: "Il mio stesso Paese, che dovrebbe tutelare i miei diritti e che firma trattati internazionali in Europa per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, mi nega un rimpatrio per ragioni umanitarie motivando con problemi burocratici... ma non è un controsenso?". Svizzera: il carcere La Stampa non sarà a "cinque stelle", risorse ridotte da 142 a 35 mln di Gianni Righinetti Corriere del Ticino, 17 ottobre 2015 Il carcere della Stampa non diventerà una struttura di lusso. Il direttore del Dipartimento delle istituzioni Norman Gobbi spiega il perché e traccia la via per una revisione degli standard da hotel a cinque stelle delle strutture pubbliche in genere. Ha deciso di dare un taglio netto agli investimenti per il nuovo carcere: da 142 a 35 milioni di franchi. Perché? "La situazione delle finanze cantonali è chiara a tutti: se dobbiamo tirare la cinghia, questo va fatto anche sugli investimenti e non solo sulla gestione corrente. Non bisogna infatti mai perdere di vista la realtà. Un investimento produce sempre un effetto diretto sulla gestione corrente. Nel caso del carcere è vero che la struttura, con i suoi 50 anni, non è più perfettamente adeguata, ma la si può rimodernare riducendo la spesa senza per questo mettere a rischio quella che è la sua funzione primaria". Con questa mossa vuole fare passare il messaggio "io i compiti li ho fatti" in vista della manovra che vi impegnerà nei prossimi mesi? "No, non direi. Sono scelte che andavano prese in questo momento, dato che il prossimo passo sarebbe stata la presentazione della richiesta di crediti di progettazione del nuovo carcere all’attenzione del Parlamento. La tempistica è quindi quella giusta. La mia decisione non rappresenta nessun messaggio ai colleghi, che sono grandi e vaccinati, bensì una presa di coscienza all’interno del mio dipartimento. Preferisco infatti garantire il personale adeguato e rivedere gli investimenti, piuttosto che puntare a standard elevati a scapito dell’essenziale supporto del capitale umano. Non ho voluto rendere il carcere una struttura più lussuosa, come dice qualcuno, a cinque stelle: ritengo ci siano ben altre priorità in Ticino. Con questa ristrutturazione da 35 milioni di franchi, saranno svolti quegli interventi necessari per continuare a garantire l’operatività migliorando l’ambiente di lavoro per i nostri agenti di custodia, nel rispetto della dignità dei detenuti". Come è possibile discutere per anni dell’importanza di questo investimento e poi, all’improvviso, rinunciarvi? "Preciso che non si tratta di una rinuncia, altrimenti non avremmo fatto alcun investimento. È un ridimensionamento secondo una nuova scala di priorità. Va ricordato che quando è nato questo progetto c’era chi non voleva neppure piazzare un nuovo mattone o un muro attorno al carcere. Oggi la struttura risponde già alle minime necessità, pertanto i cittadini avrebbero potuto percepire un nuovo carcere come una struttura di lusso. Ripeto: non credo proprio che questa sia la priorità quando si chiede a tutti i cittadini di tirare la cinghia e di fare dei sacrifici". Eppure avete sempre definito di "degrado avanzato" lo stato di salute di quel complesso. Significa che, vista la situazione finanziaria, dobbiamo rivedere i parametri di giudizio e degli standard un po’ ovunque? "È una delle questioni che, nella situazione che abbiamo oggi, non può più essere sottovalutata e diventerà centrale per tutte le strutture pubbliche. È uno dei punti che solleviamo quando incontriamo i Comuni. Troppo spesso siamo noi enti pubblici, Cantone ed Enti locali, che fissiamo degli standard qualitativi eccessivamente elevati. Risparmiare non significa solo fare tagli draconiani, ma cambiare la mentalità che c’è nell’amministrazione. Insomma, con i soldi dei cittadini non si deve andare lunghi solo perché si ha la falsa idea che non escono dal proprio borsellino. E questo non vale solo per gli investimenti, ma anche nella gestione corrente. È una questione di mentalità ed approccio al denaro che va migliorata, mettendo al centro il cittadino-contribuente". Norvegia: pluriomicida Breivik fa causa allo Stato "la detenzione in isolamento è tortura" Askanews, 17 ottobre 2015 Il pluriomicida norvegese Anders Behring Breivik vuole citare in giudizio lo Stato per le condizioni carcerarie cui è sottoposto, che a suo dire equivalgono a "tortura". Breivik, che nel luglio 2011 uccise 77 persone in un atto dimostrativo contro il multiculturalismo dilagante nel suo Paese, si è lamentato a più riprese per la sua condizione di isolamento. "Riteniamo che i suoi diritti siano stati violati. È isolato dagli altri detenuti, da altre persone e ha solo contatti con gli operatori sanitari e con le guardie carcerarie", ha spiegato il suo avvocato, Oystein Storrvik, alla France Presse. Il fascicolo sarà aperto presso un tribunale del distretto di Oslo, tra il 15 e il 18 marzo e non è chiaro se Breivik, un estremista di destra 36enne, sarà chiamato a comparire davanti alla corte. Il 22 luglio del 2011 Breivik uccise otto persone in un attacco con esplosivi nella capitale, poi si trasferì sull’isola di Utoya dove uccise a colpi d’arma da fuoco 69 ragazzi di un campo estivo di lavoro di giovani socialisti. È stato condannato a 21 anni di carcere, il massimo della pena prevista dal codice penale norvegese, ma la pena potrà essere prolungata nel caso il soggetto sia considerato un pericolo per la società. Messico: boss latitante della droga El Chapo sfugge alla cattura ma resta ferito Askanews, 17 ottobre 2015 Il boss del cartello della droga messicana Joaquin "El Chapo" Guzman, latitante dall’11 luglio dopo la fuga da un carcere di massima sicurezza, è riuscito a sfuggire all’arresto ma è rimasto ferito a una gamba, ha annunciato il governo messicano. "È importante precisare che le ferite riportate non sono il risultato di uno scontro diretto" con le forze dell’ordine ha reso noto l’esecutivo in un comunicato. Le autorità hanno spiegato che le operazioni per la cattura del Chapo si stanno concentrando nella regione nordoccidentale del Paese e nelle ultime settimane si stanno avvalendo della collaborazione dei servizi di intelligence di governo stranieri. Il boss del narcotraffico "è fuggito di fretta, e secondo le informazioni raccolte, questo ha causato le ferite alla gamba e al volto". Secondo le autorità americane, che avevano chiesto l’estradizione di Guzman, El Chapo si sarebbe nascosto nelle montagne di Sinaloa, sua roccaforte, dopo la fuga, perché gode del sostegno della popolazione locale. Guzman è evaso dal carcere di massima sicurezza a luglio scavando una buca sotto la doccia, un nuovo video pubblicato nei giorni scorsi mostra le guardie carcerarie che restano impassibili durante i colpi di martello.